norme - Centro Studi Baresi

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NORME
PER LEGGERE BENE LA PARTE DIALETTALE
Tutte le ‘e’ non accentate delle parole dialettali hanno suono
indistinto.
La loro funzione è quella di dare suono vocalico alle consonanti da
loro precedute.
Si pronunciano le ‘e’ accentate, le ‘e’ congiunzioni.
Quando in una parola vi sono più vocali accentate, l’accento tonico
cade sull’ultima di esse.
L’accento grave posto sulla vocale tonica indica sempre e soltanto
la sillaba che ha l’accento principale della parola.
Pertanto non si intende distinguere le vocali aperte da quelle
chiuse, in quanto anche una tale distinzione non riuscirà mai a
rappresentare il valore fonico dei vari fonemi dialettali.
Come pure, il non Barese non saprà pronunciare correttamente il
dialetto barese, neanche se sorretto dai più scrupolosi segni diacritici.
Infine, saranno accentate tutte le parole, eccetto quelle che non
possono essere lette diversamente, (come ad esempio: “pane” – “care”
– “core” – “carre” – “cadde” –“codde”, etc), e, non vi sia alcun dubbio
per la pronuncia.
(Per es.: sarà accentato nù: noi, per distinguerlo da nu: un, uno; vù:
la ‘v’ da vu: voi; dù e dò: due (masch. e femm.), da du e do: del,
dello/dal, dallo; sò: sono, da so: sua/sue; stà: c’è, da sta: questa.

Segno aggiunto ai caratteri dell’alfabeto per dare loro un particolare valore (ad es.
nelle trascrizioni fonetiche).
1
ALFABETO
L’alfabeto usato per scrivere in dialetto barese si compone di 22
lettere:
a b c d e f g h i k l m n o p q r s t u v z
Le lettere - j – x – y – w non vengono usate se non nei casi
adeguati al loro impiego.

Non pochi scrittori usano j senza giustificato motivo, anzi, non sapendo che j ha
funzione consonantica (o semiconsonantica), la usano in posizione tonica:
“lardjidde”: lardo fresco; “cappjidde”: cappello. Poiché l’accento tonico cade
sempre su una vocale e mai su una consonante o parente di questa (semiconsonante)
è evidente l’incongruenza di tale uso. Chi sostiene in italiano l’uso della j dovrebbe
scrivere jemale, Jacomo, librajo. Ciò che non farà certamente perché sappiamo che
le parole precedenti si scriveranno iemale, Giacomo, libraio anche da chi parteggia
per la semiconsonante che vogliamo bandire dal barese. Leopardi al Brighenti nella
lettera del 5 dicembre 1823, così si esprimeva: “Non si usino j lunghi né minuscoli
né maiuscoli, in nessun luogo né dell’italiano né de’ passi latini”. E in un'altra lettera
diretta all’editore Stella condanna “quella lettera come inutile”. Nelle stampe tarde
del Manzoni: la j non appare più. Avversi alla j si dichiarano il Puoti, il Gioberti, il
Carena. La j è in forte regresso dice il Migliorini (Storia della Lingua Italiana,
Sansoni, Firenze, 1961). “La Crusca”, che l’ha abolita sia all’inizio che all’interno di
parola (iattura, gennaio), l’adopera invece nei plurali dei nomi in ‘io’ (studj) e un
certo numero di studiosi la seguono (D’Ancona, Monaci). Altri si attengono a criteri
diversi: il Mestica, per es. scrive ‘gennajo’, ma ‘studii’. Gli avversari della j non
mancano di attaccarla, anche con colpi mancini: “L’uso della j cominciò tanto o
quanto colla venuta degli stranieri in Italia, con l’uscita degli stranieri pare che vada
cessando (Petrocchi, Diz. s.v.)”; (…)“qualcuno tuttavia la difende non senza buoni
argomenti; ma in complesso anche quelli che ritengono non ragionevole questa
eliminazione accettano l’opinione dei più” (così appunto si esprime la grammatica
del Morandi e Cappuccini). Il Malagoli, nell’eccellente volumetto sull’Ortoepìa e
Ortografia italiana moderna, (2ª ed. Milano, 1912, pp. 26-27), è incline all’ ‘i’, e si
lagna solo della scarsa coerenza di molti. Ora diciamo noi qualcosa in proposito:
anche la Crusca si regolò male quando l’adoprò nei plurali dei nomi in ‘io’ (studj)
perché se la j ha valore di semiconsonante come può mai rappresentare le vocali?
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Il k ha suono del ‘c’ duro e viene sempre preceduto dal nesso
consonantico sc che ha suono dello ‘sc’ di scena, “scène”, “sckène”
(vedi consonante ‘k’).
PRONUNCIA DELLE CONSONANTI
Le consonanti nel dialetto barese si pronunciano prevalentemente
come le consonanti della lingua italiana.
Come in italiano, ‘s’ e ‘z’, hanno due suoni, uno sordo e l’altro
sonoro: “sàrde” (suono sordo): sarda; “sblendòre” (s.dolce):
splendore; “stanziòne” (s.dolce): stazione; “zzùcchere” (dolce):
zucchero (nel-l’uso si pronuncia sempre “zzùccre”; v. p. 188).
Se i segni consonantici prevalenti sono diciassette, i fonemi sono di
numero ben maggiore. Quindi si ricorrerà agli stessi espedienti che
usa la lingua italiana per ‘gl’ gutturale e palatale, etc.
Inoltre, dove lo stesso modo dell’italiano non corrisponde ai
fenomeni dialettali, ricorreremo a segni speciali per meglio
rappresentare alcuni fonemi del dialetto.
CONSONANTI
È bene soffermarsi, sia pure brevemente, sulle consonanti:
B
Questa consonante conserva generalmente, con varie
gradazioni, un suono più marcato di quello italiano e può
trasformarsi in ‘v’. Es.: il ‘b’ di “vogghe a BBare”, è più forte
di quello di “sò de BBare”, mentre il ‘b’ di “barèse” meno
forte del precedente, sta fra il grado medio e quello massimo.
Considerando, ora, che le consonanti hanno tre gradi principali
di pronunzia: tenue – medio – rafforzato (marcato), e poiché la
grafìa comune ci consente di indicare il massimo grado di
forza con le consonanti doppie, e il grado medio (anche il
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‘medio rafforzato’) e debole con la consonante scempia, non
farò altro che seguire questo uso. Anche se può essere
insufficiente per il glottologo, mi auguro risulti più semplice e
comprensibile per lo studioso di media cultura .
Es.: “becchìire”: bicchiere; “babbìssce”: bazza; “veccìire”:
beccaio; “vase”: bacio; Bari: “Vare” (arc.), oggi “BBare”.
Il ‘b’ si conserva in qualche prestito recente dall’italiano e in
qualche raro caso, “uè bève?”: vuoi bere?, invece, “vogghe a
bbève”: vado a bere. Eccezione: Bartolomeo: “Martemè”.
Rispetto all’italiano, imbuto fa “mute”; braciere: “frascère”;
bandiera: “pannère”; cambiare: “cangià”; nebbia: “nègghie”.
Il suono doppio del ‘b’ si verifica facilmente in principio di
parola, specialmente se è seguìta da vocale accentata, che nel
corpo della stessa.
C
Ha suono gutturale davanti a ‘l’, ‘r’, ‘u’, ‘a’, ‘o’, e palatale
davanti a ‘e’ e ‘i’. Preceduta da ‘n’ si tramuta in ‘g’, ancora:
“angòre”.
Ce e ci, tutte le volte che si trovino in sillaba postonica
preceduta da vocale non indistinta, si modificano in sce: dice:
“dìsce”; fa: “fasce”; luce: “lusce”; pece: “pèsce”.
D
All’inizio di parola, resta immutata ed ha suono normale simile
all’italiano. Il gruppo ‘nd’ si assimila in ‘nn’. Vendere:
“vènne” – vendemmia: “vennèggne”. In fine di parola rimane
immutata, se la parola seguente inizia per vocale: “vogghe ad
aprì”: vado ad aprire. Fra due vocali spesso muta in ‘t’: “pète”:
piede, “fète”: fede, “cote”: coda, “bbròte”: brodo (v. pag. 21).
F
Rimane generalmente inalterata, in alcuni casi preceduta da
‘n’, muta in ‘b’; “m-bbùnne”: in fondo; tanfo: “tàmbe” >
“tàmme”. In altri casi ‘f’ iniziale di parola, preceduta da parole

a.g. pone una domanda ai glottologi: se nel passaggio dal grado tenue al medio si
verifica un raddoppiamento, non sarebbe meglio sostituire ‘grado rafforzato’ con
‘grado massimo’ o simili?
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che terminano in ‘n’, diventa ‘v’; non fa nulla: “non vasce
nudde”.
G
Come in italiano: “gamme”: gamba. Nelle desinenze in –agli, egli, -igli, -ogli, -ugli, generalmente si rafforza: “parìgghie”:
pariglia; “vàgghie”: vaglia; “pàgghie”: paglia; “Pùgghie”:
Puglia.
Le desinenze in –aggio, -igia, -eggio, e simili, e la terza
persona singolare dell’indicativo presente dei verbi di terza e
quarta coniugazione, prevalentemente, mutano in –àsce, -èsce,
–ìsce: “masce”: maggio; “rasce”: raggio; “valìsce”: valigia;
“pèsce”: peggio; “lèsce”: legge; “frìsce”: frigge; “fùsce”:
fugge. Iniziale o mediano, innanzi a ‘e’ e ‘i’ ha
prevalentemente pronuncia intensa, “ggiòvene”: giovine;
“ggènde”: gente; “Luìgge”: Luigi.
H
Si identifica con l’italiano.
L
Come in italiano: “lèngue”: lingua – “lune”: luna. Al doppio
‘ll’ italiano corrisponde il ‘dd’ dialettale: “stadde”: stalla –
“stèdde”: stella; “Vaddise”: Vallisa (discesa); eccezione:
“stellètte”: stelletta.

Da i- latino (il j in latino non esiste e non è mai esistito; molti “ignorando”
scrivono j, jus, fidejussione,ecc.) abbiamo generalmente ‘sc’ palatale: “scennàre”:
gennaio, “scevedì”: giovedì, “scecuà”: giocare, “scemmènde”: giumenta, “scernàte”:
giornata, “masce”: maggio, ma da ‘G’, si ha: “Giacchìne”, “ggiùdece”, ecc.

Chiesa di San Pietro della Vallisa. Viene attribuita alla colonia barese dei Ravellesi
la costruzione e il nome della Chiesa. Dal vol. IV del Codice Diplomatico Barese, a
pag. 90 risulta che la Chiesa esisteva già nel 1071. Le migrazioni dei Ravellesi in
Puglia avvennero dopo tale anno. Soltanto nel 1596 si rileva il titolo di San Pietro
della Vallisa, mentre nel 1071 è denominata “Basilicam Sancti Petri”. Il nome
“Vallisa” ha trascinato in errore quanti hanno ritenuto che questo nome provenisse
da Ravellesi. La chiesa di San Pietro della Vallisa fu chiamata così per distinguerla
da quella di San Pietro delle Fosse (chiamata in seguito anche San Pietro Maggiore)
e da San Pietro Vecchio (altra vecchia chiesa ruinata nei pressi del Castello Svevo).
“Vallisa” significa discesa (dal latino “Vallis”) e in quella zona vi era il “vallum”
(fortificazione); per questo “la scèse de la Vaddìse” cioè, discesa, come il popolino
indicava quel posto.
5
M
Come in italiano: “mule”: mulo; “munne”: mondo. La ‘m’
preceduta da ‘i’, in principio di parola, elide generalmente la
vo-cale e non v’è necessità di indicarla con il segno ’:
“mberatòre”: imperatore; “mbàrche”: imbarco. Spesso si
raddoppia nel corpo della parola “chemmannà”: comandare;
“ammenà”: menare.
N
Come in italiano: “navegà”: navigare. Davanti a ‘f’, la ‘n’
diventa ‘m’ e la ‘f’ diventa ‘b’; in altre parole la ‘f’ può
diventare ‘v’. Es.: “mbame”: infame; “non vacènne” e “non
facènne”: non fare.
Quando è preceduta da ‘i’, ovvero da ‘o’ può essere sostituita
da ‘a’: “ammìdie”: invidia; “annameràte”: innamorato/a;
“anòre”: onore; “annepetènde”:onnipotente.
Se ‘n’ è seguita da una ‘s’, questa si tramuta in ‘z’: “nzomme”:
insomma; (mentre, in somma, fa “n-zomme”); “non zi sciùte”:
non sei andato; “don Zalvatòre”: don Salvatore.
Tramuta ‘c’ in ‘g’: “non gamìne” (“non” + “camìne”): non
cammina.
Se precede ‘t’, la tramuta in ‘d’: “non dène” (“non” + “tène”):
non tiene.
Se precede una ‘d’, la elimina ed essa si raddoppia: “quànne”:
quando.
Qualche volta la ‘n’ è richiesta davanti alle parole “nAngòne”:
Ancona. Es: “la nzite”: la vaccinazione; “nderlambà”:
lampeggiare; “ndùtte”: per niente (in questo caso), ma “ndùtte” e “n-dòtte”: in tutto/in tutta.
P
Come in italiano: “pète”: pietra; “patàne”: patata; “palpà”:
palpare. Se è preceduta da ‘m’ o ‘n’ si trasforma in ‘b’ e la ‘n’
diventa ‘m’: “mbiàstre”: impiastro; “m-bìite”: in piedi.
La flessione in ‘b’ può verificarsi anche senza essere preceduta
da ‘m’ o ‘n’: “sebeldùre”: sepoltura; “scrùbbue”: scrupolo.
6
Q
Come in italiano: se preceduta da ‘n’ diventa ‘g’: “n-guànde”
(“in” + “quànde”): in quanto; “don Guindìne”: don Quintino;
ecc.
R
Come in italiano: “ròse”: rosa; “rasùle”: rasoio. Sono frequenti
epentesi e metatesi nei nessi consonantici con ‘r’: epentesi:
“vrèspe”: vespa; “frìscke”: fischio; metatesi: “crape”: capra;
“fràbbeche”: fabbrica.
S
È sorda davanti a: ‘c’-‘p’-‘r’-‘t’:“spazzìne”: spazzino; “stute”:
smorza. È sonora davanti a: ‘b’-‘d’-‘g’-‘l’-‘m’-‘n’-‘v’,
“sdànghe”: stanga; “svetàte”: svitato. Preceduta da ‘n’ muta in
‘z’ (affricata dentale): “non zacce” (anche: “no zzàcce”): non
so; “don Zalvatòre”: don Salvatore.
T
Come in italiano: preceduta da ‘n’ e ‘l’, quasi sempre muta in
‘d’: “mande”: manto; “quànde”: quanto; “àlde”: altro.
V
Come in italiano: “vive”: vivo; “vìte”: vedi; “vite”: vita.
Preceduta da ‘n’, qualche volta diventa ‘b’ e la ‘n’ diventa
‘m’: “mbìte”: invito; “mbèsce”: invece; in viso: “m-bbàcce”.
Z
Può essere sorda e sonora. ‘Z’ come ‘G’, intervocaliche sono
generalmente doppie, specie nelle parole in -ione:
“sfazzìone”: soddisfazione; “staggiòne”: stagione; e si
raddoppia (specie quando sta per il nesso latino ‘ct’) se,
davanti a sé non vi è altra consonante: “azziòne”: azione.
Non raddoppia davanti a desinenze -ione e –one, se preceduta
da consonante, “stanziòne”: stazione; “attenziòne”.
È generalmente sonora quando è iniziale di parola purché l’accento cada sulla vocale che segue, ma che non sia ‘u’:
“ZZàre”: Zara; “zzère”: zero; etc., “zzà”: al cane. È
generalmente sorda se l’accento cade su sillabe dopo la prima:
“zambbògne”: zampogna; “zambbàne”: zanzara. Seguita da ‘u’
accentata, ha suono aspro e si raddoppia facilmente all’inizio
di parola: “zzùlfe”: zolfo; “zzùccre”: zucchero; “zzùle”. Ma fa
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anche “zulù” per lo spostamento dell’accento, conservando il
suono dolce (sonoro).
Per molti altri fenomeni qui non trattati, vedi: ‘I fenomeni
della n’, ‘Fenomeni di gruppi consonantici’, ‘Raddoppiamento
di consonanti’.
K
Lettera straniera usata soltanto per seguire il gruppo ‘sc’.
Nomi che iniziano con sck- e loro derivati, in barese:
“sckaffà”: ficcare con forza; “sckàffe”: schiaffo; “sckamà”:
gridare per il dolore, l’urlare detto del cane; “sckanatìidde”:
piccolo pezzo di pane casalingo che si dava ‘come compenso’
al fornaio portatore a domicilio; “sckandà”: spaventare,
“sckàrde”: scheggia di legno; “sckartullàte”: uomo
insignificante; “sckattà”: scoppiare; “sckattìgghie”: modo di
fare a dispetto; “sckùme”: spuma; “sckemà”: schiumare;
“sckène”: schiena; “sckenìidde”: scansafatiche; “sckeppètte”:
pistola ed anche fucile a canna corta; “sckiètte”: schietto,
“scketùre”: saliva; “sckìfe”: schifo; “sckìffe”: è difficilmente
traducibile perché ha non pochi significati (ganzo, quel coso,
ecc.); “sckìve”: schivo; “sckòlle”: cravatta, sciarpa per uomo;
“sckòsce”: bruscolo; “sckriàte”: frusta.
Terminano in -scke quasi tutti i verbi di 4ª coniugazione
(“ferì”) alla prima persona singolare dell’indicativo presente e
altri verbi della 1ª coniugazione che hanno la desinenza in scke e in -che: “abbellì” = “iì abbellìscke” e “abbellìsceche”;
“marcì” = “iì marcìscke” e “marcìsceche”; “iì canòscke” – “iì
pezzechèscke” (1ª coniug.: pezzecà): io pesco; “iì tremuèscke”
e “trèmeche” (1ª coniug.: tremuà): io tremo e poi, “frèscke”:
fresca; “frìscke”: fresco e fischio (il fresco fa “u ffrìscke”);
“renfresckà”: rinfrescare; “frùsckue”: animale, in senso
figurato: poco di buono; “cròscke”: combriccola, banda;
“mùscke”: omero (“mètte u mmùscke a la rote”: mettere
l’omero sotto la ruota).
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RADDOPPIAMENTO DELLE CONSONANTI
Non sempre e non tutti gli scrittori e poeti dialettali notano, e con
esattezza, le consonanti geminate in principio di parola.
Dato che si tratta di mettere in evidenza la maggior parte dei
fenomeni grammaticali del dialetto, è necessaria la trattazione
dettagliata del rafforzamento iniziale consonantico.
Che poi particolari ragioni possano o no tener conto di questi
fenomeni nelle stesure dei componimenti, è cosa che esula dagli scopi
del presente.
In italiano le consonanti iniziali di parole precedute da alcune
particelle (a, ha, da, su, è, tre, etc.) si raddoppiano; ma la grafia lo
ignora.
Ad esempio, noi scriviamo in italiano: ‘andrò subito’, ‘già fatto’,
‘vado a fare il bagno’; ma pronunciamo come se fosse scritto: ‘andrò
ssubito’, ‘già ffatto’, ‘vado a ffare il bagno’.
Le parole che terminano con vocale accentata, raddoppiano quasi
sempre la consonante iniziale della parola enclitica che segue:
“ddassùse” o “ddà ssùse” (“da” + “suse”): lassù; “famme” (“fa” +
“me”): fammi; “trèssètte” (“trè” + “sètte”): tressette; (“trècìinde”,
“trèmìle” non raddoppiano).
Si ha il raddoppiamento delle consonanti iniziali della parola:
• dopo la preposizione ‘a’; “a bbève”: a bere; “a ppane e iàcque”: a
pane e acqua; “a bbrote”: a brodo; “a rrite”: a ridere; “a vvrazze”: a
braccia;
• se nella parola seguente la preposizione, l’accento tonico cade su
una delle vocali della prima sillaba, e quasi mai sulle altre seguenti
“st’a mmuère”; “a battezzà”: a battezzare; “a benedìsce”: a benedire;
“a tenè”: a tenere; “a mangià”: a mangiare; “a trattenè”: a trattenere;
“a ddò”: a dove; “àgghie avùte a ddà”: ho avuto a dare; però, senza del
p.p. “avùte” fa: “àgghie a dà”: devo dare;

Consonanti doppie.
Particella monosillabica, senz’accento, che si appoggia nella pronuncia alla parola
precedente, alla quale si attacca, come suffisso (dimmi, fammi, ecc.).

9
• solo per parole di genere maschile, (ma solo per alcune, “mmèle”:
miele, per distinguerlo da “mèle”: mela), se hanno l’accento che cade
sulla prima sillaba (in particolar modo, nei nomi, tanto per
comprenderci, ‘neutri’: “u ccòse”: il cucire; “u ffà”: il fare; “u ggerà”:
il girare, “u cce ffà”: il da fare, ecc.
Nei casi in cui l’accento cada su sillaba diversa dalla prima, il
raddoppiamento si verificherà difficilmente.
Stà, fà, và, dì, raddoppiano sempre le particelle pronominali
enclitiche: “dìmme”, “fàmme”, “stàtte”, “vàmme”.
Prevalentemente raddoppiano le parole seguenti le ossitone
(accento su ultima vocale): “u mangià bbèdde”: il mangiare bene; “sò
ppìzze”: sono pizze; “e ssò ppalle” (anche “ e sò ppàlle”: e sono balle,
oppure, e sono palle).
Esempi: “cap’e ccròsce”: testa e croce; “o mmègghie”: al meglio;
“nè iì (anche “nnè iì” e pure “nè iì e nè”) e nnè MMàrie”: né io e né
Mario; “ce vvole?” (ed anche “cce vvole?): che vuole?; “fra mmàmme
e ffìgghie”: fra mamma e figlio; “fàuue pe mmè”: fallo per me; “ddà
ssuse”: lassù; “ci ssì”: chi sei?; “iè bbùene”: è buono; “cchiù bbrave”:
più bravo; “ha ffàtte màsque”: ha dato alla luce un maschietto; “che
ttè”: con te.
E nel caso si presentino, parole che inizino con vocale, invece che
con consonante, precedute dagli stessi elementi trattati
precedentemente, rimando il lettore all’argomento ‘i’ protonica
(sillaba o vocale che precede quella tonica); queste subiscono delle
alterazioni consistenti in pròstesi (aggiunta di sillaba o lettera, per
eufonia, in principio di parola: istrada, iscritto).
Infine, le consonanti geminate interne possono essere attribuite a:
1. assimilazione di consonanti diverse: “chemmènde”: convento “chemmàtte”: combattere;
2. prefissi veri o presunti: “affertenàte”: fortunato – “addòve”:
dove – “abbadà”: badare;
3. nelle parole sdrucciole: “fèmmene”: donna – “iòmmene”:
uomo.
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Fenomeni con la ‘u’
L’ ‘u’ davanti a parole che iniziano con ‘b’, le raddoppia quasi
tutte quando l’accento cade su una delle vocali della prima sillaba: “u
bbàgne”: il bagno; “ u bbagge”: il bacio; “u bbrote”: il brodo; e quindi,
“u bellìte”: il bollito (qui l’accento cade su ‘ì’, sillaba diversa dalla
prima).
Davanti a parole comincianti con ‘c’, quasi sempre l’ ‘u’ non
raddoppia le consonanti iniziali della parola che precede, salvo
qualche rara eccezione come “u ccose”: il cucire; “u ccalde”: il caldo;
“u ccuètte”: il vin cotto; “cuètte”: cotto, ecc. Generalmente fa: “u
calge”: il calcio; “u cane”: il cane; “u cèmece”: la cimice; “u cadde”: il
callo, “u cuèche”: il cuoco; ecc.
‘U’ davanti a parole che iniziano con ‘d’ non la raddoppia. “u
dade”: il dado; “u danne”: il danno; “u dàzzie”: il dazio. Però fa “u
ddìnde”: l’insieme degli ingredienti che si mette nel pollo, cioè, tutto
quello che di pregiato vi è nell’interno di qualcosa, specie da
mangiare.
L’ ‘u’ davanti a parole incomincianti con ‘f’ non raddoppia questa
consonante eccetto casi rari come “u ffuèche”: il fuoco; “u ffrìscke”:
il fresco per distinguerlo da “frìscke”: fischio/fresco (agg.); “u ffà: il
fare. Per il resto, la ‘f’ rimane scempia. “u fìgghie”: il figlio, ecc.
L’ ‘u’, incontrando parole che iniziano con ‘g’ seguìta da vocale
accentata della prima sillaba, prevalentemente la raddoppia: “u
ggasse”: il gas; “u ggote”: il godere; “u ggìglie”: il giglio; “u ggire”: il
giro; generalmente fa: “u gobbe”: il gobbo; “u grate”: il grado, “u
gange”: il gancio.
L’ ‘u’ con parole che iniziano con ‘l’, non raddoppia la consonante
salvo casi come “u llatte”: il latte; “u llarde”: il lardo, ecc., mentre fa
generalmente “u lupe”: il lupo; “u lazze”: il laccio (il lazo); “u lìitte”:
il letto, ecc.
L’incontro ‘u’ > ‘m’: se si eccettua “u mmìire”: il vino; “u
mmèle”: il miele; “u mmègghie”: il meglio (sostantivo); “u mmìnie”:
il minio; “u mmì”: il mio (sostantivo), per il resto mantiene la
consonante scempia: “u mare”: il mare; “u masce”: il maggio; “u
mèste”: il mastro, ecc.
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Per l’incontro ‘u’ > ‘n’, vale quanto detto per il precedente.
Pochissime le eccezioni. “u nnéve”: il nuovo; in prevalenza,
mantiene la consonante scempia.
Così dicasi per l’incontro ‘u’ > ‘p’, eccettuati “u ppane”: il pane;
“u ppèpe”: il pepe, in prevalenza mantiene la consonante scempia.
Altrettanto per ‘u’ > ‘q’, eccetto “u qqu” (cu), non si hanno
raddoppiamenti.
Per l’incontro ‘u’ > ‘r’, abbiamo rafforzamenti in “u rrè”: il re (“u
ré”, con l’accento acuto, è la nota musicale), “u rrìte”: il ridere (“u
rìte”: è il rito); “u rrùsse”: il rosso (colore) - (“u rùsse” è il rosso
malpelo o cosa di tale colore); “u rrùtte”: il rotto (sostantivo) –
(“rùtte” si usa come aggettivo); per il resto conserva la consonante
scempia.
La ‘s’ seguìta da vocale accentata della prima sillaba, preceduta da
‘u’, non raddoppia: “u salme”: il salmo; “u sckìfe”: lo schifo; “u
sande”: il santo; “ u surde”: il sordo, ecc., non pochi i casi in cui si ha
raddoppio iniziale: “u ssale”: il sale, “u ssalze”: il salso; “u sscème”:
lo scemo, ecc.
Nell’incontro di ‘u’ > ‘t’, tolti “u ttìcche”: il tic; “u ttarde”: il tardi
(sostantivo); “u ttunne”: il tonno; “u ttu”: il tuo (sostantivo), si ha la
‘t’ scempia anche quando ha funzione di aggettivo possessivo “cusse
cane iè u tù?”: questo cane è il tuo?
L’incontro ‘u’ > ‘v’, eccetto “u vvèrde”: il verde (sostantivo) –
(“vèrde” è sempre in funzione di aggettivo) e “u vvì”: la lettera ‘v’, il
resto mantiene scempia la consonante iniziale della parola: “u vì”: lo
vedi.
La ‘u’ rafforza la ‘z’ iniziale di parola: “u zzère”: lo zero; “u
zzìnghe”: lo zinco; eccetto “u zèppe”: lo zoppo; “u zippe”: il
bastoncino; “u zìngre”: lo zingaro; “u zàmbe”: il furto.
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VOCALI
Le vocali in dialetto barese, come per l’alfabeto italiano, che
peraltro non contempla il segno grafico j, o la lettera straniera, i (gei),
sono: a, e, i, o, u.
Tutte le vocali atone si affievoliscono ad eccezione della ‘a’:
“camesèdde”: camicetta (le due “e” non accentate hanno suono
indistinto); “frabbecatòre”: muratore.
“Carolìne”: Carolina (la ‘a’ mantiene il suo suono; l’ ‘o’ si
affievolisce un po’).
A - ha diversi suoni. Ha suono nasale, tendente verso ‘e’ quando
nelle combinazioni -ache, -asce, -ale, -are, -ase, -ate, è
preceduta da ‘m’ e ‘n’ etimologiche, che fanno parte, cioè, di
una parola: “nache”: culla; “masce”: maggio; “canàle”: canale;
“marnàre” e “marenàre”: marinaio; “nase”: naso; “canàte”:
cognato.
Se la ‘n’ non appartiene alla stessa parola, come nel caso di
“n’àche”: un ago, “n’àgghie”: un aglio, “n’ame”: un amo (in
cui ‘n’ sta per ‘nu’ o ‘na’ (uno, una), ridotta a ‘n’ per elisione),
generalmente non prende quel suono nasale tendente verso ‘e’.
La ‘a’ tonica della parola seguìta da ‘n’ e ‘m’ ha suono nasale
(“pettàme”: pittiamo; “candàme”: cantiamo; “patàne”: patate;
“cane”: cane; se la ‘a’ è atona, non ha suono nasale (“candàte”:
cantate; “mandenùte”: mantenuta).
Appare perciò evidente che il suono della ‘a’ di “marnàre”:
marinaio è diverso dal suono della ‘a’ di “chembàre”:
compare.
Molti poeti rimano graficamente le due sillabe finali di cui
sopra, ma in questo modo viene sempre a mancare la rima
fonetica, in quanto i due suoni sono completamente diversi fra
loro.

O.P. (da dialettologo) suggeriva il termine “palatale” al posto di “nasale”, notando
(...) «lei è attento, giustamente, alle più piccole sfumature dialettali; perché non si
dilunga un poco a parlare di questi suoni della e e della o ?».
13
E
Ha suono indistinto quando non è accentata e quindi vocalizza
la consonante che la precede. Si pronunciano soltanto le ‘e’
toniche e per questo andrebbero sempre accentate. Si
pronunciano le ‘e’ congiunzioni che vanno scritte senza
accento. Anche le ‘e’ hanno altri suoni e diversi fra loro,
impossibile distinguerle per le svariate sfumature.
Accennerò alla differenza di suono aperto di ‘e’ di nève: neve
e di suono chiuso di ‘e’ di néve: nuovo, che sono due dei suoni
predominanti di questa vocale nel dialetto barese. Anche l’ ‘è’
quando è verbo, rispetto alla ‘e’ congiunzione, ha diversi
suoni. E le varie gradazioni di ‘e’ non finiscono qui.
I
Ha generalmente suono di ‘i’: “pallìne”: pallino; “Colìne”:
Nicolino; “Serafìne”: Serafina. Secondo l’intonazione che vien
data, specie ai nomi al femminile, le ‘i’ di questi possono avere
un suono che tenda alla ‘e’.
Anche le ‘i’ finali di parole accentate e no, hanno diverse
gradazioni di suono: “mì”: mio; “chighirichì”: chicchirichì,
“ci”: chi.
O
Anche la ‘o’ ha diverse gradazioni di suono. Es.: l’ ‘o’ di
“calòre”: calore; “pertòne”: portone, è più larga della ‘o’ di
“sone”: suona; “more”: muore; “nore”: nuora.
U
Ha ora suono largo: “rasùle”: rasoio, ora suono chiuso:
“cchiù”: più.

Vedi nota pag. 13.
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VOCALI PROSTETICHE
Vi sono parole baresi che da sole e in determinate situazioni non
possono essere pronunciate se non vengono sorrette da una delle
vocali ‘i’ o ‘u’.
‘I’ prostetica: viene premessa a nomi maschili e femminili che
iniziano con le vocali accentate, salvo che questi non siano preceduti:
dall’articolo determinativo ‘u’: “(i)àngeue”: angelo; “de iàngeue”:
di angelo;
o da preposizioni formate con tale articolo;
o nei casi di iato (vedi in seguito esempi);
o per eccezione: “u iàggre e ddolge”, “u ìrre e òrre” (anche “u iìrre
e iòrre”); “u iìsse e ttrase”, ecc, che stando all’abitudine su descritta
avrebbero dovuto fare “u u-àggre e ddolge” ecc., “Òlghe” fa “Iòlghe”
– “Emme” fa “Ièmme”.
I nomi che non hanno l’accento che cade sulla vocale iniziale non
prendono mai la ‘i’ prostetica, salvo casi eccezionali, perciò
“Andònie” non fa mai “iAndònie” e “Arrìche” non fa mai “iArrìche”.
La ‘i’ prostetica resta anche nei diminutivi: “Iàngeue”,
“Iangiulìne”, “Iangeuìcchie”, “Iangecòle”, “Iannìne” da “Iànne”.
Alcuni nomi con ‘i’ prostetica possono produrre altri nomi con
accenti tonici che cadono su vocali diverse da quella iniziale di parola.
Questi, nonostante lo spostamento di accento, conservano, (ma
possono non conservare), l’ ‘i’ eufonica della parola dalla quale
discendono:
- “iàscre”: “iascratìidde” e “ascratìidde” (o “ascretìidde”): lastrico
- “iàrrue”: “iarruìcchie” e “arruìcchie”: albero
- “iàcque”: “iacquarèdde” e “acquarèdde”: acqua
- “iàcce”: “iaccetìidde” e “accetìidde”: sedano
Vi sono casi in cui la ‘i’ prostetica è richiesta anche quando le
parole che iniziano per vocale accentata sono precedute da parole con
vocale finale accentata: “cchiù iàgre”, “iè iàrrue”, “quànne iè”
“quànn’è”.
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Si tenga presente che in questi casi la ‘i’ prostetica è semivocalica e
perciò si raddoppia se è preceduta da una delle particelle già
considerate, es.: “iè” – “cce iè”, che diventa quasi “cce iiè?”.
Le stesse parole richiedono la ‘i’ prostetica quando vengono precedute da vocali finali atone con le quali non si voglia l’elisione. Cosa
che avviene soltanto se delle due vocali iniziali della parola, la ‘i’ è
prostetica e non una ‘i’ etimologicamente facente parte della parola:
“quann’è”: quando è; “pur’ì”: pure io; “quand’acce uè?”: quanti sedani vuoi? (“iòse” e “iettatòre”, per es., hanno la ‘i’ etimologica e,
quindi, non è consentita l’elisione, “quànda iòse”).
Non vuole l’ ‘i’ prostetica, la ‘e’ congiunzione.
Non vogliono la ‘i’ prostetica le parole con accento tonico sulla
vocale iniziale, quand’esse vengono precedute da parole terminanti
con consonante: “iè” – “iève” – “iàve” – “iàcque” – “nonn-è” –
“nonn-ave” – “nonn-ère” – “ngègne ad àcque”, ma fa “pestòle a
iàcque”.
- “ièrve”: “l’èrve” (femm. sing. e pl.) = erba, le erbe
- “iàcque”: “l’acque” (femm. sing. e pl.) = acqua, le acque
- “iàrrue”: “l’àrrue” (masch. pl.) = albero, gli alberi
- “iàcce”: “l’àccere” o “l’acce” (masch. pl.) = sedano, sedani
Altrettanto accade con qualsiasi altro legamento fra parola e parola
(con la ‘i’ prostetica) sia esso elisione o altro espediente, ad esempio,
il trattino che lega a un'altra parola, “nonn” ed “è” diventa “nonn-è”,
“pure” e “iì” diventa “pur’ì”.
Rifiuta, la ‘i’ prostetica, per eccezione, la voce verbale ‘è’, se è
seguìta dal participio passato “state”, “fatte”, “muèrte” - “è state
iìdde”: è stato lui; “è ffatte”: è fatto; “è mmuèrte”: è morto, ma “iè
bbrùtte”; “iè bbèdde”, ecc.
“E’ ffàtte” ha valore di: è stato fatto – Se “fàtte” non è participio
passato, ma sostantivo, allora l’ ‘è’ prende la ‘i’ eufonica “iè ffatte
vècchie”: è fatto vecchio, e mai “è ffatte vècchie”.
“E’ mmuèrte”: se “muèrte” è in funzione di sostantivo, l’ ‘è’ prende
la ‘i’ prostetica “iè mmuèrte de novandànne”: è (un) morto di
novantanni; “è mmuèrte a novandànne”: è morto a novantanni.
Esaminiamo tre voci del presente indicativo del verbo “avè”:
1ª persona singolare: “àgghie”, “iàgghie”, “àgghieche” e “iàgghieche”
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2ª persona singolare: “ha”, “ià”
3ª persona singolare: “àve”, “iàve”, “ha”.
Le forme “iàgghie” e “iàgghieche”: io ho, sono usate con
prevalenza quando reggono termini che non abbiano funzioni di
participio passato: “iàgghieche rasciòne”: ho ragione; “iàgghie tèrte”:
ho torto; raro, ma possibile: “àgghie (e “àgghieche”) rasciòne”.
Se è col participio passato di un verbo, “iàgghie”, perde la ‘i’
eufonica: “àgghie bevùte”, “àgghie sapùte”, ecc.
“Àgghie” si usa com’è nella forma perifrastica del futuro: “àgghie a
mangià”: mangerò – devo mangiare.
Così dicasi per la forma della seconda persona singolare “ià”: “ià
rasciòne” – “ià tèrte”. Col participio passato (raro) “ha tenùte fète”
(anche “sì tenùte fète”, di uso frequente). E così per la forma
perifrastica (vedi prima).
Lo stesso vale per la 3ª persona singolare dell’indicativo presente
“iàve”.
Però “àve” senza ‘i’ serve sempre per la forma perifrastica e per
reggere prevalentemente i participi passati che principiano con vocale
e non frequente per consonante: “av’avùte” – “àve perdùte” – “àve
menùte da la vanne du-attàne”: ha preso tutto dal padre.
Mentre i participi passati che cominciano per consonante
prediligono più la forma “ha” che “àve”: “ha cadùte” – “ha bevùte” –
“ha perdùte”, meno frequente: “àve perdùte”.
Le altre due forme di 1ª e 2ª persona plurale dell’indicativo
presente non sono soggette a fenomeni della ‘i’ eufonica (“avìme” e
“avìte”).
La terza persona plurale: “honne” – “hanne” – “iànne” – “iònne” “àvene” – “iàvene” – “avònne”.
Un fenomeno degno di attenzione è il verbo avetà: abitare, che
prende una ‘i’ eufonica anche all’infinito, in barba all’abitudine di
vedere banditi da tale uso le parole ossitone plurisillabe, “iavetà” – “iì
iàveteche”.
Ma verbi come alzà – amà – aggnì – assì, non prendono la ‘i’
all’infinito come “iavetà”, se non quando, nelle coniugazioni, le forme
verbali hanno l’accento tonico sulla vocale iniziale “iì iàlzeche”: io
alzo – “iì iàmeche”: io amo – “iì iàbbreche”: io apro – “iì ièggneche”:
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io riempio – “iì ièsseche”: io esco - “nge hanne trate le cime de rape e
hanne sapùte ca iàvete a CCarràsse”: gli hanno carpito alcuni segreti
(lo hanno fatto parlare) e hanno saputo che abita al rione Carrassi.
‘U’ prostetica: le parole che cominciano con ‘u’ seguìta da vocale
accentata, hanno suono molto più rafforzato, che va segnalato con
un’altra ‘u’, in qualsiasi circostanza ed incontro; “uànde”: guanto
diventa “u u-uànde” e “le u-uànde” – “uàrdie”: fa “la u-uàrdie” e “le
u-uàrdie”: la guardia e le guardie.
In casi particolari l’articolo ‘u’ gemina un'altra ‘u’ davanti a nomi
maschili che cominciano con vocale accentata “u u-àgghie”: l’aglio;
“u u-àrrue”: l’albero; “u u-àngeue”: l’angelo, ecc. (vedi: ‘Articoli
determinativi e articoli composti’).
Eccezioni: prendono, invece, la ‘i’ prostetica, “u iùne”: l’uno – “u
iàngecole”: il cretino – “u iàggre e ddolge”: l’acre e il dolce – “u iìrre
e iorre” - “u iìsse e ttrase” – “u iìnde”: il dentro – “u iàzze”: l’ovile.
Vi sono parole che pur avendo le caratteristiche innanzi dette,
hanno l’accento tonico sulla vocale della sillaba seguente e non sulla
prima, in questo caso la ‘u’, generalmente, non è richiesta, eccezion
fatta per alcuni nomi femminili. Es. “uandìire”: guantiera – “la
uandìire” e “la u-uandìire”.
Non pochi compilatori di vocabolari (meglio chiamarli, glossari)
tratti in inganno dalla ‘i’ e dalla ‘u’ prostetiche hanno registrato molti
termini in modo erroneo. Ad es. “èrve”: erba è stato registrato alla ‘i’,
“ièrve”, invece che alla ‘e’; “onze”: oncia è stato registrato alla ‘i’,
“iònze”, invece che alla ‘o’, “iàcce” per “acce”, “iègghie” per
“ègghie”, ecc.
È come voler registrare nei vocabolari italiani “istrada” alla ‘i’ per
il solo fatto che “strada” prende la ‘i’ eufonica dopo in, per, etc.: per
istrada, in istrada.
Suggerisco un metodo valido, per i Baresi, per controllare se la ‘i’
sia prostetica oppure no. (È necessario però essere a conoscenza della
pronuncia barese dei vari vocaboli nelle loro combinazioni).
Si prenda ad esempio qualsiasi sostantivo maschile singolare che
inizia con ‘i’ seguìto da vocale accentata : “iàcce”, lo si faccia
precedere da ‘non’ o da ‘u’: se il vocabolo fa “nonn-acce” o “u uàcce”, la ‘i’ che scompare è prostetica perché quando la ‘i’ è
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etimologica, non scompare mai, come negli esempi: “iòdie”: iodio –
“u iòdie” o “u iiòdie” – “non iòdie, ma spìrde”: non iodio, ma alcool;
“u iùse”: locale che serve ad un uso utile ( parlando con decenza); ma,
ripeto, è necessario conoscere bene il dialetto per trarre vantaggio da
un tal metodo.
LA PREPOSIZIONE “A” E LE PAROLE CHE INIZIANO CON VOCALE
Le parole inizianti con vocale accentata e precedute dalla
preposizione ‘a’ richiedono una ‘i’ prostetica; “acque”: “a iàcque”: ad
acqua – “arche”: “a iàrche: ad arco – “àrrue”: “a iàrrue”: ad albero –
“acce”: “a iàcce”: a sedano – “ache”: “a iàche”: ad ago –“àngeue”: “a
iàngeue”: ad angelo. Eccezioni: “u ngègne ad àcque”: la noria –
“vògghe ad aprì”: vado ad aprire.
La preposizione ‘a’ richiede la ‘d’ eufonica se la parola che
incontra, pur iniziando con vocale, ha l’accento tonico su sillaba
diversa dalla prima.
“Ad abbettà”: a gonfiare – “ad abbasscià”: ad abbassare – “ad
arreggettà”: a riordinare – “ad arrebbà”: a rubare – “ad addacquà: ad
annaffiare – “ad accarezzà”: ad accarezzare – “ad accareggnà”: a
sottomettere – “ad aggnìille”: ad agnello – “ad avìirte”: all’erta – “ad
annùsce”: a portare (“ha d’annùsce” : dovrai portare, porterai) – “ad
artìste”: ad artista – “vogghe ad achiùte”: a chiudere.
Eccezionalmente la ‘d’ si usa anche in “iùne a pe dune” (o
“pedùne”): uno per ciascuno; (invece, uno per uno, fa “iùne pe iùne”
e, ad uno ad uno: “a iùne a iùne”).
Fanno eccezione quelle parole derivate da quelle che avevano già la
‘i’ prostetica, anche se l’accento tonico è spostato: “a iarruìcchie”: ad
alberello – “a iaccetìidde”: a piccolo sedano – “a iascratìidde”: a
piccolo lastrico solare, (anche: “a iascretìidde”).
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La ‘i’ prostetica è incompatibile con ‘ad’ e viceversa; secondo i
casi si avrà o l’uno o l’altro espediente eufonico: quindi non avremo
mai “ad iàngeue” o “ad iarruìcchie”.
(Per una più esauriente trattazione dell’argomento, vedi: ‘Gli
articoli composti’ e ‘Le preposizioni articolate’).
Del tutto scomparsa, o forse usata ancora, da qualche vecchissimo
contadino, è la ‘n’ che segue la preposizione ‘a’ al posto della ‘d’,
quando la parola che segue cominci per vocale non accentata:
“accòrde”: “an accòrde (o “ad accòrde”) fatte nom bùete fà nudde”: ad
accordo fatto non c’è più nulla da fare – “vògghe a nAngòne”: vado
ad Ancona. Oggi il ‘d’ (oppure senza di esso) è abbastanza affermato:
“vògghe ad arròste: vado ad arrostire – “trè ccòpie ad edizziòne” (o “a
eddizziòne”): tre copie per ogni edizione – “v’ad àcchie”“vadàcchie”: chissà (lett: và a trovare – và a trovi).
Continua nel libro..........................
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