L’UOMO DI FRONTE
ALLA MORTE
Domande, provocazioni,
tentativi di risposte
PER UNA DEFINIZIONE…
“Cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in
ogni altro organismo vivente o elemento costitutivo di esso”.
Questa è la definizione della morte sul vocabolario della lingua italiana
Treccani.
Seguono poi delle distinzioni:
 morte biologica, “caratterizzata dall’irreversibilità della cessazione delle
funzioni vitali dell’organismo, degli organi e delle cellule che lo costituiscono,
danneggiati in modo irreparabile”
 morte clinica (o morte apparente), “in cui la sospensione delle funzioni vitali
dell’organismo non è necessariamente irreversibile, potendo questo essere
sottoposto a trattamenti di rianimazione”.
Su queste definizioni, tuttavia i dibattiti sono continui e accesi; la confusione diventa
maggiore se poi ci aggiungiamo i racconti di coloro che sono usciti dal coma e che
hanno avuto le cosiddette NDE, near death experiences. Tali racconti presentano
taluni punti comuni:
1.
esco dal corpo
2.
osservo tutto quello che accade
3.
entro in un tunnel buio
4.
vedo una luce in fondo al tunnel
5.
rivedo come in un film la mia vita
6.
incontro defunti cari
7.
mi sento gioioso, sereno e in pace
8.
mi viene comandato di tornare in vita
9.
obbedisco e torno nel corpo
10. mi sveglio.
Li sentii dire che il mio cuore aveva cessato di
battere, ma io ero sul soffitto e di là vedevo
tutto quello che succedeva. Io fluttuavo
sfiorando il soffitto: per questo quando ho visto
il mio corpo non ho capito subito che era il mio.
Sono uscita nel corridoio e ho visto mia madre
che stava piangendo. Le ho chiesto perché
piangeva, ma non poteva udirmi. I dottori
pensavano che io fossi morta. Allora è arrivata
una bellissima signora per aiutarmi, perché
sapeva che avevo paura. La signora mi ha
portata in un tunnel e siamo arrivati in cielo.
[…] Il tunnel era lungo e buio. Dentro
avanzavamo velocissimi. Al fondo c’era la luce.
Quando l’ho vista mi sono sentita felice. Per
tanto tempo avrei voluto tornarci.”
(R. Moody, Life after life, in “Dimensioni nuove”,
nov 1991)
Questo ci dice qualcosa sull’esistenza
dell’aldilà?
Il tutto si può ridurre a reazioni chimicofisiche del cervello dovute al trauma?
Ma è poi questa definibile come
esperienza di morte, visto che è
reversibile?
LA MORTE CI INTERROGA
Come decesso la morte è un fatto naturale
che riguarda tutti gli esseri viventi, e dunque
non si riferisce in modo particolare
all’esperienza umana.
Secondo Epicuro, ad esempio, l’uomo non
deve interessarsi al problema della morte, né
temerla, perché …
“Quando ci siamo noi
non c’è la morte
e quando c’è la morte
non ci siamo noi”.
Sullo stesso filone, ma con maggiore ironia, il regista Woody Allen afferma
“Non è che ho paura
di morire. E’ che non
vorrei essere lì
quando questo
succede.”
“La morte non è un evento
della vita, non si vive la
morte”.
(L. Wittgenstein, Tractatus, 1921)
“La vita è meravigliosa.
Senza saresti morto.”
(Leopold Fetchner)
“La morte è un puro fatto,
come la nascita; essa
viene a noi dall’esterno e ci
trasforma in esteriorità”.
(J. P. Sartre, L’essere e il nulla,
1943)
“E’ assurdo che siamo nati è assurdo che muoriamo”, la vita non è che una
“inutile passione”.
La visione della morte come puro fatto biologico e fine naturale di ogni essere
vivente tenta di ignorare la dimensione esistenziale entro cui l’uomo la
comprende e la pensa.
L’uomo è come una macchina i cui ingranaggi si logorano nel tempo,
è come l’albero che in inverno si secca:
 si può, tuttavia, arrivare a dire che la morte non interessa l’uomo?
 Davvero non c’è alcuna differenza tra la morte dell’uomo e quella degli altri
esseri viventi?
 Davvero la morte annulla il senso dell’esistenza, per cui è inutile vivere?
Era entrata con piccoli passi, la prudenza dei bambini quando vogliono qualcosa.
Appoggiata a una valigia, s’era messa a fissarmi, dondolando un piede su e giù. Fuori
era novembre, il vento invernale gelava i boschi della mia Toscana.
- E’ vero che parti?
- Sì, Elisabetta.
- Allora resto a dormire con te.
Le avevo detto: va bene, era corsa a prendere il pigiama e il suo libro dal titolo La vita
delle piante, poi era venuta accanto nel letto: minuscola, indifesa, contenta. Fra
qualche mese avrebbe compiuto i cinque anni. Tenendola stretta, mi ero messa a
leggere il libro, d’un tratto mi aveva puntato gli occhi negli occhi e posto quella
domanda: La vita, cos’è?
Io coi bambini non sono brava. Non so adeguarmi al loro linguaggio, alla loro curiosità.
Le avevo dato una risposta sciocca, lasciandola insoddisfatta.
- La vita è il tempo che passa fra il momento in cui si nasce e il momento in cui si
muore.
- E basta?
- Ma sì, Elisabetta, e basta!
- La morte, cos’è?
- La morte è quando si finisce e non ci siamo più.
- Come quando viene l’inverno e un albero si secca?
- Più o meno.
(O. Fallaci, Niente e così sia, 1969)
PRINCIPIO E FINE
Il giardino tornerà a verdeggiare generosamente fecondo
La luce tornerà a palpitare con la fresca aurora
Ma io, una volta sfiorita e avvizziti i miei bocci
Una volta spentasi domani la luce della mia vita
Come potrò mai risorgere, sfiorita e spenta in eterno?
Ahi morte, cosa sei tu? Sei tu crudele o pietosa?
Sorridente o arcigna, fedele oppur traditrice?
Da quali orizzonti ti abbatterai tu su di me?
Di qual essenza sarà la coppa che mi porgerai?
Dì, spiega: qual colore e sapore essa avrà, come sarà?
Ecco il mio corpo, che i giorni e le notti consumano
I cui resti preziosi saran domani gettati nella tomba.
[...]
Sapess’io che ne è dello spirito, fatto polvere il corpo!
Si consumerà anch’esso, distrutto dalla morte,
O si salverà piuttosto dalle tenebre del nulla
Andando libero ed eterno di là delle nebbie
Ascendendo su un tappeto di luce al rifugio del cielo?
Meraviglia! Cos’è mai la storia della risurrezione, l’enigma dell’eternità?
Potrà mai tornare lo spirito al corpo entrato nella fossa?
A quel corpo che fu un giorno il suo velo,
A quel corpo ridotto in polvere nella terra?
O vorrà lo spirito, una volta affrancato, tornare alle sue catene?
Quante volte una perplessità smarrita si è mescolata al mio immaginare, alle mie fantasie
Riflettendo i neri suoi raggi sul mio pensiero e i miei sensi.
Quanto ho fissato lo sguardo, e domandato: “Donde fu il mio principio?”
Quanto ho gridato al Mistero: “Dove sarà la mia fine?”
Un’inquietudine ha turbato in me la pace dell’anima mia.
(F. Tuqàn, “Autunno e sera”, in F. Gabrieli, Cultura araba del Novecento, Bari, Laterza)
Fadwa Tuqàn (1920), poetessa palestinese, è stata educata in un istituto di suore a Gerusalemme.
Con la sua opera poetica ha dato voce alla lunga sofferenza del popolo palestinese
VIOLA D’INVERNO (Roberto Vecchioni)
Arriverà che fumo o che do l’acqua ai fiori,
o che ti ho appena detto: “scendo, porto il cane fuori”,
che avrò una mezza fetta di torta in bocca,
o la saliva di un bacio appena dato,
arriverà, lo farà così in fretta
che non sarò neanche emozionato…
Arriverà che dormo o sogno, o piscio
o mentre sto guidando,
la sentirò benissimo suonare mentre sbando,
e non potrò confonderla con niente,
perché ha un suono maledettamente eterno:
e poi si sente quella volta sola la viola d’inverno.
Bello è che non sei mai preparato,
che tanto capita sempre agli altri,
vivere in fondo è così scontato
che non ti immagini mai che basti
e resta indietro sempre un discorso
e resta indietro sempre un rimorso…
E non potrò parlarti, strizzarti l’occhio,
non potrò farti segni,
tutto questo è vietato da inscrutabili disegni,
e tu ti chiederai che cosa vuol dire
tutto quell’improvviso starti intorno
perché tu non potrai,
non la potrai sentire la mia viola d’inverno.
E allora penserò che niente ha avuto senso
a parte questo averti amata,
amata in così poco tempo;
e che il mondo non vale un tuo sorriso,
e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno
e che si tenga il resto, me compreso,
la viola d’inverno.
E dopo aver diviso tutto:
la rabbia, i figli, lo schifo e il volo,
questa è davvero l’unica cosa
che devo proprio fare da solo
e dopo aver diviso tutto
neanche ti avverto che vado via,
ma non mi dire pure stavolta
che faccio sempre di testa mia:
tienila stretta la testa mia.
LA MORTE COME SCACCO
Tra gli esseri viventi
L’UOMO
è l’unico a porsi in termini drammatici il problema della morte: egli sa di
VIVERE PER MORIRE
Questa certezza lo angoscia.
Invece
L’ANIMALE
non si inquieta delle sue ceneri, non conosce la sua sorte. Allora l’uomo
sarebbe, di tutte le creature di sempre, la più
INFELICE
perché assillato dal pensiero della morte.
Lev Tolstoj (1828-1910)
“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”. Per tutta la vita gli era
sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un
conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente
giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere
particolarissimo completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo
Vanja, con la mamma e il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la
governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia,
dell’adolescenza, della giovinezza.
Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto?
Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe
della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere
i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva
forse presiedere un’udienza in tribunale? Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma
per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti, i miei
pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe
troppo orribile.
(L. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic, Garzanti, Milano 1981, pp. 53-54)
Il protagonista del brano si ribella davanti alla realtà della malattia e della morte.
Se è dunque vero che l’uomo non incontra la propria morte, è anche vero che la
possibilità della fine grava sul vivere umano e conduce a profonde riflessioni sul
senso dell’esistere.
La morte è fine naturale di ogni essere vivente, ma l’uomo, tra gli esseri viventi,
ha una caratteristica particolare: quella di essere
CONSAPEVOLE
della propria fine.