L`arte di comunicare con i numeri

“I punti critici del modello umbro”
di
Bruno Bracalente
(Pubblicato sul Corriere dell’Umbria del 12 settembre 2006)
Nella discussione umbra è necessaria una riflessione sui caratteri del modello di governance regionale
che si è affermato a seguito del Patto per lo sviluppo. La questione è spinosa, poiché chiama in causa
consolidati tratti di cultura politica dello sviluppo regionale e radicate concezioni del rapporto tra
politica ed economia. Nato certamente con intenzioni diverse, il Patto ha prodotto un modello di
governance di cui oggi appaiono evidenti due caratteri critici. E’ verticistico: nonostante il gran
numero di soggetti coinvolti, non ha prodotto protagonismo diffuso, ma al contrario le leve di
comando in Umbria non sono state mai concentrate in una cerchia così ristretta di soggetti di vertice.
E’, di conseguenza, centralistico: il ritorno del centralismo regionale, comune a tutto il paese, in
Umbria è stato, con ogni evidenza, di particolare intensità e ha ridotto lo spazio di autonomia delle
realtà locali. Entrambi questi caratteri, oltre ad avere una notevole rilevanza politica, hanno attinenza
con i problemi dello sviluppo regionale, soprattutto in prospettiva futura.
Il carattere verticistico, in primo luogo. In una economia (e in una società) come la nostra, i processi di
concertazione e i relativi patti sono davvero utili allo sviluppo quando sono in grado di creare “capitale
sociale”. Quando riescono, cioè, a sostenere e promuovere fitte e diffuse reti formali e informali di
relazioni orizzontali che coinvolgono una molteplicità di imprese, persone, soggetti economici, sociali
e istituzionali, aiutando a liberare energie personali e sociali nel mercato. Quando invece assumono i
caratteri di reti forti tra (pochi) soggetti di vertice, i patti sono comunque un’altra cosa, ma soprattutto
sono esposti al rischio di produrre l’effetto opposto: quello di distruggere capitale sociale invece di
crearlo, facendo prevalere interessi particolari (politici ed economici) dei più forti soggetti coinvolti su
quelli generali di una comunità che ne resta largamente esclusa. Le istituzioni si allontanano dalla
società locale e i patti diventano, o rischiano di diventare, patti collusivi.
Ecco allora il primo punto sul quale riflettere: in Umbria, se permane quel carattere verticistico della
governance, invece di accrescersi il capitale sociale e la propensione a muoversi sul terreno del
mercato, si rafforzerà ancora la tendenza – presente sempre e ovunque - a sviluppare rapporti
consociativi e particolaristici sul terreno delle risorse pubbliche. Tanto più che la rappresentanza
politica e quella imprenditoriale oggi nella nostra regione presentano caratteristiche prevalenti, tra loro
in parte complementari, che non riducono certo quel rischio. La prima tende infatti a legittimarsi molto
(troppo) attraverso l’acquisizione e la distribuzione di flussi di spesa pubblica. La seconda, per
converso, tende a privilegiare istanze e interessi di settori che proprio dalla regolazione amministrativa
e dalla spesa pubblica dipendono. Le conseguenze si stanno manifestando anche sulle tendenze di
carattere strutturale della economia regionale. Mentre il futuro dell’economia italiana si gioca sul
mercato, sull’industria capace di competere sul piano internazionale e sulla capacità di valorizzare il
vantaggio competitivo costituito dalle risorse culturali e territoriali del paese, in Umbria queste
componenti hanno voce flebile nella cabina di regia del sistema regionale e perdono peso nella
economia, mentre crescono ancora il settore pubblico (anche attraverso la ripubblicizzazione di società
come Webred e Centro Multimediale) e l’economia privata protetta dalla spesa pubblica e dalle scelte
amministrative.
Il conseguente carattere centralistico non è meno rilevante. La globalizzazione dell’economia fa sì che
molta parte della produzione manifatturiera sia delocalizzabile e che lo sviluppo futuro del nostro
paese dipenda sempre più da medie imprese innovative, distretti tecnologici, economia della cultura, i
cui (nuovi) fattori di successo sono servizi moderni, risorse umane qualificate, istituzioni di ricerca,
patrimonio culturale, che soprattutto le città (in Umbria le medie città) possono offrire. In questo
nuovo quadro, anche in Umbria per recuperare competitività al sistema regionale devono diventare più
competitive, insieme alle imprese, anche le città. Le quali sono chiamate a ri-progettare il loro ruolo
economico, e devono poterlo fare con quella autonomia che permetta anche di valorizzare tutte le
relazioni con altre città e territori ritenute utili al loro sviluppo, senza alcun limite di confine
amministrativo regionale. Hanno bisogno, in altre parole, di un modello di governance non
centralistico, ma decentrato; di piani strategici autonomamente ideati e promossi più che di tavoli
territoriali presieduti da assessori regionali; di un ruolo della Regione che riguardo alla dimensione
locale e urbana dello sviluppo sia più di sostegno e accompagnamento che di guida e gestione diretta.
Anche questo carattere centralistico, come quello verticistico, sta producendo effetti indesiderabili. Ad
esempio, la “regionalizzazione” di strumenti e modalità di sviluppo che sono invece propri della
dimensione locale, come i distretti tecnologici, che rischia di preludere alla loro vanificazione. Che
senso ha un “distretto tecnologico dell’Umbria”, oltre che consentire la distribuzione in tutto il
territorio regionale delle risorse pubbliche disponibili per questi interventi? Se più correttamente inteso
come possibilità di nuovo sviluppo locale - in realtà dotate delle relative precondizioni e con la
necessaria concentrazione territoriale delle risorse – la promozione di un distretto tecnologico poteva
costituire una concreta opportunità, insieme ad altri interventi, per definire un futuro possibile per la
città di Terni, o per porre finalmente su basi nuove, a Perugia, il rapporto tra Università e città (e
regione). Così c’è da temere che né Terni, né Perugia, né l’Umbria risolveranno alcuno dei loro
problemi di sviluppo. E un analogo snaturamento potrebbe in futuro investire anche la concezione dei
distretti culturali, se non cambia il modello di governance che è stato costruito in questi anni.
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