Un dipinto di Giovan Vincenzo D’Onofrio, detto il Forlì, nella chiesa di San Mauro a Casoria Il 4 febbraio del 1600 - come si legge in una polizza di pagamento dell’antico banco napoletano dell’A. G. P (Ave Gratia Plena), e della cui esistenza siamo a conoscenza, unitamente a una gran mole di documenti, grazie alle ricerche e alle trascrizioni effettuate nel lontano1913 dal valente archivista napoletano Giovan Battista D’Addosio - tale «Cesare Valentino per non saper scrivere e per mano di Notar Gio: Batta lngaraldo paga D. ti 10, in conto di D. ti 30, a Gio: Vincenzo de Forlì per lo prezzo di una Cona» che questi «havera da fare» per una non meglio precisa cappella del casale di Casoria, di patronato dello stesso Valentino, «con l’in tre figure di S. a Maria Monserrato nel mezzo, da una parte S. Antonio di Paula (Paola) et S. Francesco d`Assisi, dell’altra parte S. Pangrazio (San Pancrazio) et S. Gio: Battista». Nell’impegnarsi a versare i restanti venti ducati alla consegna - da effettuarsi entro la fine di aprile dello stesso anno - il Valentino precisa, altresì, di voler essere effigiato all’estremità inferiore del dipinto insieme alla consorte e a un nipote. Malgrado qualche discordanza con gli impegni contrattuali - la sostituzione dell’immagine di san Pancrazio con quelle di una santa martire e la diversa disposizione degli altri santi - non sussistono dubbi al riconoscimento della cona cui si accenna nel documento, con la tavola oggi posta nella quinta cappella laterale sinistra della chiesa di San Mauro (la sua probabile ubicazione originaria). Il culto per la Vergine "Moreneta". scultura lignea di fattura romanica così denominata a causa del colorito brunastro del volto, altrimenti conosciuta come Vergine di Monserrato dal nome della località nei pressi di Barcellona dove si conserva, fu diffuso in tutta Europa, tra il XV secolo e gli inizi del secolo successivo, dai monaci benedettini; e ancor più, in Italia meridionale specie a Napoli e dintorni - dai numerosi mercanti catalani che in quegli anni intrattenevano intensi rapporti commerciali con il vicereame, all’epoca provincia della corona di Spagna: così come riporta anche il De Lellis in un manoscritto della seconda metà del XVII secolo, conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, quando descrive la chiesa che la città aveva dedicato alla Vergine catalana (in seguito scelleratamente distrutta con il cosiddetto "Risanamento"). La tavola, caratterizzata da «una calda luminosità dorata», è ordita, in aderenza a uno schema assi diffuso nella pittura napoletana del tempo, secondo la tradizionale scansione gerarchica: in alto è la Madonna col Bambino, seduta sulle nuvole circondata da testine alate che si affacciano tra altre nubi; il Bambino impugna una sega, chiaro riferimento al monte Serratus, cioè segato, il luogo dove tale culto mariano nacque e prese il nome; sotto, a sinistra di chi guarda, si osservano le figure di san Francesco d’Assisi e san Giovanni Battista resi secondo la consueta iconografia; a destra quelle di una santa non ben identificata (forse santa Caterina d’Alessandria) e di sant’Antonio da Padova, riconoscibile per 1’attributo iconografico del giglio; in basso il donatore (probabilmente un ricco mercante di Casoria), con la moglie e un nipote in atteggiamento orante (non sappiamo se per ringraziare la Vergine di una grazia ricevuta, o per impetrare la sua protezione). Sullo sfondo si staglia la montagna del Monserrato, e ai suoi piedi, un paesaggio con il convento benedettino dell’omonima Casoria, Ch. S. Mauro, G. V. D'Onofrio, La Madonna di Monserrato, Santi e donatori località, nella cui chiesa si conserva il simulacro della Vergine con questo titolo; e non già, come viene subito da pensare soprattutto per le forti analogie della montagna catalana con il Vesuvio, a una rappresentazione del vulcano sullo sfondo di una veduta di Casoria così com’era nel XVI secolo. Quanto all’autore della bella tavola, Giovan Vincenzo D’Onofrio, detto il Forlì, a causa della sua più che probabile provenienza dal paese molisano che porta questo nome, diremo che fu pittore di non eccelsa fama; e tuttavia, di notevole importanza nell’ambiente artistico della Napoli del primo Seicento in quanto abile organizzatore dei grandi cantieri decorativi dell’epoca (Capua, soffitto della chiesa dell’Annunziata, 1616-18; Giugliano in Campania, soffitto della chiesa dell’A. G. P., 1618; Napoli, soffitto del Duomo, 1621 - 24). Formatosi sugli esempi di Corenzio e Rodriguez, due dei maggiori pittori meridionali della fine del XVI secolo, fu console dell’arte dei pittori napoletani già dal 1594. Le sue prime opere note, andati persi i dipinti dell’Annunziata di Napoli, realizzati in quell’anno, sono l’Apparizione della Vergine a san Giacinto nella chiesa di San Domenico (dello stesso anno), la Madonna degli Angeli e i santi Francesco d’Assisi e Caterina d’Alessandria nella chiesa di San Francesco a Padula (1597), l’Immacolata di Roccarainola (dello stesso anno), la nostra Madonna di Monserrato, Santi e donatori e l’Incredulità di san Tommaso nella chiesa di San Mauro di Casoria, l’Annunciazione della Croce di Lucca a Napoli, tutte datate o databili entro il 1600. Facendo proprio gli schemi decorativi e disegnativi del Cavalier d’Arpino, nel primo decennio del secolo diede luogo alla migliore produzione della sua attività con la Madonna delle Grazie della chiesa del Carmine e la Parabola del Buon Samaritano del Pio Monte di Misericordia (1607). In questa chiesa ebbe modo di conoscere da vicino la maniera naturalistica di Caravaggio e Battistello Caracciolo cui si accostò ben presto. E però, frastornato e incapace di dar corpo alle nuove formule proposte dal pittore lombardo, elaborò uno stile personale che, per quanto oltremodo addensato di scuri pseudo - caravaggeschi, riscosse molto successo. Il miglior risultato di questo periodo fu la Circoncisione della chiesa della Sanità, già commissionata allo stesso Caravaggio e mai realizzata. Seguiranno poi - tutte entro il secondo decennio del secolo - la Cona di Viggiano (1616), il Crocifisso dell’Annunziata di Arienzo, le opere lucane di Lagonegro e Albano (l’Adorazione della Croce), la Madonna del Rosario di S. Agata dei due Golfi, la Sant’Orsola di San Giovanni a Carbonara (tutte del 1619), oltre naturalmente le tele per il già citato soffitto di Giugliano. Nel decennio successivo fu impegnato quasi esclusivamente nella realizzazione dei soffitti di Capua a Napoli. Dopo il 1639, anno in cui sono documentati dei pagamenti per alcuni lavori fatti nel refettorio del convento napoletano di San Pietro ad Aram non si hanno più notizie di lui. Franco Pezzella