1) Sulla natura giuridica della denuncia di inizio di attività: strumento di liberalizzazione o di semplificazione? CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 9 febbraio 2009 n. 717 - Pres. Varrone, Est. Giovagnoli Comune di Verona (Avv. Caineri e Clarich) c. Lucchi (Avv.ti Gobbi e Gattamelata) e Scudellari ed altro (Avv.ti Sardo Albertini e Manzi) - (riforma T.A.R. Veneto, Sez. II, 20 giugno 2003, n. 3045). 1. Edilizia ed urbanistica - Denuncia inizio di attività (d.i.a.) - Natura giuridica Individuazione. 2. Edilizia ed urbanistica - Denuncia inizio di attività (d.i.a.) - Possibilità che essa si consolidi con il decorso del tempo e del mancato tempestivo esercizio del potere inibitorio da parte della P.A. - Sussiste. 3. Edilizia ed urbanistica - Denuncia inizio di attività (d.i.a.) - Strumenti di tutela a disposizione dei terzi che ritengano di essere lesi - Esperimento di una azione di accertamento autonomo innanzi al giudice amministrativo - Tendente a verificare la sussistenza dei presupposti per la d.i.a. - Effetti della sentenza i accertamento Individuazione. 4. Edilizia ed urbanistica - Denuncia inizio di attività (d.i.a.) - Strumenti di tutela a disposizione dei terzi che ritengano di essere lesi - Esperimento di una azione di accertamento autonomo innanzi al giudice amministrativo - Termine di decadenza dell’azione - Applicabilità. 5. Edilizia ed urbanistica - Denuncia inizio di attività (d.i.a.) - Strumenti di tutela a disposizione dei terzi che ritengano di essere lesi - Esperimento di una azione di accertamento autonomo innanzi al giudice amministrativo - Termine di decadenza dell’azione - Dies a quo - E’ analogo a quello applicabile per l’impugnativa del permesso di costruire. 6. Edilizia ed urbanistica - Concessione od autorizzazione edilizia - Rilascio - Per opere che incidano su parti comuni dell'edificio - Ove siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare - Possibilità - Sussiste anche in difetto di espresso consenso del condominio. 7. Edilizia ed urbanistica - Denuncia inizio di attività (d.i.a.) - Per opere che interessino anche il condominio - Mancato assenso di quest'ultimo - Riguarda esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione. 1. La denuncia di inizio di attività (d.i.a.), è un atto di un soggetto privato e non costituisce un provvedimento della pubblica amministrazione, che ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto, esplicazione di una potestà pubblicistica. Con la d.i.a, infatti, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell’autoresponsabiltà dell’amministrato che è legittimato ad agire in via autonoma valutando l’esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore. 2. La d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un privato, è comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato tempestivo esercizio del potere inibitorio da parte della P.A., di consolidare, analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento espresso, un affidamento meritevole di protezione. 3. Poichè la d.i.a. non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma un atto privato, lo strumento di tutela a disposizione del terzo che si ritenga leso non può che essere identificato nell’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti. 4. Il terzo che si ritenga leso da una attività svolta sulla base di una d.i.a. deve avere, in linea di principio, le stesse possibilità di tutela che avrebbe avuto a fronte di un provvedimento di autorizzazione rilasciato dalla P.A. Da ciò discende che l’azione di accertamento sarà sottoposta allo stesso termine di decadenza (di sessanta giorni) previsto per l’azione di annullamento che il terzo avrebbe potuto esperire se l’Amministrazione avesse adottato un permesso di costruire; non è invece applicabile un diverso termine di natura prescrizionale, in quanto l’azione, ancorché di accertamento, non è diretta alla tutela di un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo. 5. Per l’azione di accertamento proposta in relazione ad una d.ia. il dies a quo per la proposizione è lo stesso di quello previsto per impugnare la concessione edilizia (ora permesso di costruire). A tal fine deve ritenersi, analogamente, che l’effettiva conoscenza, idonea a far decorrere il termine per la proposizione dell'azione innanzi al g.a., si ha quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento, a meno che non si deducano l'assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso (2). 6, E’ facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (3). 7. Ove la realizzazione di opere in attuazione di una d.i.a. interessino anche il condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione (4). -----------------------------------------------(1) Come si dà atto esplicitamente nell’articolata motivazione della sentenza in rassegna, il tema della natura giuridica della d.i.a., e quello correlato della tutela dei terzi che si oppongono ad intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha sempre presentato profili teorici problematici. Secondo un primo orientamento, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l'annullamento della determinazione formatasi in forma tacita (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008, n. 5811, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/82/cds4_2008-11-11.htm; Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3742; Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4828, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/cds4_2007-09-12-2.htm; Cons. Stato, sez. VI, 5 aprile 2007, n. 1550, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_2007-04-05.htm). Si tratterebbe, quindi, di un istituto del tutto peculiare, comunque assimilabile ad una istanza autorizzatoria, che, con il decorso del términe di legge, provoca la formazione di un "titolo", cioè di un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza, che rende lecito l'esercizio dell'attività, (in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008, n. 5811, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/82/cds4_2008-11-11.htm). Secondo questa impostazione, la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell'attività, ma rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo, sub specie dall'autorizzazione implicita di natura provvedimentale, a seguito del decorso di un termine (30 giorni) della presentazione della denunzia. Diversi sono gli argomenti invocati a sostegno di questa posizione. In particolare, un forte indizio a favore della tesi provvedimentale è oggi offerto dalla previsione espressa del potere dell'Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies (v. il comma 3 del nuovo art. 19): tale riferimento all’autotutela sembra, invero, presupporre un provvedimento, o comunque un titolo, su cui sono destinati ad incidere i provvedimenti di revoca o di annullamento, quali atti di secondo grado. Secondo la sentenza in rassegna, tuttavia, la tesi appena esposta, seppure spinta dal pregevole intento di evitare che l’introduzione della d.i.a. possa avere l’effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo controinteressato, si presta ad alcune considerazioni critiche. E’ stato in primo luogo evidenziato che la tesi in discorso (c.d. provvedimentale) finisce per non cogliere la principale caratteristica e la vera novità dell’istituto, la quale consiste proprio nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse non è più necessaria l’emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione. Per effetto della previsione della d.i.a., infatti, la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più fondata, sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema "norma-potere-effetto", ma è una legittimazione ex lege, secondo lo schema "norma-fatto-effetto", in forza del quale il soggetto è abilitato allo svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere autorizzatorio della P.A. A seguito della denuncia, il soggetto pubblico verifica la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. Gli unici provvedimenti rinvenibili nella fattispecie sono quelli meramente eventuali che la P.A. può emanare nel termine di legge per impedire la prosecuzione dell’attività o per imporre la rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in "autotutela" successivamente alla scadenza di questo termine. Con la d.i.a, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell’autoresponsabiltà dell’amministrato che è legittimato ad agire in via autonoma valutando l’esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore. La d.i.a., in definitiva, secondo la Sez. VI, è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica amministrazione, che ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto, esplicazione di una potestà pubblicistica. (2) Cfr. per la concessione edilizia Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2002, n. 3805. In applicazione del principio nella specie è stato ritenuto che il termine decadenziale per proporre l’azione di accertamento oggetto del giudizio era iniziato a decorrere solo dal momento in cui le originarie ricorrenti erano venute a conoscenza della d.i.a. e della lesività dell'intervento edilizio realizzato sulla base della stessa. (3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 9 novembre 1998, n. 1583 (4) V. T.A.R. Veneto, Sez. II, 2 luglio 2007, n. 2139, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/tarveneto_2007-07-02.htm. --------------------------------------Documenti correlati: CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 25-11-2008, n. 5811, pag. http://www.lexitalia.it/p/82/cds4_2008-11-11.htm (sulla natura giuridica della denuncia di inizio attività, sulla possibilità da parte dei terzi interessati di proporre impugnativa diretta avverso di essa e sul dovere dell’Autorità comunale di accertare, mediante adeguata istruttoria, il presupposto della disponibilità dell’area nel caso in cui sia a conoscenza di contestazioni circa la sua titolarità). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 12-9-2007, n. 4828, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/cds4_200709-12-2.htm (sulla natura giuridica della denuncia di inizio attività ex art. 22 del T.U. edilizia, sulla necessità o meno di preavviso di rigetto nel caso di ordine inibitorio a seguito di d.i.a. e sulla possibilità o meno di adottare detto ordine dopo il prescritto termine di 30 giorni). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 22-7-2005, n. 3916, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_200507-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio attività e sulla possibilità per i controinteressati di impugnare il silenzio-rifiuto sull’istanza con la quale invitano la P.A. ad adottare provvedimenti repressivi). TAR LOMBARDIA - BRESCIA SEZ. I, sentenza 10-1-2009, n. 15, pag. http://www.lexitalia.it/p/91/tarlombrescia1_2009-01.htm (sulla natura giuridica della denuncia di inizio attività, sulla possibilità da parte dei terzi interessati di proporre impugnativa diretta avverso di essa e sulla decorrenza del termine per la sua impugnazione in s.g.). TAR LIGURIA - GENOVA SEZ. II, sentenza 9-1-2009, n. 43, pag. http://www.lexitalia.it/p/91/tarliguria2_2009-01.htm (sulla natura della denuncia di inizio attività e sulla decorrenza del termine per la sua impugnazione, nonché sulla necessità o meno di motivare l’autorizzazione paesaggistica anche nel caso di rilascio e sulla necessità o meno di acquisire l’assenso del condominio nel caso di opere che riguardano parti comuni dell’edificio). TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. II, sentenza 2-10-2007, n. 2253, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/taremilabo2_2007-11-02.htm (sulla natura giuridica della denuncia di inizio attività in campo edilizio e sulle modalità di sua impugnazione da parte dei terzi e di rimozione da parte della P.A. una volta che siano decorsi i prescritti termini). TAR ABRUZZO - PESCARA, sentenza 23-1-2003, n. 197, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2003-01-23.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività, sulla tutela dei terzi nel caso di d.i.a. in contrasto con le norme urbanistiche e sulla nozione di ristrutturazione edilizia). TAR CAMPANIA - NAPOLI SEZ. II, sentenza 27-6-2005, n. 8707, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/tarcampna2_2005-06-27.htm (sulla natura perentoria del termine di 30 giorni ex art. 23 del T.U. edilizia entro il quale il Comune può adottare un provvedimento inibitorio a seguito della denuncia di inizio di attività). TAR LIGURIA - GENOVA SEZ. I, sentenza 22-1-2003, n. 113, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarliguria1_2003-01-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività e sui mezzi di tutela esperibili dal terzo che ritenga di essere stato da essa leso; critica l’orientamento espresso dal TAR LOMBARDIA - BRESCIA - sentenza 1 giugno 2001 n. 397, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarlombbre_2001-06-01.htm e TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. I – sentenza 6 dicembre 2001 n. 5272, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarcampna1_2001-12-06.htm). REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 9524/2003 proposto dal COMUNE DI VERONA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Giovanni R. Caineri e dall’avv. prof. Marcello Clarich, elettivamente domicialiato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Piazza Montecitorio 115; contro LUCCHI PAOLA, rappresentata e difesa dagli avv.ti Donatella Gobbi e Stefano Gattamelata, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via di Monte Fiore n. 22; RITA CAPPELLETTI, non costituitasi in giudizio; e nei confronti di SCUDELLARI GRAZIELLA e LUCCHI RENATA, rappresentate e difese dagli avv.ti Gian Paolo Sardo Albertini e Luigi Manzi, elettivamente domiciliate presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5; per l’annullamento e/o la riforma della sentenza del T.a.r. Veneto, sez. II, n. 3045/2003, del 20/6/2003 resa tra le parti; Visto l’atto di appello con i relativi allegati; Vista la memoria di costituzione in giudizio con appello incidentale di Scudellari Graziella e Lucchi Renata; Vista la memoria di costituzione di Lucchi Paola; Visti gli atti tutti della causa; Alla pubblica udienza del 25 novembre 2008, relatore il Consigliere Roberto Giovagnoli ed uditi, altresì, gli avvocati Gattamelata e l’avv. Di Mattia per delega dell’avv. Manzi; FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Le signore Paola Lucchi e Rita Cappelletti, con ricorso al T.a.r. Veneto, hanno chiesto: - l’annullamento della D.I.A. n. 104741/2001, presentata al Comune di Verona il 5.1.22001 dalle signore Graziella Scudellari e Renata Lucchi per la realizzazione di posti auto, cancello carraio e ingresso pedonale sull’area condominiale scoperta dell’edificio sito in Verona, via Col. Fincato n. 182; - l’annullamento di ogni altro atto conseguente e presupposto, compresa l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal dirigente del settore edilizia privata con decreto B.A. n. 1038/200 del 18.1.2001, il parere del settore traffico del Comune di Verona, il parere 28.12.2000 della Commissione edilizia comunale integrata di cui al verbale n. 54 del 28.12.2000; - in ogni caso, la pronuncia di illegittimità del comportamento tenuto dal Comune di Verona sulla d.i.a. presenta il 5.12.2001 e sull’intervento edilizio programmato; - il risarcimento dei danni, anche in forma specifica. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, il T.a.r. Veneto ha accolto il ricorso, ritenendo che le opere realizzate, pur rientrando fra quelle astrattamente soggette a d.i.a., risultavano, in concreto, di rilevante entità e tali comunque da alterare in modo sensibile il territorio. In particolare, la sentenza appellata, respingendo l’eccezione di inammissibilità del ricorso (fondata sulla considerazione che la d.i.a. è un atto privato, come tale non impugnabile innanzi al Giudice amministrativo), ha affermato che la d.i.a. ha natura provvedimentale, perché è un titolo abilitativo che proviene dall’Amministrazione, sia pure in forma silenziosa o per inerzia. 2.1. In ogni caso, ha aggiunto il Tribunale, anche a voler ritenere la d.i.a. un atto privato, il ricorso non sarebbe comunque inammissibile, in quanto le ricorrenti hanno chiesto, oltre all’annullamento del titolo, anche l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dalla p.a. in merito alla d.i.a. medesima. 2.2. Il T.a.r. ha poi annullato anche il nulla osta ambientale, ritenendolo privo della necessaria motivazione specificamente riferita all’entità e alle caratteristiche dell’opera e alla sua incidenza sul bene tutelato. 3. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Comune di Verona, deducendo i seguenti motivi: 1) l’irricevibilità del ricorso di primo grado, perché proposto oltre i sessanta giorni da quanto le ricorrenti erano a conoscenza del progetto presentato dalle signore Scudellari e Lucchi e, comunque, oltre i sessanta giorni dalla conoscenza dell’avvenuto inizio dei lavori; 2) l’inammissibilità del ricorso di primo grado perché avente ad oggetto la d.i.a. che, in quanto atto privato, non sarebbe impugnabile; 3) nel merito, la riconducibilità dell’intervento edilizio tra quelli soggetti a d.i.a. sul presupposto che le opere realizzate, consistenti in una recinzione, nella pavimentazione del piazzale interno con delimitazione degli spazi a parcheggio ed interventi sul muro di cinta di contenimento, rientrassero pacificamente tra quelle indicate dall’art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996; 4) con riferimento al nulla osta paesaggistico ambientale, ha dedotto che nei casi di parere positivo, l’assenza di motivi che contrastino con i beni sottoposti a vincolo può essere meramente enunciata, senza necessità di ulteriori argomentazioni. 4. Si sono costituite in giudizio le signore Scudellari Graziella e Lucchi Renata che hanno proposto anche appello incidentale improprio contenente censure in gran parte analoghe a quelle già svolte dal Comune di Verona nell’appello principale. In particolare, le appellanti incidentali hanno dedotto: 1) che la d.i.a. è un atto privato e non un provvedimento impugnabile e che l’unica tutela consentita al terzo che si ritenga leso dall’attività da altri svolta sulla base della d.i.a. è quella di instaurare un giudizio avverso il silenzio-rifiuto; 2) che le opere consistevano nella realizzazione di posti auto, cancello carraio ed ingresso pedonale, in perfetta corrispondenza con quanto prevede l’art. 2, comma 60, l. n. 662/1996; 3) con riferimento al difetto di motivazione del nulla osta ambientale, che una motivazione adeguata è necessaria quando viene adottato dall’Amministrazione un provvedimento negativo alla realizzazione dell’opera in una zona soggetta a vincolo, mentre quando il nulla osta viene rilasciato è sufficiente una motivazione anche succinta. 5. Si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione di entrambi gli appelli, una delle originarie ricorrenti, la signora Lucchi Paola. 6. All’udienza del 25 novembre 2008, la causa è stata trattenuta per la decisione. 7. In via preliminare, al fine di decidere sulle eccezioni di inammissibilità e tardività dell’originario ricorso riproposte, con appositi motivi, negli appelli principale e incidentale, occorre esaminare la questione relativa alla natura giuridica della d.i.a.. Il tema della natura giuridica della d.i.a., e quello correlato della tutela dei terzi che si oppongono ad intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha sempre presentato profili teorici problematici. 7.1. Secondo un primo orientamento, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l'annullamento della determinazione formatasi in forma tacita (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008 , n. 5811; Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3742; Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2007 , n. 4828; Cons. Stato, sez. VI, 05 aprile 2007 , n. 1550). Si tratterebbe, quindi, di un istituto del tutto peculiare, comunque assimilabile ad una istanza autorizzatoria, che, con il decorso del términe di legge, provoca la formazione di un "titolo", cioè di un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza, che rende lecito l'esercizio dell'attività, (in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008, n. 5811). Secondo questa impostazione, la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell'attività, ma rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo, sub specie dall'autorizzazione implicita di natura provvedimentale, a seguito del decorso di un termine (30 giorni) della presentazione della denunzia. 7.2. Diversi gli argomenti invocati a sostegno di questa posizione. 7.2.1. In primo luogo, un forte indizio a favore della tesi provvedimentale è oggi offerto dalla previsione espressa del potere dell'Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies (v. il comma 3 del nuovo art. 19): tale riferimento all’autotutela sembra, invero, presupporre un provvedimento, o comunque un titolo, su cui sono destinati ad incidere i provvedimenti di revoca o di annullamento, quali atti di secondo grado. Come è stato rilevato, inoltre, se è ammesso l'annullamento d’ufficio, parimenti, e tanto più, deve essere consentita l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo ( Cons. Stato, sez. VI, 05 aprile 2007 , n. 1550). 7.2.2. Ulteriori elementi a sostegno della natura provvedimentale si ricavano, con particolare riferimento alla d.i.a in materia edilizia, da alcune norme contenute nel testo unico dell’edilizia (approvato con D.P.R. n. 380/2001). Viene, in primo luogo, in considerazione il comma 2-bis dell'art. 38 che, prevedendo, la possibilità di "accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo", equipara detta ipotesi ai casi di "permesso annullato", avallando l’idea che la d.i.a. sia un titolo suscettibile di annullamento 7.2.3. Sulla stessa linea si pone l'art. 39, comma 5-bis, che consente l’annullamento straordinario della d.i.a. da parte della Regione, confermando, così, che la d.i.a. viene considerata dal legislatore come un titolo suscettibile di essere annullato (in sede amministrativa e, quindi, a maggior ragione, in sede giurisdizionale). 7.2.4. Rilevante, infine, è l’art. 22 il quale stabilisce che il confine tra l’ambito di operatività della d.i.a. e quello del permesso di costruire non sia fisso: le Regioni possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo dei due titoli abilitativi, ferme restando le sanzioni penali (art. 22, comma 4), ed è comunque fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a. (art. 22, comma 7). Per la tesi in esame, una simile previsione dimostrerebbe che d.i.a. e permesso di costruire sono di titoli abilitativi di analoga natura, che si diversificano solo per il procedimento da seguire. Sarebbe, allora, irragionevole, oltre che lesivo dell'effettività della tutela giurisdizionale, pensare che il terzo controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo abilitativo, che può dipendere da una scelta della parte o da una diversa normativa regionale. Sarebbe, invece, preferibile ritenere che il formarsi di un determinato titolo abilitativo, o di un altro, non comporti alcun cambiamento sotto il profilo della tutela del terzo e del conseguente intervento del giudice, in alcun modo limitato dalla decadenza del potere di intervento dell'amministrazione. 7.3. La tesi appena esposta, seppure spinta dal pregevole intento di evitare che l’introduzione della d.i.a. possa avere l’effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo controinteressato, si presta, tuttavia, ad alcune considerazioni critiche. 7.3.1. Innanzitutto, dalla formulazione letterale dell’art. 19 l. n. 241/1990 (che rappresenta la norma generale cui fare riferimento per la disciplina e la ricostruzione dell’istituto) emerge in maniera chiara come la d.i.a. venga dal legislatore nettamente contrapposta al provvedimento amministrativo: è prevista proprio la sostituzione con una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione comunque denominata (il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti o presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione per il rilascio). Già da questo primo dato normativo, si evince, quindi, che la principale caratteristica e la vera novità dell’istituto consiste proprio nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse non è più necessaria l’emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione. 7.3.2. Come è stato bene evidenziato in dottrina, per effetto della previsione della d.i.a. la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più fondata, infatti, sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema "norma-potere-effetto", ma è una legittimazione ex lege, secondo lo schema "norma-fatto-effetto", in forza del quale il soggetto è abilitato allo svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere autorizzatorio della P.A. A seguito della denuncia, il soggetto pubblico verifica la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. Gli unici provvedimenti rinvenibili nella fattispecie sono quelli meramente eventuali che la P.A. può emanare nel termine di legge per impedire la prosecuzione dell’attività o per imporre la rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in "autotutela" successivamente alla scadenza di questo termine. Il potere di verifica di cui dispone l’amministrazione, a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo, non è finalizzato all’emanazione dell’atto amministrativo di consenso all’esercizio dell’attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall’interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l’attività in questione. Con la d.i.a, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell’autoresponsabiltà dell’amministrato che è legittimato ad agire in via autonoma valutando l’esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore. La d.i.a., in definitiva, è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica amministrazione, che ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto, esplicazione di una potestà pubblicistica. 7.3.3. Del resto, la tesi del provvedimento amministrativo che si forma tacitamente si scontra anche con la considerazione che il silenzio-assenso rappresenta pur sempre rimedio all’inerzia della P.A. e, pertanto, presuppone il potere-dovere di quest’ultima di provvedere con atto formale sull’istanza del privato, accogliendola o respingendola, potere-dovere che, a fronte della denuncia di inizio di attività, l’Amministrazione non possiede affatto. Sicché, mentre a fondamento del valore provvedimentale del silenzio assenso si pone una domanda dell’interessato, a fondamento della d.i.a. vi è una mera dichiarazione o denuncia attestante l’esistenza delle condizioni richieste dalla legge per l’esercizio dell’attività. L’Amministrazione non rilascia nessun atto di assenso dovendo solo verificare la sussistenza dei prescritti requisiti affinché l’interessato possa autonomamente intraprendere la preannunciata attività quale espressione del suo diritto come legislativamente prefigurato 7.3.4. E’ appena il caso di aggiungere che se la d.i.a. fosse davvero un atto destinato ad avviare un procedimento destinato a concludersi con un provvedimento di accoglimento per silentium, tra d.i.a. e silenzio-assenso sarebbe arduo cogliere una sostanziale differenza. Al contrario, la legge n. 241/1990 delinea in due articoli differenti, il 19 e il 20, così mostrando di voler tenere distinti i due istituti e di attribuire loro una diversa funzione: mentre con la d.i.a. si attua una liberalizzazione dell’attività privata non più soggetta ad autorizzazione, il silenzio assenso non incide in senso abrogativo sul regime autorizzatorio, ma costituisce una mera semplificazione procedimentale, prevedendo una modalità di conseguimento dell’autorizzazione equipollente ad un provvedimento esplicito di accoglimento. 7.4. A fronte di queste considerazioni sistematiche, perdono in gran parte il loro peso gli opposti argomenti invocati a sostegno della natura provvedimentale della d.i.a. Essi, come si è visto, si fondano soprattutto sulla constatazione che il legislatore fa più volte riferimento all’esercizio di un potere di autotutela (normalmente di annullamento di ufficio) che ha per oggetto proprio la denuncia di inizio di attività. Ora, poiché l’autotutela decisoria è attività amministrativa di secondo grado, che presuppone l’esistenza di un atto amministrativo da rimuovere, da tali previsioni sembra facile argomentare nel senso che la d.i.a. sia un provvedimento. 7.4.1. In realtà, il riferimento compiuto dal legislatore al potere di autotutela non deve essere enfatizzato. L’art. 19 l. n. 241/1990, che richiama gli artt. 21-quinquies e 21-nonies, e le norme del T.U. edilizia sopra citate che prevedono l’annullamento d’ufficio della d.i.a., non hanno, in realtà, voluto sancire implicitamente la natura provvedimentale di tale fattispecie. Evocando l’autotutela (e, in particolare, l’annullamento d’ufficio), il legislatore, più che prendere posizione sulla natura giuridica dell’istituto, ha voluto solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di trenta giorni per l’esercizio del potere inibitorio, la P.A. conserva un potere residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui generis, che si differenzia della consueta autotutela decisoria proprio perché non implica un’attività di secondo grado insistente su un procedente provvedimento amministrativo. Come è stato bene evidenziato in dottrina, il riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990, contenuto nella l. n. 241/1990 consente alla P.A. di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell’amministrazione, ma che con l’autotutela classica condivide soltanto i presupposti e il procedimento. In questo senso, deve ritenersi che il richiamo agli artt. 21 quinquies e 21 nonies vada riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i poteri di inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, nell’osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti dal tali norme. In tal modo, il legislatore, nel recepire l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva la sussistenza in capo alla P.A. di un potere residuale di intervento anche dopo la scadenza dl termine, si fa pure carico di tutelare l’affidamento che può essere maturato in capo al privato per effetto del decorso del tempo. Non vi è dubbio, invero, che la d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un privato, sia comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato tempestivo esercizio del potere inibitorio da parte della P.A., di consolidare, analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento espresso, una affidamento meritevole di protezione. Tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da parte della P.A., anche perché altrimenti per effetto della d.i.a., si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva del provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela). Ed allora, superando anche i dubbi interpretativi in passato da qualcuno sollevati circa l’esistenza di un residuo potere di intervento da parte della p.a. una volta scaduto il termine perentorio di 30 gg., la legge n. 80/2005, nel riformulare l’art. 19 l. n. 241/1990, ha precisato che la P.A. può vietare lo svolgimento dell’attività ed ordinare l’eliminazione degli effetti già prodotti anche dopo che è scaduto il termine perentorio. Lo potrà fare, però, soltanto se vi sono i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela (in particolare dell’annullamento d’ufficio) e, quindi, entro un ragionevole lasso di tempo, dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di interesse pubblico. 7.4.2. Il richiamo contenuto nell’art. 19 all’autotutela decisoria (o meglio alle norme che la disciplinano e ne fissano le condizioni di esercizio) va, quindi, ridimensionato. Quel riferimento, anzi, potrebbe addirittura essere invocato contro la tesi del titolo abilitativo tacito: perché se la d.i.a. fosse veramente un provvedimento non vi sarebbe nemmeno bisogno di prevedere un potere di annullamento d’ufficio o di revoca, essendo a tal fine sufficiente le norma generali di cui agli artt. 21-quinquies e 21-nonies. 7.5. Appurato che la d.i.a. non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma un atto privato, si tratta ora di capire quale siano gli strumenti di tutela a disposizione del terzo che si ritenga leso. 7.6. Alcuni ritengono che il terzo possa agire con lo strumento del silenzio-rifiuto; ed è questa la tesi sostenuta dagli appellanti principale e incidentale. Secondo questa impostazione, il terzo, decorso il termine per l’esercizio del potere inibitorio senza che la P.A. sia intervenuta, sarebbe legittimato a richiedere all’Amministrazione di porre in essere i provvedimenti di "autotutela" previsti, attivando in caso di inerzia il rimedio di cui all’art. 21-bis l. n. 1034/1971. Questa soluzione non è, tuttavia, condivisibile, perché finisce per compromettere notevolmente la possibilità di tutela del terzo. Innanzitutto, questi avrebbe l’onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla P.A. Inoltre, e soprattutto, l’istanza sarebbe diretta a sollecitare non il potere inibitorio di natura vincolata (che si estingue decorso il termine perentorio di 30 gg), ma il c.d. potere di autotutela evocato tramite il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies. Tale potere, tuttavia, è ampiamente discrezionale, dovendo l’Amministrazione prima di intervenire valutare gli interessi in conflitto (tenendo conto anche dell’affidamento ingeneratosi in capo al denunciante) e la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, che non coincide con il mero ripristino della legalità violata. Nell’eventuale giudizio avverso il silenzio-rifiuto, quindi, il G.A. non potrebbe che limitarsi ad una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare (Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2007, n. 5271), e tutto ciò renderebbe ancor più lunga e faticosa la tutela del terzo. 7.7. Al contrario, per individuare gli strumenti di tutela che il terzo può attivare, si deve partire da una premessa di fondo, che scaturisce dal principio costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale: quella secondo cui la sostituzione del provvedimento espresso con la d.i.a. non può avere l’effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo contro interessato, costringendolo negli angusti limiti del giudizio contro il silenzio-rifiuto. Gli strumenti di tutela giurisdizionale del terzo debbono rimanere sostanzialmente immutati anche laddove l’intervento edilizio (o, più ingenerale, l’attività svolta) trovi fondamento nella d.i.a. anziché nel provvedimento. Va, quindi, certamente condivisa la preoccupazione di assicurare al terzo l’effettività della tutela giurisdizionale, preoccupazione che, come si è visto, sta alla base della tesi che ammette l’azione di annullamento della d.i.a. innanzi al Giudice amministrativo. Tale preoccupazione non può, tuttavia, condurre allo stravolgimento della natura dell’istituto, trasformando quella che è una dichiarazione privata in un atto dell’amministrazione o in una fattispecie ibrida che nasce privata e. diventa pubblica per effetto del tempo trascorso e del silenzio. L’effettività della tutela deve essere assicurata al terzo mediante strumenti diversi dall’azione di annullamento, che siano perfettamente compatibili con la natura privatistica della d.i.a. 7.8. Tale strumento di tutela non può, allora, che essere identificato nell’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti. 7.8.1. Non si ignora che in ordine all’ammissibilità innanzi al Giudice amministrativo di un’azione di accertamento autonomo sono stati prospettati numerosi dubbi, sia in dottrina, sia in giurisprudenza. Sono dubbi che nascono, innanzi tutto, dalla considerazione secondo cui un giudizio di accertamento sarebbe ammissibile solo in una controversia tra soggetti in posizione di parità e rispetto ai quali il giudice detiene il potere di fissare la disciplina puntuale del rapporto concreto. Quando, viceversa, sussiste un soggetto in posizione di supremazia (la Pubblica Amministrazione), la soluzione del conflitto di interessi sarebbe demandata a tale soggetto, che detiene e gestisce il potere, ed il sindacato del giudice, in tali casi, non può che assumere la struttura del controllo successivo dei modi di esercizio del potere, laddove, viceversa, un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere. Ancora, ulteriori ostacoli all’ammissione dell’azione di accertamento autonomo nel processo amministrativo derivano, secondo l’insegnamento tradizionale: a) dalla negazione, invalsa soprattutto in passato, che l’interesse legittimo sia una posizione giuridica sostanziale avente la stessa dignità del diritto soggettivo; b) dalla mancanza di un riconoscimento espresso dell’azione di accertamento da parte del legislatore, a differenza di quanto accade negli ordinamenti di altri Paesi che tale azione conoscono (par. 43 della VGeO tedesca); c) dalla tradizionale configurazione del giudizio amministrativo come giudizio sull’atto, e non sul rapporto, nell’ambito del quale, pertanto, al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, l’unica azione proponibile sarebbe quella volta ad ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo; d) dalla limitazione dei mezzi di prova utilizzabili dal giudice amministrativo, il quale, pertanto, non sarebbe in grado, per la povertà dei suoi poteri istruttori, di compiere un accertamento pieno del rapporto controverso. 7.9. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’ultimo decennio ha determinato il superamento di una così rigida chiusura all’azione di accertamento del processo amministrativo, offendo, al contempo, numerosi argomenti che depongono a favore di una diversa soluzione. 7.9.1. In primo luogo, come hanno anche recentemente evidenziato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254, "sono ormai definitivamente tramontate precedenti ricostruzioni della figura dell’interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, che il primo configuravano come situazione funzionale a rendere possibile l’intervento degli organi della giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la natura di giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque di mezzo direttamente volto a rendere possibile, attraverso una nuova determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata e solo indirettamente a realizzare l’interesse del privato". Nella specie va inoltre considerato che, la nozione di interesse legittimo serve anche a contraddistinguere il nucleo di facoltà, inerenti al diritto di proprietà il cui esercizio è ex lege subordinato al potere conformativo della p.a.. Più propriamente alcune modalità di godimento (facoltà) a seguito dell’intervenuta modifica legislativa non devono essere pregiudizialmente assentite dalla p.a., ma presuppongono l’invio di una informativa (d.i.a.), assistita da un progetto. Trascorso infruttuosamente il termine di 30 giorni, l’agere licere del privato, titolare del bene, si riespande pienamente. Rientra nel potere della p.a. accertare la corretta utilizzazione della misura liberalizzatrice da parte del privato e di intervenire tempestivamente nei casi di suo uso distorto. Ciò significa che la nozione di interesse legittimo, utilizzata originariamente per contrassegnare situazioni sostanziali che non raggiungevano la soglia di tutela propria del diritto soggettivo, serve oggi anche a contrassegnare il nucleo di facoltà che, all’interno del diritto soggettivo, possono essere esercitate solo a seguito del positivo esercizio da parte della p.a. dal suo potere conformativo. In questi casi, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla titolarità del diritto, quello amministrativo giudica dal suo contenuto, del suo grado di tutela, a seconda che venga o meno in conflitto con interessi di rilevanza pubblicistica (urbanistica, ambiente, paesaggio ecc.) In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con la sentenza 6 luglio 2004 n. 204. La Corte ha sottolineato che l’art. 24 della Costituzione assicura agli interessi legittimi "le medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla effettività della tutela che questi deve loro accordare". La stessa attribuzione al Giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto anche nell’ambito della competenza generale di legittimità (ex art. 7 della legge n. 205 del 2000) affonda le sua radici, secondo la Corte, nell’art. 24 della Costituzione "il quale garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri". Anche la Corte Costituzionale ha dato, dunque, il proprio avallo alla piena parificazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi quanto a possibilità di farli valere in giudizio, all’effettività della tutela e all’adeguatezza dei poteri del giudice. Come attenta dottrina non ha mancato di rilevare, questo criterio interpretativo generale deve presiedere alla ricostruzione delle disposizioni legislative oggi vigenti in materia di processo amministrativo e, per quel che più rileva in questa sede, deve rappresentare il punto di partenza nella risoluzione della questione relativa all’ammissibilità di una azione di accertamento nel processo amministrativo da parte del terzo che si ritenga leso dell’attività iniziata sulla base della d.i.a. 7.9.2. In senso contrario all’azione atipica di accertamento, non pare risolutiva nemmeno la tradizionale considerazione secondo cui il giudizio amministrativo è un giudizio sull’atto e non sul rapporto. In primo luogo, tale affermazione riguarda il giudizio di annullamento (che presuppone che sia stato emanato un provvedimento di cui si contesta l’illegittimità); non può invece assumere rilevanza nell’ambito di un giudizio che non mira alla eliminazione del provvedimento, ma vuole, come nel caso di specie, ottenere un accertamento giurisdizionale (di inesistenza dei presupposti della d.i.a.) al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo. In questo caso, mancando il provvedimento da scrutinare, l’oggetto del giudizio non può che essere il rapporto che, secondo il ricorrente dovrebbe essere poi recepito nel successivo provvedimento repressivo. In secondo luogo, anche la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato. Citando ancora la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 30254/2008, più indici normativi testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto. Basti pensare: all’impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso (art. 21, primo comma, l. Tar, modificato dall’art. 1 l. n. 205/2000); al potere del giudice di negare l’annullamento dell’atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21-octies l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 21 bis l. n. 15/2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza dell’istanza nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto (art. 2, comma 5, l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 80/2005 in sede di conversione del d.l. n. 35/2005). Il giudizio amministrativo, rimane perciò, un giudizio sull’atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va inclusa quella in esame, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della p.a., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della p.a.. 7.9.3. Non appare decisivo nemmeno l’ostacolo derivante dalla mancanza di una norma espressa che preveda l’azione di accertamento nel processo amministrativo. Come è stato efficacemente rilevato dalla dottrina che si è occupata del tema, sotto questo profilo ricorre nel processo amministrativo una situazione del tutto analoga a quella del processo civile, nel quale pure manca un esplicito riconoscimento normativo generale dell’azione di accertamento (specifiche azioni di accertamento sono previste nel codice civile solo per i diritti reali). Ciò nonostante, nel processo civile l’azione di accertamento è pacificamente ammessa. A tale pacifico riconoscimento dell’azione di accertamento nel giudizio civile si giunge partendo dalla premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto. L’azione di accertamento nel nostro ordinamento non è quindi un’azione "tipica" (come lo è, ad esempio, nel diritto processuale civile l’azione costitutiva ex art. 2908 c.c.), in quanto non è necessario un espresso riconoscimento normativo per ammetterne la vigenza. L’ammissibilità di tale azione discende di per sé dall’esistenza della giurisdizione che implica appunto lo "ius dicere". Ad analoghe conclusioni può giungersi per il processo amministrativo: sulle orme della dottrina prima evocata, si può ritenere che anche nel processo amministrativo il potere di accertamento del giudice non possa essere limitato alle sole ipotesi tipiche specificamente previste. La tipicità dell’azione di annullamento era coerente con la visione originaria del processo amministrativo come un processo impostato sulla tutela degli interessi legittimi oppositivi ai quali corrispondeva una pretesa a un "non facere" in capo all’amministrazione, cioè un dovere di astensione dall’emanare il provvedimento restrittivo della sfera giuridica dell’interessato. L’art. 45 del T.U. e l’art. 26, comma 2, della legge istitutiva dei Tar che individuano come unico dispositivo di accoglimento la sentenza di annullamento rispecchiavano perfettamente tale visione. Una siffatta visione non corrisponde più all’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha attribuito rilevanza e pari dignità agli interessi legittimi pretensivi. 7.9.4. A favore dell’ammissibilità di una azione atipica di accertamento gioca un ruolo decisivo anche l’art. 24 della Costituzione. Tale norma sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi in sé considerati, e dunque, indipendentemente dal problema dell’annullamento dell’atto amministrativo. Viene così costituzionalizzato il carattere strumentale del processo rispetto al diritto sostanziale, in linea con la nota formula dottrinale secondo cui il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quelle e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire. Ne deriva che anche per gli interessi legittimi la garanzia costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo di questa posizione sostanziale, almeno in tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente. A tale risultato non può opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto, come è stato di recente rilevato, uno dei corollari dell’effettività della tutela è anche il principio della atipicità delle forme di tutela, non diversamente da quello che accade nel processo civile. E non vi è ragione di differenziare, in linea di principio, sotto il profilo delle implicazioni che possono trarsi dall’art. 24 della Costituzione, il processo amministrativo dal processo civile, soprattutto se si riconosce all’interesse legittimo, com’è ormai pacifico, una rilevanza sostanziale analoga a quella del diritto soggettivo. Deve, allora, condividersi l’opinione di quanti sostengono che l’esigenza dell’effettività della tutela non può dirsi soddisfatta solo perché l’ordinamento consenta un rimedio giurisdizionale qualsiasi al diritto (o all’interesse) che si assume violato o insoddisfatto: occorre invece che la tutela assicuri in modo specifico l’attuazione della pretesa sostanziale. E sarebbe una tutela non effettiva quella che, sulla base di una aprioristica e indimostrata negazione dell’azione di accertamento, costringesse il terzo controinteressato rispetto all’attività edilizia iniziata sulla base della d.i.a. a presentare una istanza all’Amministrazione volta all’esercizio del c.d. potere di autotutela per poi ricorrere, in caso di mancata risposta, al giudizio contro il silenzio-rifiuto. 7.9.5. Né, in senso contrario, può assumere rilievo la considerazione, prima ricordata, secondo cui un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere. L’azione di accertamento prospettata in questa sede non scaturisce, infatti, dalla mera esigenza di eliminare una incertezza sulla posizione giuridica sostanziale, ma dalla più pregnante esigenza di eliminare una lesione già in atto, determinata dalla difformità tra lo stato di fatto e lo situazione di diritto, a causa della già intrapresa realizzazione di un intervento edilizio non consentito in base alle semplice d.i.a. Non si tratta, dunque, di una tutela preventiva dell’interesse legittimo del terzo che sarebbe in contrasto con il fatto che l’ordinamento ha attribuito all’Amministrazione la gestione di determinati rapporti. Si tratta, viceversa, di una tutela a posteriori, richiesta a seguito della asserita lesione dell’interesse legittimo del terzo contro interessato rispetto alla d.i.a. 7.10. Le considerazioni che precedono consentono di superare, sia pure con motivazioni in parte diverse rispetto al giudice di primo grado, le eccezioni di inammissibilità del ricorso originario riproposte in appello dal Comune di Verona e dalle signore Scudellari Graziella e Lucchi Renata. Ed invero, anche se deve escludersi il ricorso volto ad ottenere l’annullamento della d.i.a., non vi sono ostacoli ad ammettere una azione diretta ad ottenere l’accertamento, da parte del Giudice amministrativo, dell’inesistenza dei presupposti per intraprendere l’attività in base alla d.i.a. medesima. Poiché le originarie ricorrenti hanno proposto anche tale domanda di accertamento, l’eccezione di inammissibilità in relazione a questa parte del ricorso deve essere respinta. 7.11. Appurata l’ammissibilità anche nel giudizio amministrativo di una azione di accertamento atipica, occorre ora, al fine di decidere sull’eccezione di tardività pure riproposta dagli odierni appellanti, delineare con maggiore dettaglio il regime giuridico di tale azione. Anche a tal fine, si deve muovere dalla premessa concettuale secondo cui, il terzo che si ritenga leso da una attività svolta sulla base di una d.i.a. deve avere, in linea di principio, le stesse possibilità di tutela che avrebbe avuto a fronte di un provvedimento di autorizzazione rilasciato dalla P.A. Da ciò discende, ad avviso del Collegio, che l’azione di accertamento in tal caso sarà sottoposta allo stesso termine di decadenza (di sessanta giorni) previsto per l’azione di annullamento che il terzo avrebbe potuto esperire se l’Amministrazione avesse adottato un permesso di costruire. Non si ritiene applicabile un diverso termine di natura prescrizionale in quanto l’azione, ancorché di accertamento, non è diretta alla tutela di un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo. 7.12. Quanto alla decorrenza di tale termine, è utile richiamare la giurisprudenza amministrativa in merito al dies a quo per impugnare la concessione edilizia (ora permesso di costruire). Secondo la tesi tradizionale, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a terzi, l’effettiva conoscenza dell'atto si ha quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento, a meno che non si deducano l'assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso (Consiglio Stato , sez. IV, 8 luglio 2002 , n. 3805). 7.12.1. Mutatis mutandis, deve, allora, ritenersi che il termine decadenziale per proporre l’azione di accertamento oggetto del presente giudizio sia iniziato a decorrere solo dal momento in cui le originarie ricorrenti sono venute a conoscenza della d.i.a. e della lesività dell'intervento edilizio realizzato sulla base della stessa. Non assume, pertanto, valore decisivo la circostanza, dedotta dal Comune di Verona, che le ricorrenti fossero a conoscenza del progetto presentato dalle signore Scudellari e Lucchi ben oltre i sessanta giorni antecedenti, perché ciò che rileva, come correttamente osserva il T.a.r., non è la conoscenza del progetto, ma la conoscenza del titolo sulla cui base l’intervento è realizzato. Né il dies a quo può essere fatto coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio, in quanto, come la giurisprudenza ha già specificato per l’impugnazione dei titoli abilitativi edilizi, il termine inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento. L’eccezione di tardività va, pertanto, respinta. 8. Gli appelli, sia il principale che l’incidentale, devono essere, invece, accolti nel merito. 8.1. Gli interventi realizzati dalle signore Scudellari e Lucchi Renata consistono nella realizzazione di posti auto, cancello carraio ed ingresso pedonale. Si tratta di opere edilizie che rientrano tra quelle assoggettate a d.i.a., senza che possa assumere rilevanza la circostanza, valorizzata invece dal T.a.r., che si trattava "di interventi di rilevanti entità e tali comunque da alterare in modo sensibile il territorio". Giova, al riguardo, precisare che i "due bastioni di cemento armato", cui fa riferimento l’odierna appellata, erano in realtà rappresentati dal muro di recinzione e non costituivano, quindi una nuova costruzione soggetto alle distanze minime tra edifici. I parcheggi, ottenuti a raso, non coperti, non necessitano, quindi, del permesso di costruire. 8.2. In ordine al nulla osta paesaggistico ambientale, il Collegio rileva che il provvedimento sia adeguatamente motivato: trattandosi di parere positivo, è, infatti, sufficiente anche una motivazione succinta che dia atto dell’assenza di motivi che contrastino con i beni sottoposto a vincolo. 8.3. Infondati sono anche gli altri motivi del ricorso di primo grado, non esaminati dal T.a.r. e riproposti, sia pure non esplicitamente, in appello. In particolare, le originarie ricorrenti lamentavano la violazione delle norme in materia di legittimazione a richiedere il titolo abilitativo o comunque ad effettuare opere edilizie. Il motivo è infondato. Come questo Consiglio ha già avuto modo di rilevare, è facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (Cons. Stato, sez. Consiglio Stato , sez. V, 9 novembre 1998 , n. 1583). Va inoltre osservato che ove la realizzazione di opere in attuazione di una d.i.a. interessino anche il condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione (T.A.R. Veneto, sez. II, 2 luglio 2007 , n. 2139). 9. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello principale proposto dal Comune di Verona e l’appello incidentale proposto dalle signore Scudellari Graziella e Lucchi Renata debbono essere accolti; per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va respinto. La complessità delle questioni esaminate giustificano la compensazione integrale delle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello principale e l’appello incidentale; per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 25 novembre 2008 con l’intervento dei Sigg.ri: Claudio Varrone Presidente Paolo Buonvino Consigliere Aldo Scola Consigliere Roberto Garofoli Consigliere Roberto Giovagnoli Consigliere Est. e Rel. Presidente CLAUDIO VARRONE Consigliere ROBERTO GIOVAGNOLI DEPOSITATA IN SEGRETERIA CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - sentenza 25 novembre 2008 n. 5811 - Pres. Cossu, Est. Cacace Condominio Casa Smeralda A (Avv.ti Bruttomesso, Zambelli e Verino) c. Comune di San Michele Al Tagliamento (Avv.ti Borella e Lorenzoni) e La Maison s.a.s. di Mengo Daniele & C. (Avv.ti Munari e Costa) (riforma in parte T.A.R. Veneto, Sez. II, sent. n. 3187 del 2007). 1. Giustizia amministrativa - Appello incidentale - Appello incidentale c.d. improprio Termini per la proposizione - Sono gli stessi di quelli previsti per l’appello principale Decorrenza dei termini dalla notifica della sentenza - Sussiste. 2. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Natura giuridica Individuazione - Possibilità di impugnarla direttamente da parte dei terzi - Sussiste. 3. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Ha natura di autocertificazione - Potere della P.A. di annullarla decorsi i termini per la sua formazione - Sussiste. 4. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Decorso del termine di 30 giorni previsto - Conseguenze - Potere della P.A. di annullarla o revocarla - Sussiste - Potere dei terzi interessati di impugnarla in s.g. - Sussiste. 5. Edilizia ed urbanistica - Permesso di costruire - Rilascio - Requisito della disponibilità dell’area - Dovere del Comune di effettuare appositi accertamenti istruttori - In presenza di contestazioni circa la titolarità dell’area - Sussiste - Omissione di tali accertamenti Illegittimità. 1. L’appello incidentale è soggetto agli stessi termini dell’appello principale (decorrenti, nel caso di notifica della sentenza, dalla data della notifica stessa), ove l’impugnativa sia qualificabile come appello incidentale improprio, essendo proposta da soggetto soccombente (al pari di quello proponente l’appello principale) nel giudizio di primo grado; in tal caso, infatti, l’appellante incidentale fa valere un autonomo (se pure coincidente con quello dell’appellante principale) interesse a proporre gravame avverso la sentenza stessa e propone una domanda, riferita allo stesso capo della sentenza medesima impugnato principaliter, che la parte avrebbe potuto utilmente proporre anche mediante appello principale (1). 2. Poichè la denuncia di inizio dell’attività edilizia (d.i.a.) si traduce, in virtù di una preventiva valutazione legale tipica, nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività edilizia, deve ritenersi che i terzi possano agire innanzi al Giudice amministrativo, per chiederne l’annullamento, avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine entro cui l'Amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a. (2). 3. L’atto di comunicazione dell’avvio dell'attività, a differenza di quanto accade nel caso del c.d. silenzio-assenso, disciplinato dall'articolo 20 della legge n. 241-1990, non è una domanda, ma una informativa, alla quale è subordinato l'esercizio del diritto. Ed il provvedimento, rispetto al quale l'amministrazione potrà esercitare poteri di autotutela (non solo vincolati a carattere repressivo, ma anche discrezionali di secondo grado, come oggi espressamente previsto dal secondo periodo del comma 3 del nuovo art. 19 T.U. edilizia), si forma con l’esperimento di un ben delineato modulo procedimentale, all’interno del quale la d.i.a. costituisce pur sempre una autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell’intervento, sulla quale la P.A, svolge una attività eventuale di controllo, al tempo stesso prodromica e funzionale al formarsi, a séguito del mero decorso di detto periodo di tempo (e non, dunque, dell’effettivo svolgimento della attività medesima), del titolo necessario per il lecito dispiegarsi della attività del privato. 4. Nel caso di d.i.a., anche dopo il decorso del termine di trenta giorni previsto per la verifica dei presupposti e requisiti di legge, l'Amministrazione non perde i propri poteri di autotutela, né nel senso di poteri di vigilanza e sanzionatorii né nel senso di poteri espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado (estrinsecantisi nell’annullamento d’ufficio e nella revoca); mentre i terzi, che si assumano lesi dal silenzio prestato dall’Amministrazione a fronte della presentazione della d.i.a., si potranno gravare legittimamente non avverso il silenzio stesso, ma, nelle forme dell’ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo, che, formatosi e consolidatosi nei modi di cui sopra, si configura in definitiva come fattispecie provvedimentale a formazione implicita. 5. L'art. 4 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (riprodotto dall'art. 11 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 - T.U. edilizia), nel prevedere che la concessione edilizia (oggi permesso di costruire), sia rilasciata "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo", prevede anche che, in sede di rilascio, il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d'ufficio ad indagini su profili della stessa che non appaiano controversi. E se è vero che il potere-dovere così delineato in capo all’Amministrazione può limitarsi alla verifica dell’esistenza del possesso dell’area (e cioè del concreto esercizio, da parte del richiedente il titolo, del potere sulla cosa, che si concreta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale), tale accertamento attiene pur sempre ad un livello minimo di istruttoria, che va superato ed approfondito allorché, problematiche di asserita, indebita, appropriazione del fondo altrui insorgano già all’atto della domanda (3) (alla stregua del principio nella specie è stata ritenuta illegittima - per difetto di istruttoria adeguata - una autorizzazione, tacitamente assentita, per il fatto che il Comune non aveva adeguatamente valutato, pur in presenza di contestazioni circa la titolarità dell’area, il presupposto della disponibilità dell’area previsto dalle richiamate disposizioni). --------------------------------------(1) Cons. Stato, Sez. IV, 15 maggio 2002, n. 2597; 6 maggio 2003, n. 2364; 15 novembre 2004, n. 7449; 10 giugno 2005, n. 3068, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-06-10-4.htm; 26 maggio 2006, n. 3193; da ultimo, 31 maggio 2007, n. 2806 e 19 maggio 2008, n. 2299. In applicazione del principio nella specie l’appello incidentale proposto dal Comune, che costituiva appello incidentale improprio, è stato dichiarato irricevibile, in quanto proposto oltre il términe di sessanta giorni dalla data di notifica della sentenza di primo grado, che, com'è noto, è idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione nei confronti sia del notificando che del notificante. (2) Cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 5 aprile 2007, n. 1550, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_2007-04-05.htm e Sez. V, 20 gennaio 2003, n. 172. Ha ammesso tuttavia lealmente la Sez. IV - nell’affermare il principio - che la d.i.a. costituisce un istituto il quale, anche se previsto in via generale dall’art. 19 della legge n. 241/1990 (che ad ogni modo fa salve le discipline di settore: cfr. il comma 4), ha subito nel corso del tempo "una vera e propria frantumazione" in una pluralità di istituti diversi, ciascuno dei quali assoggettato ad un regime più o meno peculiare (v., sul punto, anche Cons. Stato, Sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916, in LexItalia.it. pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-07-22.htm). (3) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 marzo 2001 n. 1507. N.5811/2008 Reg. Dec. N. 122 Reg. Ric. Anno 2008 REPUBBLICAITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 122 del 2008, proposto da CONDOMINIO CASA SMERALDA A, in persona dell’Amministratore p.t., rappresentato e difeso dagli avv.ti Stefano Bruttomesso, Franco Zambelli e Mario Ettore Verino ed elettivamente domiciliato presso lo studio del terzo, in Roma, via Lima 15, contro il COMUNE di SAN MICHELE AL TAGLIAMENTO, in persona del Sindaco p.t., costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli avv.ti Alberto Borella e Fabio Lorenzoni ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in Roma, via del Viminale 43 e nei confronti di LA MAISON S.A.S. di Mengo Daniele & C. (già La Maison Sas di Mengo Silvia & C.), in persona del legale rappresentante p.t., costituitasi in giudizio, rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonio Munari e Michele Costa ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, via Bassano del Grappa, 24, per l’annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. II, n. 3187/07. Visto il ricorso, con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della controinteressata; Visto l’atto di costituzione in giudizio, nonché appello incidentale, del Comune appellato; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive domande e difese; Visti gli atti tutti della causa; Relatore, alla pubblica udienza dell’11 novembre 2008, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace; Uditi, alla stessa udienza, l’avv. Ludovico Villani, in sostituzione dell’avv. Mario Ettore Verino, per l’appellante principale e l’avv. Fabio Lorenzoni per l’appellante incidentale, e l’avv. Michele Costa; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FATTOeDIRITTO 1. – Con deliberazione n. 92 in data 28 settembre 2004 il Consiglio Comunale di San Michele al Tagliamento provvedeva a ridelimitare, all’interno del Piano Particolareggiato della Zona di Ricomposizione di Bibione, il comparto costituito dai terreni identificati nei mappali al foglio 49 nn. 431, 147, 430 e 506 (di cui il primo di proprietà della società odierna controinteressata e gli altri di proprietà dei Condomìnii "Smeralda A" e "Smeralda B"), dividendolo in due porzioni, di cui la prima costituita dal solo mappale 431 di proprietà della società controinteressata, la seconda dai restanti mappali, con ciò individuando due distinti ambiti ed attribuendo solo al primo la potenzialità edificatoria spettante in precedenza al comparto ai sensi della variante parziale al piano medesimo approvata con deliberazione dello stesso Consiglio n. 274 in data 22 dicembre 1993. Con la sentenza indicata in epigrafe, il primo Giudice ha in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto il ricorso (R.G. n. 3400/2004) proposto, tra gli altri, dall’odierno appellante principale, per l’annullamento sia della citata deliberazione che della successiva comunicazione fattane dal Comune all’Amministratore dei condomìnii, nonché per il conseguente risarcimento dei danni da detti atti derivanti. Il Collegio di prime cure, in particolare: dichiarava l’inammissibilità delle censùre volte all’affermazione dell’illegittimità degli atti impugnati per sottrazione ai Condominii di capacità edificatoria (come pure delle doglianze attinenti la mancata partecipazione al procedimento), sul rilievo che "i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare la delibera n. 274/93, con cui sono stati scolpiti i prodromi della successiva azione comunale oggi impugnata" ("è con tale delibera infatti", prosegue il T.A.R., "che non viene disposto lo scorporo attuando un trasferimento all’intero comparto, come sostengono gli istanti, ma solo, come detto, avuto riguardo ai lotti di pertinenza, sicchè era evidente fin da allora che avendo i Condomini già sfruttato, anche in eccesso, la loro capacità edificatoria, non avrebbero potuto godere di quote aggiuntive di volumetria, che invece veniva garantita alla sola proprietaria del lotto inedificato e al solo ed esclusivo fine di salvarne la edificabilità": pag. 15 sent.); respingeva, in quanto infondati, i residui motivi, rilevando, quanto alla dedotta illegittimità della contestata ridefinizione per intervenuta scadenza del Piano attuativo nel quale è inserito il comparto de quo, che "lo stesso è stato recepito nel PRG approvato nel 1985" (ibidem) e, quanto alla dedotta esistenza di una servitù parziale di inedificabilità sul mappale n. 431 in favore degli altri citati mappali del foglio n. 49 (che, pure, secondo l’assunto dei ricorrenti, valeva a viziare gli atti impugnati), che "relativamente all’esistenza della servitù la sentenza allegata dalla controinteressata ha respinto la domanda confessoria, escludendone dunque la sussistenza" (pagg. 15 – 16 sent.). 2. – Con la stessa sentenza è stato altresì deciso, previa riunione con il primo, accogliendolo, il ricorso (R.G. n. 863/2005) proposto dall’odierna controinteressata per l’annullamento del titolo edilizio rilasciato all’odierno appellante principale dal Comune di S. Michele al Tagliamento a seguito di denuncia inizio lavori n. 45.146 del 3.11.2004. Il Collegio di primo grado ha infatti ritenuto fondata la doglianza di mancato accertamento della sussistenza del titolo ad edificare, formulata dalla ricorrente con riguardo al fatto che il Comune non aveva prestato "la benché minima attenzione alle misure dei confini indicati nella D.I.A.", per effetto delle quali "il Condominio Smeralda A si è trovato … a fruire di un’area di proprietà dei terzi, nella fattispecie la ricorrente" (pag. 16 ric. orig.). 3. – Con il ricorso in epigrafe specificato il Condominio "Casa Smeralda A" (d’ora innanzi indicato come "Condominio") ha impugnato la sentenza in parola, in relazione ad entrambi i capi di decisione. Con apposito ricorso incidentale il Comune di S. Michele al Tagliamento ha parimenti aggredito la sentenza già gravata dal Condominio, nella parte in cui ha annullato il titolo edilizio rilasciato al Condominio stesso a séguito della denuncia inizio lavori in data 3 novembre 2004, relativa alla installazione di nuove strutture per la copertura di posti auto, sistemazione dell’area esterna, realizzazione di un tratto di recinzione e rifacimento della fognatura. Quanto, invece alla reiezione, operata con la stessa sentenza, dell’impugnazione proposta dal Condominio avverso la deliberazione consiliare n. 92 in data 28 settembre 2004, il Comune ne chiede la conferma. 4. - Si è costituita in giudizio, per resistere ad entrambi i ricorsi, la privata controinteressata, in primo grado resistente nel ricorso n. 3400/2004 ed attrice nel ricorso n. 863/2005. Le parti hanno poi affidato al deposito di memorie l’illustrazione delle rispettive tesi. La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica dell’11 novembre 2008. 5. – Devesi preliminarmente rilevare l’irricevibilità del ricorso incidentale proposto dal Comune avverso la statuizione della sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso n. 863/2005 (avente ad oggetto, come s’è visto, il titolo edilizio rilasciato al Condominio odierno appellante principale a séguito della denuncia inizio lavori in data 3 novembre 2004, relativa alla installazione di nuove strutture per la copertura di posti auto, sistemazione dell’area esterna, realizzazione di un tratto di recinzione e rifacimento della fognatura), alla stregua del condivisibile orientamento pretorio, che sottopone il ricorso incidentale agli stessi términi dell’appello principale (términi nella specie spirati alla data di notifica dello stesso), ove l’impugnativa, qualificabile come appello incidentale improprio, sia rivolta avverso la sentenza da soggetto soccombente (al pari di quello proponente l’appello principale) nel giudizio di primo grado, che dunque fa valere un autonomo (se pure coincidente con quello dell’appellante principale) interesse a proporre gravame avverso la sentenza stessa e propone una domanda, riferita allo stesso capo della sentenza medesima impugnato principaliter, che la parte avrebbe potuto utilmente proporre anche mediante appello principale (C. Stato, IV: 15 maggio 2002, n. 2597; 6 maggio 2003, n. 2364; 15 novembre 2004, n. 7449; 10 giugno 2005, n. 3068; 26 maggio 2006, n. 3193; da ultimo, 31 maggio 2007, n. 2806 e 19 maggio 2008, n. 2299). Nella specie detto appello è, come s’è detto, irricevibile, in quanto proposto oltre il términe di sessanta giorni dalla data di notifica della sentenza di primo grado (31 ottobre 2007), che, com'è noto, è idonea a far decorrere il términe breve di impugnazione nei confronti sia del notificando che del notificante. Per il resto, laddove invece l’appello incidentale proposto dal Comune resiste all’impugnazione principale chiedendo la conferma della sentenza gravata quanto alla statuizione di inammissibilità e reiezione del ricorso di primo grado n. 3400/2004, non può ritenersi preclusa la qualificazione dello stesso come memoria prodotta dal Comune a sostegno delle proprie difese. 6. – Nel mérito, l’appello principale del Condominio è fondato, nei términi che séguono, laddove impugna la sentenza di primo grado, nella parte in cui ha in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto il ricorso (R.G. n. 3400/04) rivolto avverso la deliberazione del Consiglio Comunale di San Michele al Tagliamento n. 92 in data 28 settembre 2004. 6.1 - Difformi da quelle raggiunte dal T.A.R. sono invero anzitutto le convinzioni maturate dal Collegio in ordine al rapporto esistente tra la deliberazione dello stesso Consiglio n. 274/93 (rimasta inoppugnata) e la delibera, oggetto del giudizio, n. 92/2004, rapporto, che, come già accennato, ha determinato la declaratoria di inammissibilità pronunciata dal T.A.R. in ordine a buona parte delle censùre avanzate con il ricorso originario. E’ sicuramente vero che, come affermato dal Giudice di primo grado, con la prima "sono stati scolpiti i prodromi della successiva azione comunale" (pag. 15 sent.). Con essa, invero, rileva il Collegio, il Comune ha provveduto alla ridefinizione dell’"Area Progetto n. 4" prevista dal "Piano Particolareggiato di Ricomposizione di Bibione", per "ricomprendervi", come espressamente sottolineano le considerazioni generali premesse alle controdeduzioni alle osservazioni alla relativa variante approvata con detta deliberazione del 1993, "per altro senza aumento di volumetria tutte le aree occorrenti alla realizzazione dell’impianto termale talasso-terapico" (la cui realizzazione rappresenta la finalità precipua della variante medesima) ed escluderne le aree già "prevalentemente edificate" (così le considerazioni medesime). Tra le aree così escluse rientrano appunto i lotti, di cui qui si tratta (foglio 49 – mappali nn. 431, 147, 430 e 506, di cui il primo di proprietà della società odierna controinteressata e gli altri di proprietà dei Condomìnii "Smeralda A" e "Smeralda B"), i quali, con detta deliberazione, risultano dunque classificati, pur sempre all’interno del Piano Particolareggiato, come "unica U.M.I." e sottratti "all’area Progetto n. 4 nella quale erano precedentemente inseriti" (così le premesse della deliberazione n. 18/2004 in primo grado impugnata). La possibilità edificatoria attribuita all’unità minima di intervento così individuata dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 274/93 (all’uopo scomputata da quella attribuita alla nuova "area Progetto 4" alla luce del criterio fondamentale, posto a base della variante con la stessa approvata, di "conservazione dei disposti della precedente normativa di P.P. riguardo alla volumetria massima insediabile …") veniva quantificata in mc. 7.000= e qualificata come "eccedenza volumetrica"; ciò perché, come risulta dalla necessaria ricostruzione dell’intera vicenda condotta alla stregua degli atti tutti di causa, gli edificii "Smeraldo" avevano sviluppato "una volumetria edificata … maggiore a quella massima ammessa per la superficie fondiaria di pertinenza" per mc. 3.200= (ch’erano appunto quelli, il cui scomputo dall’area Progetto n. 4 era previsto dalla deliberazione di Giunta Municipale di adozione della variante, poi approvata con la deliberazione consiliare n. 274/93, al fine di garantire comunque il rispetto della complessiva volumetria prevista dal Piano Particolareggiato anteriormente alla variante) e che vengono poi incrementati, in sede di approvazione, di mc. 3.800=, pur mantenendone l’ormai del tutto inesatta qualificazione di "eccedenza", al fine espresso di "restituire" (o, meglio, conservare) al lotto inedificato ricompreso nella nuova U.M.I (il mappale n. 431, cioè quello di proprietà dell’odierna controinteressata) "la propria capacità edificatoria", o, come testualmente si legge nella proposta (poi accolta dal Consiglio Comunale con la ridetta deliberazione n. 274/93) di parziale accoglimento dell’osservazione in tal senso presentata dalla società allora proprietaria di detta area, di "lasciare all’area di proprietà della ditta Mc Bells S.r.l., sotto il profilo urbanistico, la volumetria originaria". Orbene, se è vero che con la veduta deliberazione n. 274/93 veniva assegnata al nuovo comparto di cui si tratta (identificato nella Tav. 6 alla stessa allegata come Unità Minima di Intervento), costituito da tutti i lotti sopra individuati, una capacità edificatoria di mc. 3.800= (e non certo di mc. 7.000, come sembrano equivocare tanto le parti quanto il T.A.R. - a ciò peraltro indotti dalla infelice formulazione della deliberazione stessa – allorché non tengono conto del fatto che la volumetria detratta dalla nuova area di Progetto n. 4 corrispondeva, per mc. 3.200=, ad edificazioni già realizzate, che, se pure attuate anteriormente all’approvazione del Piano Particolareggiato, rientrano certamente nella volumetria complessiva dallo stesso prevista) e se è altrettanto vero che detta capacità veniva dall’Amministrazione così quantificata per lasciare, come s’è visto, "all’area di proprietà della ditta … la volumetria originaria", ciò non significa, ad avviso del collegio, che la sua mancata impugnazione ad opera del Condominio proprietario di alcune delle aree inserite in detta U.M.I. (mancata impugnazione, che vale certamente a considerare come non più suscettibili di esame, riconsiderazione od opposizione in sede giudiziale le relative statuizioni), nella misura in cui rende definitiva la lesione indubbiamente con la stessa prodottasi in capo al Condominio odierno appellante, renda, così come ritenuto dal T.A.R. qualificandola di fatto come meramente esecutiva della prima, non suscettibile di impugnazione la deliberazione n. 92/2004 oggetto del presente giudizio. Ciò perché, semplicemente, la prima delle citate deliberazioni non esaurisce l’arco delle lesioni apportate nella sfera giuridica del Condominio dal complessivo, combinato, disposto delle due deliberazioni in considerazione. Ferme, invero, le conclusioni di cui sopra in ordine al contenuto (come s’è detto non certo limpido nella sua formulazione letterale) della deliberazione consiliare del 1993, occorre considerare che mentre tale deliberazione attribuisce la residua capacità edificatoria delle aree di cui si tratta (pur con la significativa specificazione che il computo della stessa deriva dalla ravvisata necessità di conservazione della capacità stessa in precedenza riferibile al solo lotto inedificato e cioè al mappale n. 431) pur sempre alla Unità Minima di Intervento (ch’è appunto "unica") composta da tutti i mappali confluenti nella stessa a séguito della effettuata esclusione dei medesimi dalla nuova area di Progetto n. 4, è con la seconda deliberazione (quella del 2004, contro la quale l’odierna appellante principale ha diretto il ricorso in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto dal T.A.R.) che si realizza la modifica del comparto, di cui si tratta, ridelimitandolo in due distinti ambiti di intervento ed attribuendo la volumetria prima riferibile all’intera unità di intervento al solo mappale n. 431 (di proprietà della odierna controinteressata), che svilupperà appunto "la volumetria prevista ed ottenuta dalla sommatoria dei terreni di proprietà, con l’applicazione dell’indice fondiario previsto dal P.P. pari a 3 mc/mq." (punto 2) del dispositivo della deliberazione n. 92/2004) e cioè proprio all’incirca i 3.800 mc., di cui sopra s’è detto. Ordunque, tanto certamente comporta, per il Condominio appellante principale, una lesione del tutto autonoma e distinta da quella pur derivantegli dalla ormai consolidata deliberazione del 1993, giacché è la deliberazione del 2004, come veniva dedotto con il ricorso originario, che viene ad "alterare il principio della unitarietà dei beni (e dei soggetti) che fanno parte … del comparto": pag. 6) ed è con essa, come ulteriormente precisato in appello, "che è stata portata a compimento l’operazione di scissione e ridelimitazione del comparto, con successiva creazione di due distinte unità di intervento", laddove "in epoca anteriore all’adozione e approvazione della delibera n. 92/’04, i mappali nn. 147, 430, 506 e 431, tutti ricompresi nel medesimo fg. N. 49, costituivano un aggregato di aree che dava vita ad un complesso edilizio di carattere unitario", al quale soltanto "ci si poteva e doveva riferire, pena la violazione della funzione e della disciplina che la legge prevede per i comparti" (pag. 9). Ed invero, rileva il Collegio, prima delle scelte effettuate dall’Amministrazione con la contestata deliberazione consiliare del 2004, i fondi del ricorrente erano ricompresi, insieme con quelli di proprietà della controinteressata, in un unico comparto, nella cui logica, se è vero che le costruzioni, sulla base della disciplina del 1993 di individuazione del comparto stesso, dovevano necessariamente trovare collocazione entro una zona di concentrazione volumetrica dislocata su fondi di proprietà di soggetti diversi dal ricorrente, ciò non escludeva peraltro una possibile redistribuzione concordata dei diritti edificatòrii (attribuiti dal piano sempre e comunque al comparto in quanto tale, nella misura in cui pure la deliberazione del 1993 ne aveva comunque stabilito l’unità) e, comunque, ai fini della realizzazione di ogni iniziativa edificatoria nell’àmbito del comparto stesso, la necessità di collaborazione fra i privati e fra questi e l’Amministrazione, in un contesto, reso inevitabile dalla stessa logica del comparto, di necessaria consensualità. Con la scissione del comparto, operata con la deliberazione del 2004, viene invece chiaramente meno il dinamismo, incentrato su una scelta volontaria e concordata di tutti i proprietarii delle aree in esso incluse, in cui si sostanzia la vicenda di attuazione del comparto, che comporta, come s’è detto, sulla base di scelte volontarie (e potestative) di ciascun proprietario, il consenso di tutti i soggetti coinvolti. Quanto detto rende meglio percepibile la lesione determinata dalla deliberazione oggetto del giudizio in capo all’odierno appellante principale, che vede con essa sfumare il maggior vantaggio derivantegli dalla necessità della sua adesione alla vicenda di attuazione dell’unitario comparto, rispetto a quello, cui può aspirare rimanendo estraneo, in forza appunto dell’effettuata scissione del comparto, all’iniziativa riguardante un ambito, sulle scelte riguardanti il quale non è più in grado di influire. In definitiva sul punto, nessun ostacolo sembra frapporsi, a differenza di quanto ritenuto dal T.A.R., alla ammissibilità del ricorso di primo grado, le cui doglianze sono poi state dal ricorrente riprodotte in appello. 6.2 - Fondati ed assorbenti si rivelano i motivi attinenti alle violazioni procedimentali denunciate con il terzo motivo del gravame introduttivo. Occorre in proposito ricordare che, come esattamente rilevato dal Giudice di primo grado, il Piano Particolareggiato in questione "è stato recepito nel PRG approvato nel 1985" (pag. 15 sent.). Come risulta infatti dagli atti di causa, le norme di attuazione dello strumento urbanistico attuativo di cui si tratta sono state assunte "come parti integranti il presente P.R.G." (art. 1.3 delle Norme di Attuazione delle Varianti Generali al P.R.G. entrate in vigore il 15 aprile 1985). Orbene, poiché l’inquadramento dei lotti in questione (esclusi dal perimetro della nuova area Progetto n. 4) come Unità Minima di Intervento, operato con la non più contestabile deliberazione del consiglio comunale n. 274/1993, è stato effettuato mediante "integrazione e/o sostituzione delle norme tecniche di attuazione del Piano Particolareggiato" (v. punto 1. delle "Norme Tecniche di Attuazione" – All. 7 alla deliberazione medesima) e poiché dette norme sono sussunte, come s’è visto, quali NN.TT.A. del P.R.G. (in forza del rinvio dinamico contenuto nel veduto art. 1.3 delle NN.TT.A. del P.R.G. del 1985), non v’è dubbio, a parere del collegio, che la ridelimitazione compiuta con la controversa deliberazione consiliare n. 92/2004 venga ad incidere sulle previsioni delle NN.TT.A. del P.R.G. e dunque costituisca variante al P.R.G. medesimo. Nell’esercizio, dunque, del potere/dovere del Giudice di qualificare giuridicamente l’azione ed i provvedimenti oggetto della stessa e di attribuire, anche in difformità rispetto alla qualificazione della fattispecie operata dalle parti, il corretto nomen iuris al rapporto dedotto in giudizio ed ai suoi elementi costitutivi, la variazione dell’àmbito territoriale del comparto di cui si tratta, sebbene ricondotta dal Comune nell’atto deliberativo in esame alla previsione dell’art. 18 della Legge regionale n. 61/1985 (il che rende irrilevante la pur fondata questione, dedotta dal ricorrente, della comunque indubbia intervenuta scadenza, alla data di approvazione della variazione stessa, del Programma Particolareggiato, nel quale l’àmbito medesimo si inserisce, atteso che, sulla base di detta previsione, la delimitazione dell’àmbito territoriale del comparto può essere deliberata o variata "anche separatamente" dal piano urbanistico attuativo o dal Programma pluriennale di attuazione), va piuttosto annoverata fra le "varianti parziali", di cui all’art. 50 della stessa legge regionale, ch’è proprio la norma, di cui l’appellante, se pure senza qualificare esattamente la concreta natura dell’impugnato atto di variazione dell’àmbito, denuncia la violazione, per l’indubbia omissione, nel concreto procedimento nella fattispecie posto in essere dal Comune, delle garanzie procedurali dalla stessa stabilite; omissione in ogni caso sussistente, che rientri la variante de qua tra quelle di cui al comma 2, o tra quelle di cui ai commi 4 e 9 dello stesso articolo. 7. – L’appello principale, in definitiva, è, quanto all’impugnazione del capo di sentenza che ha in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto l’originario ricorso n. 3400/04, da accogliere, con conseguente accoglimento del ricorso stesso, in riforma della sentenza impugnata. Ciò, si badi, in relazione al solo petitum di annullamento fatto valere con detto ricorso, dovendosi invece respingere la domanda di risarcimento danni, con lo stesso avanzata e riproposta in appello, non avendo il ricorrente offerto prova alcuna né dell’intervenuta attuazione dell’intervento avverso, né dei danni subiti in conseguenza della sola deliberazione di ridelimitazione qui annullata e devolvendo peraltro al Giudice, e per esso al C.T.U., anche qui del tutto inammissibilmente, oneri probatorii incombenti esclusivamente sul ricorrente stesso. 8. – Quanto ritenuto dal primo Giudice va invece confermato e l’appello principale va pertanto per tal verso respinto, in relazione all’accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005, proposto dall’odierna controinteressata per l’annullamento del titolo edilizio rilasciato all’odierno appellante principale dal Comune di S. Michele al Tagliamento a seguito di denuncia inizio lavori n. 45.146 del 3.11.2004. 8.1 – Sotto il profilo, invero, della ammissibilità del sindacato giurisdizionale sulla legittimità della D.I.A., ad avviso del Collegio questa si traduce, in virtù di una preventiva valutazione legale tipica, nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività edilizia, con la conseguenza che i terzi possono agire innanzi al Giudice amministrativo, per chiederne l’annullamento, avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine, entro cui l'Amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a." per chiederne l'annullamento (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 5.4.2007, n. 1550 e sez. V, 20.1.2003, n. 172). Un orientamento diverso non è, ritiene la Sezione, praticabile. Occorre preliminarmente, in proposito, rilevare che, in relazione all’istituto in parola, previsto in via generale dall’art. 19 della legge n. 241/1990 (che ad ogni modo fa salve le discipline di settore: cfr. il comma 4), il moltiplicarsi della normativa in materia ha portato ad una vera e propria frantumazione dell'istituto in parola in una pluralità di istituti diversi, ciascuno dei quali assoggettato ad un regime più o meno peculiare (v., sul punto, Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916). Sulla base dell'interpretazione tradizionale, che della denuncia d'inizio attività hanno dato sia ampi settori della giurisprudenza (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453), sia parte della dottrina, va escluso che dalla D.I.A. possa nascere un atto amministrativo, perché si tratterebbe di atto soggettivamente e oggettivamente privato, che ha soltanto il valore di una comunicazione fatta dal privato alla Pubblica Amministrazione circa la propria intenzione di realizzare un'attività direttamente conformata dalla legge e non necessita di titoli provvedimentali (sulla natura di mera informativa della D.I.A. v. anche Cass. civ., Sez. I, 24 luglio 2003, n. 11478); sì che, si conclude sulla base di tali premesse, la domanda di annullamento della D.I.A. è inammissibile, in quanto la D.I.A. è e rimane un mero atto di iniziativa privata, per ciò solo non impugnabile davanti al Giudice Amministrativo. Da una tale ricostruzione dell'istituto sorgono tuttavia rilevanti problemi sostanziali e processuali. Si è posto in particolare l’articolato problema dell'esatta natura giuridica del silenzio eventualmente mantenuto dall'amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia di inizio attività (nello specifico modulo delineato in materia edilizia dalla legge n. 662/1996), dei rimedii giurisdizionali di cui il terzo dispone per opporsi all'esecuzione dei lavori intrapresi in base alla semplice denuncia del loro inizio da parte dell'interessato (in particolare nel caso che l'Amministrazione non adotti un formale provvedimento inibitorio nel termine dei venti giorni prescritti dalla norma, prima che l'attività denunciata possa essere intrapresa dall'interessato) e, dunque, se il comportamento silente in questione sia giuridicamente qualificabile come "inadempimento" e come tale sia quindi giustiziabile (solo) secondo il rito speciale di cui all'art. 21-bis della legge n. 1034 del 1971 (tesi appunto sostenuta qui dall’appellante principale). Alla risoluzione del problema concorrono, sottolinea il Collegio, una serie di elementi logico-normativi. Occorre premettere che l'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e successive modificazioni (sostituendo il testo dell'art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito nella legge 4 dicembre 1993, n. 493) ha introdotto nel nostro ordinamento la facoltà di eseguire taluni specifici interventi edilizi previa mera Denuncia di Inizio di Attività, ai sensi e per gli effetti dell'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel testo sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1993, n. 537), per cui in tali casi l'atto di consenso dell’Amministrazione si intende sostituito dalla D.I.A. (c.d. "deregulation"). Il comma undicesimo dell'art. 4 della citata legge 4 dicembre 1993 n. 493 e ss. mm. statuiva, in particolare, che: "Nei casi di cui al comma 7°, venti giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, l'interessato deve presentare la denuncia di inizio dell'attività, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato, nonché dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati ed ai regolamenti edilizi vigenti ...". Disponeva, poi, il comma quindicesimo del medesimo art. 4 che: "Nei casi di cui al comma 7°, il Sindaco, ove entro il termine indicato al comma 11°, sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica agli interessati l'ordine motivato di non effettuare le previste trasformazioni e, nei casi di false attestazioni dei professionisti abilitati, ne dà contestuale notizia all'autorità giudiziaria ed al consiglio dell'ordine di appartenenza". Insomma, alla stregua di dette norme, spettava all'Autorità Comunale, nel termine di venti giorni dalla presentazione della denuncia (periodo che doveva essere lasciato libero prima di iniziare i lavori), verificare d'ufficio la sussistenza dei presupposti della procedura ed il rispetto delle prescrizioni di legge; qualora venisse riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, spettava al dirigente del competente ufficio comunale (in virtù dello spostamento di competenze gestorie operato dall'art. 45 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80) ordinare agli interessati, con provvedimento motivato da notificarsi entro il termine anzidetto, di non effettuare le previste trasformazioni. A disciplinare siffatta D.I.A. è poi sopravvenuto il T.U. in materia edilizia 6 giugno 2001, n. 380. Esso, nell’abrogare il ridetto art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito nella legge 4 dicembre 1993, n. 493 (art. 136, comma 1, lett. g)), ha modificato il veduto assetto normativo. In particolare, l'art 23 (R) [ la cui rubrica reca: - (L comma 3 e 4 - R comma 1, 2, 5, 6 e 7) (Disciplina della denuncia di inizio attività) - (legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 2, comma 10, che sostituisce l'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241; decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, art. 4, commi 8-bis, 9, 10, 11, 14, e 15, come modificato dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 10 del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669) ] prescrive che: - comma 1: "il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia ..."; - comma 5: "la sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della denuncia, l'elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l'attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari"; - comma 6: "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento ... ". Il T.U. per l'edilizia ha, quindi, espressamente collocato allo scadere del trentesimo giorno dalla notificazione della D.I.A. il termine dopo il quale l'interessato può iniziare i lavori ed il termine ultimo entro il quale la P.A. può inibire l'inizio delle opere; in altre parole, ha unificato i due termini in questione, ampliando quello relativo all'inizio dei lavori e dimezzando quello relativo all'adozione di eventuali misure inibitorie preventive (Cons. St., V, 29 gennaio 2004, n. 308). Ciò premesso, va poi ricordato che la D.I.A. edilizia costituisce species (la cui disciplina prevale sui quella generale) di un particolare tipo di procedimento semplificato ed accelerato, introdotto, come s’è già detto, in via generale dall'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, riguardante, appunto, la c.d. denuncia di inizio di attività, il cui aspetto contenutistico e sostanziale va oggi valutato alla luce delle modificazioni apportate all’istituto dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. Si tratta invero di un istituto del tutto peculiare (che consente oggi al privato l’esercizio di una certa attività comunque rilevante per l’ordinamento, già subordinato a qualsivoglia forma di autorizzazione - il cui rilascio dipendesse esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti fissati dalla legge o da atto amministrativo generale - a prescindere dalla emanazione di un espresso provvedimento amministrativo), comunque assimilabile ad una istanza autorizzatòria, che, con il decorso del términe di legge, provoca la formazione di un "titolo", che rende lecito l’esercizio dell’attività e cioè di un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza. Si prevede a tal fine una doppia comunicazione da parte del privato. La prima consiste in una dichiarazione dell’interessato, "corredata, anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste". Con la seconda, il soggetto comunica che ad una certa data (non anteriore ai trenta giorni dalla presentazione della anzidetta dichiarazione) inizierà una certa attività (di solito produttiva) e, se entro un termine stabilito decorrente da tale comunicazione (trenta giorni, il cui computo inizia dal momento in cui la stessa sia stata ricevuta al protocollo generale dell’ente) l'Amministrazione non ne inibisce la prosecuzione (con un atto che ha natura di accertamento dei motivi giuridico-fattuali ostativi allo svolgimento dell’attività e dunque del tutto analogo ad un provvedimento di diniego di un atto autorizzatòrio dell’attività medesima, sì che deve ritenersi in tal caso applicabile il disposto dell’art. 10-bis della legge n. 241/90 e che invece, verificandosi in tale ipotesi una sorta di inversione procedimentale, non necessita di previa comunicazione dell’avvio del procedimento: Consiglio Stato, sez. VI, 23 dicembre 2005, n. 7359), il titolo si consolida, salvo, naturalmente, l'intervento successivo di interdizione dell'attività, che può intervenire in tutti i casi di accertamento della mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti, al cui possesso l’ordinamento di settore subordini l’espletamento dell’attività medesima (Cons. St., IV, 26 luglio 2004, n. 5323). L’atto di comunicazione dell’avvio dell'attività, a differenza di quanto accade nel caso del c.d. silenzio assenso, disciplinato dall'articolo 20 della stessa legge n. 241-1990, non è una domanda, ma una informativa, cui è subordinato l'esercizio del diritto. E il provvedimento, rispetto al quale l'amministrazione potrà esercitare poteri di autotutela (non solo vincolati a carattere repressivo, ma anche discrezionali di secondo grado, come oggi espressamente previsto dal secondo periodo del comma 3 del nuovo art. 19), si forma con l’esperimento di un ben delineato mòdulo procedimentale, all’interno del quale la D.I.A. costituisce pur sempre una autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell’intervento, sulla quale la pubblica amministrazione svolge una attività eventuale di controllo, al tempo stesso prodromica e funzionale al formarsi, a séguito del mero decorso di detto periodo di tempo (e non, dunque, dell’effettivo svolgimento della attività medesima), del titolo necessario per il lecito dispiegarsi della attività del privato. Quanto al decorso del termine di trenta giorni, sembra ormai chiaro: - che il consolidamento del titolo non possa comportare la possibilità che l'attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi lecitamente effettuata e dunque possa andare esente dalle sanzioni previste dall’ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi; - che il titolo stesso, in tal caso, possa esser fatto oggetto, alle condizioni previste in via generale dall’ordinamento, di interventi di annullamento d’ufficio o révoca da parte dell’Amministrazione. In proposito, sembra decisivo: - il fatto che l'art. 21 della legge n. 241 del 1990 stabilisce che le sanzioni già previste per le attività svolte senza la prescritta autorizzazione siano applicate quando una attività, pur dopo la comunicazione all'amministrazione, venga iniziata in mancanza dei requisiti richiesti o comunque in contrasto con le disposizioni di legge (comma 2) e che lo stesso art. 21, al comma 2-bis, configura l’inizio della attività "ai sensi degli articoli 19 e 20" non preclusivo dell’esercizio delle "attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti"; - che la veduta odierna previsione espressa del potere dell’Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela (v. il comma 3 del nuovo art. 19) presuppone un provvedimento, o comunque un titolo, su cui intervenire; - che, con specifico riferimento alla D.I.A. edilizia, il comma 2-bis dell’art. 38 del D.P.R. n. 380/01 prevede la possibilità di "accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo", detta ipotesi equiparando ai casi di "permesso annullato"; - che l’esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell’interesse pubblico affidato all’una od all’altra branca dell’Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.; - che, nella specifica materia dell’attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), vòlto ad "assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi", è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001). Pertanto, anche dopo il decorso del termine di trenta giorni previsto per la verifica dei presupposti e requisiti di legge, l'Amministrazione non perde i proprii poteri di autotutela, né nel senso di poteri di vigilanza e sanzionatorii, né nel senso di poteri espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado (estrinsecantisi nell’annullamento d’ufficio e nella révoca, a proposito dei quali va peraltro rilevato che, nell'ipotesi in cui la legittimità dell'opera edilizia dipenda da valutazioni discrezionali e di merito tecnico che possono mutare nel tempo, il potere di autotutela, esercitabile con riferimento ad una d.i.a. anche quando sia ormai decorso il termine di decadenza per l'esercizio dei poteri inibitori ex art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380/01, deve essere opportunamente coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa); mentre i terzi, che si assumano lesi dal silenzio prestato dall’Amministrazione a fronte della presentazione della d.i.a., si graveranno legittimamente non avverso il silenzio stesso, ma, nelle forme dell’ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo, che, formatosi e consolidatosi nei modi di cui sopra, si configura in definitiva come fattispecie provvedimentale a formazione implicita. Né alla opposta tesi, di cui si fa in questa sede portatore l’appellante principale, può aderirsi nemmeno in relazione al periodo, che viene appunto qui in considerazione in relazione alla data di formazione del titolo oggetto del giudizio, anteriore alle modifiche apportate all’istituto dalla legge n. 80/2005, atteso che la veduta introduzione, ad opera di detta legge, di poteri di autotutela in capo all’amministrazione, pur certamente significativa ai fini della ricostruzione dell’istituto come sopra operata, non sembra tuttavia decisiva, ed autonomamente rilevante, ai fini della stessa e della risultante qualificazione dell’istituto stesso; la quale, legata, come s’è visto a ben più ampi e diversificati presupposti e riscontri di carattere logico e normativo, non può che essere riferita anche ai provvedimenti formatisi anteriormente alla novellazione della legge n. 241/1990 operata dal legislatore del 2005, rilevando in particolare, per quanto specificamente attiene alla D.I.A. edilizia, l'art. 38, comma 2 bis e dall'art. 39, comma 5 bis, del D.P.R. n. 380/2001, in forza dei quali risultano estese agli interventi realizzati con D.I.A. sia la disciplina degli interventi eseguiti in base a permesso annullato (il che presuppone evidentemente che la D.I.A. costituisca un titolo suscettibile di annullamento), sia la possibilità di annullamento straordinario da parte della Regione. 8.2 - Superato lo scoglio della questione di ammissibilità dell’impugnazione della D.I.A., quanto al mérito della questione, che si pone a proposito della D.I.A. oggetto del presente giudizio, il T.A.R. ha concluso per la sua illegittimità, ritenendo che il Comune abbia omesso di verificare la sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti necessarii per assentire (tacitamente) l’intervento richiesto ed in particolare del titolo di proprietà di una fascia di terreno, secondo la ricorrente originaria di sua proprietà. La statuizione del giudice di primo grado resiste al proposto appello e dev’essere, come già detto, confermata. L'art. 4 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, attualmente riprodotto dall'art. 11 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (t.u. edilizia), prevede che la concessione edilizia, oggi permesso di costruire, sia rilasciata "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo": in proposito, costante giurisprudenza (v., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2001 n. 1507) afferma allora che, in sede di rilascio, il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d'ufficio ad indagini su profili della stessa che non appaiano controversi. E se è vero, come qui sostiene l’appellante principale, che il potere/dovere così delineato in capo all’Amministrazione può limitarsi alla verifica dell’esistenza del possesso dell’area (e cioè del concreto esercizio, da parte del richiedente il titolo, del potere sulla cosa, che si concreta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale), tale accertamento attiene pur sempre ad un livello minimo di istruttoria, che va superato ed approfondito allorché, come appunto avviene nel caso di specie e come ampiamente documentato in atti dall’originaria ricorrente, problematiche di asserita, indebita, appropriazione del fondo altrui insorsero già all’atto dell’edificazione dei condomìnii, cui ineriscono le opere, di cui alla D.I.A. in argomento. Una tale verifica, imposta dai più volte citati artt. 4 della legge n. 10/1977 ed 11 del d.P.R. n. 380/2001 (che, nel richiedere la sussistenza di un titolo legittimante, non possono che riferirsi alla concreta estensione del diritto vantato e fatto valere avanti all’Amministrazione, senza che per questo debba ritenersi devoluto alla stessa il definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti ch’è la giurisdizione ordinaria), è nell’istruttoria all’esame del tutto mancata, sì che della stessa deve farsi càrico l’Amministrazione stessa nella riedizione dell’attività amministrativa imposta dall’effetto conformativo scaturente dalla presente decisione. 8.3 – L’appello principale va dunque in tale parte respinto, con conseguente conferma dell’impugnata decisione quanto alla statuizione di accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005. 9. – In definitiva, l’appello principale va accolto in parte, nei termini di cui sopra, con conseguente accoglimento, in riforma della sentenza impugnata, dell’originario ricorso n. 3400/04 quanto al solo petitum di annullamento e conferma dell’impugnata decisione quanto alla statuizione di accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005. L’appello incidentale del comune va invece dichiarato irricevibile. Le spese del doppio grado, in ragione della reciproca parziale soccombenza, possono essere integralmente compensate fra le parti. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe: accoglie in parte l’appello principale, nei sensi e limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata quanto alla statuizione di accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005, mentre, in riforma della sentenza stessa, accoglie l’originario ricorso n. 3400/04 quanto al solo petitum di annullamento; dichiara irricevibile l’appello incidentale. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, addì 11 novembre 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati: Luigi Cossu - Presidente Luigi Maruotti - Consigliere Pier Luigi Lodi - Consigliere Goffredo Zaccardi - Consigliere Salvatore Cacace - Consigliere,rel.est. L’ESTENSORE IL PRESIDENTE Salvatore Cacace Luigi Cossu CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 5 aprile 2007 n. 1550 - Pres. Ruoppolo, Est. Chieppa - Impresa Traverse S. Giorgio s.r.l. (Avv.ti Pellegrino e Cugurra) e Meccanica Immobiliare s.r.l. (Avv.ti Andreoli e Pellegrino) c. Comune di Collecchio (n.c.), Deber Costruzioni s.r.l. (Avv.ti Coffrini e Colarizi) ed Impresa Treverse S. Giorgio s.r.l. (n.c.) - (previa riunione di due appelli, annulla T.A.R. Emilia Romagna Sez. di Parma, sent. n. 296 del 2006). 1. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Natura giuridica Individuazione. 2. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Decorso del termine di 30 giorni - Comporta la formazione di una autorizzazione implicita - Impugnabilità di tale provvedimento implicito in via diretta da parte del terzo - Possibilità - Sussiste Oggetto del ricorso proposto dal terzo - Individuazione. 3. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Impugnazione Decorrenza del termine per l’impugnazione - Individuazione. 4. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Impugnazione Decorrenza del termine per l’impugnazione - Nel caso di intervento da eseguire in zona soggetta a tutela - Individuazione. 5. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Per la realizzazione di alcuni silos e di apparecchiature al servizio di un preesistente impianto produttivo Sufficienza. 1. La denuncia di inizio di attività (d.i.a.) non è uno strumento di liberalizzazione dell’attività, come da molti sostenuto, ma rappresenta una semplificazione procedimentale, che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni) dalla presentazione della denuncia; la liberalizzazione di determinate attività economiche è cosa diversa e presuppone che non sia necessaria la formazione di un titolo abilitativo. 2. Nel caso di denuncia di inizio di attività (d.i.a.), con il decorso del termine di 30 giorni si forma una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di 60 giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a. Il ricorso avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. ha, quindi, ad oggetto non il mancato esercizio dei poteri sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente l’assentibilità, o meno, dell’intervento (1). 3. Il termine per impugnare la d.i.a. decorre dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a. In caso di d.i.a edilizia, infatti, il titolo abilitativo si forma decorsi trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. per effetto del mancato esercizio dei poteri dell’amministrazione (art. 23, commi 1 e 6, d.P.R. n. 380/2001). 4. Nel caso di d.i.a. per un intervento ricadente in zona paesaggisticamente vincolata, il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ed ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti (art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380/2001). 5. La installazione di due silos e di apparecchiature al servizio di un preesistente impianto produttivo è assoggettata non già a permesso di costruire, ma a d.i.a., trattandosi di impianti tecnologici destinati al servizio di edifici ed attrezzature esistenti (nella specie peraltro i detti impianti rientravano nell’ipotesi di cui all’art. 8, comma 1, lett. i), della L. Reg. Emilia n. 31/2002). ------------------------------------- (1) Nella motivazione della sentenza in rassegna, si dà atto lealmente della circostanza che in materia di d.i.a. si sono formati tre orientamenti diversi: a) secondo un primo orientamento, la d.i.a costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che, in presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a formazione complessa, attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che sarebbe così liberalizzata; secondo questo primo orientamente, pertanto, colui che si oppone all'intervento autorizzato tramite d.i.a., una volta decorso il termine senza l'esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza del generale potere repressivo degli abusi edilizi, sarebbe legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto (Cons. Stato, IV, 22 luglio 2005, n. 3916, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-0722.htm). b) secondo altra tesi, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l'adempimento delle prestazioni che la p.a. avrebbe omesso di svolgere (T.A.R. Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n. 397, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarlombbre_2001-06-01.htm), o l'annullamento della determinazione formatasi in forma tacita (in tal senso: implicitamente, Cons. Stato, VI, 10 giugno 2003 n. 3265 e, espressamente, V, 20 gennaio 2003 n. 172; T.A.R. Veneto, Sez. II, 20 giugno 2003, n. 3405, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarveneto2_2003-06-20.htm) o comunque per contestare la realizzabilità dell'intervento (Cons. Stato, VI, 16 marzo 2005 n. 1093). c) secondo un ulteriore orientamento, il terzo sarebbe legittimato (entro il termine di decadenza) all'instaurazione di un giudizio di cognizione, tendente ad ottenere l'accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per la legittima intrapresa dei lavori a seguito di d.i.a. (T.A.R. Liguria, Sez. I, 22 gennaio 2003 n. 113 in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarliguria1_2003-01-22.htm e T.A.R. Abruzzo, Sez. Pescara, 23 gennaio 2003 n. 197, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2003-01-23.htm). La Sez. VI ha ritenuto con la sentenza in rassegna che il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. sia ammissibile. E' stato osservato in proposito che un sostegno in favore della diretta impugnazione della d.i.a.. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19, della legge n. 241/90 (con l’art. 3 del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla L. 14 maggio 2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a.. il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. Ha osservato al riguardo la Sez. VI che, se è ammesso l’annullamento di ufficio, parimenti, e tanto più, deve essere consentita l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo. Tale disposizione, pur non essendo temporalmente applicabile alla fattispecie affrontata dalla Sez. VI con la sentenza in rassegna, può essere letta come riconoscimento da parte del legislatore della natura provvedimentale del titolo abilitativo che si forma in seguito ad una d.i.a.. Nello stesso senso sembrerebbe essersi orientato il legislatore già in precedenza: nel T.U. edilizia l'applicabilità degli artt. 38 (interventi eseguiti in base a permesso annullato) e 39 (annullamento del permesso di costruire da parte della Regione) è stata estesa anche agli interventi di cui all'art. 22, comma 3, assoggettati a d.i.a.. In definitiva, secondo la Sez. VI, in caso di intervento assentito a seguito di d.i.a., è ammissibile il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine di trenta giorni, entro cui l’amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a. In senso opposto v. tuttavia da ult. Cons. Stato, Sez. V, 22 febbraio 2007, n. 948, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds5_2007-02-22-4.htm (sulla inammissibilità dell’impugnativa diretta della d.i.a. e sulla necessità che essa sia preceduta da una diffida all’Autorità comunale tendente a sollecitare i poteri repressivi alla stessa spettanti). Intermedia è la posizione della Sez. IV secondo cui prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 15/2005 e dalla L. n. 80/1998, non era possibile impugnare dirattamente la d.i.a.: v. Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2006, n. 5394, pag. http://www.lexitalia.it/p/62/cds4_2006-09-15-7.htm ---------------------------------- Documenti correlati: CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, sentenza 22-2-2007, n. 948, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds5_2007-02-22-4.htm (sulla inammissibilità dell’impugnativa diretta della d.i.a. e sulla necessità che essa sia preceduta da una diffida all’Autorità comunale tendente a sollecitare i poteri repressivi alla stessa spettanti). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 15-9-2006, n. 5394, pag. http://www.lexitalia.it/p/62/cds4_2006-09-15-7.htm (sulla possibilità o meno di impugnare direttamente la d.i.a.). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 22-7-2005, n. 3916, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-07-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio attività e sulla possibilità per i controinteressati di impugnare il silenzio-rifiuto sull’istanza con la quale invitano la P.A. ad adottare provvedimenti repressivi). TAR VENETO SEZ. II, sentenza 12-1-2007, n. 81, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/tarveneto2_2007-01-12.htm (sulla natura della d.i.a. e sulla sussistenza o meno del potere inibitorio dei Comuni nel caso di decorso del termine previsto dalla legge per l’esercizio del controllo sulla stessa). TAR PIEMONTE - TORINO SEZ. II, sentenza 19-4-2006, n. 1885, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/tarpiemonte2_2006-04-19-2.htm (sulla natura giuridica della D.I.A. a seguito della nuova formulazione dell’art. 19, legge 7 agosto 1990 n. 241 e sulla sua impugnabilità diretta in sede giurisdizionale). TAR CAMPANIA - NAPOLI SEZ. II, sentenza 27-6-2005, n. 8707, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/tarcampna2_2005-06-27.htm (sulla natura perentoria del termine di 30 giorni ex art. 23 del T.U. edilizia entro il quale il Comune può adottare un provvedimento inibitorio a seguito della denuncia di inizio di attività). TAR ABRUZZO - PESCARA, sentenza 1-9-2005, n. 494, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/tarabruzzope_2005-09-01.htm (sulla natura della d.i.a. a seguito della nuova formulazione dell’art. 19 della L. n. 241 del 1990 e sulla possibilità di impugnare innanzi al g.a. il comportamento inerte della P.A. che ha omesso di esercitare i suoi poteri di vigilanza e controllo sulla d.i.a.). TAR PIEMONTE - TORINO SEZ. I, sentenza 4-5-2005, n. 1367, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/tarpiemonte1_2005-05-04.htm (sulla impugnabilità o meno della denuncia di inizio attività edilizia ex articolo 22 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’inerzia della P.A. sulla d.i.a. e sull’applicabilità o meno in materia del rito camerale previsto dall’art. 2 della L. n. 205/2000 per i ricorsi avverso il silenzio). TAR ABRUZZO - PESCARA, sentenza 23-1-2003, n. 197, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2003-01-23.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività, sulla tutela dei terzi nel caso di d.i.a. in contrasto con le norme urbanistiche e sulla nozione di ristrutturazione edilizia). TAR LIGURIA - GENOVA SEZ. I, sentenza 22-1-2003, n. 113, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarliguria1_2003-01-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività e sui mezzi di tutela esperibili dal terzo che ritenga di essere stato da essa leso; critica l’orientamento espresso dal TAR LOMBARDIABRESCIA – Sentenza 1 giugno 2001 n. 397*, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarlombbre_2001-06-01.htm e dal TAR CAMPANIANAPOLI, SEZ. I – Sentenza 6 dicembre 2001 n. 5272, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarcampna1_2001-12-06.htm). TAR VENETO SEZ. II, sentenza 20-6-2003, n. 3405, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarveneto2_2003-06-20.htm (sulla natura giuridica della D.I.A., sulla sua impugnabilità in via diretta e comunque tramite il comportamento della P.A., sui limiti entro cui essa può ritenersi sufficiente per la realizzazione di recinzioni, muri di cinta, cancellate e parcheggi di pertinenza e sulla necessità di congrua motivazione per il nulla osta ambientale, anche se favorevole). DE PALMA M., Denuncia di inizio attività e tutela del terzo (nota a T.A.R. Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, ordinanza 28 maggio 1999 n. 179)., in LexItalia.it 1999 http://www.lexitalia.it/private/tar/depalma_inizioattivita.htm DELLA NOTTE S., Denuncia di inizio attività: la disciplina sospesa tra la legge obiettivo, il T.U. dell’edilizia e le leggi regionali, in LexItalia.it n. 3-2003 http://www.lexitalia.it/articoli/dellanotte_dia.htm FODERINI D., L’ambito di operatività della denuncia di inizio attività in edilizia, in LexItalia.it n. 11-2002 http://www.lexitalia.it/private/articoli/foderini_inizioattivita.htm LAIS N., Il permesso di costruire e la denuncia di inizio attività nel nuovo testo unico dell'edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, 380), in LexItalia.it 2002 http://www.lexitalia.it/articoli/lais_tuedilizia.htm OLIVERI L., La natura giuridica della denuncia di inizio attività nella legge 241/1990 novellata, in LexItalia.it n. 5/2005 http://www.lexitalia.it/p/51/oliveri_dia.htm SCARLATELLI S., Autorizzazione edilizia e denuncia di inizio attività in una prospettiva evolutiva, in LexItalia.it n. 1-2002 http://www.lexitalia.it/articoli/scarlatelli_tuedilizia.htm REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sui ricorsi riuniti in appello nn. 6809/2006 e 7036/2006 proposti rispettivamente: 1) ricorso n. 6809/2006 dall’IMPRESA TRAVERSE S. GIORGIO S.R.L. in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Gianluigi Pellegrino e Giorgio Cugurra con domicilio eletto presso il primo in Roma Corso del Rinascimento n. 11; contro COMUNE DI COLLECCHIO, in persona del Sindaco p.t., non costituitosi; DEBER COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Ermes Coffrini e Massimo Colarizi con domicilio eletto presso il secondo in Roma via Panama n. 12; MECCANICA IMMOBILIARE S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., non costituitosi; 2) ricorso n. 7036/2006 da MECHANICA IMMOBILIARE S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv. Antonio Andreoli e Gianluigi Pellegrino con domicilio eletto presso il secondo in Roma Corso del Rinascimento n. 11; contro COMUNE DI COLLECCHIO, in persona del Sindaco p.t., non costituitosi; DEBER COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Ermes Coffrini e Massimo Colarizi con domicilio eletto presso il secondo in Roma via Panama n. 12; IMPRESA TREVERSE S. GIORGIO S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., non costituitosi; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna Sez. di Parma n. 296/2006. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio delle parti appellate; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Alla pubblica udienza del 13 febbraio 2007 relatori i Consiglieri Carmine Volpe e Roberto Chieppa. Udit Pellegrino Colarizi; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FATTOEDIRITTO 1. La società Mechanica Immobiliare s.r.l., attuale controinteressata, in data 3/2/2004 presentava al Comune di Collecchio denuncia di inizio attività (d.i.a.) per l’installazione, in area di proprietà della stessa ubicata in strada Roma in località Madregolo, di un impianto tecnologico per la produzione di traversine ferroviarie. Essendo l’immobile interessato dall’intervento posto in zona di pre - parco del fiume Taro, vincolata ai sensi del D. Lgs. n. 490 del 1999, il Comune chiedeva il necessario parere ai fini del rilascio dell’autorizzazione ambientale alla Commissione per la Qualità Architettonica e per il Paesaggio. In data 3/5/2004 il Comune rilasciava l’autorizzazione ambientale e in data 11/5/2004 inviava la stessa alla competente Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici dell’Emilia Romagna. La Soprintendenza, con atto prot. n. 14433 del 30/7/2004 annullava l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Collecchio e avverso tale provvedimento presentavano ricorso dinanzi allo stesso T.A.R. Parma sia Mechanica Immobiliare s.r.l. sia Impresa Traverse S. Giorgio s.r.l.. Con ordinanza, pubblicata il 5/11/2004, questa Sezione sospendeva il provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. Successivamente la DE.BER. Costruzioni s.r.l. notificava in data 28/12/2004 ricorso per l’annullamento del titolo abilitativo formatosi a seguito della presentazione della d.i.a.. Con l’impugnata sentenza il Tar ha accolto il ricorso, ritenendo: a) l’ammissibilità del ricorso proposto direttamente avverso la d.i.a.; b) la tempestività del ricorso; c) la fondatezza dello stesso, non potendo l’intervento essere assentito tramite d.i.a.. Con separati ricorsi in appello l’Impresa Traverse S. Giorgio s.r.l. (titolare dell’azienda per la produzione di traversine ferroviarie) e la Mechanica Immobiliare s.r.l. (proprietaria dell’area) hanno impugnato la menzionata sentenza, contestando le tre statuizioni del Tar. La DE.BER. Costruzioni s.r.l. si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione dei ricorsi. Con ordinanze n. 4448 e 4452 del 2006 questa Sezione ha sospeso l’efficacia dell’impugnata sentenza. All’odierna udienza le cause sono state trattenute in decisione. 2. Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza. 3. Con il primo motivo le appellanti hanno sostenuto l’inammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto proposto avverso un atto di natura privata quale la denuncia di inizio attività. Il motivo è infondato. La tutela dei terzi, che si oppongono ad intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha sempre presentato profili teorici problematici. Secondo un orientamento, la d.i.a costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che, in presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a formazione complessa, attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che sarebbe così liberalizzata. Colui che si oppone all'intervento autorizzato tramite d.i.a., una volta decorso il termine senza l'esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza del generale potere repressivo degli abusi edilizi, sarebbe legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto, che pertanto non potrebbe avere come riferimento il potere inibitorio dell'Amministrazione essendo decorso il relativo termine, con la conseguenza che il giudice non potrebbe costringere l'Amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta - bensì il generale potere sanzionatorio (Cons. Stato, IV, 22 luglio 2005, n. 3916). Secondo altre tesi, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire innanzi al giudice per chiedere l'adempimento delle prestazioni che la p.a. avrebbe omesso di svolgere (T.A.R. Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n. 397), o l'annullamento della determinazione formatasi in forma tacita (in tal senso: implicitamente, Cons. Stato, VI, 10 giugno 2003 n. 3265 e, espressamente, V, 20 gennaio 2003 n. 172; T.A.R. Veneto, sez. II, 20 giugno 2003, n. 3405) o comunque per contestare la realizzabilità dell'intervento (Cons. Stato, VI, 16 marzo 2005 n. 1093). Secondo ulteriore orientamento il terzo sarebbe legittimato (entro il termine di decadenza) all'instaurazione di un giudizio di cognizione, tendente ad ottenere l'accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per la legittima intrapresa dei lavori a seguito di d.i.a.( TAR Liguria; I, 22 gennaio 2003 n. 113 e TAR Abruzzo, Sez. Pescara, 23 gennaio 2003 n. 197). Il Collegio ritiene che il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. sia ammissibile. La d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell’attività, come da molti sostenuto, ma rappresenta una semplificazione procedimentale, che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni) dalla presentazione della denuncia; la liberalizzazione di determinate attività economiche è cosa diversa e presuppone che non sia necessaria la formazione di un titolo abilitativo. Nel caso della d.i.a., con il decorso del termine si forma una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a.. Il ricorso avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. ha, quindi, ad oggetto non il mancato esercizio dei poteri sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente l’assentibilità, o meno, dell’intervento. Un sostegno in favore della diretta impugnazione della d.i.a.. è stato fornito dal legislatore, che ha modificato l’art. 19, della legge n. 241/90 (con l’art. 3 del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla L. 14 maggio 2005 n. 80), prevedendo in relazione alla d.i.a.. il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. Se è ammesso l’annullamento di ufficio, parimenti, e tanto più, deve essere consentita l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo. Tale disposizione, pur non essendo temporalmente applicabile alla fattispecie in esame, può essere letta come riconoscimento da parte del legislatore della natura provvedimentale del titolo abilitativo che si forma in seguito ad una d.i.a.. Nello stesso senso sembrerebbe essersi orientato il legislatore già in precedenza: nel T.U. edilizia l'applicabilità degli artt. 38 (interventi eseguiti in base a permesso annullato) e 39 (annullamento del permesso di costruire da parte della Regione) è stata estesa anche agli interventi di cui all'art. 22, comma 3, assoggettati a d.i.a.. Resta fermo che la tutela del terzo controinteressato rispetto ad una d.i.a. non può essere certo costretta negli angusti limiti dell’eventuale esercizio del potere di autotutela da parte della p.a.. Come per qualsiasi atto amministrativo illegittimo, mentre il potere di autotutela dell’amministrazione è subordinato a determinati limiti, oggi codificati dall’art. 21-nonies della legge n. 241/90, alcun limite incontra l’intervento del giudice, diretto solamente ad accertare l’illegittimità dell’atto, e in questo caso del titolo abilitativo formatosi in seguito a d.i.a.. In caso di ricorso avverso la d.i.a. la decisione del giudice non può che travolgere l’assenso (implicito) comunale e gli effetti dell’attività illegittima, che costituiscono il contenuto reale della lite. Del resto, l’esercizio del potere (anche in via implicita) con effetti favorevoli per il diretto interessato non può mai compromettere diritti e interessi dei terzi e la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 19, comma 5, legge n. 241/90) conferma la piena sindacabilità della d.i.a. e dei suoi effetti da parte del giudice. Peraltro, queste considerazioni, valide per tutti gli interventi assoggettati a d.i.a., sono ancor di più riferibili alla d.i.a. edilizia, oggetto della presente controversia. Il T.U. edilizia (d.P.R. n. 380/2001) prevede quali titoli abilitativi in materia edilizia il permesso di costruire e la d.i.a. e stabilisce anche che il confine tra i due titoli non sia fisso: le Regioni possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo dei due titoli abilitativi, ferme restando le sanzioni penali (art. 22, comma 4) ed è comunque fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a. (art. 22, comma 7). Ciò significa che si tratta di titoli abilitativi di analoga natura, che si diversificano per il procedimento da seguire e comporta anche che sarebbe irragionevole, oltre che lesivo dell’effettività della tutela giurisdizionale, ritenere che il terzo controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo abilitativo, che può dipendere da una scelta della parte o da una diversa normativa regionale. E’, invece, preferibile ritenere che il formarsi di un determinato titolo abilitativo, o di un altro, non comporti alcun cambiamento sotto il profilo della tutela del terzo e del conseguente intervento del giudice, in alcun modo limitato dalla decadenza del potere di intervento dell’amministrazione. In definitiva, in caso di intervento assentito a seguito di d.i.a., è ammissibile il ricorso proposto direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine di trenta giorni, entro cui l’amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a.. 4. Chiarita l’ammissibilità del ricorso proposto in primo grado, deve essere verificata la tempestività dello stesso, tenuto conto delle censure mosse con il secondo motivo di appello. Si è già detto che il termine per impugnare la d.i.a. decorre dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a.. In caso di d.i.a edilizia, infatti, il titolo abilitativo si forma decorsi trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. per effetto del mancato esercizio dei poteri dell’amministrazione (art. 23, commi 1 e 6, d.P.R. n. 380/01 e artt. 10 e 11 della L.R. Emilia Romagna n. 31/2002). Nel caso di specie, tuttavia, si trattava di intervento ricadente in zona paesaggisticamente vincolata e il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ed ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti (art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380/2001). Il Tar ha fatto applicazione dell’art. 10, comma 4, della L.R. n. 31/2002, secondo cui il termine di trenta giorni decorre dal rilascio dell’autorizzazione ovvero dall’eventuale decorso del termine per l’esercizio del poteri di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. La disposizione non è chiara e deve essere letta, in conformità con la richiamata norma del T.U. edilizia, nel senso che per il decorso del termine deve essere stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica e che l’eventuale annullamento di questa rende priva di effetti la d.i.a.. Ciò premesso, nel caso di specie, il termine per contestare la d.i.a. ha iniziato a decorrere alla scadenza del termine di 30 giorni decorrenti dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (3/5/04) e l’annullamento di tale autorizzazione da parte della Soprintendenza ha sospeso tale termine ma solo fino alla ordinanza cautelare di questa Sezione che in data 5/11/04 ha sospeso l’atto della Soprintendenza. Essendo pacifica la conoscenza della d.i.a. da parte della ricorrente di primo grado, che ha anche impugnato l’autorizzazione paesaggistica, il ricorso avverso la d.i.a., notificato in data 28/12/2004 è tardivo. 5. In considerazione dei contrasti di giurisprudenza circa le modalità di impugnare la d.i.a. può anche essere concesso alla ricorrente di primo grado l’errore scusabile, ma ciò non muta l’esito del giudizio in quanto il ricorso è infondato nel merito. Il Tar ha ritenuto che l’intervento in questione non potesse essere assoggettato a d.i.a., ma necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire. L’intervento in questione – consistente nella realizzazione di due silos e di apparecchiature finalizzate alla produzione di traversine ferroviarie – era, infatti, assoggettato a d.i.a. trattandosi di impianti tecnologici destinati al servizio di edifici ed attrezzature esistenti e che come tali rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 8, comma 1, lett. i), della L.R. n. 31/2002. Tale norma non limita l’applicabilità della d.i.a. alle dimensioni degli impianti da asservire a quelli esistenti e il fatto che si ricada in zona vincolata non muta il titolo abilitativo necessario, ma comporta la necessità della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica. Si trattava, quindi, di un intervento assentibile mediante d.i.a.. 6. In conclusione, l’appello deve essere P. Q. M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, previa riunione dei ricorsi indicati in epigrafe li accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, il 13-2-2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori: Giovanni Ruoppolo Presidente Carmine Volpe Consigliere Rel. Consigliere Luciano Barra Caracciolo Consigliere Roberto Chieppa Consigliere Rel. ed Est. DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 05/04/2007. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - sentenza 12 settembre 2007 n. 4828 - Pres. Salvatore, Est. De Felice - Comune di Chioggia (Avv. De Sanctis Mangelli) c. Arena s.r.l. (n.c.) - (riforma T.A.R. Veneto, sentenza 19 giugno 2006, n.1879). 1. Atto amministrativo - Procedimento - Preavviso di rigetto - Ex art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 - Natura giuridica - E’ di atto endoprocessuale - Impugnabilità diretta ed autonoma - Impossibilità. 2. Atto amministrativo - Procedimento - Preavviso di rigetto - Ex art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 - Necessità - Sussiste solo nel caso di presentazione di istanza Inapplicabilità nel caso di ordine inibitorio adottato a seguito di denuncia di inizio attività. 3. Atto amministrativo - Procedimento - Preavviso di rigetto - Ex art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 - Omissione - Conseguenze - Possibilità di applicare la sanatoria dei vizi formali ex art. 21 octies della stessa L. n. 241 del 1990 anche all’omissione del preavviso di rigetto - Sussiste. 4. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizia attività (d.i.a.) - Ex art. 22 del T.U. edilizia - Natura giuridica - Individuazione - Potere della P.A. di adottare provvedimenti inibitori - Sussiste anche dopo il prescritto termine di 30 giorni. 5. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizia attività (d.i.a.) - Ex art. 22 del T.U. edilizia - Consente di ottenere una autorizzazione per implicito che può essere seguita da un ordine inibitorio e può essere contestata da un terzo. 1. Il preavviso di rigetto di cui all'art. 10 bis della L. 7 agosto 1990 n. 241 ha natura di atto endo-procedimentale, atteso che la norma che lo prevede impone all'Amministrazione, prima di adottare un provvedimento sfavorevole nei confronti del richiedente, di comunicargli le ragioni ostative all'accoglimento della sua istanza, sì da rendere possibile l'instaurazione di un vero e proprio "contraddittorio endoprocedimentale", a carattere necessario, ed aumentare così le "chances" del cittadino di ottenere dalla stessa P.A. ciò che gli interessa; deve pertanto ritenersi che il preavviso di rigetto non sia immediatamente lesivo della sfera giuridica dei destinatari e che, quindi, non sia autonomamente ed immediatamente impugnabile. 2. L'istituto del preavviso di rigetto previsto dall’art. 10 bis L. 7 agosto 1990 n. 241 trova applicazione solo nell'ipotesi di adozione di un provvedimento negativo sull'istanza (di provvedimento positivo) presentata dal privato e non già nel caso di presentazione di denunzia di inizio di attività e successivo ordine o diffida a non iniziare i lavori. L’ordine-diffida di non iniziare i lavori, inviato a seguito di d.i.a., infatti, non corrisponde all’atto di diniego di una istanza di parte di provvedimento favorevole e, quindi, non deve essere preceduto da preavviso di rigetto. 3. L’eventuale violazione dell'art. 10 bis della L. 7 agosto 1990 n. 241, sul c.d. preavviso di rigetto, non produce l'illegittimità del provvedimento terminale nel caso in cui comunque risulti, ai sensi dell’art. 21 octies della stessa L. n. 241 del 1990, che la violazione di tale adempimento formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento. 4. La denunzia di inizio attività prevista dall’art. 22 del T.U. edilizia approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e s.m.i. costituisce autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell'intervento, sul quale la P.A. svolge un'eventuale attività di controllo che è prodromica e funzionale al formarsi (a seguito del mero decorso del tempo, non dell'effettivo svolgimento dell'attività) del titolo legittimante l'inizio dei lavori: titolo il cui consolidamento non comporta, però, che l'attività del privato possa andare esente da sanzioni quando sia difforme dal paradigma normativo, con la conseguenza che - anche dopo il termine previsto per la verifica dei presupposti e dei requisiti di legge (30 gg.) l'Amministrazione non perde il potere di vigilanza e sanzionatorio attribuitole dall'ordinamento (1). 5. La d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell'attività, ma rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo, sub specie dall'autorizzazione implicita di natura provvedimentale (favorevole), a seguito del decorso di un termine (30 giorni) della presentazione della denunzia. Nel caso della d.i.a., con il decorso del termine si forma una sorta di autoamministrazione, secondo alcuni, di autorizzazione implicita (positiva) di natura provvedimentale per altra ricostruzione, che può essere succeduta da ordine (negativo) di non iniziare i lavori o può essere contestata dal terzo. --------------------------------------- (1) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2005 n. 3498, secondo cui, in materia di denuncia di inizio attività prevista dall’art. 22 T.U. edilizia, deve ammettersi, per il principio di economia dei mezzi giuridici, la facoltà dell'Amministrazione di inibire i lavori non iniziati anche dopo l'avvenuto consolidamento del titolo. --------------------------------------- Documenti correlati: CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 22-7-2005, n. 3916, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-07-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio attività e sulla possibilità per i controinteressati di impugnare il silenzio-rifiuto sull’istanza con la quale invitano la P.A. ad adottare provvedimenti repressivi). TAR CAMPANIA - NAPOLI SEZ. II, sentenza 27-6-2005, n. 8707, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/tarcampna2_2005-06-27.htm (sulla natura perentoria del termine di 30 giorni ex art. 23 del T.U. edilizia entro il quale il Comune può adottare un provvedimento inibitorio a seguito della denuncia di inizio di attività). TAR ABRUZZO - PESCARA, sentenza 23-1-2003, n. 197, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2003-01-23.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività e sulla tutela dei terzi nel caso di d.i.a. in contrasto con le norme urbanistiche). TAR LIGURIA - GENOVA SEZ. I, sentenza 22-1-2003, n. 113, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarliguria1_2003-01-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività e sui mezzi di tutela esperibili dal terzo che ritenga di essere stato da essa leso; critica l’orientamento espresso dal TAR LOMBARDIABRESCIA – sentenza 1 giugno 2001 n. 397*, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarlombbre_2001-06-01.htm e dal TAR CAMPANIANAPOLI, SEZ. I – Sentenza 6 dicembre 2001 n. 5272*, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarcampna1_2001-12-06.htm REPUBBLICAITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente DECISIONE Sul ricorso r.g.n.7776/2006 proposto in appello dal comune di Chioggia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Simonetta De Sanctis Mangelli, nel cui studio in Roma domicilia alla via Pasubio n.4, contro società Arena srl, in persona del legale rappresentante p.t., non costituita, per l’annullamento della sentenza n.1879/2006 depositata in data 19 giugno 2006 con la quale il TAR Veneto ha accolto il ricorso proposto avverso il provvedimento comunale 5.10.2005 n.62303 di diffida inizio lavori edili. Visto il ricorso con i relativi allegati; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Relatore alla udienza pubblica del 10 luglio 2007 il Consigliere Sergio De Felice; Uditi gli avvocati delle parti, come da verbale di causa; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; FATTO Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto la società odierna appellata impugnava il provvedimento di diffida di inizio lavori edili. Il giudice di primo grado accoglieva il ricorso sulla base della assorbente ritenuta violazione dell’art. 10 bis della legge n.241/1990, in quanto l’atto impugnato non era stato preceduto dalla comunicazione contenente i motivi che asseritamente ostavano all’accoglimento della richiesta/dichiarazione del 4.10.2005 di parte ricorrente. Il comune di Chioggia avverso la su indicata sentenza propone appello deducendone la erroneità sotto vari profili. Si espone, nell’atto di appello, che la società Arena non sfruttò una prima denunzia di inizio di attività, non dando inizio ai lavori; in data 23.2.2005 chiese un permesso di costruzione per eseguire un progetto diverso; pertanto, il comune di Chioggia archiviò la prima pratica di denunzia inizio attività. In data 4.10.2005 venne presentata nuova denunzia di inizio attività priva di documentazione adeguata, priva di progetto e soltanto munita di atto notarile di acquisto del suolo. In data 5.10.2005, notificato il giorno successivo, il comune diffidava la società privata a non eseguire le opere. Avverso tale atto è stato proposto ricorso al primo giudice che, come detto, ha ritenuta fondata la proposta censura di violazione dell’art. 10 bis L.241/90, di mancata comunicazione del preavviso di rigetto. Il Comune appellante deduce in primo luogo che alla denunzia di inizio attività di cui all’art.23 DPR 380/2001 non si applica la norma generale di cui all’art. 10 bis L.241/1990, che è rivolto solo a disciplinare i procedimenti ad istanza di parte. Si deduce altresì la violazione dell’art. 21 octies L.241/1990, in quanto l’opera in questione non è in ogni caso eseguibile. La società appellata non si è costituita. Alla udienza pubblica del 10 luglio 2007 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.In sostanza, con l’atto di appello l’amministrazione comunale contesta la impugnata sentenza, che ha ritenuto applicabile la disciplina del preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10 bis L.241/1990, alla diffida a non eseguire i lavori a seguito di presentazione di denunzia di inizio di attività in materia edilizia. L’appello è fondato, sulla base da un lato del perimetro di applicazione dell’istituto del preavviso di rigetto e dall’altro della natura dell’atto di diffida, che non è atto negativo nel senso voluto dalla norma. 2.L’articolo 10 bis L.241/1990, dedicato alla comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, stabilisce che nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La ratio del preavviso di rigetto di cui all'art. 10 bis l. n. 241 del 1990 riveste natura di atto endo-procedimentale, poiché tale norma impone all'amministrazione, prima di adottare un provvedimento sfavorevole nei confronti del richiedente, di comunicargli le ragioni ostative all'accoglimento della sua istanza, sì da rendere possibile l'instaurazione di un vero e proprio contraddittorio endo-procedimentale, a carattere necessario, ed aumentare così le "chances" del cittadino di ottenere dalla stessa p.a. ciò che gli interessa, con la conseguenza che lo stesso non è immediatamente lesivo della sfera giuridica dei destinatari e, quindi, non è autonomamente ed immediatamente impugnabile. 3.L’art. 22 T.U. edilizia disciplina la denunzia di inizio attività, prevedendo che il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. Il sesto comma prevede che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia. La denunzia di inizio attività costituisce autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell'intervento, sul quale la PA svolge un'eventuale attività di controllo che è prodromica e funzionale al formarsi (a seguito del mero decorso del tempo, non dell'effettivo svolgimento dell'attività) del titolo legittimante l'inizio dei lavori: titolo, il cui consolidamento non comporta, però, che l'attività del privato possa andare esente da sanzioni quando sia difforme dal paradigma normativo, con la conseguenza che anche dopo il termine previsto per la verifica dei presupposti e dei requisiti di legge (30 gg.) l'Amministrazione non perde il potere di vigilanza e sanzionatorio attribuitole dall'ordinamento (cfr. CdS, IV, 30.6.2005 n. 3498). In tale contesto, pertanto deve ammettersi, per il principio di economia dei mezzi giuridici, la facoltà dell'Amministrazione di inibire i lavori non iniziati anche dopo l'avvenuto consolidamento del titolo. 4.Nella specie, la diffida a non iniziare i lavori coincide con l’ordine motivato di non effettuare i lavori di cui alla disciplina della denunzia di inizio di attività. Conseguentemente, l’ordine-diffida di non iniziare i lavori non corrisponde all’atto di diniego di una istanza di parte di provvedimento favorevole e quindi non deve essere preceduto da preavviso di rigetto. È inapplicabile alla Dia (di cui al d.P.R. n. 380 del 2001) l'art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, atteso che la dia è provvedimento (implicito) di tipo favorevole al privato, mentre è negativo (ma non è a rigore un rigetto della istanza) il successivo atto di diffida a non agire; inoltre, il preavviso per l’ordine di non eseguire costituirebbe una non giustificata duplicazione del medesimo, incompatibile con il termine ristretto entro il quale l'amministrazione deve provvedere, non essendo fra l'altro previste parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine stesso. La d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione dell'attività, ma rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo, sub specie dall'autorizzazione implicita di natura provvedimentale (favorevole), a seguito del decorso di un termine (30 giorni) della presentazione della denunzia. Nel caso della d.i.a., con il decorso del termine si forma una sorta di autoamministrazione, secondo alcuni, di autorizzazione implicita (positiva) di natura provvedimentale per altra ricostruzione, che può essere succeduta da ordine (negativo) di non iniziare i lavori o può essere contestata dal terzo. L’ ordine di non iniziare i lavori, per come ristretto nei suoi tempi procedimentali, non coincide con la ipotesi di provvedimento (negativo) su istanza di parte di provvedimento positivo; pertanto, a tale diffida-ordine non si applica l’istituto del c.d. preavviso di rigetto (non trattandosi di rigetto in senso proprio). L'istituto del preavviso di rigetto trova applicazione solo nell'ipotesi di adozione di un provvedimento negativo sull'istanza (di provvedimento positivo) presentata dal privato e non nel caso di presentazione di denunzia di inizio di attività e successivo ordine o diffida a non iniziare i lavori. È inapplicabile alla Dia (di cui al d.P.R. n. 380 del 2001) l'art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, atteso che l'onere del preavviso di diniego è incompatibile con il termine ristretto entro il quale l'amministrazione deve provvedere, non essendo fra l'altro previste parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine stesso. 5. Per completezza, vale ricordare, anche se non rilevante nella specie, il principio evocato dall’appellante comune, secondo cui in ogni caso la violazione dell'art. 10 bis l. 7 agosto 1990 n. 241, non produce ex se l'illegittimità del provvedimento terminale, dovendo la disposizione sul c.d. preavviso di diniego essere interpretata alla luce del successivo art. 21 octies della citata l. n. 241 del 1990, secondo cui, laddove il ricorrente sollevi determinati vizi di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, quindi, di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato. 6.Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va accolto e, in riforma della sentenza di primo grado, va respinto il ricorso proposto avverso l’atto indicato in epigrafe. Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese di giudizio del doppio grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede: accoglie l’appello e, in riforma della impugnata sentenza, respinge il ricorso proposto in primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 luglio 2007, con l’intervento dei magistrati: Paolo Salvatore Presidente Pier Luigi Lodi, Consigliere Bruno Mollica, Consigliere Carlo Deodato, Consigliere Sergio De Felice, Consigliere, estensore L’ESTENSORE SERGIO DE FELICE IL PRESIDENTE PAOLO SALVATORE Depositata in Segreteria il 12/09/2007. TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I - sentenza 10 gennaio 2009 n. 15 - Pres. Petruzzelli, Est. Conti - Locatelli ed altro (Avv. Munaretto) c. Comune di Chiuduno (Avv.ti Codignola, Daminelli e Simolo) e Cooperativa S. Alberto Da Prezzate (n.c.) - (dichiara il ricorso irricevibile). 1. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Impugnazione in s.g. da parte di un terzo - Impugnabilità in via diretta della d.i.a. - Ammissibilità - Impugnazione del silenziorifiuto formatosi sull’istanza con la quale si chiede al Comune l’esercizio dei poteri repressivi - Non occorre. 2. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Impugnazione in s.g. da parte di un terzo - Termine per l’impugnazione - Data da cui decorre - Individuazione. 3. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Impugnazione in s.g. da parte di un terzo - Ricorso notificato oltre il termine di 60 giorni dalla data in cui l’interessato ha dimostrato di avere avuto conoscenza della d.i.a. - Irricevibilità - Va dichiarata. 1. Il terzo che si oppone ai lavori edilizi intrapresi tramite d.i.a. non deve chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti in genere per gli abusi edilizi, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto; né deve agire innanzi al giudice amministrativo per chiedere l’adempimento delle prestazioni che la P.A. avrebbe omesso di svolgere, ovvero chiedere l’annullamento della determinazione formatasi in forma tacita, o comunque contestare la realizzabilità dell’intervento. Il terzo, invece, è legittimato a proporre ricorso direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a., il cui possesso è essenziale, non potendo da esso prescindersi, non trattandosi di ipotesi di attività edilizia liberalizzata (1). 2. Il termine di 60 giorni per impugnare in sede giurisdizionale una d.i.a. decorre dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a., o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a. Nel caso di d.i.a., infatti, si è in presenza, decorsi i trenta giorni (art. 23 commi 1 e 6, del D.P.R. n. 380 del 2001), di una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni. 3. E’ irricevibile il ricorso proposto da un terzo avverso una d.i.a. che sia stata notificato oltre il termine di 60 giorni dalla data in cui il ricorrente ha dimostrato di avere avuto conoscenza delle opere oggetto della d.i.a. (nella specie la piena conoscenza della d.i.a è stata desunta dal fatto che il legale dei ricorrenti aveva presentato, nell’interesse dei suoi assistiti, una richiesta di esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia nella quale era presente una compiuta descrizione dell’intervento edilizio ed in particolare la indicazione di una planimetria allegata alla d.i.a.). ---------------------------------(1) Sull’impugnabilità in via diretta ed immediata della d.i.a. v. Cons. Stato, Sez VI, 5 aprile 2007 n. 1550, in Lexitalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_2007-04-05.htm, Sez. IV, 29 luglio 2008 n. 3742 e da ult. Sez. IV, 25 novembre 2008 n. 5811, ivi, http://www.lexitalia.it/p/82/cds4_2008-11-11.htm ---------------------------------Documenti correlati: CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 5-4-2007, n. 1550, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_200704-05.htm (sulla natura giuridica della d.i.a., sulla sua impugnabilità in via diretta da parte del terzo, sulla decorrenza del termine d’impugnazione e sulla sufficienza di d.i.a. per la installazione di silos ed apparecchiature al servizio di un preesistente impianto produttivo). CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, sentenza 4-2-2004, n. 376, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds5_200402-04-5.htm (sull’impossibilità per il G.A., nel caso di ricorso avverso il silenzio-rifiuto con il quale si invita il Comune ad adottare provvedimenti repressivi nei confronti di opere realizzate mediante d.i.a., di verificare se la d.i.a sia o meno legittima). TAR ABRUZZO - PESCARA, sentenza 23-1-2003, n. 197, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzzopesc_2003-01-23.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività, sulla tutela dei terzi nel caso di d.i.a. in contrasto con le norme urbanistiche e sulla nozione di ristrutturazione edilizia). TAR LIGURIA - GENOVA SEZ. I, sentenza 22-1-2003, n. 113, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarliguria1_2003-01-22.htm (sulla natura della denuncia di inizio di attività e sui mezzi di tutela esperibili dal terzo che ritenga di essere stato da essa leso; critica l’orientamento espresso dal TAR LOMBARDIA-BRESCIA - sentenza 1 giugno 2001 n. 397*, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarlombbre_2001-06-01.htm e dal TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. I - sentenza 6 dicembre 2001 n. 5272, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarcampna1_2001-12-06.htm ). DE PALMA M., Denuncia di inizio attività e tutela del terzo (nota a T.A.R. Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, ordinanza 28 maggio 1999 n. 179), in LexItalia.it 1999, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/depalma_inizioattivita.htm DELLA NOTTE S., Denuncia di inizio attività: la disciplina sospesa tra la legge obiettivo, il T.U. dell’edilizia e le leggi regionali, in LexItalia.it (www.lexitalia.it) n. 3-2003, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/dellanotte_dia.htm FODERINI D., L’ambito di operatività della denuncia di inizio attività in edilizia, in LexItalia.it n. 11-2002, pag. http://www.lexitalia.it/private/articoli/foderini_inizioattivita.htm LAIS N., Il permesso di costruire e la denuncia di inizio attività nel nuovo testo unico dell'edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, 380), in LexItalia.it 2002, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/lais_tuedilizia.htm OLIVERI LUIGI, La natura giuridica della denuncia di inizio attività nella legge 241/1990 novellata, in LexItalia.it n. 5/2005, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/oliveri_dia.htm SCARLATELLI SANDRA, Autorizzazione edilizia e denuncia di inizio attività in una prospettiva evolutiva, in LexItalia.it n. 1-2002, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/scarlatelli_tuedilizia.htm N. 00015/2009 REG.SEN. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA Sul ricorso numero di registro generale 267 del 2008, proposto da: Giovan Battista Locatelli, Annamaria Cantamessa, rappresentati e difesi dall'avv. Patrizia Munaretto, con domicilio eletto presso T.A.R. Segreteria in Brescia, via Malta, 12; contro Comune di Chiuduno, rappresentato e difeso dagli avv. Enrico Codignola, Francesco Daminelli, Gemma Simolo, con domicilio eletto presso Enrico Codignola in Brescia, via Romanino,16 (Fax=030/47897); Comune di Chiuduno -Responsabile Ufficio Tecnico; nei confronti di Cooperativa S. Alberto Da Prezzate Sc A Rl; per l'annullamento del provvedimento prot. n. 9911 del 21/12/2007, a firma del Responsabile del Procedimento del Settore Tecnico e del Responsabile del Procedimento, del Comune di Chiuduno, recante risposta alle istanze presentate dai ricorrenti, in data 20/07/2007 e 7/12/2007, volte a sollecitare l'esercizio dei poteri di vigilanza ex art. 27, D.P.R. n. 380 del 6/6/2001, nonchè di ogni altro atto, connesso, presupposto e conseguente. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Chiuduno; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30/10/2008 il dott. Sergio Conti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO Con ricorso notificato il 26.2.2008 e depositato presso la Segreteria il successivo giorno 14.3.2008, Locatelli Giovan Battista e Cantalamessa Annamaria si gravano avverso l’atto del Responsabile del settore tecnico del Comune di Chiuduno, in data 21.12.2007 con il quale è stata data risposta all’istanza del 20.7.2007 e alla successiva diffida del 7.12.2007, atti con i quali gli odierni ricorrenti avevano richiesto che l’Amministrazione comunale - nell’esercizio del dovere di vigilanza sull’attività urbanistico edilizia prescritto dall’art. 27 del D.P.R. 6.6.2001 n. 380 - procedesse ad accertare la sussistenza di violazioni della normativa urbanistica, con adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi eventualmente accertati, in relazione all’edificazione, da parte della cooperativa S.Alberto da Prezzate, di un edificio sul fondo confinante con la loro proprietà. Con l’atto impugnato l’Amministrazione comunale ha escluso che sussistessero le violazioni dello strumento edilizio e della normativa in tema di edilizia economico popolare che erano state prospettate dagli istanti. Avverso detto atto, i ricorrenti articolano le seguenti doglianze: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 42 e 97 Cost. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 L. 7.8.1990 n. 241; violazione e falsa applicazione dell’art. 27 del D.P.R. 6.6.2001 n. 380; violazione e falsa applicazione degli artt. 63 e 64 L.R. Lombardia 11.3.2005 n. 12; violazione degli artt. 7, 18 e 55 Norme Tecniche di Attuazione del Piano Regolatore del Comune di Chiuduno; violazione degli artt. 5 e 6 delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano di Zona di Via Palma il Vecchio del Comune di Chiuduno; violazione dell’art. 5 L. 2.7.1949 n. 408; violazione dell’art. 48 R.D. 28.4.1938 n. 1165; violazione del punto 5.3.3 dell’allegato alla L.R. Lombardia 20.2.1989 n. 6; violazione degli artt. 10, 16,18 L. 18.4.1962 n. 167. Eccesso di potere carenza di istruttoria, contraddittorietà, carenza assoluta di motivazione, illogicità manifesta". Si è costituito in giudizio l’intimato Comune di Chiuduno, chiedendo il rigetto del gravame. Alla pubblica udienza del 30.10.2008 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO Con il ricorso all’esame, i ricorrenti - proprietari di edificio e di area pertinenziale fronteggianti il complesso di edilizia economico popolare realizzato dalla Cooperativa S. Alberto da Prezzate, alla via Palma il Vecchio del Comune di Chiuduno - impugnano il provvedimento espresso, assunto dal Responsabile del settore tecnico dell’Amministrazione comunale, con cui si è esclusa la sussistenza delle violazioni a norme dello strumento edilizio nonché della disciplina in tema di edilizia economico popolare che erano state prospettate dagli odierni ricorrenti mediante istanza in data 20.7.2007 e alla successiva diffida del 7.12.2007. I ricorrenti, oltre a chiedere l’annullamento del predetto atto e di quelli ad esso connessi, chiedono altresì l’accertamento del loro diritto "ad un corretto e pieno espletamento dell’attività di vigilanza ex art. 27 D.P.R. 6.6.2001 n. 380 con l’adozione degli atti conseguenti", nonché "la dichiarazione… dell’obbligo dell’Amministrazione comunale…di pronunciarsi sulla conformità alle previsioni urbanistiche dei lavori realizzati e sulla compatibilità dei medesimi con la normativa relativa all’edilizia economica popolare …[e] …di esercitare i poteri repressivi di titolarità necessitati dagli accertamenti effettuati. In punto di fatto, va rilevato che con l’’istanza del 20.7.2007 (cfr. doc. n. 3 dei ricorrenti), gli odierni ricorrenti contestavano che "una porzione di detto complesso (originariamente destinata ad ospitare un edificio di soli due piani e successivamente venuta ad ospitarne uno di tre attraverso il recupero del sottotetto) sia stata realizzata superando il limite di altezza prescritto dalla normativa urbanistica vigente ed in violazione della normativa che disciplina le caratteristiche delle costruzioni di edilizia economica e popolare". Più in particolare, i predetti evidenziavano il raggiungimento di un’ altezza di m. 9.50, pur in presenza di un limite massimo fissato in m. 7,5, e la realizzazione di un edificio non conforme alla caratteristiche stabilite dall’art. 5 della L. 2.7.1949 n. 408 (presenza di un ascensore in edificio di soli tre piani, presenza di doppi bagni, box in numero superiore all’unità, cantine di superficie sino a mq. 32 collegate all’unità residenziale soprastante, edifici bifamiliari non abbinato). Sostanzialmente analoghe contestazioni (cfr. il doc. n. 4 dei ric.) erano contenute nel successivo atto di diffida del 7.12.2007. Il Comune, con atto in data 13.12.2007, forniva un primo riscontro alle predette istanze, rappresentando: a) di aver emesso, con nota del 10.10.2007, comunicazione di avvio del procedimento, invitando la Cooperativa S. Alberto da Prezzate e il geom. Aldo Ceccardi a fare pervenire osservazioni al riguardo, b) che quest’ultimo, con nota del 23.10.2007, aveva svolto proprie considerazioni, c) che erano in corso gli accertamenti tecnici conseguenti. Quindi, l’Amministrazione comunale assumeva, in data 21.12.2008, l’atto in questa sede impugnato. Dopo aver premesso che il geom. Ceccardi, per conto della Cooperativa, aveva puntualizzato che: a) l’altezza massima prevista dall’art. 55 delle NTA per le zone C Ambiti di nuova espansione, è pari a m. 9 e non a m. 7,5, b) l’art. 5 della L. 2.7.1949 n. 408 trova applicazione solo in caso di utilizzo di contributi pubblici, ciò che non è avvenuto nel caso della Cooperativa S.Alberto – gli uffici tecnici hanno svolto le seguenti considerazioni: - "Dall’analisi del vigente strumento urbanistico del Comune di Chiuduno, l’area su cui sono sorti i complessi di edilizia economico popolare è classificata come zona C – ambiti di nuova espansione, normati dall’art. 55 delle NTA che prevede un Hf massima di 9,00 m". - "Inoltre l’art. 51 – altezze dei fabbricati – delle norme tecniche di attuazione, allegate al piano di zona per edilizia economico popolare via Palma il Vecchio, non prevede una altezza massima ma sia limita solamente a definirne la modalità di calcolo". - "Dal combinato disposto degli artt. 51 e 55 delle NTA si evince che l’altezza massima è m. 9,00. Relativamente alla presunta violazione della normativa che disciplina le caratteristiche delle costruzioni di edilizia economica e popolare (ascensore, doppi bagni, giardini, numero di box superiore alla unità, cantine) la informiamo che le norme tecniche del Piano di Zona e le norme tecniche del PRG, non pongono un divieto alla loro realizzazione; inoltre dalla lettura dell’art. 41 del R.D. 28 aprile 1938 n. 1165 si evince che "….le opere di finimento e le forniture accessorie che, in sede di collaudo siano per qualità e quantità riconosciute eccedenti quelle consentite saranno escluse dal contributo….". - "Pertanto si può ritenere che le opere di finimento e le forniture accessorie non siano vietate ma bensì, se realizzate, vengono escluse dal contributo". - "Come dichiarato dal geom. Ceccardi, la Cooperativa S. Alberto da Prezzate s.c. a r.l. non ha attinto a contributi pubblici, pertanto non si rileva un contrasto con quanto contenuto nel RD 28 aprile 1938 n. 1165 e s.m.i." - "Va inoltre ribadito che, se da un lato vi siano normative che disciplinano le costruzioni di edilizia economico popolare, dall’altro lato vi sono altre normative, come il D.M. 14.6.1989 n. 236, più restrittive e che ad esempio, come indicato all’art. 3.2, stabiliscono che l’ascensore va comunque installato in tutti i casi in cui l’accesso alla più alta unità immobiliare è posto oltre il terzo livello, ivi compresi eventuali livelli interrati e/o porticati". - "Infine si ricorda che la costruzione realizzata dalla Cooperativa S. Alberto da Prezzate s.c. a r.l. è avvenuta mediante la presentazione di denuncia di inizio attività accompagnata dalla relazione, a firma del progettista abilitato, che assevera la conformità delle opere da realizzare agli strumenti di pianificazione vigenti ed adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienicosanitarie, assumendosene la totale responsabilità sia in sede civile che penale". In via preliminare il Collegio è chiamato a chiarire quale sia l’oggetto del presente giudizio. Invero, la difesa del Comune sostiene che i ricorrenti, pur avendo formalmente chiesto all’amministrazione l’adozione di provvedimenti repressivi di illeciti urbanistici, in realtà contestano la legittimità del titolo (e quindi chiedono, sostanzialmente, l’annullamento in via di autotutela delle denuncie di inizio di attività mediante le quali l’intervento edilizio è stato posto in essere), in quanto ciò che viene contestato non è la difformità di quanto realizzato rispetto al titolo, bensì la non conformità di quanto in esso previsto rispetto alla disciplina urbanistica dettata dal PRG. Ma, in tal modo – conclude il Comune- si viene surrettiziamente a impugnare le d.i.a. ben oltre il termine di decadenza decorrente dalla data di avvenuta conoscenza dell’intervenuto perfezionarsi del suddetto strumento di legittimazione all’esercizio dell’attività edilizia. Al fine di replicare alla predetta eccezione, la difesa dei ricorrenti, in sede di pubblica udienza, si è richiamata ai principi affermati dal Cons. St. Sez. V 22.2.2007 n. 948 e dal TRGA Trento 14.5.2008 n. 111. Con la prima pronuncia – muovendo dal presupposto che la d.i.a è un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che, in presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a formazione complessa, attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività che sarebbe così liberalizzata" - si è sostenuto che colui che si oppone all’intervento preceduto dalla D.I.A. è "legittimato a chiedere al comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio rifiuto che pertanto non avrà, né potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio dell’amministrazione … bensì il generale potere sanzionatorio" Con la seconda sentenza – muovendo dalla riconducibilità della d.i.a. ad un implicito provvedimento amministrativo dopo il decorso del termine di legge - si è affermato il principio che il terzo controinteressato che contesti la presentazione di una denuncia di inizio attività associata al successivo silenzio dell’Autorità amministrativa, possa attivare un giudizio di cognizione volto all’accertamento della corrispondenza, o meno, di quanto dichiarato dall’interessato e di quanto previsto dal progetto ai canoni stabiliti per la regolamentazione dell’attività edilizia in questione, oltre che dell’eventuale difformità dell’opera realizzata rispetto al progetto anteriormente presentato in sede di D.I.A., soggiungendo che detta azione di accertamento non è assoggetta al termine di decadenza, il quale è previsto esclusivamente per la disciplina del processo in sede di giurisdizione generale di legittimità. Al riguardo il Collegio osserva quanto segue. Il contenuto delle istanze rivolte dai ricorrenti all’Amministrazione comunale, più sopra riportato. è inequivoco nel senso di richiedere l’esercizio dei poteri repressivi di cui all’art. 27 D.P.R. 6.6.2001 n. 380, il quale disciplina "la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi". Ancora nel presente giudizio si chiede alla Sezione "di pronunciarsi sulla conformità alle previsioni urbanistiche dei lavori realizzati e sulla compatibilità dei medesimi con la normativa relativa all’edilizia economica popolare …[e] …di esercitare i poteri repressivi di titolarità necessitati dagli accertamenti effettuati". Peraltro il Comune, con l’atto in questa sede impugnato, ha fornito risposta, seppur negativa, alla istanza avanzata dai richiedenti. Va sottolineato che l’intervento posto in essere dalla Cooperativa S. Alberto da Prezzate è avvenuto attraverso il perfezionarsi di una originaria d.i.a. del 2004 e di una successiva d.i.a. in variante del 2005 e che siffatta circostanza ha rilevanza fondamentale nella qualificazione del presente gravame. E’ dunque evidente che la richiesta di esercizio di poteri sanzionatori è finalizzata, come posto in luce dalla resistente, a contestare la legittimità del "titolo" in forza del quale l’attività edilizia dalla Cooperativa è stata posta in essere. Tanto chiarito, il Collegio ritiene, in presenza di una serie di differenziate ricostruzioni dell’istituto della d.i.a., preferibile il più recente insegnamento espresso al riguardo dal Consiglio di Stato (cfr.Cons. St. Sez VI, 5.4.2007 n. 1550, Sez. IV 29.7.2008 n. 3742, v. ora anche Sez. IV 25.11.2008 n. 5811) con il quale è stato rilevato che "il terzo che si oppone ai lavori edilizi intrapresi tramite d.i.a., non deve chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti in genere per gli abusi edilizi, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto; né deve agire innanzi al giudice per chiedere l’adempimento delle prestazioni che la p.a. avrebbe omesso di svolgere, ovvero chiedere l’annullamento della determinazione formatasi in forma tacita, o comunque contestare la realizzabilità dell’intervento. Né, ancora, il terzo è tenuto, entro il termine di decadenza, ad instaurare un giudizio di cognizione, tendente ad ottenere l’accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge, per la legittima intrapresa dei lavori a seguito di d.i.a.. Il terzo, invece, è legittimato a proporre ricorso direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a., il cui possesso è essenziale, non potendo da esso prescindersi, non trattandosi di ipotesi di attività edilizia liberalizzata. Si è quindi in presenza, decorsi i trenta giorni (art. 23 commi 1 e 6, del D.P.R. n. 380 del 2001), di una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a., o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di d.i.a.. Il ricorso avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di d.i.a. ha ad oggetto, quindi, non il mancato esercizio dei poteri sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente l’assentibilità, o meno, dell’intervento edilizio. Da quanto precede discende che il ricorso all’esame è stato tardivamente proposto. Negli atti di causa, infatti, vi è la prova certa e documentata che i ricorrenti erano perfettamente a conoscenza dell’esistenza della d.i.a. e di tutti i suoi elaborati, quantomeno alla data del 20.7.2007 quando l’avv. Munaretto presentò al Comune, per loro conto, la richiesta di esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia (cfr. doc. n. 3 dei ricorrenti). In detta istanza infatti, viene effettuata una compiuta descrizione dell’intervento edilizio (cfr. gli elementi di fatto riportati a pag. 2 alle lett. a/c), evocando la planimetria "allegata alla variante in corso d’opera alla D.I.A. n. 88 del 18.10.2004, depositata presso l’Amministrazione comunale dalla Cooperativa S. Alberto da Prezzate s.c. a r.l. in data 7.7.2005". Da quanto sopra risulta dunque evidente che i ricorrenti hanno avuto piena conoscenza degli atti oggetto sostanziale della loro contestazione (la originaria d.i.a. del 2004 e la variante del 2005) quantomeno in data 20.7.2007, cosicché, alla data di notifica del ricorso (26.2.2008), era ampiamente scaduto il termine decadenziale di 60 giorni per l’impugnazione. Attesa la particolarità della vicenda e il non ancora avvenuto consolidamento di un univoco orientamento giurisprudenziale al riguardo, sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese del giudizio. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia - Sezione di Brescia – definitivamente pronunciando, dichiara irricevibile il ricorso in epigrafe. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 30/10/2008 con l'intervento dei Magistrati: Giuseppe Petruzzelli, Presidente Sergio Conti, Consigliere, Estensore Stefano Tenca, Primo Referendario DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 10/01/2009 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – sentenza 29 gennaio 2004 n. 308 - Pres. Quaranta, Est. Buonvino - Comune di Venezia (Avv.ti Paoletti, Morino e Gidoni) c. Lana (Avv. Ieradi) (annulla T.A.R. Veneto, Sez. II, 13 gennaio 2003, n. 324). 1. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (D.I.A.) - Disciplina prevista dall’art. 4 del D.L. n. 398/1993 - Decorso del termine di 20 giorni dalla d.i.a. Consente solo l’inizio dei lavori - Potere del Comune di inibire l’attività con provvedimento adottato entro 60 giorni dalla D.I.A. - Sussiste. 2. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (D.I.A.) - Disciplina prevista dal T.U. edilizia (d.P.R. n. 380/2001) - Termini per l’inizio dell’attività e per l’adozione dei provvedimenti inibitori da parte del Comune - Ormai coincidono e sono di 30 giorni dalla d.i.a. 1. Il decorso di venti giorni dalla data di presentazione della denuncia di inizio attività, previsto dall’art. 4 del D.L. n. 398/1993, convertito in legge n. 493/1993 (come sostituito dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), non determina la formazione di un sostanziale silenzio-assenso o, comunque, di un consenso tacito all’esecuzione dell’opera; al contrario, in base a detta norma, il decorso del termine di venti giorni consente solo all’interessato di iniziare i lavori (valendo solo come termine di massima utile a consentire alla P.A. di verificare la ritualità della denuncia ai sensi del citato art. 4), ma non impedisce che la stessa Amministrazione possa, poi, intervenire, entro sessanta giorni dalla d.i.a., nel rispetto del disposto di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990, come modificato dall’art. 2 della legge n. 537/1993, per inibire il prosieguo dell’attività intrapresa (alla stregua del principio è stato ritenuto legittimo un provvedimento con il quale era stata inibita l’attività adottato dopo il decorso di 20 giorni dalla d.i.a. ma entro il termine di 60 giorni dalla denuncia stessa) (1). 2. L'art. 23 del T.U. in materia edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che ha modificato la pregressa disciplina in materia di denuncia di inizio di attività, ha ormai espressamente collocato allo scadere del trentesimo giorno dalla notificazione della d.i.a. il termine dopo il quale l’interessato può iniziare i lavori e il termine ultimo entro il quale la P.A. può inibire l’inizio delle opere; il T.U. citato ha quindi unificato i due termini in questione, ampliando (da 20 a 30) quello relativo all’inizio dei lavori e dimezzando (da 60 a 30) quello relativo all’adozione di eventuali misure inibitorie preventive. -----------------(1) Ha osservato la Sez. V che il decorso del termine di soli venti giorni di cui all'art. 4, comma 7, del d.l. n. 398/1993, non comportava la formazione del consenso, questa potendo seguire, se del caso, solo dopo il decorso di sessanta giorni ai sensi delle norme appena riportate. Il richiamo all’art. 2 della legge n. 537/1993, modificativo dell’art. 19 della legge n. 241/1990, operava, infatti, un rinvio dinamico al quale si ricollegava l’operatività, anche nel campo edilizio, e a determinate condizioni, di tale disciplina; ma non sostituiva affatto al termine, ivi indicato, di sessanta giorni – necessario per la formazione del consenso - quello più breve, di appena venti giorni, previsto per la D.I.A. (termine, questo, normalmente inidoneo ai fini di un compiuto esame delle pratiche edilizie da parte della P.A., specialmente nei grandi centri). In applicazione del principio, tenuto conto che il Comune di Venezia aveva fatto pervenire all’interessata la propria determinazione preclusiva del consenso prima del decorso di sessanta giorni dal ricevimento, da parte della stessa Amministrazione, della D.I.A., è stato ritenuto legittima la diffida a non eseguire i lavori indicati nella D.I.A ed è stata annullata la sentenza di primo grado secondo cui, decorso inutilmente il termine di giorni venti di cui all’art. 4, comma 15, del D.L. n. 398/1993, convertito in legge n. 493/1993, non poteva più essere esercitato, dal Comune, il potere inibitorio ivi previsto. FATTO 1) - Con la sentenza qui appellata il TAR ha accolto il ricorso proposto dalla Sig.ra Lana Bianca per l’annullamento del provvedimento comunale 6 settembre 2002, n. 2002/341146, di diffida a non eseguire i lavori indicati nella D.I.A. 2) - Per l’appellante Comune di Venezia la sentenza sarebbe erronea e dovrebbe essere riformata. Si è costituita l’appellata, insistendo per l’infondatezza dell’appello e per la conferma della sentenza appellata. Con memorie conclusionali le parti ribadiscono i rispettivi assunti difensivi. DIRITTO 1) - Con la sentenza in forma semplificata qui impugnata il TAR ha accolto il ricorso proposto dall’odierna appellata per l’annullamento del provvedimento comunale 6 settembre 2002, n. 2002/341146, di diffida a non eseguire i lavori indicati nella D.I.A. Deduce il Comune appellante l’erroneità della sentenza in quanto basata su di una non corretta interpretazione normativa. 2) – L’appello è fondato. Nella specie, l’originaria ricorrente ha notificato al Comune di Venezia, in data 18 luglio 2002, la Dichiarazione di Inizio Attività per opere che sarebbe andata ad eseguire in variante alla concessione edilizia n. 73/86 e successive varianti alla stessa nn. 95/1999 e 9592/2001 (si trattava dell’esecuzione di opere di modifica all’edificio sito in via Cà Marcello, sezione Mestre, finalizzate ad adibire la nuova costruzione ad uso turistico-ricettivo, anziché direzionale). Il Comune, con il provvedimento impugnato in primo grado, ha diffidato l’interessata dal dare esecuzione ai lavori, in quanto il cambio d’uso non era da ritenersi consentito dal vigente strumento urbanistico. Il TAR ha accolto il ricorso proposto avverso tale determinazione nella considerazione che, decorso inutilmente il termine di giorni venti di cui all’art. 4, comma 15, del D.L. n. 398/1993, convertito in legge n. 493/1993, non poteva più essere esercitato, dal Comune, il potere inibitorio ivi previsto, ma potevano solo essere emanati provvedimenti di autotutela e sanzionatori. 3) - Tale convincimento non può essere condiviso. E, invero, ai sensi dell’art. 4 (come sostituito dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) comma 7, del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in legge n. 493 del 4 dicembre 1993, "i seguenti interventi sono subordinati alla denuncia di inizio attività ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2 della legge 4 dicembre 1993, n. 537": "e) opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile ……; g) varianti a concessioni edilizie già rilasciate che non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non cambino la destinazione d'uso e la categoria edilizia e non alterino la sagoma e non violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione edilizia ……..". Ai sensi del comma 11 dello stesso art. 4, poi, "nei casi di cui al comma 7, venti giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori l'interessato deve presentare la denuncia di inizio dell'attività………" . Ebbene - premesso che, nel caso in esame, il Comune non ha fatto questione alcuna circa l’astratta applicabilità della disciplina relativa alla D.I.A. in una fattispecie quale quella in esame, di variante a concessione edilizia incidente anche sulla destinazione d’uso - è da notare che, in effetti, il decorso di venti giorni dal momento della denuncia di inizio attività non determina affatto, in base alle norme succitate, che hanno trovato applicazione nella specie, la formazione di un sostanziale silenzio assenso o, comunque, di un consenso tacito all’esecuzione dell’opera. Al contrario, in base a dette norme, il termine di venti giorni a seguito della cui decorrenza potevano essere iniziati i lavori valeva solo come termine di massima utile a consentire alla P.A. di verificare la ritualità della denuncia ai sensi del citato art. 4. In tal caso, difettando un immediato intervento della Amministrazione, potevano essere iniziati, in base al predetto regime normativo, i lavori, ma ciò non inibiva affatto che la stessa Amministrazione potesse, poi, intervenire, nel rispetto del disposto di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990, come modificato dall’art. 2 della legge n. 537/1993, e degli specifici termini ivi indicati (sessanta giorni) per inibire il prosieguo dell’attività intrapresa. In base all’art. 19 ore detto, infatti, "in tutti i casi in cui l'esercizio di un'attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, abilitazione, nulla-osta, permesso o altro atto di consenso comunque denominato, ………..il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge……….. l'atto di consenso si intende sostituito da una denuncia di inizio di attività da parte dell'interessato alla pubblica amministrazione competente, attestante l'esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge …… In tali casi, spetta all'amministrazione competente, entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia, verificare d'ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con provvedimento motivato da notificare all'interessato entro il medesimo termine, il divieto di prosecuzione dell'attività e la rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro il termine prefissatogli dall'amministrazione stessa". Il decorso del termine di soli venti giorni di cui al comma 7 del d.l. n. 398/1993, quindi, non comportava la formazione del consenso, questa potendo seguire, se del caso, solo dopo il decorso di sessanta giorni ai sensi delle norme appena riportate. Il richiamo all’art. 2 della legge n. 537/1993, modificativo dell’art. 19 della legge n. 241/1990, operava, infatti, un rinvio dinamico al quale si ricollegava l’operatività, anche nel campo edilizio, e a determinate condizioni, di tale disciplina; ma non sostituiva affatto al termine, ivi indicato, di sessanta giorni – necessario per la formazione del consenso - quello più breve, di appena venti giorni, previsto per la D.I.A. (termine, questo, normalmente inidoneo ai fini di un compiuto esame delle pratiche edilizie da parte della P.A., specialmente nei grandi centri). E poiché nella specie il Comune di Venezia ha fatto pervenire all’interessata la propria determinazione preclusiva del consenso prima del decorso di sessanta giorni dal ricevimento, da parte della stessa Amministrazione, della D.I.A., ne consegue la legittimità, sotto il profilo in esame, del provvedimento impugnato. 4) - Può soggiungersi, ad ogni buon conto, che, a disciplinare la D.I.A., è sopravvenuto il T.U. in materia edilizia 6 giugno 2001, n. 380, che ha modificato l’assetto normativo che ha trovato applicazione nella specie. In particolare, l’art 23 (R) [la cui rubrica reca: - (L comma 3 e 4 - R comma 1, 2, 5, 6 e 7) (Disciplina della denuncia di inizio attività) - (legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 2, comma 10, che sostituisce l'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241; decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, art. 4, commi 8-bis, 9, 10, 11, 14, e 15, come modificato dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 10 del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669)] prescrive che: - comma 1: "il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia…….."; - comma 6: "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento …….". Il T.U. per l’edilizia ha, quindi, espressamente collocato allo scadere del trentesimo giorno dalla notificazione della D.I.A. il termine dopo il quale l’interessato può iniziare i lavori e il termine ultimo entro il quale la P.A. può inibire l’inizio delle opere; in altre parole, ha unificato i due termini in questione, ampliando quello relativo all’inizio dei lavori e dimezzando quello relativo all’adozione di eventuali misure inibitorie preventive. Vertendosi, però, come si ripete, in una fattispecie caratterizzata dall’applicabilità della pregressa disciplina normativa, non può che ribadirsi la piena correttezza, nel caso in esame, dell’operato del Comune di Venezia. 5) – Per tali motivi l’appello in epigrafe appare fondato e va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va respinto il ricorso di primo grado. Le spese dei due gradi di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l’appello in epigrafe e, per l’effetto, respinge il ricorso di primo grado. Spese dei due gradi compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma il 18 novembre 2003 dal Collegio costituito dai Sigg.ri: ALFONSO QUARANTA – Presidente PAOLO BUONVINO – Consigliere est. FRANCESCO D’OTTAVI - Consigliere CLAUDIO MARCHITIELLO-Consigliere ANIELLO C E R R E T O - Consigliere L'ESTENSORE IL PRESIDENTE f.to Paolo Buonvino f.to Alfonso Quaranta Depositata in segreteria in data 29 gennaio 2004. TAR MARCHE, SEZ. I - sentenza 30 marzo 2007 n. 448 - Pres.ff. Ranalli, Est. Manzi Immobiliare Valmir s.r.l. (Avv.ti Graziosi) c. Comune di Sant’Elpidio a Mare (AP) (Avv. Ortensi) e Responsabile Area Opere Pubbliche e Gestione del Territorio del Comune di Sant’Elpidio a Mare (Avv. Ortensi) - (respinge) 1. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (d.i.a.) - Provvedimento inibitorio del Comune - Nel caso in cui il privato non abbia allegato tutta la documentazione necessaria per la valutazione della regolarità della d.i.a. Legittimità - Fattispecie. 2. Edilizia ed urbanistica - Attività edilizia - Ristrutturazione degli edifici - Per adeguarli alle norme previste per il risparmio energetico - Disposizioni contenute nell’art. 2, commi 6 e 7 del D.M. 27 luglio 2005 - Che consentono di non computare nei volumi dell’edificio quelli impegnati da pannelli esterni di coibentazione Operatività di esse anche in difetto di recepimento negli strumenti urbanistici comunali. 1. E’ legittimo il provvedimento con cui un Comune ha inibito la realizzazione di una serie di lavori edilizi per i quali è stata presentata una denuncia di inizio attività (d.i.a.) motivato con riferimento al fatto che la d.i.a. presentata non risultava corredata da tutta la documentazione richiesta dalla legge per consentire agli uffici comunali di verificare la compatibilità urbanistica delle opere, atteso che l’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001, ai fini della regolarità formale della d.i.a., prevede che la stessa sia accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati (1). 2. Può trovare immediata applicazione, anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, l’art. 2, commi 6 e 7, del decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti 27 luglio 2005, in materia di risparmio energetico negli edifici, il quale - pur stabilendo che i Comuni hanno l’obbligo di adeguare i propri strumenti urbanistici per migliorare lo sfruttamento delle radiazioni solari quale fonte di calore, attraverso indicazioni in ordine all’orientamento dei fabbricati ed alla utilizzazione di elementi di tamponatura delle facciate di notevole spessore - ha previsto, con disposizione da ritenere immediatamente precettiva, lo scorporo dal calcolo dei volumi massimi previsti nelle diverse zone urbanistiche, degli spessori di tali elementi di tamponatura nelle parti eccedenti i 30 cm., fino ad un massimo di 25 cm. (2). --------------------------------------- (1) Ha osservato il T.A.R. Marche che nella specie, in considerazione della incompletezza della documentazione allegata alla d.i.a., ragionevolmente il responsabile del procedimento si era visto costretto ad inibire, nell’immediato, l’avvio dei lavori e delle opere oggetto della d.i.a., in modo da evitare la loro realizzazione in assenza di controllo, dal momento che, una volta decorso inutilmente il termine suddetto, il privato avrebbe potuto liberamente dare avvio ai lavori programmati. Nella specie, ai fini della completezza istruttoria, in sede di asseverazione della conformità urbanistica ed edilizia delle opere oggetto di DIA, bisognava sicuramente indicare gli estremi dei precedenti atti autorizzatori della costruzione interessata dagli interventi manutentivi programmati, come pure allegare il segnalato parere dell’Amministrazione provinciale, visto che l’intervento costruttivo veniva ad interessare un edificio prospiciente una strada provinciale. Per le stesse ragioni, doveva essere allegata alla d.i.a. anche la speciale relazione tecnica prevista dall’art. 4, comma 3, del D.M. 27 luglio 2005, in materia di risparmio energetico, visto che l’intervento manutentivo oggetto della denuncia di inizio attività era finalizzato a porre rimedio alle carenze delle preesistenti tamponature esterne dell’edificio, sotto l’aspetto dell’isolamento termico. (2) Ha osservato in proposito il T.A.R. Molise che la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata al previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle. Alla stregua del principio nella specie il T.A.R. Molise ha ritenuto illegittimo il provvedimento con il quale il Comune aveva inibito l’inizio dei lavori di ristrutturazione oggetto di una d.i.a. relativamente alla asserita inapplicabilità dello scorporo di cubatura previsto dagli artt.2, comma 7 e 4, comma 3 del D.M. 27 luglio 2005, in mancanza dell’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA Sul ricorso numero di registro generale 160 del 2006, proposto da: s.r.l. IMMOBILIARE VALMIR, con sede in Porto Sant’Elpidio (AP), in persona del suo rappresentante legale, rappresentato e difeso dagli avv.ti Benedetto Graziosi e Giacomo Graziosi, con domicilio eletto in Ancona, Via Giannelli, 36, presso l’avv. Domenico D'Alessio; contro - il COMUNE di SANT’ELPIDIO a MARE (AP), in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Massimo Ortenzi, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR delle Marche in Ancona, Piazza Cavour, 29; - il RESPONSABILE dell’AREA OPERE PUBBLICHE e GESTIONE del TERRITORIO del COMUNE di SANT’ELPIDIO a MARE, rappresentato e difeso dall'avv. Massimo Ortenzi, con domicilio eletto presso la Segreteria del TAR delle Marche in Ancona, piazza Cavour, 29; per l'annullamento del provvedimento n.25618 del 28.1.2005, a firma del Responsabile dell’Area Opere Pubbliche e Gestione del Territorio del Comune di Sant’Elpidio a Mare, con cui è stato ordinato alla società ricorrente di non dare inizio ai lavori edilizi denunciati con Dichiarazione di inizio attività - D.I.A. - a causa della ritenuta insussistenza, nel caso di specie, delle condizioni richieste dalla legge per procedere alla realizzazione delle opere edilizie suddette sulla base di semplice DIA; …………………..……. nonché per la condanna ……………………… dell’Amministrazione intimata al risarcimento dei danni asseriti subiti dalla società ricorrente per effetto del provvedimento impugnato; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Sant'Elpidio A Mare; Vista l’ordinanza n.205 del 9 marzo 2006, con cui è stata respinta la domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato; Vista l’ordinanza n. 2925 del 13 giugno 2006, pronunciata dal Consiglio di Stato, Sezione quarta, con cui è stato respinto l’appello proposto avverso la suddetta ordinanza cautelare del TAR Marche; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 10/01/2007, il dott. Galileo Omero Manzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel relativo verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO Con la presente iniziativa giudiziaria la parte ricorrente si propone la invalidazione del provvedimento indicato in epigrafe con cui il competente dirigente del Comune intimato ha inibito la esecuzione dei lavori edilizi per i quali la società Valmir aveva presentato una denuncia di inizio attività - DIA -, in quanto, secondo l’Autorità comunale, nel caso di specie non sussistevano le condizioni previste dalla legge per avvalersi del procedimento semplificato della DIA, in primo luogo perché il Comune era sfornito di strumenti urbanistici completi della prevista normativa tecnica in materia di adeguamento termico degli edifici. Pertanto, non era quindi possibile procedere alla certificazione del rispetto di tale normativa da parte del tecnico abilitato che ha asseverato la DIA, senza contare che la DIA presentata dalla società Valmir, secondo gli uffici comunali, era anche sfornita di tutta una serie di documenti indicati nello stesso provvedimento di divieto di dare inizio ai lavori oggetto di gravame che ne precludeva il favorevole esame da parte dell’Amministrazione. A fondamento dell’impugnativa vengono dedotte censure di violazione dell’art.3, comma 1, lett.c) e degli artt.22 e 23 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dell’art.9 del Regolamento edilizio regionale tipo approvato con D.P.G.R. del 4 settembre 1989, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, comma 4 e 9 del D.M. 27 luglio 2005, recante norme in materia di razionale uso dell’energia e di risparmio energetico e di scorporo dal calcolo delle cubature degli edifici degli spessori di strutture opache verticali, nonché vizio di eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento. Secondo i difensori di parte ricorrente, l’intervento edilizio oggetto di denuncia di inizio attività di cui si controverte, al contrario di quanto ritenuto dai tecnici comunali, non dà luogo ad alcun incremento di cubatura, poiché si risolve nella realizzazione di opere di manutenzione straordinaria di un edificio preesistente sulle cui facciate è stata prevista la installazione di un rivestimento esterno, costituito da due lamine indissolubilmente legate da un nucleo di materiale sintetico, fissate alle pareti con una struttura leggera in acciaio, al fine di adeguare in tal modo la costruzione alla normativa sull’isolamento termico ed acustico. Pertanto, con riferimento alla accennata natura e caratteristica delle opere edilizie che la società Valmir si proponeva di realizzare ed oggetto della denuncia di inizio di attività indirizzata al Comune, le preclusioni addotte dall’Amministrazione per inibire l’avvio dei lavori suddetti, a giudizio dei difensori della parte ricorrente, sono da considerare illegittime e contrarie alle norme invocate, in quanto per effetto della realizzazione del programmato rivestimento dell’edificio di cui si controverte, non si dà luogo alla realizzazione di incrementi di volumetria, come presuntivamente asserito dagli uffici comunali i quali, infatti, per loro espressa ammissione, non sono stati in grado di quantificare tali aumenti di volume asseriti derivanti dalla installazione delle nuove pannellature sulle facciate del preesistente edificio, a conferma della genericità ed illogicità dei motivi addotti dall’Amministrazione a giustificazione del divieto di dare inizio ai lavori oggetto di precedente DIA. Illegittimo viene considerato anche l’ulteriore motivo ostativo alla piena operatività della DIA addotto dagli organi comunali e consistente nella contestata carenza documentale della denuncia di inizio di attività edilizia, dal momento che la stessa risultava corredata di tutti i documenti richiesti dagli artt.22 e 23 del Testo unico sull’edilizia di cui al D.P.R. n. 380 del 2001 e ritenuti idonei ad asseverare la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio comunale; per cui le carenze documentali segnalate dagli organi comunali a giustificazione dell’intimato divieto di dare inizio ai lavori oggetto di gravame, vengono considerate pretestuose e da ciò il denunciato sviamento nell’operato dell’Amministrazione intimata. In sede di discussione della istanza cautelare, si è costituito in giudizio l’intimato Comune di Sant’Elpidio a Mare il cui difensore ha negato fondamento agli assunti invalidatori prospettati con il ricorso, evidenziando in particolare che dagli atti progettuali allegati alla DIA presentata dalla società ricorrente, gli uffici comunali hanno rilevato che dalla realizzazione del rivestimento esterno progettato dalla stessa, origina un aumento di cubatura, non derogabile con l’applicazione del D.M. 27 luglio 2005, in quanto per la valorizzazione di tali norme regolamentari si impone il preventivo adeguamento degli strumenti urbanistici comunali che non è stato ancora operato, atteso il poco tempo trascorso dalla entrata in vigore del citato D.M. (agosto 2005) e la data di presentazione della DIA di cui è causa (presentata nel mese di novembre 2005). Anche per quanto concerne la contestata incompletezza documentale della DIA, il difensore del Comune ritiene le censure di parte ricorrente prive di fondamento, poiché alcuni dei documenti indicati come mancanti, sono necessari per esercitare i poteri comunali di controllo sulla segnalazione di inizio delle attività edilizie oggetto di DIA, la cui mancanza comporta inevitabilmente la immediata inibizione dei lavori programmati, attesa la impossibilità di dare corso ad acquisizioni istruttorie nel breve termine di trenta giorni fissato dalla legge, la cui inutile decorrenza determina la piena efficacia della DIA. Con ordinanza n. 205 del 9 marzo 2006, il Tribunale ha respinto la domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato e tale decisione è stata confermata in sede di appello dal Consiglio di Stato, con ordinanza della Sezione quarta n. 2925 del 13 giugno 2006. Nella imminenza della pubblica udienza di discussione della causa, i difensori della parte ricorrente hanno depositato, in data 18.12.2006, una memoria conclusionale con la quale hanno diffusamente ribadito i propri argomenti invalidatori dedotti con l’atto introduttivo del giudizio, insistendo per l’accoglimento del ricorso e per la condanna dell’Amministrazione comunale intimata al risarcimento dei danni asseriti sopportati dalla società ricorrente a causa del provvedimento impugnato e quantificati in euro 2.000,00 mensili, dalla data di presentazione della DIA e corrispondenti agli oneri finanziari che la società sopporta per il rimborso del mutuo bancario contratto per l’acquisto del compendio immobiliare interessato dai lavori edilizi di cui si controverte in questa sede che non può essere utilizzato a causa della inibizione alla loro esecuzione intimata con il provvedimento oggetto di gravame. Anche il patrocinio comunale ha depositato, in data 28.12.2006, apposita memoria con la quale ha a sua volta ribadito le proprie tesi e conclusioni, insistendo per la reiezione del ricorso. DIRITTO 1) Il ricorso va respinto per i motivi di seguito precisati. 2) Giova premettere in punto di fatto che la presente iniziativa giudiziaria è diretta a far constatare la illegittimità del provvedimento oggetto di gravame con cui il Comune intimato ha inibito la realizzazione, da parte della società ricorrente, di una serie di lavori edilizi per i quali la stessa aveva inoltrato una denuncia di inizio attività - D.I.A. - sul presupposto che per la loro esecuzione non si rendeva necessaria la preventiva acquisizione di un formale permesso di costruire, essendo le opere ascrivibili alla categoria dei lavori di manutenzione straordinaria per i quali l’art.16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, richiede la semplice DIA. L’Amministrazione ha invece ritenuto di non potere assentire la suddetta DIA per un duplice ordine di motivi e, precisamente, in primo luogo perché, per effetto dei lavori programmati, si veniva a realizzare un incremento di cubatura non consentito sulla base delle vigenti norme urbanistiche e, poi, perché la dichiarazione di inizio lavori presentata al Comune non risultava corredata da tutta la documentazione richiesta dalla legge per consentire agli uffici comunali di verificare la compatibilità urbanistica delle opere oggetto di DIA, come previsto dall’art.23, comma 6, del citato D.P.R. n. 380 del 2001. 2/A) Ciò premesso in punto di fatto e passando all’esame delle censure dedotte con il ricorso, destituite di fondamento debbono essere valutate le censure di parte ricorrente preordinate a confutare gli assunti dell’Amministrazione comunale in ordine alla ritenuta incompletezza documentale della DIA presentata dalla società ricorrente. A tale riguardo, va tenuto presente che l’art.23 del citato D.P.R. n. 380 del 2001, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, ai fini della regolarità formale della DIA, prevede che la stessa sia accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati, senza tuttavia precisare la tipologia della documentazione da allegare alla DIA, per cui, ai fini della sua individuazione, ritiene il Collegio bisogna fare riferimento, a seconda dei casi, alle caratteristiche degli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività. Infatti, è di tutta evidenza che, dal momento che sulla stessa denuncia i competenti organi comunali sono tenuti a verificare la sussistenza dei presupposti giuridici e tecnici previsti dalla legge per consentire la realizzazione dei lavori e delle opere edilizie segnalate nella DIA, ne consegue la necessità che, ai fini di tale riscontro, la dichiarazione di inizio di attività sia necessariamente completa sotto l’aspetto documentale. Con riferimento a quanto precisato, dalla ricognizione della motivazione del provvedimento impugnato e, più precisamente, dal riscontro della elencazione dei documenti e dei dati notiziali asseriti non allegati e non indicati nella relazione tecnica presentata a corredo della DIA di cui si controverte, il Collegio ha potuto constatare che, indubbiamente, buona parte degli stessi risultavano effettivamente necessari agli uffici comunali per l’esercizio degli accennati poteri di controllo preventivo previsti dall’art.23 del D.P.R. n. 380 del 2001. Donde, in mancanza di tali dati, a fronte del breve termine assegnato dalla legge per l’accennato riscontro (30 gg.) che ne impediva l’acquisizione in via istruttoria, ragionevolmente il responsabile del procedimento si è visto costretto ad inibire, nell’immediato, l’avvio dei lavori e delle opere oggetto della DIA, in modo da evitare la loro realizzazione in assenza di controllo, dal momento che, una volta decorso inutilmente il termine suddetto, la società ricorrente avrebbe potuto liberamente dare avvio ai lavori programmati. Non vi è dubbio, infatti, che per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, ai fini della completezza istruttoria, in sede di asseverazione della conformità urbanistica ed edilizia delle opere oggetto di DIA, bisognava sicuramente indicare gli estremi dei precedenti atti autorizzatori della costruzione interessata dagli interventi manutentivi programmati, come pure allegare il segnalato parere dell’Amministrazione provinciale, visto che l’intervento costruttivo veniva ad interessare un edificio prospiciente una strada provinciale. Per le stesse ragioni, ritiene il Collegio, che doveva essere allegata alla DIA anche la speciale relazione tecnica prevista dall’art.4, comma 3, del D.M. 27 luglio 2005, in materia di risparmio energetico, visto che l’intervento manutentivo oggetto della denuncia di inizio attività era finalizzato a porre rimedio alle carenze delle preesistenti tamponature esterne dell’edificio, sotto l’aspetto dell’isolamento termico. Da ciò quindi deriva la infondatezza delle censure di violazione di legge e di eccesso di potere dedotte dalla parte attrice, poiché, a fronte della rilevata incompletezza della documentazione e della relazione allegata alla DIA presentata dalla società ricorrente, l’ordine di non dare inizio ai lavori intimato dal Comune, ritiene il Collegio, costituisse un adempimento doveroso, attesa la necessità di non fare decorrere inutilmente il termine perentorio di 30 giorni fissato dalla legge per la verifica della regolarità della DIA e tenuto altresì presente che, indipendentemente dalla accennata inibizione a dare avvio ai lavori di cui si controverte, alla società ricorrente era comunque consentito di ripresentare la DIA con le modifiche e le integrazioni necessarie per colmare le carenze notiziali e documentali contestate in precedenza dagli uffici comunali, come previsto espressamente dall’art. 23, comma 6 del citato D.P.R. n. 380 del 2001. 2/B) Passando a questo punto ad esaminare le residue censure dedotte con il ricorso e preordinate a sindacare la legittimità dell’ulteriore motivo addotto dal Comune intimato a giustificazione del divieto di dare avvio ai lavori oggetto di DIA, impartito con il provvedimento impugnato, il Collegio le ritiene fondate per i motivi di seguito precisati. Al riguardo, va osservato che il responsabile del procedimento ha giustificato il divieto suddetto, oltre che per la ritenuta incompletezza della relazione e della documentazione allegata alla denuncia di inizio attività, anche in considerazione della ulteriore circostanza che, per effetto della esecuzione dei lavori oggetto di tale denuncia, si veniva a realizzare un incremento di volumetria del fabbricato interessato da tali lavori di manutenzione, non consentita, dal momento che l’eventuale non valutabilità di tali maggiori cubature derivanti dalla collocazione sulle facciate dell’edificio di pannelli prefabbricati, secondo quanto previsto dall’art.4, comma 3, del Decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti 27 luglio 2005, risultava subordinata al preventivo adeguamento al citato D.M. dello strumento urbanistico comunale, in mancanza del quale l’incremento di cubatura che si veniva a realizzare in conseguenza della DIA, non era consentito. Tale assunto dell’Amministrazione comunale deve essere tuttavia valutato illegittimo, in quanto frutto di una errata interpretazione del quadro normativo di riferimento. In proposito, va precisato che l’art.4, comma 3, del suddetto Decreto ministeriale, al fine di agevolare l’attuazione delle norme sul risparmio energetico e per migliorare la qualità degli edifici, ha previsto la non commutabilità, ai fini del calcolo della superficie utile lorda di cui all’art.13 del Regolamento edilizio regionale tipo (approvato con D.P.G.R. n. 23 del 14.9.1989), dello spessore delle strutture verticali idonee a migliorare l’isolamento termico degli edifici per la parte superiore a 30 cm. di spessore, fino ad un massimo di ulteriori 25 cm.. A tale riguardo, l’art.2, commi 6 e 7 dello stesso D.M., nel prevedere l’obbligo per i Comuni di adeguare i propri strumenti urbanistici per migliorare lo sfruttamento delle radiazioni solari quale fonte di calore, attraverso indicazioni in ordine all’orientamento dei fabbricati ed alla utilizzazione di elementi di tamponatura delle facciate di notevole spessore, ha stabilito lo scorporo dal calcolo dei volumi massimi previsti nelle diverse zone urbanistiche, degli spessori di tali elementi di tamponatura nelle parti eccedenti i 30 cm., fino ad un massimo di 25 cm.. Con riferimento a quanto precisato, ritiene tuttavia il Collegio che, al contrario di quanto sostenuto dal Comune intimato, tale scorporo delle cubature cui si è fatto cenno, può trovare immediata applicazione anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, in quanto la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata a tale accennato previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle. Ciò comporta il riconoscimento della illegittimità del provvedimento impugnato relativamente alla ritenuta inapplicabilità dello scorporo di cubatura previsto dagli artt.2, comma 7 e 4, comma 3 del D.M. 27 luglio 2005, in mancanza dell’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali, per quanto concerne gli interventi edilizi oggetto della DIA presentata dalla società ricorrente la cui esecuzione è stata inibita con il provvedimento impugnato. 3) In conclusione, alla luce di quanto argomentato, il ricorso deve essere tuttavia respinto, poiché il provvedimento impugnato, come si è avuto modo di evidenziare, risulta basato su una pluralità di motivazioni e, quindi, l’avvenuto riconoscimento della validità di una di esse, costituita dalla riscontrata carenza documentale della DIA di cui si controverte, è comunque idonea a sorreggere il dispositivo dello stesso provvedimento oggetto di gravame, nonostante il contestuale avvenuto riconoscimento della invalidità dell’altro motivo addotto a giustificazione del medesimo. Infatti, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, ai fini della legittimità di un atto amministrativo, nel caso di pluralità di motivi autonomi posti a base dello stesso, la perdurante riconosciuta legittimità ed efficacia di uno di essi, perché non censurato o perché ritenuto esente dai vizi denunciati, è idonea a sorreggere la validità del medesimo ed è di per sé ragione sufficiente per respingere il ricorso (Cons. St., Sez.VI, 17 ottobre 2000, n.5530; C.S.I., 12 febbraio 2004, n.31; TAR Marche, 29 settembre 2000, n.1378; TAR Lazio, Sez. II, 16 gennaio 2003, n.180). 4) Va respinta anche la domanda di risarcimento danni pure avanzata con il ricorso, in quanto, nel processo amministrativo, presupposto ineludibile dell’azione risarcitoria è la sentenza che, a conclusione di un giudizio impugnatorio annullatorio, ha provveduto ad eliminare dal mondo giuridico l’atto al quale la parte ricorrente addebita la responsabilità del danno patrimoniale che assume avere subito e per il quale chiede di essere indennizzato (Cons. St., Ad. Pl., 26 marzo 2003, n.4; Sez. V, 12 agosto 2004, n.5558; TAR Basilicata, 17 ottobre 2003, n.994). Donde, per quanto riguarda la vicenda di cui è causa, dal momento che il ricorso in epigrafe, per le ragioni esposte, deve essere respinto e, quindi, il provvedimento impugnato è destinato a conservare piena validità ed efficacia, pur nei limiti sopra precisati per quanto concerne gli altri motivi addotti a sua giustificazione, ne consegue la reiezione della domanda di risarcimento danni avanzata dalla parte ricorrente. 5) In conclusione, il ricorso deve dunque essere respinto, come pure la subordinata domanda di risarcimento danni. 6) Si ravvisano tuttavia valide ragioni per compensare tra le parti le spese di giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale delle Marche respinge il ricorso in epigrafe indicato. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Ancona, nella camera di consiglio del giorno 10/01/2007, con l'intervento dei signori: Luigi Ranalli, Presidente FF Galileo Omero Manzi, Consigliere, Estensore Liana Tacchi, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 30/03/2007. 2) LIBERALIZZAZIONE E SEMPLIFICAZIONE IN MATERIA DI COMUNICAZIONI ELETTRONICHE CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 24 ottobre 2008 n. 350 - Pres. Flick, Rel. De Siervo - (giudizi promossi con ordinanze del 20 settembre 2007 - numero 2 ordinanze, del 29 ottobre 2007, del 26 novembre 2007 - numero 3 ordinanze, del 10 dicembre 2007 - numero 2 ordinanze, del 27 dicembre 2007 e del 22 gennaio 2008, dal T.A.R. Lombardia, Sez. IV di Milano, iscritte ai numeri 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 8, 13, 16,e 19, prima serie speciale, dell'anno 2008). 1. Telecomunicazioni - Regione Lombardia - Disciplina prevista dalla L reg. Lombardia n. 6 del 2006 - Introduzione di un sistema generalizzato di autorizzazione comunale per l'esercizio dell'attività - In contrasto con i principi contenuti nel decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche) - Illegittimità costituzionale - Va dichiarata. 2. Telecomunicazioni - Disposizioni contenute nel Codice delle comunicazioni elettroniche (D.L.vo n. 259 del 2003 - Finalità - Individuazione. 1. Va dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa); va inoltre dichiarata, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006. Con tali disposizioni, infatti, il legislatore lombardo ha finito per configurare un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). 2. Il Codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, ha inteso perseguire l'obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure anche al fine di garantire l'attuazione delle regole della concorrenza (1). Le disposizioni del Codice intervengono in molteplici ambiti materiali, diversamente tra loro caratterizzati in relazione al riparto della competenza legislativa fra Stato e Regioni: sono, infatti, rinvenibili in questo settore titoli di competenza esclusiva statale («ordinamento civile», «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale», «tutela della concorrenza»), e titoli di competenza legislativa ripartita («tutela della salute», «ordinamento della comunicazione», «governo del territorio»). Vengono, infine, in rilievo anche materie di competenza legislativa residuale delle Regioni, quali, in particolare, l'«industria» ed il «commercio. -----------------------------------------(1) Cfr. Corte cost., sentenza n. 336 del 2005, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/ccost_200507-27-3.htm SENTENZA N. 350 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 1; 3; 4; 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i) e comma 2; 9, comma 1, lettera c), e comma 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), promossi con ordinanze del 20 settembre 2007 (numero 2 ordinanze), del 29 ottobre 2007, del 26 novembre 2007 (numero 3 ordinanze), del 10 dicembre 2007 (numero 2 ordinanze), del 27 dicembre 2007 e del 22 gennaio 2008, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione IV di Milano, iscritte ai numeri 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 8, 13, 16,e 19, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento della Regione Lombardia; udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto in fatto 1. – Con dieci distinte ordinanze (r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del 2008), adottate nel corso di altrettanti giudizi, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Sezione IV di Milano, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1; 4; 8, commi 1, lettere e), f), h) ed i), e 2; 9, commi 1, lettera c), e 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione. 2. – Il rimettente riferisce che i ricorrenti sono titolari di centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 6 del 2006 e che nei loro confronti è stata disposta, con ordinanze delle rispettive amministrazioni comunali, la cessazione dell'attività «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale». Ciò in applicazione delle seguenti censurate disposizioni della legge regionale n. 6 del 2006: l'art. 1, «nella parte in cui riporta la materia oggetto di trattazione alla legislazione residuale regionale sul commercio»; l'art. 4, «che introduce un sistema generalizzato di autorizzazione comunale per l'esercizio dell'attività»; l'art. 8, «nella parte (comma 1, lettere e, f, h ed i, e comma 2) in cui introduce – con immediata modifica dei regolamenti comunali vigenti – numerosi nuovi requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali; gli artt. 9, primo comma, lettera c) e secondo comma, e 12, che prevedono che i centri di telefonia già funzionanti si debbano adeguare alle nuove prescrizioni entro un anno, andando altrimenti incontro alla revoca dell'autorizzazione. 3. – In punto di rilevanza, il rimettente riferisce che i provvedimenti impugnati hanno intimato ai ricorrenti «la cessazione immediata dell'attività per mancato tempestivo adeguamento ai nuovi requisiti di cui sopra» e che la legge regionale non ha lasciato o consentito «alcuna mediazione discrezionale in capo alla procedente autorità amministrativa la quale … ha dovuto emettere il provvedimento (in tutto vincolato nel contenuto) di cessazione immediata dell'attività alla scadenza del perentorio termine annuale fissato». Il rimettente riferisce altresì di aver adottato un'ordinanza cautelare di sospensione del provvedimento di cessazione dell'attività di centri di telefonia con efficacia limitata al periodo di tempo necessario a che la Corte costituzionale si pronunci. 4. –Il TAR rimettente individua le disposizioni costituzionali di cui si sospetta la violazione nell'art. 117, «in relazione ai vincoli dell'ordinamento comunitario ed al sistema di riparto delle competenze legislative StatoRegione»; negli artt. 3 e 41, «in relazione, in particolare, ai rilevanti ostacoli che le restrittive prescrizioni in materia igienico-sanitaria introdotte dalla legge regionale di che trattasi, da applicare anche retroattivamente alle preesistenti gestioni di centri di telefonia, determinano sulla libertà di iniziativa economica di questi ultimi»; nell'art. 15 sulla libertà di comunicazione. 4.1. – L'asserita violazione dell'art. 117 della Costituzione sarebbe, innanzitutto, suffragata dall'errato inquadramento materiale delle disposizioni censurate. L'art. 1, infatti, riconduce la relativa normativa al commercio. Diversamente, il giudice a quo esclude che la erogazione di servizi di telefonia in sede fissa, in locali aperti al pubblico, rientri nelle previsioni legislative relative all'attività commerciale. Ciò sarebbe confermato dal divieto, contenuto nella legge censurata, di affiancare – come in passato – attività commerciali "di supporto", salvo la sola vendita di schede telefoniche e l'installazione di distributori automatici di bevande ed alimenti. Per il Tribunale rimettente, invece, l'attività presa in considerazione dalla legge regionale sarebbe riconducibile alla materia di competenza concorrente dell'ordinamento delle comunicazioni e, più specificamente, al «servizio di comunicazione elettronica» di cui all'art. 2, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE, recepito dal decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). 4.2. – Il diverso inquadramento materiale determinerebbe una serie di limiti e vincoli sul legislatore regionale. Innanzitutto, la rilevata matrice europea di tale normativa comporta l'applicabilità, ex art. 117, primo comma, della Costituzione, del principio di proporzionalità. In secondo luogo, trattandosi di materia concorrente, il legislatore regionale non può disattendere i limiti della legislazione statale di principio. Infine, occorrerebbe anche considerare alcuni «profili trasversali di legislazione esclusiva statale» ex art. 117, secondo comma, della Costituzione, con specifico riguardo alla tutela della concorrenza (lettera e) nonché alla salvaguardia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (lettera m). Il rimettente ricorda che l'art. 3, comma 1, del surrichiamato codice delle comunicazioni garantisce i «diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica», con espresso riferimento al regime di libera concorrenza. Inoltre, i principi di derivazione comunitaria e costituzionale risultano espressamente ribaditi dall'art. 4 del medesimo codice, il quale prevede al comma 1 che la disciplina delle reti e dei servizi sia volta a salvaguardare i diritti costituzionalmente garantiti di «libertà di comunicazione», nonché di «libertà di iniziativa economica e suo esercizio in regime di concorrenza, garantendo un accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità». Al tempo stesso, il comma 3 dello stesso art. 4 dispone che la suddetta disciplina è diretta anche a «promuovere la semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica». 4.3. – Per il rimettente, il legislatore lombardo – regolando l'intero settore dei centri di telefonia in sede fissa – ha introdotto «un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo n. 259/2003». Ciò mentre il comma 2 dell'art. 3 del codice configura la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica come di preminente interesse generale e libera, salve solo «le limitazioni derivanti da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell'ambiente e della riservatezza e protezione dei dati personali, poste da specifiche disposizioni di legge o da disposizioni regolamentari di attuazione». Lo stesso codice prevede che l'espletamento di tali servizi venga subordinato ad una sola «autorizzazione generale», in armonia con la normativa europea. In particolare, tale autorizzazione consegue alla presentazione di una dichiarazione dell'interessato (a seguito della quale è possibile iniziare l'attività) contenente l'intenzione di procedere alla fornitura (art. 25, comma 3), mentre il potere del Ministero competente di vietare il prosieguo dell'attività medesima può essere esercitato «entro e non oltre» sessanta giorni secondo il modulo procedimentale della dichiarazione di inizio attività ex art. 19, legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 25, comma 4). Il giudice rimettente sostiene che la previsione di un ulteriore titolo abilitativo comunque abbia alterato «il regime di sostanziale libertà di fornitura dei servizi de quibus così come delineato in via primaria dall'ordinamento comunitario, ed in via attuativa dalla norma statale di recepimento, con conseguenti aggravamenti procedimentali vietati dai citati artt. 3 e 4 del decreto n. 259/2003». Peraltro – prosegue il rimettente – molte delle limitazioni previste dalla legge censurata sembrano afferire a materie comunque estranee a quella potestà legislativa residuale che la Regione Lombardia ha, invece, inteso nella specie esercitare: questo con particolare riferimento alle esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato ed alla tutela dell'ambiente, di competenza esclusiva del legislatore statale, nonché alle esigenze di protezione civile e di salute pubblica, di competenza concorrente. 4.4. – In relazione ai requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali, per il giudice a quo la contestata legge regionale reca «contenuti di dettaglio che integrano in modo automatico e simultaneo tutti i regolamenti di igiene delle autorità sanitarie e dei comuni in territorio lombardo […], e ciò senza che la legislazione statale di riferimento consenta, all'interno di tale regolamentazione locale, l'inserimento eteronomo di contenuti dispositivi e di dettaglio direttamente prestabiliti da leggi regionali». Né sussisterebbero nella legislazione vigente prescrizioni così restrittive neanche per i locali ove vi è maggiore concentrazione di persone per un tempo di permanenza maggiore, come teatri, cinema o nei locali ove viene svolta attività di somministrazione di alimenti e bevande. Da tutto ciò discende la necessità che la potestà legislativa regionale concorrente venga esercitata nel rispetto dei principi fondamentali di cui agli articoli 3 e 41 della Costituzione, nonché del principio di proporzionalità. 4.5. – Il giudice rimettente ritiene che la questione presenti profili di non manifesta infondatezza anche nella parte in cui è sancita l'applicazione retroattiva delle nuove disposizioni, senza neppure delineare la possibilità di proroghe per consentire agli esercizi preesistenti di continuare l'attività. Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la possibilità del legislatore di incidere con norme retroattive su situazioni sostanziali ormai radicate da leggi precedenti, sarebbe subordinata al rigoroso vaglio di razionalità del nuovo regolamento di interessi. Per il giudice a quo nella specie non sussiste una sicura rispondenza dello ius superveniens a criteri di ragionevolezza, in relazione alle modalità con cui la nuova normativa incide sui legittimi affidamenti dei titolari dei preesistenti centri di telefonia e sulle loro disponibilità finanziarie. Ne discenderebbe una lesione della libertà di iniziativa economica privata presidiata dall'art. 41 della Costituzione, anche in relazione alla tutela della concorrenza garantita dall'ordinamento europeo. 5. – Con atto depositato il 26 febbraio 2008, è intervenuta nel presente giudizio (in relazione alle questioni sollevate con l'ordinanza r.o. n. 2 del 2008) la Regione Lombardia che, con riserva di successive allegazioni e argomentazioni, ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale sostenendo, comunque, la loro infondatezza nel merito. 6. – Con memoria depositata il 24 luglio 2008 la Regione Lombardia ha presentato una ampia memoria ad integrazione del suo precedente atto di intervento. 6.1. – La difesa regionale reputa le questioni in oggetto inammissibili per evidente difetto di motivazione sulla rilevanza, avendo il rimettente omesso di descrivere alcuni elementi decisivi della fattispecie che ha originato il giudizio principale (le osservazioni si riferirebbero anche alle altre ordinanze «che hanno, in maniera sostanzialmente identica, censurato le norme»). In particolare, nell'ordinanza di rinvio non sarebbero rinvenibili informazioni sulle autorizzazioni eventualmente ottenute, né sulle motivazioni sottese all'impugnato provvedimento di cessazione dell'attività di centri di telefonia. Inoltre, altro motivo di inammissibilità sarebbe il mancato riferimento ad una autorizzazione negata, mentre nell'ordinanza di rimessione ci si riferisce solo ad una ordinanza di chiusura del centro di telefonia. Sarebbero del pari inammissibili le censure sollevate in riferimento all'art. 15 Cost. per la loro mancata motivazione. Generiche sarebbero altresì le censure formulate in riferimento all'art. 8 della legge regionale, dal momento che non si chiarirebbero analiticamente gli asseriti motivi di incostituzionalità delle quattro distinte prescrizioni legislative. 7. – Nel merito, la difesa regionale sostiene che la disciplina dei centri di telefonia rientrerebbe pacificamente nella materia commercio, risultando così esclusa una competenza statale in materia, dal momento che «la nozione di "servizi di comunicazione elettronica" non sembra applicabile all'attività dei centri di telefonia». Comunque «l'autorizzazione prevista dalla legge della regione Lombardia non interferisce in alcun modo con gli scopi» della legislazione comunitaria e statale ed anzi troverebbe «il suo fondamento proprio nella previsione degli articoli 3 e 25 del Codice delle comunicazioni che consentono la possibilità di limitare la fornitura di reti o servizi per motivi di salute e sanità pubblica». La legge regionale censurata, pertanto, «ai fini di tutela della salute pubblica e delle condizioni igieniche in cui si svolge il lavoro subordina l'inizio (o la prosecuzione) di tale attività alla sussistenza di un'autorizzazione comunale». Non vi sarebbero principi legislativi violati dal legislatore regionale e neppure potrebbe sostenersi che la legge regionale non possa modificare il regolamento di igiene locale. Considerato in diritto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Sezione IV di Milano, con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del 2008, adottate nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1; 4; 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2; 9, comma 1, lettera c), e comma 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione. 2. – In tutti i giudizi a quibus i ricorrenti, titolari di centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 6 del 2006, hanno impugnato i provvedimenti delle rispettive amministrazioni comunali mediante i quali è stata disposta la cessazione dell'attività da loro svolta «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale». Nell'ambito di tali giudizi il rimettente ha eccepito l'illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali in attuazione delle quali sono stati adottati i provvedimenti impugnati. In particolare, il TAR censura l'art. 1, «nella parte in cui riporta la materia oggetto di trattazione alla legislazione residuale regionale sul commercio»; l'art. 4, «che introduce un sistema generalizzato di autorizzazione civica per l'esercizio dell'attività»; l'art. 8, nella parte in cui introduce – con immediata modifica dei regolamenti vigenti (comma 2) – i nuovi requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali, e, specificamente, la previsione: di un servizio igienico in uso esclusivo del personale dipendente (lettera e); di un servizio igienico riservato al pubblico, anche prossimo al locale nel caso di esercizi già attivi all'entrata in vigore della presente legge, ma ad uso esclusivo dello stesso per il locale con superficie fino a 60 metri quadrati; di un ulteriore servizio igienico per il locale di dimensioni superiori (lettera f); «uno spazio di attesa all'interno del locale di almeno 9 metri quadrati, fino a 4 postazioni telefoniche, provvisto di idonei sedili posizionati in modo da non ostruire le vie di esodo» (lettera h); la superficie minima (pari a 1 metro quadrato) per ogni postazione e la sua collocazione in modo da garantire un percorso di esodo, libero da qualsiasi ingombro, nonché la larghezza minima di 1,20 metri (lettera i). Sono censurati, altresì, gli artt. 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, che regolano il regime transitorio per i vecchi esercizi, nel senso che la prescritta autorizzazione è revocata, senza possibilità di proroga, «quando il titolare non abbia adempiuto all'obbligo di porsi in regola con le vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché con le disposizioni sulla destinazione d'uso dei locali e degli edifici, prevenzione incendi e sicurezza, preventivamente all'avvio dell'attività come previsto dall'articolo 4, ovvero entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge ai sensi dell'articolo 12». Tali disposizioni, ad avviso del rimettente, vìolerebbero l'art. 117 della Costituzione, in quanto, incidendo sulla materia (concorrente) dell'ordinamento delle comunicazioni, sarebbero incompatibili con il principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria (art. 117, primo comma). Sarebbero, inoltre, lesive delle competenze esclusive del legislatore statale in ordine alla «tutela della concorrenza» di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e) Cost., ed alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.). Le disposizioni regionali violerebbero altresì l'art. 117, terzo comma, Cost. ponendosi in contrasto con i princìpi fondamentali dettati dal legislatore statale in ordine al regime autorizzatorio: princìpi desumibili dagli artt. 2, 3, 4 e 25 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). Esse contrasterebbero, inoltre, con gli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal momento che l'introduzione, con efficacia retroattiva, di nuovi e più rigorosi requisiti strutturali e igienico-sanitari determinerebbe una illegittima disparità di trattamento tra i centri di telefonia già attivi (chiamati, in tempi brevi e con costi elevati, ad effettuare le necessarie opere di adeguamento) e quelli aperti successivamente all'entrata in vigore delle censurate disposizioni, con ripercussioni negative sulla libertà di iniziativa economica privata e sull'assetto concorrenziale del mercato. Infine, ad avviso del TAR, le disposizioni in oggetto sarebbero incompatibili con l'art. 15 della Costituzione, introducendo misure idonee a nuocere alla libertà di comunicazione. 3. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 4. – Le questioni sollevate in otto delle suddette ordinanze (r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008) sono manifestamente inammissibili per carente descrizione delle fattispecie concrete. Non è infatti sufficiente il pur ampio andamento argomentativo in tema di rilevanza sviluppato in termini identici nei diversi atti di rimessione. Il giudice a quo ha fornito solo generiche indicazioni in ordine agli effetti delle disposizioni impugnate sulle situazioni giuridiche vantate dalle parti ricorrenti, omettendo tuttavia la doverosa descrizione delle specifiche violazioni asseritamente riscontrate dalle amministrazioni comunali. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'insufficiente descrizione della fattispecie, giacché impedisce di vagliare l'effettiva applicabilità delle censurate disposizioni ai casi dedotti, si risolve in carente motivazione sulla rilevanza della questione, determinandone, conseguentemente, la manifesta inammissibilità, risultando peraltro preclusa, in virtù del principio di autosufficienza dell'ordinanza di rimessione, l'acquisizione di elementi di conoscenza attingendo direttamente al fascicolo di causa (fra le decisioni più recenti: ordinanze n. 224, n. 223, n. 217, n. 210 e n. 174 del 2008; n. 251 del 2007, n. 303 e n. 164 del 2006). 5. – Diversamente, nelle ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008, il TAR riferisce espressamente che i provvedimenti comunali di interruzione della attività dei centri di telefonia sono stati adottati in ragione del mancato conseguimento dell'autorizzazione prevista e disciplinata dalla legge regionale n. 6 del 2006. In particolare, nell'ordinanza r.o. n. 67, il rimettente non solo espressamente richiama l'ordinanza comunale di cessazione dell'attività «emessa ai sensi e per gli effetti della l.r. 6/2006», ma aggiunge che tale provvedimento specifica «che l'attività medesima potrà essere eventualmente ripresa solo dopo aver regolarizzato le violazioni riscontrate durante il sopralluogo citato in premessa ed ottenuto regolare autorizzazione ai sensi dell'art. 4 della citata legge regionale n. 6/2006». Quanto alla ordinanza r.o. n. 100 del 2008, il rimettente riferisce che la chiusura del centro di telefonia gestito dal ricorrente è stata disposta in quanto «esercitato in assenza della prescritta autorizzazione di cui alla legge regionale 3 marzo 1996 (recte: 2006), n. 6». Dal momento che tutta la disciplina della legge regionale n. 6 del 2006 (e tanto più i fondamentali artt. 4 e 9, entrambi impugnati) è caratterizzata da questa speciale e nuova autorizzazione comunale «per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa», lo specifico riferimento operato in queste due ordinanze al nuovo istituto è sufficiente a giustificare la rilevanza delle censure prospettate in relazione all'art. 4, nonché agli artt. 9 e 12, i quali estendono la nuova disciplina ai centri di telefonia preesistenti all'entrata in vigore della legge regionale. Inammissibili sono, invece, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all'art. 8, non avendo il rimettente specificato se e quali fossero i requisiti igienicosanitari accertati in concreto come mancanti, se, cioè, fossero proprio quelli censurati. Tale omessa specificazione si risolve, ancora una volta, in un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni. 6. – Quanto al merito delle dedotte questioni di legittimità costituzionale, il rimettente lamenta l'avvenuta configurazione, ad opera del legislatore lombardo, di «un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo» rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). Al fine di appurare la fondatezza delle censure prospettate, appare necessario soffermare l'attenzione sull'inquadramento della disciplina legislativa regionale in oggetto nelle materie di cui all'art. 117 Cost. L'art. 1 della legge regionale n. 6 del 2006 ascrive la disciplina dei centri in questione alla materia del commercio, come ribadito dal successivo art. 2, comma 2, lettera a), a mente del quale per "centro di telefonia in sede fissa" s'intende «qualsiasi struttura ove è svolta l'attività commerciale in via esclusiva di cessione al pubblico di servizi telefonici». Inoltre, la successiva lettera b) dello stesso art. 2, comma 2, considera quale "cessione al pubblico di servizi telefonici" «ogni attività commerciale che importi una connessione telefonica o telematica allo scopo di fornire servizi di telefonia vocale indipendentemente dalle tecnologie di commutazione utilizzate, da realizzarsi nei locali o sulle superfici aperti al pubblico e a tale scopo attrezzati, nonchè l'attività di vendita di schede telefoniche». La difesa regionale, dal canto suo, ribadisce che «il nucleo essenziale dell'intervento legislativo regionale è da identificarsi nelle modalità di esercizio dell'attività commerciale». Questa collocazione materiale è contestata dall'autorità rimettente che, al contrario, riconduce i centri di telefonia tra i "servizi di comunicazione elettronica" di cui all'art. 2, paragrafo 1, lettera c), della Direttiva n. 2002/21/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio istitutiva di un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica), ai sensi del quale sono tali «i servizi forniti di norma a pagamento consistenti esclusivamente o prevalentemente nella trasmissione di segnali su reti di comunicazioni elettroniche, compresi i servizi di telecomunicazioni e i servizi di trasmissione nelle reti utilizzate per la diffusione circolare radiotelevisiva, ma ad esclusione dei servizi che forniscono contenuti trasmessi utilizzando reti e servizi di comunicazione elettronica o che esercitano un controllo editoriale su tali contenuti». È opportuno premettere che la pluralità degli interessi incisi dalla legge può determinare, sul piano del riparto della funzione legislativa tra Stato e Regioni, una convergenza di titoli competenziali su determinate aree materiali o su singoli oggetti. In situazioni del genere, questa Corte ha più volte chiarito che «occorre fare riferimento all'oggetto ed alla disciplina stabilita delle norme scrutinate, per ciò che esse dispongono (sentenze n. 450 e n. 411 del 2006), alla luce della ratio dell'intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi punti fondamentali, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi delle norme medesime (sentenze n. 319 e n. 30 del 2005), così da identificare correttamente e compiutamente anche l'interesse tutelato (sentenze n. 449 del 2006 e n. 285 del 2005)» (sentenza n. 165 del 2007; analogamente sentenza n. 430 del 2007). Nel presente giudizio, questa Corte osserva che la legge regionale scrutinata ha come oggetto assolutamente caratterizzante la determinazione, per una particolare categoria di esercizi qualificati come "commerciali", di speciali requisiti necessari perché i Comuni possano rilasciare un'apposita autorizzazione ai nuovi, così come ai preesistenti, centri di telefonia. In assenza di questa autorizzazione, o in caso di revoca della medesima, è vietato «l'esercizio dell'attività di cessione al pubblico del servizio di telefonia in sede fissa». Pacifica conferma di questa lettura della legge si trova nella prassi amministrativa, ad iniziare dalle circolari esplicative della legge censurata inviate dalla Regione ai Sindaci dei Comuni della Lombardia. Ora, anche prescindendosi dalla integrale sovrapposizione della analitica disciplina legislativa alla potestà regolamentare ed amministrativa propria dei Comuni (profilo che, pur presentando aspetti problematici, non può essere scrutinato in questa sede, in quanto non oggetto di specifica e motivata doglianza), appare evidente che la legge regionale si riferisce ad una particolare attività prevista e disciplinata dal succitato Codice delle comunicazioni elettroniche come «servizio di comunicazione elettronica», il cui art. 1, comma 1, lettera gg), riproduce testualmente il già riportato art. 2, paragrafo 1, lettera c) della suddetta Direttiva comunitaria del 2002. Al riguardo non è fondata la tesi difensiva regionale secondo cui non sarebbe applicabile la nozione di "servizi di comunicazione elettronica" in quanto i centri di telefonia «si limitano, svolgendo una funzione di "intermediari", a mettere a disposizione del pubblico personal computer o telefoni e usufruiscono a loro volta dei servizi di fornitura delle reti emanati dalle varie aziende». In realtà, tale attività rientra specificamente nella nozione di servizio di comunicazione elettronica come definito dal Codice, in quanto, appunto, consistente nell'erogazione del servizio di trasmissione di segnali su reti di comunicazione elettronica, ovvero del servizio di telecomunicazione. Peraltro, la ratio e la lettera di tutto il Codice sono nel senso di disciplinare l'intero arco delle comunicazioni elettroniche fino ai diritti di accesso ai mezzi da parte degli utenti. L'art. 25 del predetto Codice, che contempla – come si vedrà meglio successivamente – un'autorizzazione generale ed il relativo allegato n. 9 sono espliciti nel riferirsi anche ai fornitori al pubblico di «servizi di comunicazione elettronica». In tal senso, d'altra parte, risulta orientata la pacifica prassi amministrativa in atto anche nella Regione Lombardia: i gestori dei centri di telefonia, infatti, per mezzo del modello di cui al succitato allegato n. 9, denunciano l'inizio attività all'ispettorato territoriale del Ministero delle Comunicazioni, ai sensi e con le modalità di cui all'art. 25, comma 2, del predetto Codice. Certamente, nell'attività posta in essere dai centri di telefonia sono rinvenibili alcuni degli elementi tipici degli esercizi commerciali, tant'è vero, ad esempio, che l'art. 6 della legge regionale in questione si occupa proprio degli orari e delle modalità di esercizio di tale attività (profili ascrivibili alla materia del "commercio": si vedano le sentenze n. 243 del 2005 e n. 76 del 1972). Tuttavia, trattasi di elementi accessori e strumentali rispetto all'oggetto qualificante l'attività svolta dai centri di telefonia in sede fissa, consistente nella erogazione di un servizio di comunicazione elettronica. Nei centri di telefonia, invero, lo scambio di un servizio verso la corresponsione di un prezzo afferisce a beni ed esigenze fondamentali della persona e, nel contempo, della comunità, coinvolgendo interessi individuali (correlati alla comunicazione con altre persone) e generali (difesa e sicurezza dello Stato; protezione civile; salute pubblica; tutela dell'ambiente; riservatezza e protezione dei dati personali), diversamente da quanto accade nelle ordinarie attività commerciali di cui all'art. 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59). 7. – Questa Corte, nella sentenza n. 336 del 2005, ha già riconosciuto come il Codice delle comunicazioni elettroniche, al fine di adeguarsi alla normativa comunitaria, in generale ha inteso perseguire «l'obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure anche al fine di garantire l'attuazione delle regole della concorrenza». Nella medesima sentenza si è anche affermato che le disposizioni del suddetto Codice intervengono in molteplici ambiti materiali, diversamente tra loro caratterizzati in relazione al riparto della competenza legislativa fra Stato e Regioni: sono, infatti, rinvenibili in questo settore titoli di competenza esclusiva statale («ordinamento civile», «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale», «tutela della concorrenza»), e titoli di competenza legislativa ripartita («tutela della salute», «ordinamento della comunicazione», «governo del territorio»). Vengono, infine, in rilievo anche materie di competenza legislativa residuale delle Regioni, quali, in particolare, l'«industria» ed il «commercio» (alle quali la pronuncia del 2005 non dava particolare rilievo, in quanto estranee agli ambiti allora presi in considerazione). Non è invece pertinente, in questa sede, l'evocazione dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto la disciplina regionale dei centri di telefonia non incide sulla «determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto» (sentenza n. 168 del 2008; si vedano altresì le sentenze n. 50 del 2008; n. 387 del 2007 e n. 248 del 2006). Nel presente giudizio, per le ragioni illustrate sopra, viene in rilievo la disciplina dettata dal Codice delle comunicazioni elettroniche, e in particolare, dall'art. 3, il quale espressamente fissa i principi generali del settore delle comunicazioni elettroniche. In questa sede, di particolare rilievo appaiono le disposizioni del comma 1, che garantisce «i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica, nonché il diritto di iniziativa economica ed il suo esercizio in regime di concorrenza, nel settore delle comunicazioni elettroniche», nonché del comma 2, secondo cui «la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica, che è di preminente interesse generale, è libera». È evidente che disposizioni del genere sono espressione della competenza esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza» e di «ordinamento civile», prima ancora di costituire principi fondamentali in tema di «ordinamento della comunicazione». Ciò non toglie che lo stesso Codice, al comma 3 del medesimo art. 3, preveda anche la possibilità di porre «limitazioni derivanti da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell'ambiente e della riservatezza e protezione dei dati personali». Limitazioni, tuttavia, che devono essere «poste da specifiche disposizioni di legge o da disposizioni regolamentari di attuazione». Dal canto suo, il successivo art. 4 pone fra gli «obiettivi generali della disciplina di reti e servizi di comunicazione elettronica» la garanzia di un «accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità», nonché la promozione della «semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica». 8. – I principi generali del Codice trovano concretizzazione nella previsione di una «autorizzazione generale» che l'art. 25 del Codice richiede per lo svolgimento dell'attività di fornitura di servizi di comunicazione elettronica. Tale autorizzazione «consegue alla presentazione» al Ministero per le comunicazioni da parte degli interessati di una apposita dichiarazione «contenente l'intenzione di iniziare la fornitura di reti o servizi di comunicazione elettronica, unitamente alle informazioni strettamente necessarie per consentire al Ministero di tenere un elenco aggiornato dei fornitori di reti e di servizi di comunicazione elettronica» ed integrata da quanto appositamente richiesto dall'allegato n. 9 del Codice. Coerente rispetto al principio di libertà nell'attività di fornitura ed all'obiettivo della massima semplificazione dei procedimenti è la circostanza che la dichiarazione costituisca denuncia di inizio attività, di modo che «l'impresa è abilitata ad iniziare la propria attività a decorrere dall'avvenuta presentazione della dichiarazione»; il Ministero può solo disporre, entro il termine di sessanta giorni, «se del caso, con provvedimento motivato da notificare agli interessati entro il medesimo termine, il divieto di prosecuzione dell'attività» laddove verifichi d'ufficio la mancanza dei requisiti richiesti (art. 25, comma 4). Rispetto a questo «quadro normativo istituito dallo Stato membro» (si tratta della definizione di «autorizzazione generale» secondo l'art. 2, comma 2, lettera a, della Direttiva 7 marzo 2002, n.2002/20/CE), si pone in palese contrasto la censurata legge regionale. Essa, infatti, in nome della propria competenza legislativa in materia di commercio, pretende di disciplinare organicamente «l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa», prevedendo, all'art. 4, la necessità di uno speciale provvedimento autorizzatorio, diverso ed ulteriore rispetto a quello previsto dall'art. 25 del Codice che il Comune è chiamato a concedere o negare entro novanta giorni dalla presentazione della domanda, e al cui rilascio è subordinato l'esercizio dell'attività. Inoltre, il conseguimento del provvedimento autorizzatorio è subordinato dal citato art. 4 alla sussistenza di requisiti alquanto eterogenei ("morali" per i titolari ed i gestori – art. 3; di disponibilità dei locali – art. 4; di caratteristiche igienico-sanitarie, di presenza di sufficienti misure di sicurezza dei luoghi di lavoro e di prevenzione degli incendi– art. 8; di natura urbanistica – art. 7; ecc.), i quali si sovrappongono, largamente ed in diversi ambiti, ai requisiti previsti dal Codice e dalle leggi a cui questo rinvia e, soprattutto, contraddicono palesemente l'unicità del procedimento autorizzativo e le collegate esigenze di semplificazione e tempestività dei procedimenti. Non vi è dubbio che il comma 1 dell'art. 25 del Codice (riproducendo quanto in generale determinato dal comma 3 dell'art. 3 del medesimo testo) prevede che la libertà nella fornitura di servizi di comunicazione elettronica possa essere limitata anche «da specifiche disposizioni» che siano «giustificate da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato e della sanità pubblica, compatibilmente con le esigenze della tutela dell'ambiente e della protezione civile». Tuttavia, queste disposizioni possono solo integrare la procedura autorizzativa prevista dall'art. 25 (d'altra parte, lo stesso allegato 9 al Codice prevede che il dichiarante, al momento della richiesta di autorizzazione, debba garantire anche il rispetto «delle condizioni che possono essere imposte alle imprese in virtù di altre normative non di settore») o temporaneamente ad essa sommarsi in casi di emergenza (si veda il primo comma dell'art. 7 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155, che fino al 31 dicembre 2008 prevede la necessità anche di una licenza del Questore). Confligge, dunque, con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale la introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell'attività dei centri di telefonia; ferma restando la possibilità per i Comuni, tramite la loro potestà regolamentare, e le Regioni, tramite la loro potestà legislativa, di disciplinare specifici profili incidenti anche su questo settore. Deve pertanto essere dichiarata l'illegittimità costituzionale, per violazione dei criteri di riparto delle competenze di cui all'art. 117 della Costituzione, degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge regionale n. 6 del 2006. 9. – Pur restando escluse dall'oggetto del giudizio le altre norme della legge della Regione Lombardia, non validamente impugnate, questa Corte rileva che la riscontrata illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, non può che estendersi all'intera legge regionale n. 6 del 2006. Invero, l'assetto normativo concepito dal legislatore lombardo s'irradia dalle suddette disposizioni che configurano l'autorizzazione ivi prevista quale nucleo essenziale del prescelto regime amministrativo. Tutti gli altri articoli della legge regionale censurata risultano avvinti da un inscindibile rapporto strumentale alle disposizioni dichiarate incostituzionali. E, pertanto, il vizio d'incostituzionalità si proietta sull'intera disciplina dei centri di telefonia, determinandone la complessiva caducazione ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 10. – Le residue censure, riferite agli altri parametri evocati, restano assorbite. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi; a) dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa); b) dichiara, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006; c) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione, con le ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia nei confronti dell'art. 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006; d) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2008. CGA, SEZ. GIURISDIZIONALE - sentenza 11 giugno 2008 n. 514 - Pres. Virgilio, Est. Zucchelli Comune di Trecastagni (Avv. De Luca) c. Vodafone Omnitel N. V. (Avv. Libertini) - (conferma T.A.R. Sicilia Catania, Sez. II, sent. 23 marzo 2007 n. 505). 1. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Verifica della compatibilità urbanistica ed edilizia - Devono essere svolte nell'ambito del procedimento disciplinato dall'art. 87 d.lg. n. 259 del 2003. 2. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Denuncia di inizio attività Decorrenza del termine previsto dall’art. 87 del decreto legislativo n. 259 del 2003 Formazione del silenzio-assenso - Si verifica - Applicabilità della norma anche nella Regione siciliana. 3. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Denuncia di inizio attività Decorrenza del termine di 90 giorni previsto dall’art. 87 del decreto legislativo n. 259 del 2003 - Formazione del silenzio-assenso - Ordinanza di demolizione - Adottata senza il previo annullamento dell’autorizzazione rilasciata in forma tacita - Illegittimità. 4. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Denuncia di inizio attività Pubblicazione di cui all’articolo 87, comma 4 del decreto legislativo n. 259 del 2003 - Onere Incombe sulla P.A. - Omissione - Conseguenze sulla formazione del silenzio-assenso - Non si producono. 1. Le verifiche di compatibilità edilizia ed urbanistica delle infrastrutture di comunicazioni elettroniche devono essere svolte nell'ambito del procedimento disciplinato dall'art. 87 del D.L.vo 1 agosto 2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). Infatti, la "ratio" della riforma è stata quella di semplificare il procedimento e di concentrare al suo interno tutte le relative valutazioni di carattere urbanistico-edilizio e igienico-sanitarie, le quali sono state unificate sul piano procedimentale (1). 2. Il decorso del termine di 90 giorni previsto dall’art. 87 del D.L.vo 1 agosto 2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche) su di una denuncia di inizio attività per la realizzazione di una stazione radio-base per telefonia cellulare, comporta la formazione di un provvedimento di silenzio accoglimento; tale norma è applicabile direttamente anche nella Regione siciliana, in assenza di una normativa specifica di origine regionale. 3. E’ illegittima la ordinanza di demolizione di una stazione radio base per telefonia cellulare per la quale, a seguito di apposita d.i.a., si sia formato il silenzio-assenso, che non sia stato preceduta da un formale provvedimento di annullamento dell’autorizzazione formatasi in via tacita; con il formarsi del silenzio assenso sulla d.i.a., infatti, il potere amministrativo di verifica della compatibilità urbanistica della stazione radio base si deve ritenere ormai consumato e dunque una nuova espressione sul punto è da considerarsi attuata in carenza di qualsiasi potere amministrativo. 4. La pubblicazione di cui all’articolo 87, comma 4 del decreto legislativo n. 259 del 2003 (Codice delle telecomunicazioni), compete alla amministrazione procedente (il così detto sportello locale) e non al privato, e dunque non può essere considerato parametro di illegittimità del provvedimento formatosi in via tacita. ------------------------------------(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 28 febbraio 2006, n. 889. ------------------------------------Documenti correlati: CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 15-6-2006, n. 3534, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/cds6_200606-15.htm (sulla illegittimità della diffida inviata dopo il decorso del termine di 90 giorni previsto dall’art. 87, comma 9, del Codice delle comunicazioni elettroniche e sui limiti del potere regolamentare dei Comuni in materia di localizzazione di stazioni radio base per telefonia mobile). TAR CAMPANIA - NAPOLI SEZ. VII, sentenza 12-10-2006, n. 8551, pag. http://www.lexitalia.it/p/62/tarcampna7_2006-10-12.htm (sulla legittimità o meno della diffida a non iniziare i lavori inviata dopo il termine di 90 giorni dalla d.i.a. relativa alla realizzazione di una stazione radio-base per telefonia mobile). REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente Decisione sul ricorso in appello n. 1036/07 proposto da COMUNE DI TRECASTAGNI, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avvo-cato Pietro De Luca, ex lege domiciliato in Palermo, via Cordova n. 76, presso la Segreteria del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana in sede giurisdizionale; contro VODAFONE OMNITEL N. V., corrente in Ivrea , in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Mario Libertini, elettivamente domiciliata in Palermo, via G. Ventura n. 1, presso lo studio dell’avvocato Daniela Macaluso; per la riforma della sentenza del T.A.R. per la Sicilia - sezione staccata di Catania (sez. II) - n. 505/07 del 7-23 marzo 2007. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’avvocato M. Libertini per la Vodafone Omnitel N.V.; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Relatore il Consigliere Claudio Zucchelli; Uditi alla pubblica udienza del 29 novembre 2007 l’avvocato P. De Luca per il comune appellante e l’avvocato A. Macaluso, su delega dell’avvocato M. Libertini, per la società appellata; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: FATTO La Vodafone Omnitel N.V. (Vodafone) ha presentato in data 19 dicembre 2005 denuncia di inizio attività per la realizzazione di una stazione radio base al servizio della telefonia cellulare UMTS, ai sensi degli articoli 86, 87 e 88 dell’allegato 13, modello A del decreto legislativo n. 259 del 2003. Presentava altresì istanza di N.O. alla competente Soprintendenza, ottenendone provvedimento positivo a condizione che l’antenna fosse camuffata sotto forma di una falsa canna fumaria. Il Sindaco, preso atto dell’avvenuto silenzio accoglimento, inviava avviso di avvio del procedimento di annullamento del provvedimento tacito. Seguiva la sospensione dei lavori e la comunicazione del parere negativo della Commissione edilizia e quindi l’ordine di demolizione. Pertanto la Vodafone ha impugnato dinanzi al TAR di Catania: L’ordinanza sindacale n. 57 del 9 gennaio 2006 di sospensione dei lavori di realizzazione di una stazione radio base per telefonia; Il rigetto della istanza di revoca della ordinanza sindacale n. 57 del 2006 di sospensione dei lavori; La delibera CC 59 del 2006 di approvazione regolamento comunale per l’installazione e l’esercizio degli impianti di telefonia; La nota 20740 del 26 ottobre 2006 recante disposizioni per l’ubicazione delle antenne di telefonia fuori dell’abitato; L’avviso dell’avvio di procedimento per annullamento della già concessa autorizzazione in DIA.; La diffida del 16 maggio 2006 n. 9993; La nota n. 2089 del 18 gennaio 2006 recante richiesta integrazione documentale; Il parere della CEC del 22 novembre 2006; Il diniego di autorizzazione edilizia n. 23857 del 5 dicembre 2006; L’ordinanza ingiunzione 65 del 7 dicembre 2006 di demolizione; Gli articoli 25 e 38 del regolamento edilizio comunale. Lamentava: L’avvenuta formazione del silenzio sulla istanza per la localizzazione a seguito dei chiarimenti forniti, riconosciuto con nota n. 10435 del 23 maggio 2006. Illegittimità della successiva sospensione per motivi edilizi. Il progetto era conosciuto dalla amministrazione durante l’iter della localizzazione ex decreto legislativo 259 del 2003 ed in quella sede doveva essere verificata la conformità urbanistica. La costruzione degli impianti radiotelefonici è compatibile con tutte le destinazioni urbanistiche C.d.S. VI, 4 settembre 2006, n. 5096 e 29 luglio 2005, n. 4125. L’articolo 86, comma 3 del 259 ha equiparato le antenne alle opere di urbanizzazione primaria. Carenza di motivazione circa l’effettivo contrasto con il prgc. Illegittimità della applicazione alle antenne dei limiti dettati per altre infrastrutture tecnologiche (camini etc) C.d.S. VI, 7 giugno 2006, n. 3425 eventuale illegittimità per contrasto o con il 259 della norma regolamentare che applica le regole dei camini anche alle antenne. Non tardività della impugnazione del regolamento perché norma non conformativa e lesiva solo nella applicazione. Inapplicabilità dell’articolo 7 comma 2 della legge n. 47 del 1985 (demolizione opere in difformità dalla concessione) perché inapplicabile alle antenne (VI 7 giugno 2006, n. 3245). Illegittima applicazione del regolamento sopravvenuto ad un provvedimento già concluso. Illegittimità della previsione circa la preferenza per siti comunali perché la localizzazione è rimessa al gestore per motivi tecnici. Eccesso di potere, poiché l’insieme delle limitazioni del regolamento rende di fatto impossibile la localizzazione. Ai sensi dell’articolo 8, comma 1 legge n. 36 del 2001 spetta alle regioni e non ai comuni l’individuazione dei siti per gli impianti di telefonia mobile. Tuttavia, poiché la regione Sicilia non ha normato, si applica solo il codice delle comunicazioni. Carenza di istruttoria. Sviamento di potere per l’uso del potere urbanistico a tutela della salute che non spetta la comune, ma ai limiti previsti dal dpcm 8 luglio 2003, n. 11719 il cui esercizio spetta alla regione. Si costituiva in giudizio il Comune di Trecastagni eccependo: Inammissibilità della impugnazione di atti non aventi natura provvedimentale o reiterativi. Irricevibilità per tardività della impugnazione del regolamento comunale sulla localizzazione degli impianti, della nota di avvio del procedimento, della diffida, della richiesta di integrazione di documenti per la DIA, del regolamento edilizio. Inammissibilità per carenza di contraddittorio nei confronti del Consiglio Comunale. Inammissibilità per l’avvenuta acquiescenza alla deliberazione del comune recante direttiva per l’ubicazione delle antenne. Con la sentenza di cui in epigrafe il TAR accoglieva il ricorso. Osservava: Illegittimità del regolamento comunale che dispone la localizzazione fuori dell’abitato per invasione delle competenze statali di cui alla legge n 36 del 2001 a tutela della salute pubblica. Gli impianti di telefonia mobile sono opere di pubblica utilità compatibili con qualunque zonizzazione e non richiedono titolo edilizio. La sussistenza del parere positivo della ARPA sul progetto assentito in DIA. Illegittimità del provvedimento di demolizione in relazione alla necessità di camuffare l’antenna come canna fumaria prescritta dalla sovrintendenza. Avverso la detta sentenza promuove appello l’appellante in epigrafe lamentando: Omessa pronuncia sulla tardività della impugnazione dei due regolamenti comunali sulla localizzazione delle antenne. Inesistenza di un’invasione di competenze dello Stato in tema di limiti elettromagnetici da parte del regolamento edilizio, il quale ha solo regolato la gestione del territorio. Si applicano le norme sulle canne fumarie che sono di natura edilizia e non funzionale all’uso. La condizione posta dalla sovrintendenza deve essere compatibile con le norme edilizie. Si costituisce in giudizio la Vodafone riproponendo come eccezioni i motivi di primo grado ed in particolare insiste che le antenne non abbisognano di titolo edilizio, che il parere è successivo al silenzio assenso, che le norme del regolamento sono state applicate in via analogica, che non sono applicabili alle antenne le norme dei camini, che se lo fossero le norme di regolamento sarebbero contrarie alla legge 36 del 2001 sulla protezione elettromagnetica e all’art 86 del d. lvo. 259 del 2003, sugli impianti radio. DIRITTO Come è stato esposto in narrativa, e come emerge dagli atti depositati ed in particolare dalla nota del 23 maggio 2006 del Comune, non vi è dubbio alcuno che sulla denuncia di inizio attività si sia formato il silenzio accoglimento ai sensi dei commi 5 e 9 dell’articolo 87 del decreto legislativo n. 259 del 2003, applicabile direttamente nella Regione siciliana in assenza di una normativa specifica di origine regionale. Orbene, come è stato ritenuto dal Consiglio di Stato con sentenza sez. VI, 28 febbraio 2006, n. 889, le verifiche di compatibilità edilizia ed urbanistica delle infrastrutture di comunicazioni elettroniche devono essere svolte nell'ambito del procedimento disciplinato dall'art. 87 d.lg. n. 259 del 2003. Infatti, la "ratio" della riforma è stata quella di semplificare il procedimento e di concentrare al suo interno tutte le relative valutazioni di carattere urbanistico-edilizio e igienico-sanitarie, le quali sono state unificate sul piano procedimentale. Pertanto il procedimento in questione si è chiuso con il silenzio assenso di cui all’articolo 87 citato anche per quanto concerne la compatibilità urbanistica. Ne consegue che il potere del Comune, dopo la formazione del silenzio si limita alla eventuale autotutela annullatoria, alla presenza dei presupposti tralaticiamente affermati dalla giurisprudenza: sussistenza di un’illegittimità, pur non sufficiente per sé sola a sostenere l’annullamento, esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell'atto, adeguata motivazione. Sotto questo profilo, con tutta evidenza, si appalesa illegittima la diffida del 16 maggio 2006. Essa, infatti, è sorretta da considerazioni circa la carenza di presupposti per l’accoglimento della DIA infondate atteso che si era nel frattempo formato il silenzio sulla denuncia stessa. Per gli stessi motivi l’avviso di procedimento per l’annulla-mento in autotutela del provvedimento tacito si appalesa illegittimo, o meglio denuncia l’illegittimità dei presupposti dello stesso procedimento. Infatti, quanto alla contestazione in esso contenuta circa la mancanza della pubblicazione di cui all’articolo 87, comma 4 del codice delle telecomunicazioni, è sufficiente osservare che tale adempimento compete alla amministrazione procedente (il così detto sportello locale) e non al privato, e dunque non può essere considerato parametro di illegittimità del provvedimento tacito. Quanto alla mancanza della compatibilità urbanistica ed edilizia del progetto, si è già osservato che essa è stata soddisfatta all’inter-no del procedimento unico e dunque con il silenzio assenso la compatibilità stessa è già stata acclarata. Quanto alla motivazione, si osservi che la nota impugnata costituisce solo comunicazione dell’avvio del procedimento. Il successivo provvedimento di annullamento avrebbe dovuto essere emanato e comunicato nei termini alla richiedente. Ciò tuttavia non è avvenuto, atteso che il Comune ha, di poi, proseguito nella procedura di valutazione urbanistica, senza emanare un formale atto di annullamento. Ciò non costituisce ostacolo alla pronuncia di questo Giudice. Ed, infatti, il formalismo proprio degli atti amministrativi non può obliterare la circostanza che il combinato tra l’avviso di avvio del procedimento, che rinvia ad una ancora da effettuare verifica della compatibilità, ed il parere della Commissione, che scioglie negativamente la riserva su questa, costituiscono esempio classico di un così detto provvedimento tacito, o per meglio dire di un provvedimento attuativo. L’illegittimità di questo, tuttavia, diviene palese per i motivi che seguiranno. Illegittima è anche la sospensione dei lavori disposta con la nota del 9 ottobre 2006. Essa è, infatti, motivata con la mancata presentazione agli uffici del progetto per l’installazione della antenna camuffata in canna fumaria. Tale presupposto è palesemente errato, atteso che, come già detto, sul progetto si era formato il silenzio assenso a seguito della procedura di cui all’articolo 87 del codice delle telecomunicazioni. Quanto al parere della Commissione edilizia, che costituisce contenuto e motivazione dello stesso annullamento tacito o implicito, deve considerarsi affetto da illegittimità, poiché con il formarsi del silenzio assenso il potere amministrativo di verifica della detta compatibilità si era consumato e dunque una nuova espressione sul punto era da considerarsi attuata in carenza di qualsiasi potere amministrativo. Essa, pertanto, non poteva sorreggere alcun provvedimento dovendosi considerare, sostanzialmente, come tamquam non esset, sotto il profilo giuridico. Ne consegue l’illegittimità derivata del successivo provvedimento di demolizione delle opere del 7 dicembre 2006. In conclusione, ogni ulteriore motivo assorbito, si deve ritenere l’illegittimità dei seguenti atti: nota di diffida n. 9993 del 16 maggio 2006, nota di avviso dell’avvio di procedimento n. 10435 del 23 maggio 2006, ordinanza n. 57 del 9 ottobre 2006 di sospensione dei lavori, nota n. 20740 del 26 ottobre 2006 circa l’ubicazione delle antenne fuori del centro abitato, parere della Commissione edilizia del 22 novembre 2006, nota n. 23867 del 5 dicembre 2006 di rigetto della autorizzazione alla realizzazione del progetto sulla scorta del parere della Commissione edilizia, ordinanza n. 65 del 7 dicembre 2006. L’accoglimento dei motivi di primo grado avverso gli atti citati rende improcedibile per carenza di interesse la parte di ricorso rivolta alla impugnazione del regolamento edilizio comunale che, in effetti, non si appalesa immediatamente lesivo nella specie. L’appello deve essere respinto, ma sussistono giustificati motivi per la compensazione integrale delle spese, competenze ed onorari dei due gradi del giudizio. P. Q. M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe lo respinge e, per l'effetto, accoglie il ricorso di primo grado. Compensa tra le parti le spese, competenze ed onorari dei due gradi del giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 29 novembre 2007, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Claudio Zucchelli, estensore, Pietro Falcone, Antonino Corsaro, Filippo Salvia, Componenti. F.to: Riccardo Virgilio, Presidente F.to: Claudio Zucchelli, Estensore F.to: Maria Assunta Tistera, Segretario Depositata in segreteria l’ 11 giugno 2008. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 21 aprile 2008 n. 1767 - Pres. Varrone, Est. De Michele Comune di Acerra (Avv. Marone) c. Omnitel Vodafone s.p.a. (Avv. Sartorio) - (conferma T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 19 febbraio 2003, n. 977). 1. Ambiente - Elettrosmog - Impianti per telefonia mobile - Potere dei Comuni di adottare misure programmatorie integrative per la localizzazione degli impianti per telefonia mobile Sussiste. 2. Ambiente - Elettrosmog - Impianti per telefonia mobile - In mancanza di apposita disciplina comunale - Applicabilità della normativa urbanistica generale - Sussiste - Necessità di considerare detti impianti compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate e non soggetti in linea di massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza e cubatura delle costruzioni circostanti - Sussiste. 3. Ambiente - Elettrosmog - Impianti per telefonia mobile - Mancanza di apposita disciplina comunale - Non può precludere la loro installazione in qualsiasi parte del territorio comunale - Diniego di rilascio di autorizzazione motivato con riferimento alla mancanza di una regolamentazione specifica - Illegittimità. 1. I Comuni possono adottare misure programmatorie integrative per la localizzazione degli impianti per telefonia mobile, in modo tale da minimizzare l’esposizione dei cittadini residenti ai campi elettromagnetici, anche in un’ottica di ottimale disciplina d’uso del territorio (1). 2. Nel caso in cui un Comune non abbia dettato la normativa regolamentare di cui all’art. 8, comma 6, L. 22 febbraio 2001 n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici), in ordine alla localizzazione nel proprio territorio di impianti per telefonia mobile, l’installazione di antenne o tralicci per detti impianti è soggetta – sotto il profilo urbanistico – ai principi di carattere generale, che vedono tralicci ed antenne di rilevanti dimensioni, da una parte, valutabili come strutture edilizie soggette a permesso di costruire (ora ad assenso autorizzativo, assorbente rispetto a tale permesso) non collocabili in zone di rispetto, o comunque soggette a vincolo di inedificabilità assoluta, ma che dall’altra impongono di considerare tali manufatti – in quanto parte di una rete di infrastrutture, qualificate come opere di urbanizzazione primaria, nonchè in quanto impianti tecnologici e volumi tecnici – compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate e non soggetti in linea di massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza e cubatura delle costruzioni circostanti (2). 3. L’installazione di antenne o tralicci per impianti di telefonia cellulare non può essere preclusa dall’assenza di una disciplina specifica comunale, volta ad individuare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di cui trattasi ed a minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici (nei limiti di ragionevolezza e rispetto delle norme statali, in cui tale localizzazione è ritenuta possibile dalla giurisprudenza). E’ pertanto illegittimo il rigetto di una istanza di autorizzazione per la posa in opera di una postazione di antenne per telefonia cellulare motivato con esclusivo riferimento alla mancata predisposizione, da parte del Comune, di un regolamento relativo all’installazione di antenne telefoniche. ----------------------------(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 3 giugno 2002, n. 3095; 20 dicembre 2002, n. 7274; 10 febbraio 2003, n. 673; 26 agosto 2003, n. 4841. (2) Cfr. in tal senso, per il principio, Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2006, n. 3243 e 7 giugno 2006, n. 3425, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/cds6_006-06-07.htm -----------------------------Documenti correlati: CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 7-6-2006, n. 3425, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/cds6_00606-07.htm (sull’applicabilità o meno in via analogica della disciplina sui limiti di altezza delle costruzioni agli impianti tecnologici come le stazioni radio base per telefonia mobile; fattispecie relativa ad ordinanza di demolizione di antenna alta 30 metri). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 25-9-2006, n. 5593, pag. http://www.lexitalia.it/p/62/cds6_2006-09-25.htm (sulla legittimità o meno della norma regolamentare dettata dal Comune di Venezia che consente l’installazione di antenne per telefonia mobile solo su edifici aventi una altezza superiore a quella degli edifici circostanti). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 7-6-2006, n. 3425, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/cds6_00606-07.htm (sull’applicabilità o meno in via analogica della disciplina sui limiti di altezza delle costruzioni agli impianti tecnologici come le stazioni radio base per telefonia mobile; fattispecie relativa ad ordinanza di demolizione di antenna alta 30 metri). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, ordinanza 7-2-2006, n. 671, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/cds6_200602-07o.htm (sulla necessità o meno di permesso di costruire per l'installazione di antenne relative a stazioni radio base di telefonia mobile e sulla loro realizzabilità o meno in zona soggetta a vincolo cimiteriale). TAR SICILIA - PALERMO SEZ. II, sentenza 22-2-2005, n. 203, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/tarsiciliapa2_2005-02-22.htm (sulla necessità o meno - dopo l’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio - del nulla osta della Soprintendenza per l’installazione di antenne e pali per telefonia in zone soggette a tutela ambientale). TAR CAMPANIA - SALERNO SEZ. VII, sentenza 3-8-2006, n. 7815, pag. http://www.lexitalia.it/p/62/tarcampsa7_2006-08-03.htm (sulla legittimità o meno di un’ordinanza contingibile ed urgente con cui il Sindaco, per esigenze di tutela della salute pubblica, dispone la sospensione, in tutto il territorio comunale, di ogni attività volta all’istallazione di infrastrutture e/o di antenne di telefonia mobile). TAR EMILIA ROMAGNA-PARMA, SEZ. I, ordinanza 20-2-2001, n. 59, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/taremiliaparm_2001-59.htm (sospende una concessione edilizia per la realizzazione di una stazione radio base per antenne di telefonia cellulare non preceduta dalla valutazione di impianto ambientale). TAR PUGLIA-LECCE, SEZ. I, ordinanza 8-11-2001, n. 1392, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarpugliale_2001-1392-o.htm (le antenne radio per telefonia cellulare non sono assimilabili alle opere di urbanizzazione primaria; nei loro confronti sono pertanto applicabili i limiti di altezza previsti per le costruzioni). TAR SICILIA-CATANIA, SEZ. III, ordinanza 24-10-2001, n. 2007, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarct3_2001-10-24-o.htm (è da ritenere legittimo un regolamento comunale con il quale si disciplina l’istallazione di antenne radio base per telefonia mobile). TAR SICILIA-PALERMO, SEZ. II, sentenza 16-11-2001, n. 1549, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarpa2_2001-11-16.htm (è illegittimo il provvedimento con il quale si dispone la rimozione di una preesistente antenna per telefonia cellulare, ove non siano state indicate le specifiche ragioni igienico-sanitarie che giustificavano la rimozione stessa). REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n.6362/03, proposto dal COMUNE DI ACERRA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Gherardo Marone ed elettivamente domiciliato presso l’Avv. Luigi Napolitano in Roma, viale Angelico, 38; contro OMNITEL VODAFONE s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppe Sartorio ed elettivamente domiciliata presso l’Avv. L. Manzi in Roma, via F. Confalonieri, 5; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sez. I, n. 977 del 19.2.2003; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della società appellata; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Alla pubblica udienza del 29 gennaio 2008 relatore il Consigliere Gabriella De Michele; Uditi l’avv. Marone e l’avv. Sartorio; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FATTO Con atto di appello notificato il 24.6.2003, il Comune di Acerra impugnava la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sez. I, n. 977 del 19.2.2003 – che non risulta notificata – nella quale si accoglieva il ricorso proposto dalla società Vodafone Omnitel s.p.a. avverso il rigetto, con nota n. prot. 17663 del 25.7.2001 (recte: 2002), di una istanza di autorizzazione per la posa in opera di una postazione di antenne per telefonia cellulare. Nella citata sentenza si rilevava come il diniego comunale – motivato con esclusivo riferimento alla mancata predisposizione, da parte del medesimo Comune, di "regolamento relativo all’installazione di antenne telefoniche" – fosse illegittimo poichè "generico e generalizzato", in quanto connesso alla "asserita mancanza di espresse e specifiche previsioni, negli strumenti urbanistici vigenti, di disposizioni relative alla localizzazione di stazioni radio base di telefonia mobile", mentre in attesa di tale localizzazione (possibile a norma dell’art. 8, comma 6 della legge n. 36/2001) le Amministrazioni locali sarebbero state comunque tenute ad applicare le disposizioni urbanistiche vigenti. Inammissibile, prima ancora che infondata, veniva poi ritenuta l’ulteriore argomentazione comunale (prospettata solo in sede di giudizio e non, come sarebbe stato necessario, nella motivazione del provvedimento), secondo cui l’intervento di cui trattasi sarebbe risultato incompatibile con la destinazione agricola della zona (zona "E" di P.R.G.). Tutte le ragioni sopra sintetizzate erano contestate dal citato Comune di Acerra, che sottolineava le rilevanti dimensioni dell’impianto di cui trattasi, di altezza pari ad otto metri e tale da determinare un "irreversibile stravolgimento del preesistente stato dei luoghi", da sottoporre a verifica di compatibilità con gli strumenti urbanistici (strumenti che, nella fattispecie, vedrebbero realizzabile l’impianto di cui si discute in zona "D", destinata agli impianti produttivi). Solo in sede di adozione del regolamento comunale, di cui all’art. 8, comma 6 della legge n. 36/2001 il medesimo Comune sarebbe quindi stato in grado – a detta del medesimo – di individuare nuove aree per la localizzazione delle strutture di cui trattasi, restando fino a tale adozione tenuto all’applicazione delle disposizioni urbanistiche vigenti, ancora estranee alla liberalizzazione del settore, introdotta con D.Lgs. n. 198/2002. La società appellata, costituitasi in giudizio, eccepiva in via preliminare l’inammissibilità e nel merito l’infondatezza del gravame: sotto il primo profilo, in quanto sarebbero state prospettate argomentazioni (quelle riferite alla destinazione dell’area interessata dall’intervento) estranee alle ragioni enunciate nel provvedimento; in merito all’infondatezza, poi, in quanto avrebbe dovuto essere rilevato difetto assoluto di motivazione, circa le puntuali e specifiche prescrizioni da ritenere incompatibili con l’effettuazione dell’intervento stesso (prescrizioni, solo in presenza delle quali il diniego avrebbe potuto essere emesso), mentre in nessun caso sarebbe stata possibile la mancata conclusione espressa del procedimento, non sussistendo i presupposti per l’adozione di misure soprassessorie di salvaguardia. DIRITTO La questione sottoposta all’esame del Collegio è quella della disciplina urbanistica, a cui dovrebbero considerarsi soggette, alla data di adozione del provvedimento contestato (25.7.2002), le strutture tecnologiche di telecomunicazione e radiodiffusione, nella peculiare situazione di un Comune che non avesse dettato al riguardo alcuna disciplina, nei termini in cui una disciplina regolamentare apposita è, al riguardo, ammessa dall’art. 8, comma 6 della legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (L. 22.2.2001, n. 36). Alla data sopra indicata, in effetti, risultava non ancora emanato il decreto legislativo 4.9.2002, n. 198, che nell’art. 3, comma 2, avrebbe poi sancito la compatibilità "con qualsiasi destinazione urbanistica " e la realizzabilità "in ogni parte del territorio comunale" delle infrastrutture in questione, "anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge o di regolamento" (con eccezione prevista solo per alcuni manufatti di particolare consistenza, quali torri e tralicci, relativi alle reti di televisione digitale terrestre). Pur non essendo, tuttavia, la disposizione appena richiamata applicabile al caso di specie (in quanto successivamente emanata) appare comunque rilevante – per una migliore comprensione dei principi interpretativi, cui attenersi nella situazione in esame – che la stessa sia stata dichiarata incostituzionale con sentenza della Suprema Corte n. 303 in data 1.10.2003, in quanto – nel consentire l’insediamento generalizzato sul territorio degli impianti di cui si discute – la norma in questione sarebbe stata lesiva della potestà pianificatoria della Regione: una potestà da esercitarsi anche a livello di legislazione concorrente, in base al nuovo articolo 117, comma 3, della Costituzione, che tra le materie oggetto di tale attribuzione cita il "governo del territorio", la "tutela della salute" e l’"ordinamento della comunicazione". Si deve quindi rilevare, in primo luogo, che la disciplina degli impianti di telecomunicazione e radiotelevisivi coinvolge profili sia di tutela dell’ambiente che di governo del territorio, in quanto impone standards di protezione dalle onde elettromagnetiche – uniformi su tutto il territorio nazionale – a garanzia del diritto alla salute, ma anche modalità di localizzazione degli impianti stessi, tali da consentire il rispetto sia dei parametri urbanistici che di corrette regole di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, nonché di ottimale diffusione delle reti di comunicazione, secondo un ben preciso riparto di competenze. Come ribadito dalla stessa Corte Costituzionale con sentenza n. 307 del 7.10.2003 – in armonia peraltro con l’indirizzo giurisprudenziale, già formatosi sulla legge quadro n. 36/01 – la determinazione degli standards di protezione dall’inquinamento elettromagnetico è competenza dello Stato (sotto il profilo di valori-soglia, non derogabili dalle Regioni), mentre è materia di legislazione concorrente (ovvero, rientrante anche nella potestà legislativa regionale, ma nel rispetto di principi fondamentali, fissati da leggi dello Stato) il trasporto dell’energia e l’ordinamento della comunicazione; è infine rimessa alle Regioni e agli enti territoriali minori la localizzazione degli impianti, come questione attinente alla disciplina d’uso del territorio, purchè la pianificazione, a quest’ultimo riguardo dettata, non sia tale "da impedire o da ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli impianti stessi". L’interprete è quindi chiamato ad affrontare problematiche, che attengono sia allo sviluppo del territorio, sia a fattori di inquinamento ambientale, questi ultimi solo in parte superabili attraverso il verificato rispetto dei parametri, fissati dallo Stato come "limiti di esposizione" ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, mentre - sul piano dell’edificazione - gli impianti tecnologici di cui trattasi trovano parametri di riferimento anche nelle norme urbanistico-edilizie, come recepite nel D.P.R. 6.6.2001, n. 380. Queste ultime prevedono una disciplina differenziata, in caso di rapporto di strumentalità necessaria degli impianti rispetto a edifici preesistenti (situazione rapportabile a caldaie, condizionatori, pannelli solari e simili), ovvero di autonomia funzionale dei medesimi quali nuove costruzioni (come nel caso, appunto, di tralicci ed impianti, destinati ad essere parte di una rete di infrastrutture). Solo per i primi, fra gli impianti sopra indicati, risulta applicabile - in base al citato T.U. - la disciplina dettata per gli interventi edilizi ritenuti minori, soggetti a mera denuncia di inizio attività (cosiddetta D.I.A.) a norma dell’art. 4 del D.L. 5.10.1993, n. 398, convertito con modificazioni dalla legge 4.12.1993, n. 493, come modificato dall’art. 2, comma 60, della legge 23.12.1996, n. 662 ed integrato dall’art. 1, comma 6, della legge 21.12.2001, n. 443 (fino all’entrata in vigore – il 30.6.2003 – del D.P.R. 6.6.2001, n. 380 - testo unico delle disposizioni legislative in materia edilizia - che raccoglie le disposizioni legislative e regolamentari contenute nel D.Lgs. n. 378/01 e nel DPR n. 379/01). Per "l’installazione di torri e tralicci per impianti radioricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione" – espressamente catalogata come intervento di nuova costruzione – il citato D.Lgs. n. 378/01 prescrive, nel combinato disposto degli articoli 3, comma 1, lett. e.5 e 10, comma 1, il permesso di costruire, introdotto dalla medesima normativa come nuova qualificazione formale della concessione edilizia. Giova sottolineare, al riguardo, che la regolamentazione sopra ricordata non risulta sovvertita anche dopo l’introduzione delle nuove procedure autorizzatorie, previste per le infrastrutture di cui trattasi dagli articoli 86, 87 e 88 del codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con D.Lgs. 1.8.2003, n. 259: una disciplina, quest’ultima, che affronta i molteplici profili di interesse pubblico coinvolti e prevede al riguardo lo svolgimento di apposite conferenze di servizi, circoscrivendo una peculiare fattispecie, soggetta a denuncia di inizio attività ("installazione di impianti, con tecnologia UMTS o altre, con potenza in singola antenna uguale o inferiore ai 20 watt"), mentre per le altre installazioni è prescritto il rilascio - in forma espressa o tacita - di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione. Secondo l’indirizzo, ormai più volte espresso dalla Corte Costituzionale, la predetta nuova disciplina può ritenersi conforme a criteri – rilevanti anche sul piano comunitario – di semplificazione amministrativa, con prevista confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche, rilevanti per le installazioni in questione: quanto sopra, tuttavia, senza che sia cancellata l’incidenza delle installazioni stesse sotto il profilo urbanistico-edilizio, tenuto conto della concreta consistenza dell’intervento e senza esclusione delle conseguenze penali, connesse ad ipotesi di abusivismo, ex art. 44 D.P.R. n. 380/01 (cfr. in tal senso Corte Cost. 28.3.2006, n. 259; Corte Cost. 18.5.2006, ord. n. 203). E’ pertanto ammesso che i Comuni adottino misure programmatorie integrative per la localizzazione degli impianti di cui si discute, in modo tale da minimizzare l’esposizione dei cittadini residenti ai campi elettromagnetici, ma anche in un’ottica di ottimale disciplina d’uso del territorio (cfr. Cons. St., sez. VI, 3.6.2002, n. 3095; 20.12.2002, n. 7274; 10.2.2003, n. 673; 26.8.2003, n. 4841). Non può ritenersi ancora oggi superata dunque – ed era a maggior ragione rilevante alla data di adozione del diniego impugnato – la problematica inerente al permesso di costruire, previsto per tutte le installazioni in questione dal più volte citato T.U. dell’Edilizia. Pur considerando i principi generali sopra enunciati, tuttavia, le ragioni esposte nell’atto di appello in esame non appaiono condivisibili. Quando infatti, come nella situazione in esame, non sia stata dettata la normativa regolamentare, di cui al già citato art. 8, comma 6, L. n. 36/2001, l’intervento edilizio di cui trattasi non può che restare soggetto – sotto il profilo urbanistico – ai principi di carattere generale, che vedono tralicci ed antenne di rilevanti dimensioni, da una parte, valutabili come strutture edilizie soggette a permesso di costruire (ora ad assenso autorizzativo, assorbente rispetto a tale permesso) e dunque, deve ritenersi, non collocabili in zone di rispetto, o comunque soggette a vincolo di inedificabilità assoluta, ma che dall’altra impongono di considerare tali manufatti – in quanto parte di una rete di infrastrutture, qualificate come opere di urbanizzazione primaria, nonchè in quanto impianti tecnologici e volumi tecnici – compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate e non soggetti in linea di massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza e cubatura delle costruzioni circostanti (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. VI, 29.5.2006, n. 3243 e 7.6.2006, n. 3425). Non preclude, dunque, l’assentibilità dell’intervento l’assenza di una disciplina specifica, volta ad individuare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di cui trattasi ed a minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici (nei limiti di ragionevolezza e rispetto delle norme statali, in cui tale localizzazione è ritenuta possibile dalla giurisprudenza, ormai pacifica sul punto: cfr., fra le tante, Cons. St., sez. VI, 13.6. 2007, n. 3162, 3.3.2007, n. 1017, 28.3.2007, n. 1431 e 25.9.2006, n. 5593). In tale situazione, pertanto, l’appello in esame non può che essere respinto, essendo le strutture di cui trattasi complementari a qualsiasi tipo di insediamento e non circoscritte – come affermato dal Comune appellante – alle zone produttive, né assoggettabili ai limiti di altezza dettati per le costruzioni; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto del periodo di transizione normativa, che ha interessato la vicenda sottoposta a giudizio. P. Q. M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, RESPINGE il ricorso in appello indicato in epigrafe. Compensa tra le parti le spese di giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2008 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori: Claudio Varrone Presidente Luciano Barra Caracciolo Consigliere Domenico Cafini Consigliere Aldo Scola Consigliere Gabriella De Michele Consigliere est. Presidente CLAUDIO VARRONE Consigliere GABRIELLA DE MICHELE DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 21.04.2008. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 15 giugno 2006 n. 3534 - Pres. Varrone, Est. Luce - Comune di Meda (Avv. Terracciano, Quarta e Ferreri) c. H3G s.p.a. (Avv. Clarich) (conferma T.A.R. Lombardia - Milano, Sez. II, n. 1106/2005). 1. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Realizzazione Istanza di autorizzazione e denuncia di inizio di attività - Decorso del termine di 90 giorni - Ex art. 87, comma 9, del Codice delle comunicazioni elettroniche (D. Lgs. 1 ottobre 2003, n. 259) - Determina l’accoglimento tacito - Diffida a non iniziare i lavori - Inviata dopo 90 giorni - Illegittimità. 2. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Potere regolamentare dei Comuni - Ex art. 8, comma 6, della legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici - Fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato - Impossibilità. 3. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Potere regolamentare dei Comuni - Ex art. 8, comma 6, della legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici - Previsione di un generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale - Impossibilità. 4. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Realizzazione Denuncia di inizio di attività - Ex art. 87, comma 9, del Codice delle comunicazioni elettroniche (D. Lgs. 1 ottobre 2003, n. 259) - Assenso del propriatario dell’area interessata - Non occorre - Dimostrazione della disponibilità dell’area - Sufficienza. 5. . Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Realizzazione Autorizzazione prescritta dall’art. 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche Consente la realizzazione della stazione anche in mancanza di apposita autorizzazione edilizia. 6. Telecomunicazioni - Stazioni radio base per telefonia mobile - Potere regolamentare dei Comuni - Ex art. 8, comma 6, della legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici - Disposizione che esclude senza giustificazione alcuna parti del territorio comunale dalla possibilità di installazione - Illegittimità. 1. Ai sensi dell’art. 87, comma 9, del Codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. 1 ottobre 2003, n. 259), le istanze di autorizzazione e le denunce di inizio attività relative agli impianti di telefonia mobile si intendono accolte qualora non sia stato comunicato alcun provvedimento di diniego nel termine di novanta giorni dalla presentazione del progetto. E’ pertanto illegittima la diffida a non iniziare i lavori relativi all’installazione di un impianto di telefonia cellulare adottata quando era già decorso il termine indicato di novanta giorni. 2. Deve ritenersi, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (L. 22 febbraio 2001 n. 36), che i Comuni, nell’adottare un regolamento per disciplinare la localizzazione degli gli impianti di telefonia mobile, non possano fissare limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato, non rientrando tale potere nell’ambito delle competenze comunali. 3. E’ illegittimo un regolamento adottato dal Comune ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (L. 22 febbraio 2001 n. 36), che preveda misure che nella sostanza costituiscono una deroga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali ad es. il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radio base per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero misure che pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, ecc.), non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute dai rischi dell’elettromagnetismo (1). 4. Tra la documentazione da allegare alla DIA di cui al mod. B dell’all. 13 del D.Lgs. 1 ottobre 2003, n. 259, richiamato dal relativo art. 87, comma 3, dello stesso D.Lgs., non è compreso uno specifico assenso del proprietario dell’area; di modo che è sufficiente che il richiedente dimostri di averne comunque la disponibilità. 5. Per l’installazione di stazioni radio-base per reti di comunicazioni elettroniche mobili, l’autorizzazione prescritta dall’art. 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. 1 ottobre 2003, n. 259) costituisce titolo abilitativo che assorbe quello richiesto dall’art. 3, lett. c) del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) per gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal comune nonché l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione, e consente di per sé la realizzazione di dette stazioni (2). 6. La rete delle telecomunicazioni costituisce un insieme organico integrato, la cui realizzazione esclude la possibilità di discipline locali differenziate che ne compromettano o ne rendano più difficoltosa la realizzazione (3) E’ pertanto illegittima la prescrizione contenuta nelle N.T.A. la quale esclude senza giustificazione alcuna parti del territorio comunale dalla possibilità di installazione degli impianti fissi di telefonia; tale disposizione si pone in contrasto con la proclamata necessità che i criteri localizzativi e standards urbanistici delle regioni e comuni rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi (4). ----------------------------------------(1) Cons. Stato, Sez. IV, 3 giugno 2002, n. 3095. (2) Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 2005, n. 4000. (3) Corte Cost. 27 luglio 2005, n. 336. (4) Corte Cost, sentenza n. 307/2003. ----------------------------------------Documenti correlati: CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 17-3-2006, n. 103, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/ccost_2006-03-17.htm (sull'estensione e limiti della potestà legislativa delle Regioni in materia di inquinamento elettromagnetico e, in particolare, sulla possibilità o meno di prevedere criteri per la localizzazione delle stazioni radio base per telefonia cellulare e di imporre l’interramento degli elettrodotti in zone vincolate). CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 28-3-2006, n. 129, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/ccost_2006-03-28.htm (dichiara l’illegittimità costituzionale di alcune norme contenute nella L. reg. Lombardia n. 12/2005 nella parte in cui non prevedono la gara pubblica per l’esecuzione di opere di urbanizzazione d’importo superiore alla soglia comunitaria ed impongono un procedimento ulteriore per la realizzazione di antenne o tralicci per stazioni radio base per telefonia mobile). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, sentenza 14-2-2005, n. 450, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-02-14-3.htm (sui limiti del potere regolamentare dei Comuni in materia di installazione di stazioni radio base per telefonia mobile). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 5-8-2005, n. 4159, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cds6_2005-08-05-3.htm (sulla sufficienza dell’autorizzazione ex art. 87 del Codice delle comunicazioni per l’installazione di stazioni radio base per telefonia cellulare e sull’illegittimità di una norma contenuta nelle n.t.a., che prevede due soli siti per l’installazione di dette stazioni). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 16-11-2004, n. 7502, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds6_2004-11-16.htm (sull’illegittimità di una disposizione regolamentare che consente l’installazione delle stazioni radio base per telefonia cellulare esclusivamente negli immobili di proprietà comunale, e sulla possibilità, in assenza di una specifica previsione urbanistica, di collocare detti impianti sull’intero territorio comunale). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 6-8-2002, n. 4096, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds6_2002-08-06-1.htm (annulla un regolamento edilizio che fissava per stazioni radio base limiti minimi di distanza da asili, scuole, ospedali ed altri siti sensibili). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, ordinanza 3-6-2002, n. 3098, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds6_2002-06-03-5.htm (sia prima che dopo l’entrata in vigore della legge 22 febbraio 2001 n. 36, non rientra nelle competenze attribuite ai Comuni la fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici più restrittivi rispetto a quelli previsti dallo Stato). FATTO 1. Il tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con sentenza n. 1106/05, del 20 aprile/5 ottobre 2005, accoglieva il ricorso (n. 331/2005) proposto dalla H3G s.p.a. contro il comune di Meda ed annullava il provvedimento prot. 19931, del 26 novembre 2004, con cui il comune aveva diffidato la società ricorrente dall’iniziare i lavori relativi all’installazione di un impianto di telefonia cellulare UMTS in via Consorziale dei Boschi 26/28unitamente al regolamento comunale per l’installazione di impianti di radiofrequenza a servizio della telefonia mobile approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 37, del 18 luglio 2000, in una con gli atti preordinati e connessi ed in particolare col parere espresso dall’ufficio tecnico comunale area territorio del 16 settembre 2004 ed il parere espresso dalla commissione edilizia il 12 settembre 2004. Contro l’indicata sentenza il comune di Meda ha proposto appello al Consiglio di Stato chiedendo la riforma dell’impugnata decisione con il rigetto del ricorso proposto in primo grado; ed il ricorso, nella resistenza dell’0intimata società, è stato chiamato per l’udienza odierna al cui esito è stato trattenuto in decisione dal collegio. DIRITTO 2. In data 16 luglio 2004, la società H3G presentava al comune di Meda ed all’Arpa di Monza una denuncia di inizio di attività concernente l’installazione di un impianto per telefonia cellulare, di potenza inferiore a 20 Watt, in via Consorziale dei boschi. La richiesta faceva seguito ad una comunicazione fatta allo stesso comune in data 16 aprile 2004 dalla H3G che anticipava l’intenzione di procedere all’installazione dell’antenna e chiedeva che l’area interessata fosse inserita tra quelle destinate agli impianti di telefonia. Nonostante, tuttavia, il parere favorevole dell’Arpa, il comune, con provvedimento del 26 novembre 2004, diffidava la società dall’iniziare i lavori in quanto la localizzazione dell’impianto contrastava con il regolamento comunale delle antenne e con le previsioni urbanistiche del comune. 3. Con l’impugnata decisione, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia- adito con ricorso proposto dalla H3G- decidendo ai sensi degli artt. 23 e 26 della legge n. 1034, del 6 dicembre 1971- ha annullato i provvedimenti del comune relativi all’opposto diniego: in particolare, oltre all’atto puntuale di diffida dall’inizio dei lavori, i giudici di primo grado hanno annullato il regolamento pianificatorio comunale (approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 37, del 18 luglio 2000 ed art. 45 NTA) nella parte in cui escludevano senza giustificazione alcuna parti del territorio comunale dalla possibilità di installazione degli impianti fissi di telefonia. Secondo i giudici di primo grado, l’illegittimità del provvedimento di diffida scaturiva dal fatto che lo stesso era stato adottato dopo che era decorso il termine (di giorni novanta) per la formazione dell’assenso di cui al comma 9 dell’art. 87 del D. lgs. n. 259 del 2003; inoltre, i giudici di primo grado ritenevano che, in base alla normativa statale e regionale applicabile al catodi specie, al comune non fosse consentito limitare l’installazione di impianti radiotrasmittenti per la tutela di interessi (in particolare, quello relativo alla salute) non di sua pertinenza. 4. Così circoscritti i termini del giudizio, l’appello del comune- ad avviso del collegio- appare infondato e come tale va respinto. Ed invero, come rilevato dai giudici di primo grado, ai sensi del comma 9 dell’art. 87 del D. Lgs. N. 259/2003, le istanze di autorizzazione e le denunce di inizio attività relative agli impianti di cui alla legge medesima si intendono accolte qualora non sia stato comunicato alcun provvedimento di diniego nel termine di novanta giorni dalla presentazione del progetto. Nel caso in esame, come rilevato precedentemente, l’istanza con allegato progetto era stata proposta il 16 luglio 2004, mentre l’atto di diffida è stato adottato il 26 novembre successivo e quindi quando era già decorso il termine indicato di novanta giorni. Né- ad avviso del collegioil termine poteva ritenersi interrotto- come pretende l’amministrazione appellante- per il fatto che l’amministrazione medesima aveva chiesto un’integrazione documentale; tale richiesta di integrazione, infatti- anche volerla ritenere pertinente e non meramente defatigatoria- è stata avanzata (in data 2 agosto 2004) quando era già decorso il termine di quindici giorni previsto dal comma 5 del già richiamato art. 87 del D. Lgs. n 259/2003. In ogni caso, anche a voler ritenere che dalla stessa fosse derivata una sospensione del termine complessivo per provvedere, ugualmente detto termine doveva considerarsi decorso alla data di adozione del provvedimento di diffida: agli 83 giorni intercorrenti dalla data (del 3 settembre 2004) in cui era stata adempiuta la richiesta istruttoria e quella (del 26 novembre 2004) di adozione del provvedimento andavano, infatti aggiunti i 16 giorni intercorrenti dalla data (del 16 luglio 2004) di proposizione dell’istanza e quella (del 2 agosto 2004) di comunicazione della richiesta di integrazione istruttoria; con la conseguenza che anche in tal caso il provvedimento di diffida in quanto emanato al 99° giorno dalla proposizione dell’istanza iniziale doveva considerarsi tardivo. 5. Quanto alle censure relative ai poteri del comune in merito alla regolamentazione dell’installazione degli impianti fissi di radiofrequenze, va rilevato che è ormai consolidato nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio secondo cui ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge-quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici n. 36 del 2001, i comuni possono adottare un regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione comunale ai campi elettromagnetici. Tuttavia, il potere regolamentare comunale non può implicare la fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato non rientrando tale potere nell’ambito delle competenze comunali. Sicché, non è consentito che il comune, attraverso il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizia-urbanistica, adotti misure che nella sostanza costituiscono una deroga ai predetti limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali ad es. il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero introdurre misure che pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, ecc. non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute dai rischi dell’elettromagnetismo (Cons. St. Sez. IV, 3 giugno 2002, n. 3095). Le proposte doglianze sono quindi infondate. 6. Allo stesso modo sono infondate le doglianze dell’amministrazione ricorrente relative alla dedotta necessità per l’installazione dell’impianto in questione dell’assenso del proprietario dell’area e dell’asserita necessità di una specifica autorizzazione comunale a costruirlo. Quanto al primo dei punti indicati, va sottolineato che tra la documentazione da allegare alla DIA di cui al mod. B dell’all. 13 del D. Lgs. n. 259/2003, richiamato dal relativo art. 87 comma 3, non è compreso uno specifico assenso del proprietario dell’area; di modo che è sufficiente che il richiedente dimostri- come è avvenuto nel caso di specie-di averne comunque la disponibilità. Con riferimento, inoltre, alla seconda censura, va ribadito che per l’installazione di stazioni radio-base per reti di comunicazioni elettroniche mobili, l’autorizzazione prescritta dall’art. 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche (D. Lgs. 1 ottobre 2003, n. 259) costituisce titolo abilitativo che assorbe quello richiesto dall’art. 3, lett. c) del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) per gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal comune nonché l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione, e consente di per sé la realizzazione di dette stazioni (Cons. St. Sez. VI, 26 luglio 2005, n. 4000). Né- ad avviso del collegio- ricorrono le condizioni per rimettere alla Corte costituzionale la decisione relativa alla legittimità costituzionale dell’indicata normativa come dalla interpretata dalla giurisprudenza: la normativa medesima (su cui, peraltro, la Corte indicata ha già avuto occasione di pronunziarsi) non sopprime, infatti, il potere di governo e vigilanza sull’assetto del territorio demandato ai comuni, limitandone semplicemente l’esercizio, per un’evidente finalità acceleratoria, nell’ambito della decisione dell’unico atto autorizzatorio previsto e di cui al più volte richiamato art. 87 del codice delle telecomunicazioni. 7. Infondate, infine, sono le censure avverso la dichiarata illegittimità dell’art. 54 delle NTA allegate al piano regolatore comunale le cui limitazioni- come ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale- sono recessive in caso di realizzazione delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione assimilate, ai sensi dell’art. 86 del D. lgs. 259/2003, ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16,comma 7, del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380. Senza contare che la rete delle telecomunicazioni costituisce un insieme organico integrato, la cui realizzazione esclude la possibilità di discipline locali differenziate che ne compromettano o ne rendano più difficoltosa la realizzazione (Corte Cost. 27 luglio 2005, n. 336) Di modo che l’indiscriminata limitazione contenute nell’art. 54 della NTA indicata si pone in contrasto con la proclamata necessità che i criteri localizzativi e standards urbanistici delle regioni e comuni rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi (Corte Cost, sentenza n. 307/2003). 8. Per tutte le indicate considerazioni- indipendentemente dalle vicende successive all’emissione della sentenza di primo grado, cui si è fatto riferimento nell’atto di appello e che non hanno rilevanza per il giudizio in esame- respinto l’appello, va confermata l’impugnata decisione con compensazione delle spese processuali ricorrendovi giusti motivi per la peculiarità e novità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta, respinge l’appello e conferma la decisione impugnata. Spese compensate. Ordina che la decisione venga eseguita in via amministrativa. Così deciso in Roma il 7 marzo 2006 in camera di consiglio dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,sezione sesta,con l’intervento dei sigg: Claudio VARRONE Presidente Sabino LUCE Consigliere Est. Giuseppe ROMEO Consigliere Lanfranco BALUCANI Consigliere Aldo SCOLA Consigliere Presidente CLAUDIO VARRONE DEPOSITATA IN SEGRETERIA il...15/06/2006. 3) SULLA NATURA DEL COMMISSARIO AD ACTA NOMINATO IN SEDE DI RICORSO AVVERSO IL SILENZIO RIFIUTO DELLA P.A. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 25 giugno 2007 n. 3602 - Pres. Trotta, Est. Giovagnoli - Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv. Stato Guida) c. Wind Telecomunicazioni s.p.a. (Avv.ti Scoca, Santa Maria, Clarich e Pizzonia) - (annulla T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III ter, 22 febbraio 2007, n. 240). 1. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Rito speciale previsto dall’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971 (introdotto dall’art. 2 della L. n. 205 del 2000) - Esecuzione della sentenza di accoglimento - Dà luogo ad un giudizio di ottemperanza anomalo o speciale - Ragioni. 2. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Rito speciale previsto dall’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971 (introdotto dall’art. 2 della L. n. 205 del 2000) - Commissario ad acta nominato - Natura giuridica di organo ausiliario della P.A. - Differenze rispetto al commissario ad acta nominato in sede di esecuzione del giudicato - Individuazione. 3. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Rito speciale previsto dall’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971 (introdotto dall’art. 2 della L. n. 205 del 2000) - Commissario ad acta nominato - Sua configurabilità quale controinteressato - Nel caso di appello avverso la sentenza ex art. 21 bis - Impossibilità. 4. Giustizia amministrativa - Giudizio di ottemperanza - Sentenze di esecuzione del giudicato - Inappellabilità - Nel caso di sentenza che abbia risolto anche questioni di natura cognitoria, in rito o in merito - Non sussiste. 5. Giustizia amministrativa - Atto impugnabile o no - Atto soprassessorio - Nozione Individuazione - Fattispecie. 1. Nel caso di esecuzione di una sentenza emessa in materia di silenzio della P.A. ai sensi dell’art. 21 bis, legge n. 1034 del 1971, per porre rimedio alla persistente inerzia dell’Amministrazione, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant’è che l’art. 21 bis non rinvia alle norme sul giudizio di ottemperanza, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta. Si ha, più propriamente, una ottemperanza "anomala" o "speciale", dove la specialità risiede nella circostanza che si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio. 2. Mentre il commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato sembra doversi configurare quale organo ausiliario del giudice (tesi che ha ricevuto anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria n. 23 del 1978), il commissario ad acta nominato ai sensi dell’art. 21 bis, legge n. 1034 del 1971 sembra configurarsi quale organo dell’amministrazione (1). 3. A prescindere dalla questione circa la natura giuridica del commissario ad acta nominato in sede di annullamento del silenzio della P.A. ex art. 21 bis della L. T.A.R., non vi può, comunque, essere dubbio sul fatto che il commissario stesso non rivesta la qualifica di controinteressato nel giudizio di appello avverso il provvedimento giudiziale che lo nomina e che, pertanto, l’appello non vada al medesimo notificato (2). 4. Le sentenze di ottemperanza sono inappellabili solo se contengano disposizioni meramente attuative del giudicato (trattandosi dell’esplicazione di poteri di amministrazione attribuiti al giudice in via sostitutiva); sono invece appellabili i provvedimenti con i quali il giudice, anziché limitarsi ad emanare mere misure attuative del giudicato, abbia risolto anche questioni di natura cognitoria, in rito o in merito (3). 5. Può considerarsi atto soprassessorio (come tale non impugnabile) solo l’atto che si limita rinviare ad altra occasione, rinunciando temporaneamente a prendere una decisione o a dar luogo ad una esecuzione (in applicazione del principio è stato ritenuto non soprassessorio un atto con il quale l’Amministrazione aveva comunicato chiaramente che l’istanza non poteva essere accolta; tale affermazione esprimeva compiutamente il rigetto dell’istanza, esprimeva, in altri termini, la determinazione finale dell’Amministrazione). ----------------------------(1) Ha osservato in proposito la Sez. VI che in tutti i casi in cui il giudice amministrativo si sia limitato ex art. 21 bis. cit. soltanto a dichiarare l’obbligo di provvedere, senza vincolare in alcun modo la successiva attività amministrativa, il commissario ad acta, nominato in caso di persistente inerzia della p.a., viene a disporre di uno spazio di libertà sicuramente sconosciuto all’analoga figura nominata in sede di esecuzione al giudicato. Non vi è, infatti, una vera e propria sentenza di ottemperanza, ma un semplice atto di nomina, con cui il giudice non dice all’amministrazione come deve provvedere, ma demanda tutto all’organo amministrativo straordinario che è il commissario. Si ha qui, allora, un commissario che assomiglia più ad un organo dell’Amministrazione che ad un ausiliario del giudice. Si ha qui, allora, un commissario che assomiglia più ad un organo dell’Amministrazione che ad un ausiliario del giudice. Ha aggiunto la Sez. VI che è possibile tuttavia una diversa ricostruzione, secondo cui l’art. 21 bis contemplerebbe un vero e proprio giudizio di ottemperanza: il previsto atto di nomina sarebbe una vera e propria sentenza di ottemperanza in cui il giudice detta anche le direttive per l’operato dell’Amministrazione. Ricostruita la norma, in questi termini, si avrebbe almeno nella fase esecutiva del giudizio, un vero e proprio giudizio di merito e il commissario dovrebbe essere qualificato come ausiliario del giudice, o, al più, come un organo misto. (2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17 ottobre 1995, n. 1433, secondo cui "l'appello proposto avverso la sentenza d'ottemperanza non deve essere notificato anche al commissario "ad acta", sia perché la sua attività è riferibile alla stessa p.a. esecutata, sia perché egli è organo paragiurisdizionale". (3) Cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 18 settembre 2003, n. 5319. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 2955/2007, proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in carica, e dal Ministero delle Comunicazioni,in persona del Ministro in carica, entrambi rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono legalmente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12; contro la società Wind Telecomunicazioni s.p.a., in persona del suo legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Prof. Franco Gaetanto Scoca, Prof. Alberto Santa Maria, Prof. Alberto Clarich e Giuseppe Pizzonia, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo, in Roma, via Paisiello, n. 55; per l’annullamento dell’ordinanza del T.a.r. Lazio, sez. III ter, 22 febbraio 2007, n. 240; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della società Wind Telecomunicazioni s.p.a.; Visti gli atti tutti della causa; Relatore alla camera di consiglio del 4 maggio 2007, il Consigliere Roberto Giovagnoli, uditi altresì l’avvocato dello Stato Guida e gli avvocati Clarich, Santa Maria e Pizzonia; Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue. FATTOEDIRITTO 1. Oggetto della presente controversia è l’ordinanza con la quale il T.a.r. Lazio ha nominato il commissario ad acta per provvedere sull’istanza di rimborso dei contribuiti che Infostrada s.p.a., incorporata per fusione da Wind Telecomunicazioni S.p.a., ha corrisposto ai sensi del decreto ministeriale 21 marzo 2000. Tale decreto è stato annullato, in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato, con D.P.R. 26 ottobre 2004, emesso in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 18 settembre 2003, che ha dichiarato incompatibile con l’ordinamento comunitario l’art. 20, comma 2, della legge n. 448/98. 2. Dopo l’annullamento del decreto, Wind, agendo quale successore della società Infostrada incorporata, ha notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze e al Ministero delle Comunicazioni, in data 19 aprile 2005, un’istanza di rimborso per la restituzione delle somme indebitamente corrisposte. A fronte dell’inerzia dell’Amministrazione, Wind ha proposto ricorso ex art. 21 bis della legge n. 1034/1971. Il T.a.r. Lazio, sez. III ter, ha accolto il ricorso con sentenza 10 luglio 2006, n. 5746 sulla base della seguente motivazione: "[…] Considerato che il D.P.R. 26/10/2004, di accoglimento del ricorso straordinario, in conformità del parere del Consiglio di Stato, fa espressamente "salve le iniziative delle Amministrazioni competenti al fine di fare fronte alla carenza di disciplina che viene a determinarsi in ordine alle modalità di fissazione del contributo richiesto alle imprese per le procedure relative alle licenze individuali" operanti nel settore dei servizi di telecomunicazioni, sì che residua in capo all’Amministrazione un qualche margine di discrezionalità; Ritenuto che con il presente ricorso si chiede, in definitiva, una pronuncia che imponga all’Amministrazione di concludere il procedimento attivato con l’istanza di rimborso del 19/4/05, rimedio che appare tanto più necessario in ragione della dubbia praticabilità dello strumento dell’azione di ottemperanza al decreto presidenziale reso in sede di ricorso straordinario (cfr. in termini Cass., Sez. Un., 18/12/2001, n. 15978; Cons. Stato, Sez. VI, 26/9/2003, n. 5501); Considerato che appare dunque configurabile una situazione soggettiva di interesse legittimo pretensivo alla conclusione del procedimento, momento prodromico rispetto all’accertamento della pretesa patrimoniale; Ritenuto, in definitiva, che il ricorso deve essere accolto, con conseguente ordine alle Amministrazioni intimate di provvedere sull’istanza di rimborso della società ricorrente nel termine di giorni sessanta dalla comunicazione della presente sentenza. […]". La sentenza, notificata alle parti in causa in data 2 agosto 2006, è passata in giudicato in data 15 ottobre 2006, 3. Wind ha, pertanto, notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze e al Ministero delle Comunicazioni una "istanza di diffida ella esecuzione della sentenza del T.a.r. del Lazio, sezione III ter, 10 luglioo 2006, n. 5476/2006". Il Ministero ha risposto con una nota del 18.12.2006 con la quale comunicava di aver "provveduto a richiedere all’Avvocatura Generale dello Stato i necessari elementi per la pronta e sollecita conclusione del procedimento e sull’istanza di rimborso dei contributi (ex art. 20, comma 2, legge n. 448/98), come ordinato dal giudice amministrativo con la richiamata decisione". In detta nota, l’Amministrazione sottolineava, in particolare, la necessità di "stabilire una linea di condotta uniforme in merito delle pretese restitutorie, in relazione ai paralleli giudizi pendenti attualmente davanti al Consiglio di Stato, dovendosi stabilire quali siano i contenuti dispositivi del procedimento da concludersi, come stabilito dal T.a.r.". La società Wind, ritenendo che quella nota non fosse idonea a definire il procedimento amministrativo attivato, ha richiesto al T.a.r. la nomina di un Commissario ad acta con istanza notificata in data 16 gennaio 2007. Nelle more di questa ulteriore fase processuale, l’Amministrazione ha emanato la nota del 7 febbraio 2007, prot. n. 13869 del seguente tenore: "in esito alla domanda formulata con nota del novembre 2006 in ottemperanza alla sentenza del T.a.r. Lazio n. 5746 del 10 luglio 2006, questo Ministero ritiene di non poter spontaneamente aderire alla richiesta di rimborso dei contributi in questione per le stesse ragioni di ordine sostanziale sostenute nel giudizio di cui è parte codesta Società relative alla sentenza del T.a.r. Lazio n. 46 del 4 gennaio 2005. Questa Amministrazione ritiene infatti che i contributi richiesti non sono ripetibili in quanto traslati sull’utente finale del servizio". 4. Il T.a.r. del Lazio, sez. III ter, con ordinanza collegiale del 22 febbraio 2007, n. 240, ha nominato il Commissario ad acta, <<considerato che la nota dell’Amministrazione in data 7/2/2007 prot. n. 13869 non può configurarsi atto conclusivo del procedimento, instaurato con l’istanza di rimborso, configurandosi piuttosto come atto soprassessorio, limitandosi l’amministrazione a rappresentare di "non poter spontaneamente aderire alla richiesta di rimborso dei contributi in questione per le stesse ragioni di ordine sostanziale sostenute nel giudizio di cui è parte codesta Società relativa alla sentenza del Tar Lazio n. 46 del 4 gennaio 2005">>. 5. Contro tale ordinanza hanno proposto appello, chiedendone in via cautelare la sospensione, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero delle Comunicazioni, deducendo quanto segue: - la sentenza n. 5476/2006 emessa dal T.a.r. Lazio sul ricorso avverso il silenzio-rifiuto ha esplicitamente limitato l’ambito della controversia alla sola adozione di un provvedimento idoneo a definire il procedimento attivato con l’istanza di rimborso, lasciando impregiudicati i profili di merito riguardanti il fondamento della pretesa azionata; - la nota del 7 febbraio 2007 non ha natura soprassessoria in quanto con tale atto l’Amministrazione, affermando che "i contributi richiesti non sono ripetibili in quanto traslati sull’utente finale del servizio", ha definitivamente rigettato l’istanza di rimborso (così ottemperando alla sentenza del T.a.r.), con un provvedimento espresso che Wind aveva l’onere di impugnare mediante autonomo ricorso giurisdizionale; - l’istanza per la nomina del commissario ad acta avrebbe dovuto, pertanto, essere dichiarata improcedibile. Si è costituita in giudizio la società Wind la quale, in via pregiudiziale, ha eccepito l’inammissibilità (sotto diversi profili) dell’appello avverso l’ordinanza di nomina del commissario ad acta e, nel merito, ha comunque chiesto il rigetto dell’appello ritenendolo infondato. Alla camera di consiglio del 4 maggio 2007, fissata per la decisione sull’istanza cautelare di sospensione, le parti, interpellate sul punto dal Collegio, hanno dato il loro consenso affinché l’appello venisse deciso subito nel merito. 6. L’appello è fondato e va, pertanto, accolto. 7. In via pregiudiziale occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità dell’appello. Secondo la società Wind l’appello sarebbe inammissibile in quanto: - è stata omessa la notifica al commissario ad acta; - è rivolto avverso una ordinanza che non avrebbe natura decisoria, ma esecutiva; - sono stati svolti motivi sostanzialmente motivi di appello avverso la sentenza del T.a.r. Lazio, sez. III ter 10 luglio 2006, n. 5746, ormai passata in giudicato. Le eccezioni sono infondate. 8. In ordine al primo profilo di inammissibilità, il Collegio ritiene che il commissario ad acta non sia legittimato a resistere come controinteressato all’appello proposto contro il provvedimento giudiziale che lo nomina. Tale conclusione si impone tenendo conto della natura giuridica del commissario ad acta nominato dal giudice per l’esecuzione del giudicato o, come nel caso di specie, per sostituirsi all’Amministrazione rimasta inerte nonostante la condanna a provvedere ex art. 21 bis legge n. 1034 del 1971. Dottrina e giurisprudenza sono state a lungo impegnate nella qualificazione giuridica del commissario ad acta, incontrando in tale opera ricostruttiva notevoli difficoltà, in parte dovute alla stessa duplicità di natura del giudizio di ottemperanza, ora ricondotto all’attività giurisdizionale ora all’attività amministrativa. 8.1. Come è noto, con riferimento alla natura giuridica del commissario ad acta sono state prospettate tre tesi: organo straordinario ausiliario del giudice; organo straordinario dell’amministrazione; organo misto, per alcuni aspetti ausiliario dell’amministrazione e per altri del giudice. Se per il commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato, prevale la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice (tesi che ha ricevuto anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria n. 23 del 1978), il dibattito è, invece, tutt’ora aperto per quella speciale figura di commissario ad acta nominato, ai sensi dell’art. 21 bis, legge n. 1034 del 1971, per porre rimedio alla persistente inerzia dell’Amministrazione. In questo caso, infatti, secondo la tesi preferibile, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant’è che l’art. 21 bis non rinvia alle norme sul giudizio di ottemperanza, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta. Si ha, più propriamente, una ottemperanza "anomala" o "speciale", dove la specialità risiede nella circostanza che si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio. Anzi, proprio prendendo atto della unitarietà che ormai lega la fase di cognizione sull’inadempimento dell’amministrazione e la successiva fase esecutiva, la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la possibilità, se l’interessato ne fa richiesta, di disporre in via contestuale l’ordine di provvedere e la nomina del commissario ad acta, il quale, in questi entrerà in funzione non subito, ma solo quando si protragga l’inerzia dell’Amministrazione (Cons. Stato, sez. V, n. 30/2002). 8.2. Ma la specialità di questa forma di ottemperanza deriva anche dal fatto che il commissario ad acta nominato ai sensi dell’art. 21 bis, comma 2, legge n. 1034 del 1971, può assumere un ruolo del tutto inedito, in quanto la sua attività può non essere volta al completamento ed all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione. Ed infatti, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 80/2005 all’art. 2 della legge n. 241/1990, il giudice amministrativo, chiamato a giudicare sul ricorso contro il silenzio-rifiuto della p.a., può limitarsi a dichiarare l’esistenza dell’obbligo di provvedere, senza svolgere però alcuna valutazione in ordine alla fondatezza della pretesa sostanziale dell’istante. Questo può accadere o perché il ricorrente non chiede il giudizio sulla fondatezza della pretesa, o perché il giudice ritiene, a torto o a ragione, che non vi siano i presupposti per esercitare tale sindacato, perché il provvedimento richiesto dal privato involge valutazioni discrezionali dell’Amministrazione. Non a caso, l’art. 2 legge n. 241/1990 prevede che il giudice "può conoscere della fondatezza dell’istanza", configurando, quindi, il sindacato sul rapporto come una eventualità, e non come una componente necessaria della sentenza sul silenzio. Ed allora, in tutti i casi in cui il giudice amministrativo si sia limitato soltanto a dichiarare l’obbligo di provvedere, senza vincolare in alcun modo la successiva attività amministrativa, il commissario ad acta, nominato in caso di persistente inerzia della p.a., viene a disporre di uno spazio di libertà sicuramente sconosciuto all’analoga figura nominata in sede di esecuzione al giudicato. Non vi è, infatti, una vera e propria sentenza di ottemperanza, ma un semplice atto di nomina, con cui il giudice non dice all’amministrazione come deve provvedere, ma demanda tutto all’organo amministrativo straordinario che è il commissario. Si ha qui, allora, un commissario che assomiglia più ad un organo dell’Amministrazione che ad un ausiliario del giudice. 8.3. Quella appena prospettata è una plausibile ricostruzione del dato positivo. E’ tuttavia senz’altro possibile, come la migliore dottrina non ha mancato di evidenziare, una diversa ricostruzione, secondo cui l’art. 21 bis contemplerebbe un vero e proprio giudizio di ottemperanza: il previsto atto di nomina sarebbe una vera e propria sentenza di ottemperanza in cui il giudice detta anche le direttive per l’operato dell’Amministrazione. Ricostruita la norma, in questi termini, si avrebbe almeno nella fase esecutiva del giudizio, un vero e proprio giudizio di merito e il commissario dovrebbe essere qualificato come ausiliario del giudice, o, al più, come un organo misto. 8.4. Quale che sia la tesi che si ritenga di accogliere, con le conseguenze evidenziate in ordine alla natura giuridica del commissario ad acta, non vi può, comunque, essere dubbio sul fatto che quest’ultimo non rivesta la qualifica di controinteressato nel giudizio di appello avverso il provvedimento giudiziale che lo nomina. Accogliendo la prima delle sopra riportate opzioni interpretative, infatti, il commissario andrebbe qualificato come organo straordinario dell’Amministrazione e, quindi, l’appello non dovrebbe essergli notificato per essere la sua attività riferibile alla stessa pubblica amministrazione esecutata. Accogliendo la seconda opzione, egli sarebbe, quale ausiliario del giudice, un organo paragiurisdizionale, ed ugualmente l’atto di appello non gli andrebbe notificato, per le stesse ragioni per le quali non si è mai dubitato che l’appello non debba essere notificato al giudice che ha emesso la sentenza impugnata o agli ausiliari dallo stesso nominati. Questo Consiglio di Stato, del resto, ha già avuto modi di esprimersi nel senso di escludere la necessità della notifica. Si fa riferimento, in particolare, a Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 1995, n. 1433 secondo cui "L'appello proposto avverso la sentenza d'ottemperanza non deve essere notificato anche al commissario "ad acta", sia perché la sua attività è riferibile alla stessa p.a. esecutata, sia perché egli è organo paragiurisdizionale". Né in senso contrario, può essere deporre il precedente (C.G.A. 4 luglio 2000, n. 329) citato dalla difesa della parte appellata. In tale decisione, infatti, si discuteva della legittimazione passiva non del commissario ad acta nominato dal giudice per l’esecuzione al giudicato, ma del commissario nominato da un’Amministrazione (la Regione) per porre rimedio all’inerzia di un’altra Amministrazione (il Comune). Si trattava, pertanto, di una fattispecie certamente non riconducibile a quella oggetto del presente gravame. 9. Anche la seconda eccezione di inammissibilità risulta infondata. A prescindere dalla forma prescelta dal giudice di primo grado (ordinanza), il provvedimento giudiziale impugnato ha un sicuro contenuto decisorio, soprattutto laddove esclude che la nota del Ministero del 7 febbraio 2007 possa considerarsi atto conclusivo del procedimento instaurato con l’istanza di rimborso. E’ del resto orientamento consolidato, dal quale non vi è motivo per discostarsi, quello secondo cui le decisioni adottate in sede di ottemperanza sono inappellabili solo se contengano disposizioni meramente attuative del giudicato (trattandosi dell’esplicazione di poteri di amministrazione attribuiti al giudice in via sostitutiva). Sono invece appellabili i provvedimenti con i quali il giudice, anziché limitarsi ad emanare mere misure attuative del giudicato, abbia risolto anche questioni di natura cognitoria, in rito o in merito (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2003, n. 5319). Nel caso di specie, il provvedimento del T.a.r. Lazio ha risolto una questione di rito: quella attinente alla procedibilità o meno del giudizio per l’ottemperanza ex art. 21 bis, comma 2, legge n. 1034/1971 pur a fronte di un provvedimento espresso emanato dall’Amministrazione nelle more del giudizio. Il T.a.r., quindi, non ha adottato solo misure attuative, ma si è pronunciato sull’esistenza di una condizione (oggettiva) dell’azione esecutiva (quella appunto involgente la perdurante inerzia dell’Amministrazione). 10. Anche la terza eccezione di inammissibilità è infondata. I motivi proposti nell’atto di appello sono diretti a contestare la natura di atto soprassessorio che il T.a.r. ha riconosciuto alla nota del Ministero del 7.2.2007. Si tratta di censure che non investono la precedente sentenza del T.a.r. n. 5746 del 2006, ormai passata in giudicato, ma attengono al contenuto decisorio dell’ordinanza impugnata. 11. Nel merito l’appello è fondato. A differenza di quanto affermato dal T.a.r. Lazio, la nota del Ministero del 7 febbraio 2007 non è un atto meramente soprassessorio, ma è un atto definitivo, che si pronuncia, rigettandola, sull’istanza di rimborso presentata dalla società Wind. Come correttamente rilevata parte appellata alla pag. 17 della memoria difensiva, l’atto soprassessorio può essere definito come quello che si limita "rinviare ad altra occasione rinunciando temporaneamente a prendere una decisione o a dar luogo ad una esecuzione". Il provvedimento adottato dal Ministero non corrisponde, tuttavia, a tale definizione: l’Amministrazione afferma chiaramente che l’istanza non può essere accolta in quanto "i contributi richiesti non sono ripetibili in quanto traslati sull’utente finale del servizio". Tale affermazione esprime compiutamente il rigetto dell’istanza di rimborso, esprime, in altri termini, la determinazione finale dell’Amministrazione. Con tale nota, quindi, l’Amministrazione ha adempiuto all’ordine di provvedere contenuto nella precedente sentenza del T.a.r. Lazio n. 5476/2006. Giova precisare che in tale sentenza il T.a.r. si è limitato ad ordinare all’Amministrazione di provvedere senza predeterminare (come, invece, avrebbe potuto, atteso il carattere vincolato dell’attività dell’Amministrazione a seguito del D.P.R. di accoglimento del ricorso straordinario proposto da Wind) il contenuto del futuro provvedimento. Il T.a.r., in altri termini, non ha compiuto alcun sindacato sulla fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere da Wind: l’esecuzione di quella sentenza richiedeva, allora, null’altro che l’emanazione di un provvedimento espresso sull’istanza di rimborso, e tale provvedimento è stato adottato con la nota del 7 febbraio 2007. Il T.a.r. avrebbe dovuto prenderne atto e dichiarare improcedibile l’istanza diretta ad ottenere la nomina del commissario ad acta. L’art. 21 bis legge n. 1034/1971 dispone, infatti, che all’atto del suo insediamento il commissario verifica se l’amministrazione abbia nel frattempo provveduto, dopo la promozione del giudizio di ottemperanza. Il che conferma che l’emanazione del provvedimento da parte dell’Amministrazione preclude l’intervento del commissario e, a fortiori, laddove quest’ultimo non sia stato ancora nominato, rende improcedibile l’istanza diretta ad ottenerne la nomina. A diverse conclusioni si sarebbe certamente dovuti giungere laddove il T.a.r. nella sentenza sul silenzio-rifiuto non si fosse limitato alla mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, ma avesse anche predeterminato il contenuto del provvedimento, ordinando all’Amministrazione di accogliere l’istanza di Wind. 12. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della ordinanza impugnata, l’istanza presentata da Wind deve essere dichiarata improcedibile. Contro la nota del 7 febbraio 2007 ovviamente la società Wind potrà far valere i suoi motivi di censura (ivi compreso quello risultante dal contrasto con la decisione intervenuta sul ricorso straordinario e con l’obbligo restitutorio dalla stessa nascente) instaurando, come peraltro ha già fatto, un autonomo giudizio di impugnazione. 13. Le spese del presente giudizio possono essere compensate ricorrendo giustificati motivi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della ordinanza impugnata, dichiara improcedibile l’istanza presentata da Wind Telecomunicazioni s.p.a. per la nomina del commissario ad acta. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, il 4 maggio 2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori: Gaetano TROTTA Presidente Paolo BUONVINO Consigliere Domenico CAFINI Consigliere Aldo SCOLA Consigliere Roberto GIOVAGNOLI Consigliere Est. Presidente GAETANO TROTTA Consigliere Segretario ROBERTO GIOVAGNOLI VITTORIO ZOFFOLI DEPOSITATA IN SEGRETERIA il....25/06/2007. 4) RISARCIMENTO DEL DANNO DA RITARDO DELLA P.A. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - sentenza 29 gennaio 2008 n. 248 - Pres. Vacirca, Est. Salvatore Residenza Le Piscine di Montesignano S.p.A. ed altro (Avv. ti Gerbi e Villani) c. Comune di Genova (Avv. ti Odone, Pafundi ePessagno) - (conferma T.A.R. Liguria, Sez. I, 18 dicembre 2004, n. 1721). 1. Giurisdizione e competenza - Risarcimento dei danni - Derivanti dal ritardo con il quale la P.A. ha esercitato il suo potere - Giurisdizione amministrativa - Sussiste. 2. Edilizia ed urbanistica - Piano di lottizzazione - Approvazione da parte del Consiglio comunale - Non costituisce atto dovuto ma comporta l’esercizio di poteri discrezionali. 3. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Derivanti dal ritardo con il quale un Comune ha esaminato un piano di lottizzazione - Domanda - Non può essere accolta in considerazione dei poteri discrezionali spettanti al Consiglio comunale in ordine all’approvazione del piano di lottizzazione. 4. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Derivanti dal ritardo della P.A. - Nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio - Impugnazione dei provvedimenti stessi - Necessità Sussiste. 1. Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia nella quale il danno lamentato derivi, in tesi, dal mancato esercizio di un potere autoritativo nei tempi prefigurati da norme di legge. In tale ipotesi peraltro non rileva - se non, caso mai, sul piano del merito della pretesa - la circostanza che, oltre il termine previsto per l’esercizio del potere, sia intervenuto un provvedimento espresso (di accoglimento dell’istanza o di diniego) ovvero che l’amministrazione continui a serbare un comportamento inerte (mero ritardo): ai fini della giurisdizione rileva piuttosto l’inerenza a un potere di natura autoritativo della mancata emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato tempestivo esercizio del predetto potere (1). 2. L'approvazione di un piano di lottizzazione, pur se conforme al piano regolatore generale o al programma di fabbricazione, non è atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell'Autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l' opportunità di dare attuazione - in un certo momento ed in certe condizioni - alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest' ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza (2). 3. Non può accogliersi la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal ritardo con il quale un Comune ha esaminato un piano di lottizzazione che aveva superato tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto anche l’assenso da parte della Giunta municipale, dovendosi escludere che il Consiglio comunale sia vincolato all’approvazione del progetto, residuando in capo all’organo consiliare un margine di apprezzamento discrezionale in sede di esame del progetto di lottizzazione. Questo margine di apprezzamento discrezionale del Consiglio non consente di affermare l’obbligo del Comune di risarcire il danno derivante dal fatto che, nelle more dell’approvazione del piano di lottizzazione, è stata approvata una variante parziale al P.R.G. che non consentiva più l’approvazione del piano di lottizzazione. 4. Non è possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della P.A. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio e le statuizioni in essi contenute siano divenute intangibili per la omessa proposizione di una qualunque impugnativa (3). -----------------------------------------(1) Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., decisione 15 settembre 2005 n. 7, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cdsap_2005-09-15.htm e Corte di Cassazione, ordinanze n. 13659 e n. 13660 del giugno 2006, ivi pagg. http://www.lexitalia.it/p/61/casssu_2006-06-13.htm e http://www.lexitalia.it/p/61/casssu_2006-06-13-2.htm le quali, nell’affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sui danni da provvedimento, hanno sottolineato, in conformità con l’Adunanza plenaria, che appaiono riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio. Alla stregua del principio nella specie è stata ritenuta sussistente la giurisdizione amministrativa per una azione proposta da una società che aveva chiesto nei confronti di un Comune il risarcimento dei danni subiti per il fatto che il piano di lottizzazione dalla stessa presentato, dopo avere ottenuto i pareri ed i nulla osta prescritti, non era stato poi approvato da parte del Consiglio comunale. Il che aveva costretto la società stessa ad agire per l’annullamento del silenzio-rifiuto serbato dal Comune sul progetto. Peraltro, tra la data in cui il ricorso avverso il silenzio – rifiuto era stato trattenuto a sentenza ed il deposito della sentenza stessa - il Consiglio comunale aveva approvato una parziale al PRG, mediante la quale, tra l'altro, era mutata la disciplina urbanistica della vasta area oggetto della lottizzazione, da allora in poi destinata a "zona agricola (ZE), al fine di salvaguardarne le caratteristiche ambientali". Tale nuova destinazione aveva comportato l’impossibilità di approvare il piano di lottizzazione. (2) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 957. (3) Cons. Stato, Ad. Plen. 15 settembre 2005, n. 7, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cdsap_2005-09-15.htm; Sez. VI, 31 gennaio 2006, n. 321. -----------------------------------------Documenti correlati: CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE, sentenza 31-3-2005, n. 6745, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/casssu_2005-03-31-2.htm (sul giudice competente a decidere una azione di risarcimento del danno promossa per il colpevole ritardo del Comune nel rilascio di una concessione edilizia in sanatoria). CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, ordinanza 18-10-2005, n. 20123, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/casssu_2005-10-18-2.htm (sui limiti della giurisdizione esclusiva del g.a. dopo la sentenza della Corte cost. n. 204 del 2004 ed in particolare sulla sussistenza o meno di essa nel caso di azione di risarcimento proposta da commercianti nei confronti di un Comune per il danno derivante dal ritardo nell’esecuzione di lavori pubblici). CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, sentenza 15-9-2005, n. 7, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cdsap_2005-09-15.htm (sulla sussistenza della giurisdizione amministrativa per un ricorso con il quale si chiede il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio di autorizzazioni edilizie e sui presupposti necessari per il risarcimento del danno da ritardo). CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, ordinanza 7-3-2005, n. 875, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_200503-07o.htm (rimette all’Adunanza Plenaria le questioni circa la sussistenza o meno della giurisdizione amministrativa in materia di risarcimento del danno da ritardo della P.A. e la determinazione dei presupposti per la sua configurabilità). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 12-3-2004, n. 1261, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds6_2004-03-12-4.htm (sulle differenze tra danno "da ritardo" e danno "da disturbo", sui presupposti dell’ingiustizia del danno e della colpa grave e sulla quantificazione del danno "da disturbo"), con commento di O. CARPARELLI. TAR CAMPANIA - SALERNO SEZ. II, sentenza 16-6-2006, n. 850, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/tarcampsa2_2006-06-16.htm (sull'ammissibilità o meno della domanda di risarcimento del danno da ritardo proposta nel giudizio promosso per l’annullamento del silenzio-rifiuto della P.A.). TAR PUGLIA - LECCE SEZ. II, sentenza 8-10-2004, n. 7067, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarpuglialecce2_2004-10-08.htm (sulla nozione di danno "da ritardo" della P.A. e sulla sussistenza o meno - dopo la sentenza della Corte Cost. n. 204/2004 - della giurisdizione del G.A. su di una azione con la quale si chiede il risarcimento del danno da ritardo a seguito dell’annullamento di un silenzio-rifiuto). TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, sentenza 5-12-2007, n. 12568, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/tarlazio2ter_2007-12-05.htm (sulla possibilità o meno di avanzare una domanda di risarcimento del danno da ritardo in seno ad un ricorso ex art. 2 L. n. 205/00 avverso il silenzio della P.A.). TAR SICILIA - PALERMO SEZ. III, sentenza 23-4-2007, n. 1178, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/tarsiciliapa3_2007-04-23.htm (sulla sussistenza del presupposto della colpa della P.A., per il danno da ritardo, nel caso di mancata esecuzione di una sentenza del giudice amministrativo e sui criteri per determinare l’ammontare del risarcimento nel caso di ritardata assunzione in servizio). TAR TOSCANA - FIRENZE SEZ. II, sentenza 29-11-2007, n. 4386, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/tartoscana2_2007-11-29-2.htm (sulla possibilità o meno di condannare la P.A. al risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale, nel caso di recesso di una ditta aggiudicataria per ingiustificato ritardo della stazione appaltante nella stipula del contratto di appalto). TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, sentenza 4-7-2006, n. 792, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/tarcalabriacz_2006-07-04.htm (sulla necessità di fare riferimento al c.d. "danno figurativo" nel caso di ritardo nella costruzione di un immobile per effetto di illegittima ordinanza di demolizione). TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, sentenza 11-5-2004, n. 1070, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarcalabracz2_2004-05-11.htm (sulla possibilità di condannare al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi anche quando manchi un provvedimento illegittimo da gravare ed il comportamento illecito dell'amministrazione, nell'esercizio della funzione pubblica, assuma altre forme, come il ritardo o l'omissione colpevole) TAR PUGLIA - BARI SEZ. III TER, sentenza 3-6-2004, n. 2371, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarpugliaba3_2004-06-03.htm (la domanda di risarcimento del danno da ritardo può essere avanzata in seno ad un ricorso ex art. 2 L. n. 205/00 avverso il silenzio della P.A.). TAR PUGLIA - LECCE SEZ. III, sentenza 11-10-2004, n. 7166, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarpuglialecce3_2004-10-11-2.htm (sulla possibilità di ottenere il risarcimento del danno da ritardo della P.A. senza previa impugnazione di atti e sui presupposti necessari per tale tipo di risarcimento - fattispecie relativa a ritardato rilascio di una concessione edilizia). TAR PUGLIA-LECCE, SEZ. I, sentenza 19-4-2002, n. 1572, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarpugliale1_2002-04-19.htm (la domanda di risarcimento del danno da ritardo può essere avanzata in seno ad un ricorso ex art. 2 L. n. 205/00 avverso il silenzio della P.A.; per il riconoscimento della sussistenza del danno occorre verificare in concreto le ragioni del ritardo). TAR PUGLIA-LECCE, SEZ. I, sentenza 18-4-2002, n. 1569, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarpuglialecce1_2002-04-18-2.htm (distingue il danno "da ritardo" della P.A. dal "danno da disturbo" delle facoltà del titolare di un diritto soggettivo; condanna una Soprintendenza archeologica per il danno cagionato da una ordinanza di sospensione dei lavori alla quale non avevano fatto seguito, entro termini ragionevoli, i necessari accertamenti). TAR VENETO, SEZ. II, sentenza 31-3-2003, n. 2166, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarveneto2_2003-03-31.htm (sul principio della "causalità adeguata" al quale fare riferimento per verificare l’esistenza del nesso eziologioco e sui casi in cui l’annullamento del diniego di concessione edilizia per difetto di motivazione può dar luogo al risarcimento del danno da ritardo). FATTO La controversia trae origine dalla domanda presentata in data 28 marzo 1986 dalla società Residenza Le Piscine di Montesignano S.p.A. al comune di Genova per l’approvazione di un progetto di lottizzazione a scopo edificatorio (convertito in Piano Particolareggiato di iniziativa privata in seguito all'entrata in vigore della legge regionale 8 Luglio 1987, n. 24) per la realizzazione di insediamenti residenziali e commerciali in Località Sciorba di Montesignano (GE). L'intervento proposto con il descritto Piano Particolareggiato interessava un compendio immobiliare di mq. 125.235, dei quali: mq. 55.938 di proprietà della Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a.; mq. 61.252 di proprietà della Soc. Florida s.s.; mq. 8.045 appartenenti a soggetti terzi. Il progetto di lottizzazione, rielaborato come Piano Particolareggiato di iniziativa privata (e corredato di tutti i documenti tecnici richiesti dalla normativa regionale sopravvenuta), è stato valutato favorevolmente dalla Commissione edilizia in data 19 aprile 1989 e su di esso si sono espressi favorevolmente anche il Servizio provinciale del Genio civile e l'Ufficio regionale dei beni ambientali, i quali hanno rilasciato, rispettivamente, il parere di fattibilità sotto il profilo idraulico e il nulla osta ex art. 4 L.R. 24/1987. Successivamente, la Giunta municipale, con deliberazione 13 marzo 1990 n. 1336, dopo aver approvato lo schema di convenzione attuativa ha proposto al Consiglio comunale di adottare il Piano Particolareggiato, in quanto conforme alla vigente disciplina urbanistica. Da quel momento, il procedimento di approvazione del piano si è arrestato e soltanto in data 11 novembre 1993, a seguito di atto di intimazione e diffida, il Comune di Genova ha invitato la Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a. a trasmettere documentazione integrativa al dichiarato fine di verificare, sotto il profilo geotecnico, la fattibilità delle opere progettate. Le Società istanti, sul presupposto della natura palesemente dilatoria di tale richiesta (formulata a quasi quattro anni dalla ricordata deliberazione della Giunta municipale) ed in considerazione del ritardo del Comune nell'assunzione di un qualsivoglia provvedimento in ordine all'istanza di approvazione del progetto, hanno proposto ricorso dinnanzi al TAR Liguria al fine di far accertare il silenzio rifiuto serbato dall' Amministrazione e di ottenere la declaratoria del dovere di immediata pronuncia sulla istanza di approvazione. Con sentenza 10 febbraio 1996, n. 27 il TAR adito ha accertato che "siffatta richiesta di ulteriore documentazione del Sub - commissario, così generica e indeterminata, per di più disposta circa... quattro anni dopo la citata deliberazione della Giunta Municipale, non può che essere considerata alla stregua di un atto interlocutorio di natura pretestuosa e dilatoria e, perciò, irrilevante ed inidoneo ad ovviare all'inerzia dell'Amministrazione in ordine al suo dovere di concludere il procedimento .... a maggior ragione se si considera che il progetto presentato sette anni prima dalla ricorrente era fin dall'origine corredato, come lo stesso Comune ha riconosciuto nell'atto deliberativo di Giunta da copiosi elaborati e relazioni di indagine geologica e geotecnica redatti da illustri cattedratici". Conseguentemente, il TAR ha annullato il silenzio – rifiuto serbato dal Comune sul progetto dichiarando l'obbligo dell' Amministrazione di pronunciarsi sull'istanza. Il Comune, non di meno, non ha ottemperato a quanto disposto nella citata sentenza (nel frattempo passata in giudicato) e non ha concluso il procedimento, omettendo di pronunciarsi sul progetto di lottizzazione. Sempre in fatto va precisato che nel dicembre 1995 - e più precisamente tra la data in cui il ricorso avverso il silenzio – rifiuto è stato trattenuto a sentenza ed il deposito della sentenza stessa - il Consiglio Comunale di Genova, con deliberazione n. 264 del 14 dicembre 1995, recante la cosiddetta "variante di salvaguardia", ha adottato la variante parziale al PRG 1980, per la limitazione quantitativa delle previsioni in zona di espansione residenziale, mediante la quale, tra l'altro, è mutata la disciplina urbanistica della vasta area oggetto della lottizzazione, da allora in poi destinata a "zona agricola (ZE), al fine di salvaguardarne le caratteristiche ambientali". La scelta di escludere l’edificabilità dell'area è stata poi confermata dalla variante generale al PRG 1980, adottata nel luglio 1997, con la quale l'area in oggetto è stata destinata in via prevalente a sottozona EM (agricola), in parte a sottozona EB (boschiva) ed in parte a zona RC (ricettiva). Detta previsione urbanistica è stata definitivamente confermata in sede di approvazione del PUC da parte della Regione Liguria con decreto presidenziale 10 marzo 2000 n. 44. Va precisato, a questo punto che né la variante di salvaguardia né la variante generale né l’approvazione regionale sono state mai impugnate da parte delle società appellanti. 1.1. Per effetto del nuovo strumento urbanistico generale la Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano S.p.A. e la Soc. Florida s.s. si sono trovate di fronte all’impossibilità di approvazione del progetto di lottizzazione a suo tempo presentato per sopravvenuto contrasto con la nuova disciplina urbanistica della zona. Pertanto, le predette società, sul presupposto che gli atti illegittimi assunti dal Comune e l'illegittimo comportamento omissivo mantenuto del medesimo (accertato e dichiarato con la citata sentenza 10 febbraio 1996, n. 27) hanno arrecato grave pregiudizio alle loro ragioni, hanno proposto al TAR Liguria ricorso per il risarcimento dei danni ingiustamente subiti. In particolare, hanno chiesto al Tribunale adito di: 1. accertare e dichiarare l'illegittimità e l'illiceità degli atti e del complessivo comportamento omissivo e commissivo del Comune di Genova sia con riferimento all'istanza di approvazione del piano di lottizzazione/particolareggiato di iniziativa privata presentata in data 28 marzo 1986 - 13 gennaio 1988 vuoi prima della sentenza del Tar Liguria n. 27/1996 vuoi successivamente ad essa ed anche con riguardo alla adozione del nuovo P.R.G. di Genova deliberata il 16 luglio 1997; 2. accertare e dichiarare la responsabilità ed il derivante obbligo del Comune di Genova di risarcire i danni patiti e patiendi dalla Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a. e dalla Soc. Florida s.s. a causa di tali atti e del comportamento del Comune; 3. conseguentemente accertare e dichiarare l'obbligo del Comune di Genova di risarcire tutti tali danni (danno emergente e lucro cessante) alle Società ricorrenti; 4. accertare, quantificare e liquidare i danni predetti e condannare il Comune di Genova a versare alle ricorrenti il relativo ammontare, maggiorato di rivalutazione monetaria e di interessi sulle somme rivalutate alla data di insorgenza dei ridetti danni sino al dì del completo soddisfo, occorrendo con fissazione del termine per siffatta corresponsione; 5. in subordine (alternativamente a quanto sub 4), determinare i criteri di quantificazione del risarcimento, con integrazione di rivalutazione monetaria ed interessi sulle somme rivalutate dalla data di insorgenza dei danni di cui sopra sino al dì del completo soddisfo, nonché stabilire il termine - ex art. 7 L 205/2000 - entro il quale il Comune di Genova debba, nel rispetto dei prefiggendi criteri, presentare alle ricorrenti una proposta di pagamento. Il Comune di Genova si è costituito in giudizio, eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione del Tribunale adito e la prescrizione del diritto vantato, e deducendo, nel merito, l’infondatezza del ricorso. Il TAR, disattese le eccezioni pregiudiziali, nel merito, pur avendo escluso che il consiglio comunale fosse assolutamente vincolato ad approvare il progetto di lottizzazione, ha osservato che l’affidamento ingeneratosi nelle ricorrenti aveva raggiunto un notevole grado di espansione, in quanto il progetto di lottizzazione, come riconosciuto dalla sentenza n. 27/96, aveva superato nella sostanza tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto il consenso anche della Giunta municipale. In tale contesto, ad avviso del primo giudice, lo spazio di discrezionalità rimesso al consiglio comunale era davvero residuale e, se contrario all’approvazione, richiedeva, comunque, una manifestazione esplicita, sorretta da una motivazione credibile ed esauriente. Conseguentemente, se la discrezionalità di pertinenza del consiglio comunale in sede di esame del progetto di lottizzazione è sufficiente per escludere l’obbligo del Comune di risarcire il danno asseritamente derivante dal minor valore del terreno divenuto agricolo grazie all’inerzia del Comune rispetto a quello che avrebbe avuto con la realizzazione del progetto, non altrettanto può dirsi per il danno connesso ai costi sopportati per gli studi, le indagini tecniche, assistenze e consulenze, spese generali per l’apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto, la cui approvazione, alla stregua di un esame oggettivo della situazione, non poteva che essere prossima. E, tuttavia, anche per quanto concerne il danno da ultimo menzionato – esplicitamente qualificato come danno emergente – il primo giudice ha ritenuto che la domanda non potesse essere accolta per mancanza di prova. A tale esito il TAR è pervenuto sul rilievo che questo capo della domanda giudiziale di risarcimento è del tutto priva di fondamento probatorio, atteso che le ricorrenti non hanno prodotto alcun documento dal quale desumere concretamente alcunché circa i costi inutilmente sopportati. Né a questa conclusione potrebbe obiettarsi che per il processo amministrativo è sufficiente fornire un principio di prova, ovvero che, in base a nozioni di comune esperienza, si può immaginare che le due società abbiano facilmente sopportato detti costi, ovvero ancora sia stata richiesta CTU per quantificarli. Ad avviso del primo giudice, nessuna delle suddette obiezioni è in grado di superare l’ostacolo derivante dalla mancanza di prova del danno lamentato. Ed, invero, quanto al primo aspetto, è stato rilevato, da un lato, che le parti non hanno fornito nemmeno un principio di prova e, dall’altro lato, che la limitazione dell’onere probatorio che governa il processo amministrativo si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti, privato e P.A., e quindi sul generale possesso dei documenti da parte dei pubblici uffici che resistono in giudizio, mentre in questo caso si tratta con tutta evidenza di documentazione in possesso dei ricorrenti. Quanto al secondo punto è stato osservato che la tesi secondo cui, in base a nozioni di comune esperienza, si può immaginare che un investimento sia stato fatto, non può, di per sé, essere sufficiente a giustificare una condanna al risarcimento del danno, visto che questa deve anche delimitarne in qualche modo l’entità. Con riferimento, infine, al terzo punto si è replicato che la consulenza tecnica d’ufficio dovrebbe essere disposta lasciando il consulente privo di quei criteri che il giudice deve dettare, almeno in questo tipo di controversia, per giungere ad un risultato. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso è stato respinto, con il conseguente assorbimento dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A. Contro la sentenza le originarie ricorrenti hanno proposto il presente appello, censurandone le conclusioni e chiedendone l’integrale riforma. Il Comune di Genova si è costituito anche in questo grado di giudizio, replicando alle argomentazioni poste a base dell’impugnazione e proponendo appello incidentale avverso la medesima decisione. Le parti hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive con apposite memorie. L’appello è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 16 ottobre 2007. DIRITTO 1. In via pregiudiziale va esaminato il primo motivo dell’appello incidentale, con il quale il Comune di Genova ripropone la questione di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Comune premette al riguardo, che la sentenza n.27/1996, sulla quale si fonda la pretesa delle società appellanti, "accertata l'inerzia dell'amministrazione", ha annullato "l'impugnato silenzio -rifiuto", e ha dichiarato l"'obbligo dell'amministrazione medesima di provvedere secondo le regole procedimentali dettate dagli artt. 2 e seguenti della legge 241/1990". La declaratoria di illegittimità su cui si fonda l'azione ex adverso proposta ha avuto ad oggetto, in altre parole, l'inerzia della p.a. e certo non anche il mancato rilascio del provvedimento favorevole richiesto nel lontano 1986. Tuttavia, ad avviso del comune, dall’esame del ricorso di primo grado e delle relative conclusioni (pag.16 e ss.) emerge che lo stesso non introduce una semplice azione risarcitoria conseguente alla declaratoria di illegittimità già ottenuta con la sentenza ripetutamente citata; al contrario, il nuovo ricorso muove da detta declaratoria per ottenere una declaratoria d'illegittimità ulteriore, su cui fondare una diversa e più ampia azione risarcitoria. Nelle conclusioni si chiede, infatti, al Collegio di "accertare e dichiarare l’illegittimità e l’illiceità del comportamento omissivo del Comune ... sia con riferimento all'istanza di approvazione del piano .... vuoi prima della sentenza ... vuoi successivamente ad essa ... ". Su questa domanda e sulle domande ad essa consequenziali il giudice amministrativo sarebbe, sempre secondo il comune, privo di giurisdizione sia in senso assoluto sia in senso relativo. Sotto il primo profilo, il difetto di giurisdizione sarebbe la logica conseguenza del principio generale, ribadito dall'Adunanza Plenaria n.1 del 2002, che "assegna la cura dell'interesse pubblico all'amministrazione ed al giudice amministrativo il solo controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà": in base a tale principio, l'approvazione di uno strumento urbanistico di attuazione non può certo avvenire o dirsi avvenuta in esito ad un processo amministrativo nè può ritenersi frutto di un giudizio prognostico esperibile dal giudice in considerazione delle probabilità dell'evolversi del procedimento in sede amministrativa. Da qui il difetto assoluto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria a provvedere in merito all'approvazione del progetto di lottizzazione, trattandosi di potere che spetta ad organo amministrativo. Sotto il secondo aspetto, il difetto di giurisdizione sarebbe predicabile alla luce della recente e nota sentenza della Corte Costituzionale n.204/2004, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.34, comma 1 del decreto legislativo n.80/1998, nella parte in cui ha previsto che fossero devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia. A sostegno del proprio assunto, il comune invoca un precedente delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 18 ottobre 2005, n. 20117), secondo cui "A seguito della [richiamata] sentenza della Corte Costituzionale ... , la giurisdizione esclusiva del G.A. non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non esercita - nemmeno mediatamente e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun potere pubblico." Di conseguenza, dovrebbe riconoscersi la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le controversie, come quella in esame, in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex art. 2043 c.c. per non avere, appunto, la pubblica amministrazione osservato condotte che si assumono doverose a fronte di una posizione del privato prospettata in termini di diritto soggettivo. Nel caso di specie, infatti - a fronte di un mero comportamento della p.a., di un'attività materiale disancorata e non sorretta da alcun provvedimento formale, sia pure posta in essere in ambito urbanistico - si lamenta la sofferenza di un "danno ingiusto" incidente sul " ... diritto di proprietà, di cui lo ius aedificandi costituisce, come è noto, facoltà inscindibile". Ad avviso del comune - al contrario di quanto ex adverso sostenuto - lo ius aedificandi consiste in realtà in una facoltà riconosciuta dalla p.a. al privato proprietario in esito al c.d. effetto conformativo del diritto di proprietà scaturente in sede pianificatoria, sicchè l'avversa ricostruzione di detta posizione quale diritto soggettivo deve essere sicuramente contestata. E tuttavia si sostiene dal Comune che - così prospettata - la questione esuli dalla giurisdizione del giudice adito per appartenere a quella del giudice ordinario, proprio in quanto riferita come inerente ad un diritto soggettivo, il quale deve ritenersi tutelabile dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria in mancanza di deroghe ai comuni canoni sul riparto della giurisdizione. In conclusione, secondo la tesi dell’amministrazione locale, da un lato, il comportamento omissivo che si censura con il ricorso non è sindacabile davanti all'autorità giudiziaria sotto il profilo sostanziale del merito e/o del contenuto dell'emanando provvedimento e, d'altro lato, trattandosi appunto di un comportamento, la sindacabilità dello stesso, limitatamente al profilo formale, deve dirsi oggi riservata al Giudice ordinario. 1.1. Il motivo è infondato sotto entrambi i profili prospettati, come correttamente deciso dal primo giudice. Con riferimento al difetto di giurisdizione in senso assoluto, va rilevato che il ricorso di primo grado era volto ad ottenere dal TAR un giudizio non sul merito dell'azione amministrativa ma sulla legittimità (o meno) della condotta del Comune, il quale, secondo i ricorrenti, non era stato capace, nell'arco di tempo di undici anni, di assumere un provvedimento che concludesse il procedimento. In proposito, come emerge dalla stessa sentenza del TAR, "l'inerzia del Comune è stata già ritenuta illegittima con la citata sentenza n. 27/96" e il ricorso in primo grado era finalizzato ad ottenere la declaratoria di responsabilità e, conseguentemente, la condanna dell'Amministrazione intimata a risarcire i danni derivanti dal suo comportamento inerte, contrario ai principi di legalità, imparzialità e correttezza dell'azione amministrativa. L'azione risarcitoria proposta dalle Società ricorrenti, pertanto, non implicava (né implica) alcuna pronuncia dell'Autorità giudiziaria suscettibile di interferire nella sfera di discrezionalità dell'Amministrazione. 1.2. A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine all’asserito difetto di giurisdizione in senso relativo. Come la Sezione ha avuto modo di precisare (Ord. 7 marzo 2005, n. 875), i principi enucleabili dall’iter argomentativo adottato dalla Corte nella richiamata sentenza n. 204/2004, sembrano essere i seguenti: a) il riparto di giurisdizione non può fondarsi sul criterio della materia, o meglio dei « blocchi di materia», in quanto il criterio imposto dalla Costituzione è quello della distinzione tra posizioni soggettive, salvi i casi « eccezionali» di giurisdizione esclusiva, in cui peraltro è proprio l’intreccio delle posizioni soggettive e determinare la devoluzione della « materia» al giudice amministrativo; b) il risarcimento del danno non costituisce una materia, bensì uno strumento di tutela ulteriore, attribuito al giudice amministrativo per rendere piena ed effettiva la tutela dell’interesse legittimo, cui l’articolo 24 riconosce dignità pari al diritto soggettivo; c) il superamento della regola del cd. doppio giudizio - che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarcimento del danno (superamento, peraltro, introdotto prima della legge n. 205 nel settore degli appalti, di diretta derivazione comunitaria) costituisce, nel pensiero della Corte, <null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost.>; d) la giurisdizione del giudice amministrativo, e quindi quella annessa per il risarcimento del danno, sussiste solo nelle fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisca quale autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino dinanzi al giudice amministrativo; in altri termini, vi è giurisdizione amministrativa solo se l’amministrazione, ancorché con forme e strumenti del diritto privato, eserciti un potere amministrativo. La sentenza della Corte, dunque, come è stato rimarcato in dottrina, individua nel giudice amministrativo il giudice del potere pubblico, sicché è l’inerenza dell’attività contestata all’esercizio di un potere pubblico a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo. Peraltro, una volta che si radichi la giurisdizione, discende, come univoco corollario, nel pensiero della Corte, che al giudice amministrativo sia devoluto lo strumento ulteriore del risarcimento del danno subito dalla posizione sostanziale – interesse legittimo o, nelle « particolari» ipotesi di giurisdizione esclusiva, anche il diritto soggettivo - strumento riguardato in un’ottica tipicamente « rimediale» e « processuale», che comporta una significativa rivisitazione del modello risarcitorio condiviso da una parte della dottrina civilistica e dalla prevalente giurisprudenza. Tale devoluzione realizza quella concentrazione di tutela che, nell’ottica della Corte, costituisce attuazione dell’articolo 24 della Costituzione e che, come sottolineato in dottrina, si arricchisce della logica sottesa al nuovo testo dell’articolo 111 della Costituzione che, nell’assumere a valore costituzionale il principio della ragionevole durata del processo, impone di ricercare soluzioni ordinamentali che semplifichino le forme di tutela, rendendo certa e chiara l’individuazione del giudice e tendenzialmente unitaria la tutela giurisdizionale afferente a una medesima vicenda sostanziale. Nel delineato contesto di principio, la Sezione ha ritenuto che la controversia nella quale il danno lamentato deriva, in tesi, dal mancato esercizio di un potere autoritativo nei tempi prefigurati da norme di legge in esame rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo. In tale ipotesi, non rileva – se non, caso mai, sul piano del merito della pretesa - la circostanza che, oltre il detto termine, sia intervenuto un provvedimento espresso (di accoglimento dell’istanza o di diniego) ovvero che l’amministrazione continui a serbare un comportamento inerte (mero ritardo): ai fini della giurisdizione rileva piuttosto l’inerenza a un potere di natura autoritativo della mancata emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato tempestivo esercizio del predetto potere. Il potere delineato dalla norma ha natura autoritativa e l’omesso esercizio del potere – sia che venga sindacato al fine di ottenere il provvedimento sia che se ne lamenti l’illegittimità a fini risarcitori - costituisce la fattispecie speculare del suo esercizio (che a sua volta può dar luogo a un provvedimento positivo o negativo), la quale non sembra poter essere trattata alla stregua di un mero comportamento, cioè, nell’ottica della Corte, di un provvedimento svincolato dall’esercizio di un potere autoritativo (sia in concreto sia in astratto), cui consegue la devoluzione della controversia al giudice ordinario. In altri termini, non sembra esatto né ragionevole devolvere a giudici diversi controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di un provvedimento espresso, positivo o negativo, e la contestazione dell’omissione o del ritardo nel provvedere. Più in particolare, non sembra corretto né ragionevole devolvere a giudici diversi il giudizio sul danno conseguente all’illegittimità del provvedimento negativo – del che non sembra possibile dubitare - e il giudizio sul danno da omesso o ritardato provvedimento. Invero, nella seconda ipotesi, l’interesse legittimo pretensivo attiene alla medesima posizione sostanziale lesa dal provvedimento negativo, riguardata in un diverso momento dell’esercizio del potere; sicché l’azione per il risarcimento del danno subìto non può che essere portata dinanzi al medesimo giudice della situazione sostanziale lesa, per la cui riparazione il rimedio risarcitorio ha carattere strumentale. D’altra parte, non può escludersi che la parte agisca sia per il rilascio del titolo che per il risarcimento del danno, e, anche in tal caso, appare irragionevolmente violare il principio di concentrazione della tutela ipotizzare che il cittadino debba chiedere il rilascio del titolo al giudice amministrativo e il risarcimento del danno al giudice ordinario: in realtà, si è in presenza di un concorso di azioni attinenti alla medesima posizione sostanziale, che inerisce a un potere amministrativo di natura autoritativa; potrà discutersi su presupposti di esperibilità delle azioni (in termini di pregiudizialità, di alternatività o di cumulabilità), ma dinanzi allo stesso giudice competente a sindacare quel potere autoritativo. A non diverse conclusioni sembra doversi pervenire anche qualora il danno sia configurato come mero danno da ritardo, correlato a quella specie di interessi aventi natura strumentale o meglio procedimentale. Anche in tale prospettiva, infatti, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo sia che si valorizzi la natura della posizione giuridica fatta valere, per l’appunto l’interesse legittimo al corretto svolgimento e al rispetto dei tempi del procedimento, sia che si rimarchi l’inerenza della condotta di cui si assume l’illiceità – violazione dei termini del procedimento e, più in generale, del dovere di correttezza all’esercizio di un potere di tipo autoritativo da parte dell’amministrazione. Soprattutto, ancora una volta, la logica della concentrazione della tutela innanzi al medesimo giudice – che costituisce attuazione del disposto costituzionale di cui agli articoli 24 e 111 - non consente di ritagliare, nell’ambito della medesima vicenda sostanziale, spicchi di tutela in relazione ad azioni proponibili dinanzi a giudici diversi, costringendo il cittadino non solo a promuovere distinti giudizi ma a frazionare le proprie istanze di tutela, che possono presentare margini di alternatività, dinanzi a diversi giudici. Con la conseguenza che lo stesso concetto di consequenzialità – come rilevato in dottrina - deve essere riguardato non tanto in relazione alla pronuncia giurisdizionale di annullamento, ma piuttosto come concetto interno alla giurisdizione, nel senso che la lesione di cui si chiede il ristoro può essere conseguenza, oltre che di un provvedimento, di una condotta strettamente inerente all’esercizio di un potere di natura autoritativa. Il richiamato orientamento è stato condiviso dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (decisione15 settembre 2005 n. 7) ed ha avuto l’avallo della Corte di Cassazione, che, con le note ordinanze n. 13659 e n. 13660 del giugno 2006, nell’affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sui danni da provvedimento, ha sottolineato, in conformità con l’Adunanza plenaria, che appaiono riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio. Si deve, pertanto, concludere che la presente controversia rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo 2. Superata la questione di giurisdizione e passando all’esame del merito, conviene premettere che contro la sentenza sono stati proposti due appelli: il primo, da qualificarsi come principale, dalle originarie ricorrenti e il secondo, incidentale, dal Comune di Genova. Come si avuto modo di evidenziare in punto di fatto, il TAR, pur avendo riconosciuto che l’affidamento ingeneratosi nelle ricorrenti aveva raggiunto un notevole grado di espansione, in quanto il progetto di lottizzazione aveva superato nella sostanza tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto anche l’approvazione da parte della Giunta municipale, ha tuttavia escluso che il Consiglio comunale fosse vincolato all’approvazione del progetto, residuando in capo all’organo consiliare un margine di apprezzamento discrezionale in sede di esame del progetto di lottizzazione. Questo margine di apprezzamento discrezionale del Consiglio non consentiva di affermare l’obbligo del Comune di risarcire il danno asseritamente derivante dal minor valore del terreno divenuto agricolo grazie all’inerzia del Comune rispetto a quello che avrebbe avuto con la realizzazione del progetto. Viceversa, l’indicato affidamento è stato ritenuto idoneo a fondare la richiesta di risarcimento del danno connesso ai costi sopportati per gli studi, le indagini tecniche, assistenze e consulenze, spese generali per l’apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto, atteso che, ad avviso del TAR, l’approvazione del progetto di lottizzazione, alla stregua di un esame oggettivo della situazione, non poteva che essere prossima. E, tuttavia, anche per quanto concerne il danno da ultimo menzionato – esplicitamente qualificato come danno emergente – il primo giudice ha ritenuto che la domanda non potesse essere accolta per mancanza di prova. 2.1. Con l'appello principale la sentenza è stata criticata per non aver riconosciuto il diritto delle Società ad ottenere, oltre al pagamento delle spese progettuali, anche il ristoro dei pregiudizi patrimoniali consistenti nel decremento del valore dei terreni e nel mancato utile che le medesime avrebbero potuto ritrarre dall'approvazione del Piano di lottizzazione. Le appellanti premettono che, con riguardo ai costi di progettazione e connessi, il cui diritto al risarcimento è stato riconosciuto nella sentenza impugnata (ancorché la relativa azione risarcitoria sia stata respinta in quanto ritenuta dai Giudici "priva di fondamento probatorio"), si sono determinate a chiedere in via stragiudiziale all'Amministrazione civica il rimborso delle spese (per studi, indagini tecniche, consulenze, etc.) a suo tempo sostenute per l'elaborazione della proposta di S.U.A., riservandosi comunque il diritto di ricorrere nuovamente all'Autorità giudiziaria per l'ipotesi di perdurante inadempimento del Comune di Genova all'obbligazione risarcitoria. In relazione, invece, alle altre componenti di danno dedotte nel giudizio di primo grado (riduzione del valore economico delle aree di interesse e mancato utile), le medesime società censurano l'impugnata sentenza per erroneità e contraddittorietà e ne chiedono la riforma, con conseguente riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno. A questo proposito, evidenziano come, nel corso del giudizio di primo grado, avessero dimostrato in modo esauriente la sussistenza nel caso di specie di tutti i presupposti (enucleati dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 500 del 1999) che legittimano la proposizione della domanda di risarcimento danni ex art. 2043 C.C. nei confronti della P. A. per le ipotesi di illegittimo esercizio della funzione pubblica: evento dannoso, ingiustizia del danno, riferibilità dell’evento dannoso alla condotta della P.A.. L’esistenza del danno sarebbe in re ipsa, stante l’enorme differenza di valore tra il suolo destinato ad espansione residenziale (quale era al momento di presentazione del piano di lottizzazione e quale è rimasto per molto tempo in cui il comune è rimasto inerte e quale si era consolidato a seguito della notifica della sentenza n. 27 del 10 febbraio 1996 sul silenzio rifiuto, intervenuta prima dell’adozione del nuovo P.R.G.) ed il medesimo suolo dopo che la sua edificabilità è stata azzerata in seguito alla sua illegittima assegnazione a zona agricola dalla disciplina urbanistica sopravvenuta. L’ingiustizia del danno emergerebbe agevolmente ove si consideri che esso viene ad incidere su una situazione soggettiva di interesse legittimo pretensivo, tutelata dall’ordinamento in quanto funzionale alla protezione del bene della vita, consistente nel diritto di proprietà di cui lo jus aedificandi costituisce facoltà inscindibile. Il nesso di causalità tra la condotta del comune e il danno deriverebbe dal fatto che il danno sofferto dalle originarie ricorrenti sarebbe conseguenza diretta ed immediata della colpevole inerzia dell’amministrazione locale, riconosciuta illegittima con la sentenza n. 27/1996, e protrattasi fino all’adozione della variante al P.R.G. ed oltre, posto che il provvedimento conclusivo del procedimento non è stato mai adottato. Le considerazioni che precedono dimostravano (e dimostrano), ad avviso delle appellanti, la sussistenza di tutti i presupposti per la qualificazione e la riconducibilità del danno da loro sofferto allo schema normativo di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente obbligo per il comune di risarcirlo. E, poiché nel caso in esame la reintegrazione in forma specifica - che costituisce il primo rimedio risarcitorio – è ormai inibita dalla nuova disciplina urbanistica che ha impresso ai terreni di proprietà delle ricorrenti una destinazione incompatibile con l’utilizzazione edificatoria, nonché con il rifiuto del comune di modificare il piano regolatore in modo coerente con il progetto di lottizzazione a suo tempo presentato, il risarcimento non può che avvenire per equivalente pecuniario in applicazione dei principi contenuti nell’art. 1223 c.c., che individuano quali componenti del danno sia la perdita subita che il mancato guadagno. A questo riguardo, si precisa dalle parti che, mentre il danno della società Florida s.s. è costituito solo dalla differenza di valore dei terreni di sua proprietà, derivante dal mutamento della loro destinazione urbanistica da edificatori residenziali in agricoli, il danno della Società Le Piscine di Montesignano S.p.A. comprende, oltre quello derivante dal minor valore dei terreni di sua proprietà, anche quello connesso alla sua attività imprenditoriale, connessa essenzialmente alla realizzazione di insediamenti residenziali e commerciali, e, quindi, il mancato utile che sarebbe derivato dall’operazione, pari alla differenza tra i ricavi presumibili sulla base dei prezzi correnti medi di mercato dell’epoca e relativi alla zona di intervento ed i costi dell’operazione (costi di acquisizione delle aree di proprietà della Florida e di terzi, costi di costruzione e di progettazione, oneri di urbanizzazione, oneri finanziari e di commercializzazione). Aggiungono le Società che in tale chiaro contesto, il TAR, pur riconoscendo che lo stato di definizione del procedimento di approvazione del progetto di lottizzazione aveva raggiunto uno stadio tale da determinare "il maturarsi in capo alle ricorrenti di un’aspettativa giuridica concreta che in ogni caso non poteva rimanere senza risposta – ossia senza provvedimento finale – per un termine di anni dapprima e poi lasciata cadere nella completa omissione in spregio ai principi generali di cui alla legge 7 agosto1990, n. 241", del tutto contraddittoriamente ha poi escluso la risarcibilità del pregiudizio patrimoniale derivante dalla diminuzione del valore delle aree divenute agricole in virtù della sopravvenuta disciplina urbanistica, in base alla sola considerazione che il Consiglio comunale non era assolutamente vincolato all’approvazione del progetto di lottizzazione, residuando ancora un margine di discrezionalità in sede di esame del piano medesimo. Ove si consideri, inoltre, che il medesimo TAR ha riconosciuto comunque "l’esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l’apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo", appare evidente, ad avviso delle appellanti, che il primo giudice ha erroneamente ritenuto che la svalutazione dei terreni costituisca una componente di danno rientrante nel genus del lucro cessante, per di più non risarcibile in quanto non conseguenza diretta di un comportamento illecito dell’amministrazione locale, il quanto l’organo consiliare non era obbligato ad approvare la proposta di S.U.A.. In realtà, il deprezzamento delle aree sarebbe riconducibile alla categoria del "danno emergente", in quanto esso ha determinato e determina (non un mancato guadagno, ma) la diminuzione del valore economico di beni già esistenti nel patrimonio dei soggetti interessati. Se il TAR avesse correttamente individuato la natura del danno in esame, non avrebbe potuto negare il risarcimento, posto che, per sua stessa ammissione, lo stadio di approvazione del progetto – che aveva superato favorevolmente tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto anche il parere favorevole della Giunta comunale – era a tal punto avanzato che il cd. margine residuo del Consiglio comunale poteva ritenersi inesistente. Sotto questo profilo, la sentenza viene censurata anche per difetto di motivazione, poiché il giudice di primo grado, invece di limitarsi ad enunciazioni di principio, avrebbe dovuto accertare se effettivamente residuassero concreti spazi di discrezionalità nell’approvazione del piano di lottizzazione (norme o interessi pubblici). A contrastare tale conclusione non varrebbe, in senso contrario, affermare che l'istruttoria del procedimento non si era conclusa perché le Società non avevano presentato la documentazione integrativa chiesta dal Comune né sostenere che la facoltà di agire per il risarcimento dei danni fosse ormai preclusa per mancata impugnazione della disciplina urbanistica sopravvenuta che ha azzerato le potenzialità edificatorie dei terreni di proprietà. Quanto al primo rilievo, si ricorda dalle appellanti che il TAR, con la sentenza n. 27/1996, ha statuito che "siffatta richiesta di ulteriore documentazione, così generica ed indeterminata, per di più disposta circa quattro anni dopo la citata deliberazione della Giunta Municipale, non può che essere considerata alla stregua di un atto interlocutorio di natura pretestuosa e dilatoria e, perciò, irrilevante ed inidoneo ad ovviare all'inerzia dell'Amministrazione in ordine al suo dovere di concludere il procedimento". A confutazione del secondo rilievo, le società sottolineano da un lato, che nel caso di comportamento inerte della P.A. la giurisprudenza (TAR Puglia – Sezione di Lecce, Sezione III, 11 ottobre 2004, n. 7166) ha ammesso l'esperibilità dell'azione risarcitoria cosiddetta "pura" (ovvero non collegata alla principale azione impugnatoria) atteso che l'elemento causativo del danno è da rinvenirsi non in un provvedimento annullato dal Giudice ma in una condotta omissiva dell'Amministrazione, e, dall’altro lato, che la disciplina urbanistica sopravvenuta sia comunque stata dichiarata illegittima e conseguentemente annullata, ovviamente con effetto retroattivo, in sede giurisdizionale. Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dal comune nel suo appello incidentale, le Società non sarebbero titolari di una mera aspettativa all'assunzione di un provvedimento favorevole. Al contrario, lo stato avanzato del procedimento e, più ancora, la sua univoca direzione nel senso della conformità del progetto ad ogni norma applicabile e ad ogni interesse pubblico rilevante, oltre alla esistenza di una declaratoria giudiziale dell'obbligo a provvedere avrebbero attribuito alle proponenti l'intervento una posizione giuridica di oggettivo affidamento circa l'approvazione del piano di lottizzazione e circa il buon esito dell'operazione edilizia (il che implica l'obbligo per l'Amministrazione di risarcire i danni derivanti dalla lesione di tale affidamento). Con riferimento alla componente di danno (qualificabile come lucro cessante) consistente nella mancata percezione degli utili che sarebbero derivati dalla realizzazione dell’insediamento residenziale e commerciale oggetto del piano, le società rilevano che su questo punto i primi giudici non hanno adottato alcuna statuizione, dovendo escludersi che la reiezione della domanda risarcitoria riguardante la componente del lucro cessante sia implicita nella mancata condanna dell’amministrazione a rifondere le altre componenti del danno. Il TAR, invero, ha giudicato infondata solo la richiesta risarcitoria relativa al deprezzamento dei terreni, per cui sarebbe da escludere che in tale statuizione possa essere ricompressa anche la componente di danno da mancato guadagno, essendo evidente che il giudice deve verificare in concreto ogni singola componente di danno, in quanto ciascuna di esse può fondarsi su presupposti autonomi. Fatta questa precisazione, le società insistono per il riconoscimento anche di questo tipo di danno, non essendovi alcun dubbio che nella specie sussistano tutti i presupposti per la sua risarcibilità. 2.2. Il Comune di Genova si è costituito in questo grado e, con apposita memoria, ha replicato diffusamente alle singole argomentazioni poste a base dell’impugnazione. Il medesimo Comune, con appello incidentale, ha censurato la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto che in capo alle società si fosse maturato un’aspettativa giuridica concreta. Il comune osserva che, già in sede di esame della questione di giurisdizione, il TAR ha erroneamente rilevato, in modo del tutto apodittico, il maturarsi in capo alle ricorrenti di un'aspettativa giuridica concreta, stante l’avanzato stato raggiunto dal procedimento di approvazione del progetto di lottizzazione, il quale aveva superato tutti i passaggi tecnici e quello determinante se non definitivo della giunta comunale. Pur ammettendo che lo schema di piano si presentava completo sotto il profilo dell’elaborazione tecnica e che sul medesimo si erano favorevolmente espressi i diversi uffici interessati, l’amministrazione locale assume che, comunque, il procedimento di approvazione risultava ancora allo stato in piena istruttoria, dovendosi ancora dare corso a tutta la fase propriamente discrezionale affidata al Consiglio Comunale, nonchè alle fasi di partecipazione (con facoltà di presentazione di osservazioni ed opposizioni da parte dei proprietari di immobili compresi nel progetto), di pubblicità e di controllo. In altre parole, nel procedimento di approvazione di uno strumento urbanistico attuativo - sia pure di iniziativa privata - la civica amministrazione conserva un rilevante spazio di discrezionalità che appare del tutto evidente ove si consideri il contenuto tipico di detto piano, secondo quanto prevede l’art.13 della legge urbanistica statale n. 1150 del 1942, e, per quel che riguarda la Regione Liguria, il combinato disposto degli artt. 8, 16 e 18 della legge regionale 8 luglio 1987, n. 24, applicabile ratione temporis al caso di specie. Se, poi, si considera che, come evidenziato nelle premesse della proposta della Giunta comunale 13 marzo 1990, n. 1366, l'approvazione del piano di lottizzazione postulava l'approvazione di una variante connessa al piano regolatore e che in ogni caso il progetto era nella sostanza carente sotto il profilo delle indagini e delle verifiche effettuate sotto il profilo idrogeologico e geotecnica, appare evidente, sempre secondo l’appellante incidentale come, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, le società non avevano maturato nessun oggettivo affidamento, potendo vantare solo la mera aspettativa di un provvedimento favorevole, peraltro non coltivata allorché la sopravvenuta disciplina urbanistica dell'area ne aveva ripetutamente eroso l'originaria attitudine edificatoria. Ad avviso del comune, dunque, il capo della sentenza, nella parte in cui riconosce "l’esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l’apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo" (anche se poi la relativa domanda è stata respinta per mancanza di prova), oltre ad essere errata, si pone in netto contrasto con l'univoca elaborazione giurisprudenziale, la quale non solo ritiene che "per gli interessi pretensivi il risarcimento presuppone un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno dell'istanza, in funzione dell'esigenza di accertare se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, ma di una situazione soggettiva di oggettivo affidamento circa la sua favorevole conclusione" (Cass. Civ., Sez. III, 11 febbraio 2005, n.2705), ma afferma, altresì, che "Il diritto al risarcimento del danno in materia di interessi pretensivi non può riconoscersi nell'ipotesi in cui .. residui un margine di apprezzamento discrezionale tale da configurare come mera evenienza l'emanazione del provvedimento ampliativo" (TAR Puglia Bari, sez. II, 17 gennaio 2000, n. 169). Nel caso di specie, il c.d. "giudizio prognostico" non era esperibile, a fronte della discrezionalità riservata sul punto alla civica amministrazione, come peraltro riconosciuto in principio dagli stessi giudici di primo grado. 3. In via prioritaria, occorre precisare che il comune di Genova, ancorché formalmente non soccombente, è legittimato a proporre appello avverso la sentenza in esame. Com’è noto, anche se l' interesse ad impugnare in appello una sentenza di Tribunale amministrativo regionale si collega necessariamente alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l' impugnazione è inammissibile, la giurisprudenza ammette l' interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione, allorchè da quest' ultima possa dedursi un' implicita statuizione contraria all' interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della decisione, siano suscettibili di formare giudicato (CdS, Sez. IV 16 ottobre 1998, n. 1305; Sez. V, 17 luglio 2004, n. 5127). Nella specie, la sentenza, nella parte in cui riconosce "l’esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l’apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo", contiene una statuizione suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli nei confronti del comune, come testimonia la circostanza che le società, proprio in ragione di tale statuizione, hanno chiesto all’amministrazione comunale in via stragiudiziale il rimborso delle spese a suo tempo sostenute per l’elaborazione della proposta di piano, riservandosi di ricorrere nuovamente all’autorità giudiziaria nel caso di perdurante inadempimento del Comune all’obbligazione risarcitoria. Fatta questa necessaria puntualizzazione, nel merito, la Sezione ritiene che la tesi del comune sia da condividere. 3.1. Sotto un profilo generale, la questione sottoposta all’esame della Sezione si inquadra nell’ambito del complesso tema della natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione e attiene, in particolare, all’individuazione dei presupposti, sostanziali e processuali, dell’azione risarcitoria instaurata dalle due società appellanti. La fattispecie qui considerata è quella in cui sia fatta valere la mancata emanazione del provvedimento richiesto nei tempi previsti dall’ordinamento, indipendentemente dal suo contenuto. E ciò che occorre stabilire è se e in che limiti, oltre che a quali condizioni, l’interesse procedimentale al rispetto dei tempi del procedimento possa ricevere, oltre che una tutela sul piano dei rimedi strettamente processuali (per esempio, in sede cautelare e di azione avverso il silenzio) una tutela risarcitoria per equivalente. Più precisamente, la controversia in esame concerne il caso in cui l’amministrazione non provveda o provveda (in senso negativo) in ritardo e il problema da risolvere, in questa fattispecie, è se sia risarcibile il mero danno da ritardo; cioè, se sia risarcibile oggettivamente il danno subito dal privato in conseguenza dell’inerzia protratta dall’amministrazione oltre un certo termine, normativamente prefissato. 3.2. In tema di danno da ritardo in giurisprudenza si registra una diversità di opinione su un punto centrale: se il danno sia risarcibile o meno indipendentemente dalla spettanza del bene della vita, cioè indipendentemente dal fatto che il privato abbia titolo al rilascio del provvedimento richiesto. In altri termini, la domanda che si pone è se a fondare un titolo risarcitorio sia sufficiente la mera violazione di obblighi di correttezza e buona fede nello svolgimento del procedimento, nella specie, il mancato rispetto dei tempi del procedimento. Un primo orientamento giurisprudenziale, nel delineare una responsabilità dell’amministrazione da contatto qualificato (Cass. 10 gennaio 2003 n. 157; Cons. Stato VI, 20 gennaio 2003 n. 204 e 15 aprile 2003 n. 1945), ha posto in rilievo come, nel nuovo modello di azione amministrativa introdotto dalla legge n. 241, possano assumere rilevanza autonoma, rispetto all’interesse legittimo al bene della vita, posizioni soggettive di natura strumentale che mirano a disciplinare il procedimento amministrativo secondo criteri di correttezza, idonei a ingenerare, con l’affidamento del privato, «un’aspettativa qualificata» al rispetto di queste regole (che non sono riguardate - come vorrebbe una dottrina - alla stregua di «norme neutre», inidonee a radicare posizioni soggettive), con la conseguenza che «la selezione degli interessi giuridicamente rilevanti non può essere effettuata con riguardo al solo bene finale idealmente conseguibile» (Cass. n. 157 del 2003, citata); sicché il privato ha titolo a una risposta certa e tempestiva a prescindere dal contenuto della stessa. In tale prospettiva, sarebbe enucleabile dal novero degli interessi pretensivi, e piuttosto accanto a essi, un ambito di interessi procedimentali, la cui violazione integrerebbe un titolo di responsabilità idoneo a fondare un danno risarcibile diverso e autonomo rispetto alla lesione del bene della vita. A tale categoria di interessi procedimentali sarebbe ascrivibile il danno da ritardo, sicché il privato avrebbe titolo ad agire per il risarcimento del danno subìto in conseguenza della mancata emanazione del provvedimento richiesto nei tempi previsti; e indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto di tale provvedimento. Secondo un altro orientamento - che è allo stato prevalente nella giurisprudenza amministrativa - il danno da ritardo è risarcibile solo se il privato abbia titolo al rilascio del provvedimento finale, se cioè gli spetti il « bene della vita» (Ad. Pl. 15 settembre 2005, n. 7). Nell’ambito di tale indirizzo giurisprudenziale vi è poi chi ritiene che il titolo andrebbe accertato azionando il procedimento del silenzio e sindacando il successivo diniego espresso, e chi, invece, è dell’avviso che il giudice, adito in sede risarcitoria, dovrebbe effettuare un giudizio prognostico sulla spettanza del titolo, ai soli fini del risarcimento. Va, peraltro, aggiunto che sulla questione influisce anche un principio cardine del diritto processuale, quello della domanda. Come di recente è stato precisato (Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945), non di rado, la pretesa risarcitoria, in specie quando azionata da soggetti che entrano in contatto con l’Amministrazione in quanto portatori di interessi economici di rilievo, non ha ad oggetto il mero pregiudizio derivante dalla violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell’interesse finale, ma, al contrario, proprio il pregiudizio connesso alla preclusione frapposta dall’Amministrazione alla realizzazione del bene finale. In queste ipotesi il giudice non può né eludere la domanda, nè tanto meno accoglierla a prescindere dalla formulazione di un giudizio, laddove possibile, sulla certa o statisticamente probabile spettanza del bene dell’utilità finale. Questo giudizio prognostico si presenta particolarmente delicato, specie quando vi sia necessità di distinguere a seconda della tipologia dell’attività amministrativa dal cui concreto esercizio dipende il conseguimento del bene della vita: il giudizio prognostico, difatti, pone problemi diversi e si atteggia in modo differenziato a seconda che il soddisfacimento della pretesa sia correlato ad attività vincolata, tecnicodiscrezionale o discrezionale pura. Secondo quanto rilevato (Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945), il rischio che il giudice si sostituisca all’amministrazione, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria, diventa tanto più consistente quanto più sono intensi i margini di valutazione rimessi alla seconda nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita. Evenienza questa che viene individuata in quelle ipotesi in cui l’attività dell’amministrazione sia connotata da margini di discrezionalità amministrativa pura, anziché solo tecnica: in questa ipotesi si prospetta il rischio di un’ingerenza del giudice - chiamato a formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene non ottenuto con la determinazione illegittima ed annullata - nella sfera davvero esclusiva dell’amministrazione, quella afferente il merito amministrativo e le valutazioni di pura opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella prospettiva dell’ottimale perseguimento dell’interesse pubblico. In questi casi, connotati dalla persistenza in capo all’amministrazione di significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, si esclude che il giudice possa indagare sulla spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che l’Amministrazione, riesercitato il proprio potere, abbia riconosciuto all’istante il bene stesso: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento di quel bene. 3.3. E’ in applicazione di questi principi, ribaditi anche di recente (Sez. VI, 31 gennaio 2006, n. 321) e dai quali la Sezione non ravvisa motivi per discostarsi, che va risolto il caso di specie nel quale le società appellanti chiedono il ristoro del danno inteso nella sua pienezza. Come agevolmente desumibile anche dalla entità del danno asseritamente patito, le appellanti si ritengono lese per il deprezzamento di valore subito dalle aree di loro proprietà nonché per il mancato utile che le medesime avrebbero conseguito per effetto dell’operazione immobiliare connessa alla realizzazione del piano di lottizzazione. Non è stato chiesto, quindi, il mero danno che può subirsi per effetto di una illegittimità procedimentale sintomatica di una modalità comportamentale non improntata alla regola della correttezza, ma l’intero pregiudizio derivante dal mancato conseguimento del bene della vita, costituito dalla richiesta di approvazione del piano di lottizzazione. Il Collegio, quindi, non può nel caso di specie attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse finale: ciò, per rispetto sia del principio della domanda, sia di quello dispositivo cui il processo risarcitorio deve conformarsi. Da un lato, infatti, come rilevato, le due società non chiedono il danno da violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell’interesse finale, ma invocano il ristoro, per l’appunto, del pregiudizio causato dal mancato conseguimento del bene della vita cui aspirano. Dall’altro lato, l’accoglimento della domanda presuppone, come rilevato, la valutazione circa la spettanza dell’utilità finale cui aspirano nel caso di specie le appellanti principali, mediante un giudizio prognostico che, come ampiamente chiarito, non può esse consentito allorché l’attività dell’amministrazione sia caratterizzata da consistenti margini di discrezionalità amministrativa. Diversamente da quanto mostrano di ritenere le appellanti, l'approvazione del piano di lottizzazione, pur se conforme al piano regolatore generale o al programma di fabbricazione, non è atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell' Autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l' opportunità di dare attuazione - in un certo momento ed in certe condizioni - alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest' ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza; pertanto, per evidenti motivi di opportunità, l' attuazione dello strumento generale può essere articolata per tempi, o per modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale (Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 957). Va, quindi, escluso che le società avessero maturato una concreta aspettativa alla sua approvazione, come erroneamente affermato dal primo giudice. D’altra parte, l’impossibilità di procedere in questa sede ad un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, al quale aspirano le appellanti, trova la sua ulteriore conferma nella circostanza che le potenzialità edificatorie dei terreni oggetto di lottizzazione sono state azzerate prima con la variante di salvaguardia del 1995 e successivamente con la variante generale del 1997, che non risultano essere state impugnate dalle originarie ricorrenti. Né vale sostenere (pag. 11 della memoria 3 ottobre 2007) che, per agire in giudizio al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, le appellanti non erano obbligate ad impugnare la sopravvenuta disciplina urbanistica, anche perché la giurisprudenza nel caso di comportamento inerte della P.A. (TAR Puglia – Sezione di Lecce, Sezione III, 11 ottobre 2004, n. 7166) ha ammesso l'esperibilità dell'azione risarcitoria cosiddetta "pura" (ovvero non collegata alla principale azione impugnatoria), atteso che l'elemento causativo del danno è da rinvenirsi non in un provvedimento annullato dal Giudice ma in una condotta omissiva dell'Amministrazione. E’ facile replicare, a confutazione di tale assunto, che il richiamo giurisprudenziale non appare pertinente, posto che in quel caso la domanda di risarcimento era formulata per il danno derivante da ritardo nell’adozione di provvedimento favorevole e, quindi, il suo eventuale accoglimento avrebbe comportato un risarcimento limitato al cd. interesse negativo. Il caso, quindi, è del tutto diverso da quello che forma oggetto della presente controversia, nella quale le società chiedono il pieno ristoro dei danni subiti per la mancata realizzazione dell’intervento insediativo connesso all’approvazione del piano di lottizzazione: chiedono, cioè, proprio il bene della vita al quale aspirano anche se, in relazione alla sopravvenuta impossibilità di ottenere il risarcimento in forma specifica, hanno avanzato la domanda per l’integrale risarcimento sotto forma di equivalente economico. A queste considerazioni di ordine generale, si deve aggiungere che, secondo il consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15 settembre 2005, n. 7; Sez. VI, 31 gennaio 2006, n. 321), non è possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della p.a. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio e le statuizioni in essi contenute siano divenute intangibili per la omessa proposizione di una qualunque impugnativa. Neppure vale il richiamo alla circostanza che lo strumento urbanistico sarebbe stato annullato, con efficacia erga omnes, con decisione di questo Consiglio di Stato (Sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 524), essendo evidente che una tale evenienza esula dall’ambito della presente controversia, dovendo, in ipotesi, l’amministrazione sempre pronunciarsi sul progetto di lottizzazione. 4. In base alle considerazioni che precedono, l’appello delle società va respinto mentre va accolto l’appello incidentale del comune di Genova. Per l’effetto, la sentenza appellata va confermata con diversa motivazione. Le vicende anche anteriori al presente giudizio costituiscono ragione idonea per la compensazione tra le parti delle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), pronunciando sull’appello in epigrafe specificato, respinge l’appello delle società, accoglie l’appello incidentale del comune di Genova. Per l’effetto, conferma con diversa motivazione la sentenza appellata. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, addì 16 ottobre 2007, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei signori Giovanni Vacirca Presidente Costantino Salvatore Consigliere est. Vito Poli Consigliere Anna Leoni Consigliere Bruno Mollica Consigliere L'ESTENSORE Costantino Salvatore IL PRESIDENTE Giovanni Vacirca CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 15 settembre 2005 n. 7 Pres. de Roberto, Est. Maruotti - Antognolla s.p.a. (Avv.ti La Spina e Crisci) c. Comune di Perugia (Avv.ti Cartasegna e Mariani Marini) - (conferma T.A.R. Umbria, 8 agosto 2003, n. 649 - la questione era stata rimessa con ord. della Sez. IV, n. 825 del 2005). 1. Giurisdizione e competenza - Edilizia ed urbanistica - Ricorso per la dichiarazione di illegittimità del ritardo della P.A. nella pronuncia su istanze di autorizzazione edilizia e per il risarcimento del danno da ritardo - Giurisdizione esclusiva del G.A. Sussiste anche a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 204 del 2004. 2. Giustizia amministrativa - Risarcimento del danno da ritardo - Intervenuto riconoscimento da parte della P.A. del ritardo - Non implica necessariamente l’accoglimento della domanda di risarcimento. 3. Giustizia amministrativa - Risarcimento del danno da ritardo - Presupposti Intervenuta tutela di interessi sostanziali - Necessità - Fattispecie. 4. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Presupposti - Notifica di apposita diffida ad adempiere - Prima dell’entrata in vigore dell’art. 6 bis del decreto legge n. 35 del 2005 convertito nella legge n. 80 del 2005 - Era necessaria. 1. Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo un ricorso con il quale si lamenta il ritardo nella definizione da parte della P.A. di alcune richieste di rilascio di titoli autorizzativi edilizi e si chiede il risarcimento del danno da ritardo; se è vero infatti che la Corte costituzionale, con sentenza n. 204 del 2004, ha stralciato dalla previsione dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nella versione di cui alla legge n. 205 del 2000) il termine «comportamenti», devolvendo al giudice ordinario la cognizione delle liti relative a diritti soggettivi provocate da condotte materiali dell’amministrazione, tuttavia, nel caso in questione, non si è di fronte a «comportamenti» della pubblica amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato in violazione del neminem laedere (la fattispecie presa in considerazione dal citato art. 34 nella parte dichiarata incostituzionale dalla Corte), ma in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo soddisfacimento dell’obbligo della autorità amministrativa di assolvere adempimenti pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative. Si è, perciò, al cospetto di interessi legittimi pretensivi del privato, che ricadono, per loro intrinseca natura, nella giurisdizione del giudice amministrativo (e, trattandosi della materia urbanistico-edilizia, nella sua giurisdizione esclusiva). 2. L’intervenuto riconoscimento, da parte dell’amministrazione pubblica, di aver pronunciato in ritardo su alcune istanze non comporta, per ciò solo, l’affermazione della sua responsabilità per danni. 3. Il sistema di tutela degli interessi pretensivi – nelle ipotesi in cui si fa affidamento sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione – consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un "bene della vita"); deve pertanto ritenersi che non sia possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della P.A. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio e le statuizioni in essi contenute siano divenute intangibili per la omessa proposizione di una qualunque impugnativa. 4. Prima dell’entrata in vigore dell’art. 6 bis del decreto legge n. 35 del 2005 convertito nella legge n. 80 del 2005, era necessaria, ai fini della rituale formazione del silenzio-rifiuto, che la presentazione dell’istanza fosse seguita, dopo la scadenza dei termini procedimentali, dalla notifica di apposito atto di diffida; quest'ultimo atto, nel sistema previgente, infatti rappresentava la conditio sine qua non per la costituzione delle inadempienze pubblicistiche. PREMESSO IN FATTO Col ricorso n. 77 del 2003, proposto al T.A.R. dell’Umbria, la s.p.a. Antognolla – proprietaria di un comprensorio di circa 700 ettari – ha esposto di aver avviato una pluralità di pratiche (sessantuno) innanzi al Comune di Perugia, per conseguire il rilascio dei titoli autorizzativi occorrenti per la ristrutturazione degli immobili posti all’interno del detto comprensorio (un antico castello del XII secolo e il circostante borgo) e per la realizzazione di varie opere infrastrutturali. La società ha dedotto che, sulla base del programma elaborato, confidava di poter concludere i lavori entro l’estate del 2004, dopo il conseguimento, nei tempi prescritti, dei permessi occorrenti. L’amministrazione aveva, invece, definito le pratiche in ritardo e in senso negativo, producendo così un danno del quale si chiedeva al Comune il ristoro (nella misura di 37 milioni di euro). Il T.A.R. dell’Umbria, con la sentenza n. 649 del 2003, ha respinto il ricorso ed ha condannato alle spese del giudizio la s.p.a. Antognolla. La sentenza ha rilevato che tutte le istanze avanzate dalla società, ad eccezione di quelle recanti i numeri 2, 3, 6, 7, erano state definite nei termini e che i provvedimenti di carattere negativo non avevano formato oggetto di contestazione da parte dell’impresa. Risultava, quindi, priva di ogni base la pretesa di risarcimento del danno per un ritardo che non era avvenuto e, in presenza, per giunta, di domande definite – senza ulteriori contestazioni – in senso negativo. Quanto alle pratiche 3 e 7, le stesse risultavano effettivamente concluse in ritardo: non vi era spazio, però, per qualunque risarcimento, perché le istanze avanzate dalla parte erano state definite negativamente e contro le relative statuizioni nessuna contestazione era stata avanzata. Anche in relazione alle pratiche 2 e 6, le pretese risarcitorie dell’impresa risultavano infondate: in relazione ad esse, non poteva parlarsi di inadempimento, in quanto non risultava notificata la diffida per la costituzione in mora dell’autorità amministrativa prescritta almeno all’epoca antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 6 bis, del decreto legge n. 35 del 2005, convertito nella legge n. 80 del 2005 – nella quale detta inadempienza si era verificata. Si è appellata al Consiglio di Stato la s.p.a. Antognolla, che ha insistito nelle sue pretese senza mettere, però, in contestazione l’affermazione del giudice di primo grado in ordine alla tempestiva definizione di tutte le pratiche diverse da quelle di cui ai numeri 2, 3, 6 e 7. La IV Sezione del Consiglio di Stato, alla quale l’appello era stato assegnato, ha ritenuto di rimettere la sua definizione all’esame dell’Adunanza Plenaria, per la novità e la complessità di talune delle questioni che vanno affrontate e risolte in questa sede. La causa è stata chiamata innanzi alla Adunanza Plenaria alla pubblica udienza del 16 maggio ed è stata trattenuta in decisione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. In via preliminare, l’ordinanza di remissione ha avanzato il dubbio che, in relazione alla presente controversia, non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo: e ciò in quanto le lamentate inadempienze dell’amministrazione integrerebbero «comportamenti» omissivi, lesivi di diritti soggettivi conoscibili del giudice ordinario dopo la sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale. Non sembra che, nella specie, abbiano ragione di sussistere i dubbi prospettati. E’ esatto che la Corte Costituzionale ha stralciato dalla previsione dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nella versione di cui alla legge n. 205 del 2000) il termine «comportamenti», devolvendo al giudice ordinario la cognizione delle liti relative a diritti soggettivi provocate da condotte materiali dell’amministrazione (liti riservate, invece, al giudice amministrativo prima della parziale dichiarazione di incostituzionalità). Nella specie, però, non si è di fronte a «comportamenti» della pubblica amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato in violazione del neminem laedere (la fattispecie presa in considerazione dal citato art. 34 nella parte dichiarata incostituzionale dalla Corte), ma in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo soddisfacimento dell’obbligo della autorità amministrativa di assolvere adempimenti pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative. Si è, perciò, al cospetto di interessi legittimi pretensivi del privato, che ricadono, per loro intrinseca natura, nella giurisdizione del giudice amministrativo (e, trattandosi della materia urbanistico-edilizia, nella sua giurisdizione esclusiva). 2. Prima di passare all’esame del merito, va preliminarmente rilevato che la materia del contendere resta circoscritta, in questa fase di appello, al solo contenzioso concernente le quattro pratiche richiamate in precedenza (nn. 2-7 e 3-6). Non ha formato oggetto di contestazione, invero, da parte della società, quel punto della sentenza del TAR in cui si afferma che tutte le pratiche (ad eccezione di quelle recanti i n. 2-7 e 3-6) sono state definite entro i termini prescritti. 3. Passando ora all’esame nel merito delle questioni concernenti le pratiche nn. 3 e 6 (che hanno ottenuto trattazione unitaria sia nella decisione di primo grado che nell’appello proposto dalla parte), va osservato che il fatto dell’intervenuto riconoscimento, da parte dell’amministrazione comunale, di aver pronunciato in ritardo su tali pratiche non comporta, per ciò solo - come vorrebbe la società ricorrente - l’affermazione della sua responsabilità per danni. Su di un piano di astratta logica, può ammettersi che, in un ordinamento preoccupato di conseguire un’azione amministrativa particolarmente sollecita, alla violazione dei termini di adempimento procedimentali possano riconnettersi conseguenze negative per l’amministrazione, anche di ordine patrimoniale (ad es. con misure di carattere punitivo a favore dell’erario; con sanzioni disciplinari, etc.). In un quadro non dissimile si muoveva, d’altra parte - secondo talune linee interpretative l’art. 17, comma 1, lettera f), della legge n. 59 del 1997, che ipotizzava «forme di indennizzo automatico e forfettario», pur se a favore del richiedente, qualora l’amministrazione non avesse adottato tempestivamente il provvedimento, anche se negativo. Non vale, però, soffermarsi oltre sulla disciplina ora ricordata, in quanto non è stata attuata la delega conferita dalla citata legge, né sono state assunte, dopo la scadenza dei termini assegnati al legislatore delegato, iniziative per la emanazione di una nuova legge di delega con lo stesso contenuto o per la proroga del termine. Stando così le cose, può affermarsi che il sistema di tutela degli interessi pretensivi – nelle ipotesi in cui si fa affidamento (come nella specie) sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione – consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un "bene della vita"). Tale situazione non è assolutamente configurabile nella specie, posto che - a prescindere da qualunque ulteriore profilo in ordine ai requisiti richiesti per potersi considerare realizzata l’inadempienza - risulta incontroverso che i provvedimenti adottati in ritardo risultano di carattere negativo per la società e che le loro statuizioni sono divenute intangibili per la omessa proposizione di qualunque impugnativa. Anche le pretese relative alle pratiche n. 2 e 7 debbono essere disattese non risultando realizzata, allo stato, qualunque inadempienza. E’ assorbente a questo riguardo rilevare che la presentazione delle predette istanze non è stata seguita, dopo la scadenza dei termini procedimentali, dalla notifica della diffida (conditio sine qua non per la costituzione delle inadempienze pubblicistiche almeno fino al sopravvenire dell’art. 6 bis del decreto legge n. 35 del 2005 convertito nella legge n. 80 del 2005 che non si applica, ratione temporis, alla presente fattispecie). Non sussistono, perciò, le condizioni per lamentare, con domanda di ristoro del danno, le conseguenze di una inadempienza che non risulta realizzata. 4. L‘appello nel suo complesso risulta pertanto infondato e va respinto. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli onorari del secondo grado del giudizio. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 31 marzo 2005 n. 6745 - Pres. Carbone, Rel. Ciuffi. Giurisdizione e competenza - Risarcimento del danno - Derivante dal ritardato rilascio di una concessione edilizia in sanatoria - Giurisdizione amministrativa Sussiste. In materia edilizia ed urbanistica, l'art. 35 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nel testo novellato dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, esclude una concorrenza delle giurisdizioni, ordinaria ed amministrativa, nell'area del risarcimento del danno da esercizio di poteri amministrativi; spetta pertanto al giudice amministrativo, anche dopo le sentenze della Corte Costituzionale 28 luglio 2004 n. 281 e 6 luglio 2004 n. 204, conoscere della domanda con cui il privato chieda, previo accertamento del colpevole ritardo del Comune nel rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, la condanna dell'ente locale al risarcimento dei danni (1). --------------------------(1) E’ stato in particolare osservato che l'ampiezza della formulazione della norma di cui all'art. 35 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, l'esiguità della riserva di giurisdizione ordinaria fatta salva nella seconda parte della disposizione, la chiara volontà del legislatore desumibile dai lavori preparatori, il carattere categorico delle affermazioni contenute nelle decisioni della Corte Costituzionale 28 luglio 2004 n. 281 e 6 luglio 2004 n. 204, ove chiaramente si privilegia l'esigenza, in attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost., di concentrare dinanzi ad un medesimo giudice la tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive, sono tutti argomenti che inducono a ritenere che il privato possa richiedere al giudice amministrativo anche il risarcimento del danno, nel caso di colpevole ritardo del Comune nel rilascio di una concessione edilizia in sanatoria. V. in materia di recente CONSIGLIO DI STATO SEZ. IV, ordinanza 7-3-2005, n. 875, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/51/cds4_2005-03-07o.htm (che ha rimesso all’Adunanza Plenaria le questioni circa la sussistenza o meno della giurisdizione amministrativa in materia di risarcimento del danno da ritardo della P.A. e la determinazione dei presupposti per la sua configurabilità). ---------------------------Documenti correlati: TAR PUGLIA - LECCE SEZ. II, sentenza 8-10-2004, n. 7067, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarpuglialecce2_2004-1008.htm (sulla nozione di danno "da ritardo" della P.A. e sulla sussistenza o meno - dopo la sentenza della Corte Cost. n. 204/2004 - della giurisdizione del G.A. su di una azione con la quale si chiede il risarcimento del danno da ritardo a seguito dell’annullamento di un silenzio-rifiuto). TAR PUGLIA - LECCE SEZ. III, sentenza 11-10-2004, n. 7166, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarpuglialecce3_2004-10-112.htm (sulla possibilità di ottenere il risarcimento del danno da ritardo della P.A. senza previa impugnazione di atti e sui presupposti necessari per tale tipo di risarcimento - fattispecie relativa a ritardato rilascio di una concessione edilizia). TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, sentenza 25-11-2002, n. 852, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/taremiliaparma_200211-25.htm (sulla impossibilità di chiedere il risarcimento del danno da ritardo senza l'annullamento di un atto o quanto meno senza l'accertamento giudiziale dell’illegittimità del comportamento silente od inerte della P.A.), con commento di O. CARPARELLI. TAR PUGLIA-LECCE, SEZ. I, sentenza 19-4-2002, n. 1572, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarpugliale1_2002-0419.htm (la domanda di risarcimento del danno da ritardo può essere avanzata in seno ad un ricorso ex art. 2 L. n. 205/00 avverso il silenzio della P.A.; per il riconoscimento della sussistenza del danno occorre verificare in concreto le ragioni del ritardo). CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 12-3-2004, n. 1261, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds6_2004-03-12-4.htm (sulle differenze tra danno "da ritardo" e danno "da disturbo", sui presupposti dell’ingiustizia del danno e della colpa grave e sulla quantificazione del danno "da disturbo"), con commento di O. CARPARELLI. TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, sentenza 11-5-2004, n. 1070, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarcalabracz2_200405-11.htm (sulla possibilità di condannare al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi anche quando manchi un provvedimento illegittimo da gravare ed il comportamento illecito dell'amministrazione, nell'esercizio della funzione pubblica, assuma altre forme, come il ritardo o l'omissione colpevole) TAR PUGLIA-LECCE, SEZ. I, sentenza 18-4-2002, n. 1569, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarpuglialecce1_2002-0418-2.htm (distingue il danno "da ritardo" della P.A. dal "danno da disturbo" delle facoltà del titolare di un diritto soggettivo; condanna una Soprintendenza archeologica per il danno cagionato da una ordinanza di sospensione dei lavori alla quale non avevano fatto seguito, entro termini ragionevoli, i necessari accertamenti). TAR PUGLIA - BARI SEZ. III TER, sentenza 3-6-2004, n. 2371, pag. http://www.lexitalia.it/p/tar/tarpugliaba3_2004-0603.htm (la domanda di risarcimento del danno da ritardo può essere avanzata in seno ad un ricorso ex art. 2 L. n. 205/00 avverso il silenzio della P.A.). DIRITTO Ha osservato in diritto quanto segue. "La Corte Costituzionale, con la sentenza 28 luglio 2004 n. 281, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 34 comma 1 e 2 del decreto legislativo n. 80 del 1998 nella parte in cui, eccedendo dai limiti della delega, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutta la materia dell'edilizia e dell'urbanistica, e non si è limitato ad estendere la giurisdizione amministrativa - nei limiti in cui essa, in base alla disciplina previgente, già conosceva di quella materia, sia a titolo di legittimità che in via esclusiva - alle controversie concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno. Conseguentemente, secondo la Corte, l'art. 35 va interpretato nel senso che il potere di riconoscere i diritti patrimoniali consequenziali, ivi incluso il risarcimento del danno, è limitato alle sole ipotesi in cui il giudice amministrativo fosse già munito di giurisdizione, tanto di legittimità quanto esclusiva. Ancor più esplicitamente nella precedente pronuncia n. 204 del 6 luglio 2004, la Corte aveva affermato che la dichiarazione di incostituzionalità non investiva in alcun modo l'art. 7 della legge n. 205 del 2000 nella parte in cui sostituiva l'art. 35 del d.lg. n. 80 del 1998: il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce, infatti, sotto alcun profilo, una nuova "materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Secondo la Corte, l'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola (avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi "olim" di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno, costituisce null'altro che l'attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cast. Ciò premesso, va rilevato che, nel sistema normativo previgente alla riforma del 1998-2000, era stata costantemente riconosciuta la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per l'intera area delle concessioni edilizie (v. Cass. 2003 n. 5903; 2001 n. 15641; 1998 n. 11934); ivi comprese, ovviamente, quelle in materia di sanatorie. Come incidentalmente affermato nella sentenza delle sezioni unite n. 500/1999 (ed in altre pronunce successive, quali ordinanza 2001 n. 15641; sentenza 2003 n. 157), per i giudizi pendenti alla data del 30 giugno 1998 non si poneva il problema di una giurisdizione esclusiva estesa ai diritti patrimoniali consequenziali, in ragione del limite posto dall'art. 7 della legge n. 1034 del 1971. Nella stessa sentenza, peraltro, si rilevava, per completezza di esame, che in relazione alle controversie instaurate a partire dal 1° luglio 1998, la realizzata concentrazione dinanzi al giudice amministrativo della giurisdizione piena (di annullamento e di risarcimento), nella materia attribuita alla giurisdizione esclusiva di detto giudice, risolveva in radice il problema. La conferma di ciò si ha nel fatto che nei lavori parlamentari che preludevano alla legge 205/2000 si affermava che, con la novella integrale degli artt. 33, 34 e 35 del d. lgs.vo 80/1998, si tendeva, tra l'altro, "a superare alcuni problemi posti dalla sentenza n. 500/1999". Tutto ciò premesso, trattasi di stabilire se, alla luce della predetta normativa, e della lettura datane dalla Corte Costituzionale, il privato possa richiedere al giudice amministrativo anche il risarcimento del danno, o debba necessariamente farlo, risultandogli preclusa la facoltà dì chiedere autonomamente il risarcimento del danno dinanzi al giudice ordinario. Orbene, l'ampiezza della formulazione della norma di cui all'art. 35 cit., l'esiguità della riserva di giurisdizione ordinaria fatta salva nella seconda parte della disposizione; la chiara volontà del legislatore desumibile dai lavori preparatori; il carattere categorico delle affermazioni contenute nelle decisioni della Corte Costituzionale, ove chiaramente si privilegia l'esigenza, in attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost., di concentrare dinanzi ad un medesimo giudice la tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive; sono tutti argomenti che inducono a ritenere maggiormente fondata la seconda ipotesi, Interpretazioni approdanti al risultato della concorrenza delle giurisdizioni nell'area del risarcimento del danno da esercizio dei poteri amministrativi rischierebbero, come è stato autorevolmente osservato - di rompere l'equilibrio costituzionale delineato nelle decisioni della Corte, introducendo poi inevitabili incertezze, non essendo la formazione del "diritto vivente" in materia affidato all'elaborazione di un unico giudice. Inoltre, tali interpretazioni contrasterebbero con il principio generale che esclude il condizionamento della giurisdizione rispetto a ragioni di connessione, precludendo l'ordinamento che la scelta del giudice possa dipendere dalla strategia processuale della parte che agisce in giudizio; ancor più perché si rimetterebbe alla volontà delle parti il realizzare o meno quella concentrazione dì tutela giudiziaria, la cui ratio è alla base della soluzione legislativa, avallata dal giudice delle leggi, che ha attribuito alla giurisdizione amministrativa anche le controversie risarcitorie ". Questa Corte condivide le osservazioni del Pubblico Ministero, e le fa proprie. Le spese seguono la soccombenza. PER QUESTI MOTIVI La Corte dichiara la giurisdizione esclusiva dell'autorità giudiziaria amministrativa e condanna Felice Ruscitto a rifondere al Comune dì Macchiagodena le spese di lite, che liquida in 1,600,00 euro (di cui 1.500,00 per onorari), oltre accessori di legge. Roma, 3 marzo 2005 Depositata in cancelleria il 31 marzo 2005. 5) L’OGGGETTO DEL SINDACATO NEL GIUDIZIO AVVERSO IL SILENZIO-RIFIUTO CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - sentenza 10 ottobre 2007 n. 5311 - Pres. ff. Maruotti, Est. Poli - Cooperativa edilizia Florida I (Avv. Soprano) c. Comune di Frattamaggiore (Avv.ti Damiano e Parisi) - (annulla T.A.R. Campania - Napoli, Sez. V, 31 maggio 2007, n. 5863). 1. Giustizia amministrativa - Appello incidentale - Appello incidentale c.d. improprio Esame preliminare delle censure in esso contenute - Necessità - Sussiste. 2. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Disciplina prevista dall’art. 2, 5° comma, della L. n. 241 del 1990 - A seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 80 del 2005 Potere del g.a. di conoscere anche "della fondatezza della pretesa" - Non comporta la previsione di una nuova ipotesi di giurisdizione di merito. 3. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Disciplina prevista dall’art. 2, 5° comma, della L. n. 241 del 1990 - A seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 80 del 2005 Potere del g.a. di conoscere anche "della fondatezza della pretesa" - Effetti Individuazione. 4. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Disciplina prevista dall’art. 2, 5° comma, della L. n. 241 del 1990 - A seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 80 del 2005 Potere del g.a. di conoscere anche "della fondatezza della pretesa" - Casi in cui può essere esercitato - Individuazione. 5. Silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto - Disciplina prevista dall’art. 2, 5° comma, della L. n. 241 del 1990 - A seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 80 del 2005 Potere del g.a. di conoscere anche "della fondatezza della pretesa" - Non può essere esercitato ove la P.A. abbia comunque provveduto sull’istanza - Dichiarazione di improcedibilità del ricorso (nel caso di reiezione dell’istanza) o di cessazione della materia del contendere (nel caso di accoglimento dell’istanza) - Necessità - Sussiste. 1. Nel caso in cui l’appello incidentale sia da qualificarsi come improprio, perché vertente su capi autonomi dell’impugnata sentenza e sostenuto da un interesse proprio, devono essere esaminate prioritariamente le questioni sollevate con quest’ultimo gravame se in ordine logico – a mente del fondamentale canone sancito dall’art. 276, comma 2, c.p.c. - assumono carattere pregiudiziale rispetto a quelle introdotte con l’impugnazione principale (1). 2. Non si può ritenere che, a seguito delle modifiche dell’art. 2, comma 5, della L. n. 241 del 1990 sul silenzio della P.A., introdotte dalla L. n. 80 del 2005, ed in particolare a seguito della previsione del potere del giudice amministrativo di conoscere anche "della fondatezza della pretesa", sia stata prevista una nuova ipotesi di giurisdizione di merito; la giurisdizione di merito, infatti, al pari di quella esclusiva, ponendosi come derogatoria rispetto a quella di legittimità nella trama costituzionale improntata al principio di separazione dei poteri, necessita di una puntuale e tassativa previsione normativa (2). 3. La novella introdotta all’art. 2, 5° comma, della L. n. 241 del 1990, nella parte in cui prevede il potere del giudice amministrativo di conoscere anche "della fondatezza della pretesa", non ha inteso istituire una ipotesi senza confini di giurisdizione di merito ma, più limitatamente, ha attribuito al giudice, nei limiti della propria preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva (3), uno strumento processuale ulteriore nella stessa logica acceleratoria del contenzioso che ha ispirato l’intervento riformatore del 2000; dal punto di vista sistematico si è previsto un meccanismo che ricorda il giudizio c.d. immediato (art. 26, L. n. 1034 del 1971). 4. A seguito della novella dell’art. 2, 5° comma della L. n. 241 del 1990, nell’ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della accoglibilità o meno in concreto dell’istanza solo: a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni (4), e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all’amministrazione (in altri termini si potrà condannare l’amministrazione ad adottare un provvedimento favorevole dopo aver valutato positivamente l’an della pretesa, ma nulla di più); b) nell’ipotesi in cui l’istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare la p.a. a provvedere laddove l’atto espresso non potrà che essere di rigetto. 5. Anche a seguito della modifica dell’art. 2, 5° comma, della L. n. 241 del 1990 deve ritenersi che, nel caso di sopravvenienza di un provvedimento nel corso del giudizio avverso il silenzio della P.A., va dichiarata l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (se l’istanza sia stata rigettata), ovvero la cessazione della materia del contendere (se l’istanza sia stata accolta e sia stato conseguito effettivamente il bene della vita al quale in concreto il ricorrente aspira). Infatti, ogni qualvolta l’amministrazione eserciti la funzione pubblica con un provvedimento espresso, viene meno l’esigenza di certezza sottesa alla ratio della norma di cui all’art. 21 bis L. TAR, sicché il giudice amministrativo, ante omnia, dovrà limitarsi a prenderne atto, con le consequenziali statuizioni processuali a seconda del contenuto del provvedimento esplicito; in questo frangente, dunque, sarà inibita ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa sostanziale, che troverà la naturale sede di scrutinio nell’eventuale giudizio di legittimità che il richiedente insoddisfatto vorrà intraprendere. -----------------------------(1) Cfr. da ult. Cons. Stato, Sez. IV, 22 marzo 2005, n. 1144; v. in prec. anche Sez. VI, 6 marzo 1992, n. 159. (2) Cfr. in tema di giurisdizione esclusiva Cons. Stato, Ad plen., 30 luglio 2007, n. 10, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/72/cdsadplen_2007-07-30-2.htm in tema di giurisdizione di merito, Sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2830; Sez. IV, 14 aprile 2006, n. 2133. (3) Cfr. sul punto, dopo la l. n. 80 del 2005, Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2006, n. 6003. (4) Cfr. sul punto, dopo la l. n. 80 del 2005, Cons. Stato, Sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_2007-05-11-8.htm -----------------------------Documenti correlati: VIRGA G., La giurisdizione di merito e la nuova disciplina del silenzio della P.A., in questa Rivista, n. 2/2006, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/virgag_silenzio.htm CONSIGLIO DI STATO SEZ. VI, sentenza 11-5-2007, n. 2318, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_2007-05-11-8.htm (sulla possibilità di configurare un obbligo della P.A. di provvedere su di una istanza anche nel caso in cui non esista una precisa norma che impone alla P.A. di pronunciarsi ed in particolare sui presupposti necessari per la sussistenza dell’obbligo di provvedere nel caso di istanza tendente a sollecitare l’esercizio di poteri repressivi). CGA SEZ. GIURISDIZIONALE, sentenza 4-11-2005, n. 726, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cga_2005-11-04.htm (sulla possibilità per il g.a. - a seguito delle recenti modifiche dell’art. 2 della L. n. 241/90 - di decidere anche nel merito la fondatezza dell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-rifiuto e sulla sussistenza in materia di una nuova ipotesi di giurisdizione di merito), con commento di L. D'ANGELO. Commento di FRANCESCO LEMETRE (Avvocato - Professore a contratto scuola di specializzazione professioni legali Università Federico II di Napoli) Gli effetti del provvedimento sopravvenuto sul giudizio ex art. 21 bis l. 1034/1971 Il fatto La sentenza in commento offre il destro per soffermarsi su alcune questioni di significativo rilievo in tema di impugnativa del c.d. silenzio –inadempimento. L’accurata disamina delle circostanze che sottendono l’interessante decisione in epigrafe impone, tuttavia, una previa riconsiderazione della complessiva vicenda fattuale che ad essa ha dato la stura. Al fine di sollecitare l’esecuzione di un piano di edilizia economica e popolare (d’ora innanzi p.e.e.p.), nel dicembre 2006 una Cooperativa edilizia notifica atto di diffida e messa in mora della competente amministrazione (nella specie,il Comune di Frattamaggiore) onde conseguire, per l’effetto, anche l’assegnazione delle aree ricomprese nel ridetto piano attuativo. In difetto di riscontro alla medesima, la Cooperativa interpone ricorso al Tar a mente dell’art. 21 bis L. 1034/1971, impugnando il silenzio siccome delineatosi ma senza sortire l’anelato effetto. Prendendo atto dell’emanazione nelle more da parte del Comune di Frattamaggiore di una nota recante le ragioni ostative all’accoglimento della richiesta della pars privata (motivo per il quale la ridetta amministrazione invoca l’improcedibilità dell’interposto gravame), il giudice di prime cure addiviene ad una declaratoria di cessazione della materia del contendere, non essendo consentito uno scrutinio sulla fondatezza della pretesa fatta valere, atteso il carattere non vincolato dell’attività richiesta alla p.a. La vicenda approda, dipoi, dinanzi ai Giudici della sezione IV di Palazzo Spada su iniziativa gravatoria della Cooperativa edilizia che ribadisce, nel caso di specie, la natura vincolata dell’azione amministrativa, contestando nel merito le ragioni poste a fondamento del diniego comunale di cui alla ridetta nota. Si costituisce l’appellato invocando – pel tramite di appello incidentale – la declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado per sopravvenuta carenza di interesse. La decisione della IV sezione Delineato il nucleo fattuale che sottende la pronuncia chiosata, e venendo ad un affresco del relativo decisum, lo stesso si sofferma su due questioni, profondamente avvinte l’un l’altra e di grande attualità nel dibattito dottrinal-giurisprudenziale sviluppatosi in tema di inerzia non qualificata. Più nel dettaglio,il Collegio si occupa di puntualizzare: 1) se ed entro quali limiti è consentito al giudice, adito ex art. 21 bis L. 1034/1971, di inoltrarsi a sindacare la fondatezza dell’interposta domanda, a mente dell’art. 2,comma 5, L. 241/1990; 2) la tipologia di pronuncia da adottare ove sopravvenga un provvedimento espresso (sfavorevole) della p.a. Preliminarmente, il Consiglio di Stato traccia l’itinerario evolutivo del sistema di tutela avverso l’inerzia della p.a., scrutinando le significative differenze tra il regime previgente e quello successivo alla modifica – con la Novella del 2005 - dell’art. 2, comma 5, della legge 241/1990. Ante riforma, il congegno di reazione del privato a fronte del silenzio inadempimento era imperniato sul rito speciale ed accelerato di cui all’art. 21 bis, integrato necessariamente dagli approdi della giurisprudenza che, secondo un orientamento consolidato, aveva escluso che il giudizio sul silenzio potesse spingersi sino a valutare la fondatezza della pretesa sostanziale, dovendo limitarsi a un mero accertamento circa la sussistenza o meno dell’obbligo di provvedere da parte della p.a. Pertanto, sul presupposto che l’amministrazione non perdesse il relativo potere di provvedere, pur spirato il termine per la conclusione del procedimento, se ne inferiva che l’adozione di un qualsiasi atto da parte della p.a. importava l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso ex art. 21 bis a seconda che fosse intervenuto prima o dopo la proposizione del ricorso medesimo. Ciò premesso, la sezione si cimenta con l’interpretazione del riformulato art. 2,comma 5, L. 241/1990 che ha inteso scolpire, in uno con l’art. 21 bis L. 1034/1971, con maggiore puntualità i poteri del giudice e le facoltà del privato a fronte di una condotta omissiva dell’amministrazione. Al di là delle indubbie novità introdotte (il venir meno della diffida quale necessaria condizione di proponibilità dell’azione ex art. 21 bis; il termine di un anno, in luogo di 60 giorni, per interporre quest’ultima; la possibilità di reiterare l’istanza ove ne ricorrano i presupposti), attentamente passate in disamina nel dictum in commento, la sezione si sofferma in particolare sulla puntuale esegesi del ridetto comma 5 nella parte in cui consente al giudice amministrativo di “conoscere della fondatezza della pretesa”. Il Supremo consesso amministrativo ha cura di precisare che la norma in menzione non si atteggia quale precetto attributivo, in modo indiscriminato, di una giurisdizione c.d. di merito tale da assegnare al giudice un generale potere di sostituirsi alla p.a. laddove questa rimanga inerte bensì quale strumento processuale ulteriore da inquadrarsi nell’ambito della sua preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva. In altri termini, in difetto di una tassativa previsione normativa che consenta di derogare al principio di separazione dei poteri, non può arguirsi l’esistenza di una ipotesi eccezionale (la cognizione estesa al merito) da un disposto normativo che nulla expressis verbis contempla. Ne deriva – giusta l’iter argomentativo del Collegio – l’esigenza di coordinare l’art. 2, comma 5, con quanto statuito dall’art. 21 bis si da ricavarne un’implementazione del poteri processuali di cui all’arsenale del giudice nel rito sul silenzio, da esercitarsi tuttavia entro ben definiti limiti, e non già indiscriminatamente. Più in specie, la possibilità di impingere nel merito della domanda, onde sindacarne la fondatezza e condannare l’amministrazione all’adozione del provvedimento anelato, è consentita – a giudizio della sezione – soltanto in alcune, ben definite ipotesi: 1) ove siano richiesti provvedimenti di carattere vincolato, che dunque non postulano un opzione tra diverse soluzioni possibili, e l’istanza sia manifestamente fondata, salvo in ogni caso il limite dell’impossibilità di sostituirsi alla p.a.; 2) ove l’istanza sia manifestamente infondata, attesa l’antieconomicità di una condanna dell’amministrazione a provvedere nel caso in cui comunque l’atto espresso non potrà che essere di rigetto. Con riferimento,dipoi, alla possibile sopravvenienza del provvedimento espresso in pendenza del giudizio siccome incardinatosi ex art. 21 bis, il collegio puntualizza che: 1) la ratio del giudizio sul silenzio è ictu oculi ispirata ad un’esigenza di certezza; 2) il sopravvenire di un provvedimento espresso determina inevitabilmente in venir meno di siffatta esigenza,precludendo al contempo ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa; 3) la pars privata insoddisfatta avrà l’onere di impugnare il ridetto provvedimento espresso nell’eventuale giudizio di legittimità all’uopo instauratosi; 4) per l’effetto, il rito accelerato sul silenzio si conclude con una statuizione processuale la cui tipologia varia a seconda del contenuto del provvedimento esplicito. Sulla scorta di tali rilievi, ed assumendo a costante punto di riferimento le specifiche coordinate fattuali che sottendono il decisum de quo, la sezione osserva che nel caso di specie si è al cospetto di un’attività di pianificazione urbanistica (l’esecuzione di un p.e.e.p.) che si connota quale prettamente discrezionale, con l’immediato precipitato di precludere ogni possibilità di impingere nel merito della pretesa azionata. Ciò nondimeno, in pendenza del giudizio ex art. 21 bis incardinato dalla cooperativa edilizia, è intervenuto un provvedimento espresso negativo (la nota esplicativa delle ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza) del comune di frattamaggiore che impone pertanto di addivenire ad una declaratoria, non già di cessazione della materia del contendere, giusta quanto statuito dal giudice di prime cure, bensì di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Spunti di riflessione Esaminata analiticamente la epigrafata pronuncia, mette conto far convergere l’attenzione su alcune interessanti suggestioni che dalla stessa è possibile ritrarre. La questione passata in disamina dal collegio si inscrive nella più ampia tematica degli effetti che il sopravvenire di provvedimento espresso sortisce sul giudizio pendente ex art. 21 bis L. 1034/1971. Il problema, com’è ovvio, non si pone ove l’amministrazione provveda – sia pure oltre i termini - in modo conforme all’istanza dell’interessato atteso che in tal caso, ai sensi dell’art. 23, comma 7°, legge Tar, il giudice adotta una pronuncia di cessazione della materia del contendere. Più controversa è l’ipotesi in cui venga in rilievo un provvedimento negativo. Il trend giurisprudenziale più recente [1] - nel cui solco si innesta la pronuncia de qua – abbraccia una tesi, ut ita dicam, maggiormente processualista. Incardinato il giudizio avverso il silenzio rifiuto, qualora l’amministrazione si determini ad esercitare il proprio potere, adottando un atto (espresso) non conforme all’istanza dell’interessato: il ricorso diviene improcedibile ed il destinatario del diniego - ove intenda contestarlo – è tenuto a promuovere un giudizio secondo le regole ordinarie. Siffatta impostazione pertanto esclude ab imis la possibilità di convertire il rito speciale ex art. 21 bis in un ordinario giudizio di legittimità, a seguito della proposizione di motivi aggiunti avverso il provvedimento sopravvenuto, a ciò ostandovi due ragioni essenziali, e prima facie insormontabili: 1) il limite derivante dai fondamentali principi della domanda e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.), atteso che l’interessato invoca con il ricorso introduttivo (solo) l’accertamento della illegittimità dell’inerzia e non già l’annullamento di un provvedimento espresso; 2) il carattere speciale del rito di cui all’art. 21 bis contraddistinto dalla celerità del suo svolgimento, dalla succinta motivazione della sentenza e dalla possibilità, in caso di ulteriore inerzia, di nominare un commissario ad acta. La soluzione in parola – per quanto condivisa dalla giurisprudenza egemone – non manca di destare alcune perplessità, al punto da suggerire il vaglio di possibili opzioni alternative. Si tratta cioè di verificare se il sopravvento di un provvedimento espresso (sfavorevole) nel corso del giudizio ex art. 21 bis integri sempre e comunque una “condizione risolutiva” della sua pendenza, con contestuale esigenza di spiccare autonomo e distinto ricorso avverso lo stesso, ovvero possa ammettersi, a certe condizioni, una conversione del rito speciale di cui supra in un rito ordinario [2]. In primo luogo, l’argomento facente leva sugli art. 99 e 112 cpc, può essere significativamente ridotto nella sua portata preclusiva. Alla luce dei principi generali, colui che intenda infatti reagire in via giurisdizionale all’inerzia della p.a., interpone ricorso ex art. 21 bis onde conseguire l’accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere [3]. Orbene, la violazione dell’obbligo di provvedere altro non è – mutatis mutandis – che un omesso esercizio del potere e, dunque, giusta gli approdi delle recenti sentenze del giudice delle leggi 204/2004 e 191/2006, una fattispecie speculare al suo effettivo esercizio [4]. Ne deriva pertanto che entrambe le ipotesi possono riannodarsi all’ esercizio di potestà pubblica, sia pure concretamente atteggiantesi in distinte modalità. Ciò posto, non pare potersi ravvisare una violazione del principio della domanda ( e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato) nel contegno processale di chi provveda - nel medesimo giudizio ex art. 21 bis – ad impugnare anche il provvedimento espresso sfavorevole che eventualmente fosse sopravvenuto: in ambedue i casi il ricorrente si duole di un’attività della p.a.. Si tratterebbe soltanto di precisare la domanda originaria alla luce delle peculiarità del provvedimento espresso (emendatio ex art. 183 cpc e non già mutatio libelli). Anche l’altra ragione ostativa fondata sulla natura speciale del rito sul silenzio che ne renderebbe impraticabile la “conversione” in giudizio ordinario, si espone ad indubitabili spunti critici. Ove infatti si consideri che la novella del 2005 ha significativamente implementato i poteri del giudice “del silenzio”, assegnandogli altresì il potere di conoscere della fondatezza dell’istanza (art. 2,comma 5, L. 241/1990, anche il giudizio ex art. 21 bis, indirettamente, ne è risultato modificato, in termini di maggiore complessità [5]. E’ evidente infatti che l’accertare la mera violazione dell’obbligo di provvedere importa meno dispendio di attività istruttoria, e per l’effetto una tempistica processuale sensibilmente inferiore, rispetto all’eventualità di impingere nel merito del rapporto. Ciò posto, la specialità del rito di cui all’art. 21 bis, non può più intendersi primariamente quale celerità del suo svolgimento, e dunque non potrebbe più assumersi ad argomento essenziale per escluderne la sua conversione in giudizio ordinario, ove se ne palesi l’esigenza a seguito dell’adozione di un provvedimento espresso sfavorevole. Alla luce infatti di una razionale e sistematica interpretazione delle norme sul silenzio (art. 2,comma 5, ed art. 21 bis), anche in sede di impugnativa di una condotta omissiva potrebbero emergere accertamenti di rilevante complessità (nel caso, appunto, di sindacato sulla fondatezza), tali da renderlo non più cosi distante da un ordinario giudizio di legittimità in cui potrebbe convertirsi nel caso di provvedimento sopravvenuto. Non mancano altresì considerazioni di carattere generale da poter svolgere a suffragio della tesi favorevole alla conversione del rito sul silenzio in rito ordinario, con contestuale proposizione di motivi aggiunti avverso il provvedimento sfavorevole. Innanzitutto la recente ed incessante evoluzione del giudizio amministrativo: il provvedimento amministrativo, da oggetto del processo, ha assunto sempre più la funzione di mero presupposto processuale o condizione dell’azione, per consentire al giudice di verificare la spettanza del bene della vita [6]. Dunque, il baricentro del processo è ormai costituito dal rapporto sottostante la pretesa azionata. Emblematiche di tale percorso evolutivo sono di sicuro le recenti modifiche di cui agli artt. 2, comma 5 e 21 octies della L. 241/1990 ma ancor prima anche l’introduzione dell’istituto dei motivi aggiunti di cui all’art. 1 della L. 205/2000 che, accordando al privato la possibilità di impugnare i provvedimenti connessi con l’oggetto del giudizio adottati dalla p.a. nel corso dello stesso, ha dato abbrivio ad uno spostamento del “fuoco” del processo verso lo scrutinio della fondatezza della pretesa. [7] Se dunque la trama delle citate disposizioni pare avvinta da una medesima ratio, non sembra cosi peregrino predicare la conversione di un giudizio sul silenzio, tendenzialmente proiettato a sindacare la fondatezza del rapporto sottostante, sia pure con i limiti individuati dalla sentenza in commento, in un ordinario giudizio di legittimità che di fatto verrebbe a distinguersi dal primo non già ( e non più) per l’oggetto, in entrambi i casi individuabile nel rapporto sottostante, bensì per il presupposto processuale: nell’un caso costituito dall’inerzia, nell’altro da un provvedimento espresso sopravvenuto (sfavorevole). Inoltre, l’impostazione tradizionale – accolta dalla sentenza de qua - che nel caso si sopravvenienza del provvedimento negativo nel corso del giudizio opta per la declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, con contestuale onere per il privato di instaurare un autonomo giudizio avverso il provvedimento espresso, collide ictu oculi con il principio di effettività della tutela (artt. 24,103 e 113 Cost.) sub specie di economicità e ragionevolezza dei tempi processuali. [8] Da ultimo, potrebbero altresì valorizzarsi ragioni di coerenza dell’ordinamento. Se il processo amministrativo si fonda – come rilevato dalla dottrina più accorta [9] – anche sui principi tipici della liturgia processual-civilistica, la conversione del rito speciale di cui all’art. 21 bis in giudizio ordinario potrebbe rinvenire un addentellato normativo negli artt. 156 e ss. del codice di procedura civile. La conversione dei riti così come la conversione degli atti si fonda infatti sul principio di strumentalità delle forme, enunciato appunto dalle ridette disposizioni del codice di procedura civile. In ossequio a siffatti postulati, potrebbe ammettersi, ove ne ricorrano i presupposti, la (generale?) possibilità di convertire il giudizio sul silenzio in giudizio ordinario. Le succinte considerazioni che precedono lasciano affiorare un dato di non poco momento: ancorchè l’evoluzione recente del diritto amministrativo non sia più affidata esclusivamente ad una codificazione pretoria, non poche questioni permangono appannaggio di soluzioni giurisprudenziali, pur in presenza di un “arsenale”normativo idoneo a risolverle. Cfr. Cons. St., Sez. V, 3 gennaio 2002, n. 12, in Foro amm. – C.d.S., 2002, 80, con nota di F. Satta, Impugnazione cumulativa del silenzio e del provvedimento esplicito:una anomala ipotesi di inammissibilità derivata; Cons. St., Sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144, in Dir. proc. amm, 2002, 1005 ss.; Cons. St., Sez. IV, 10 giugno 2004 n. 3741, in Guida al dir., 2004, n. 28, 25; Cons. St., Sez. V, 24 agosto 2006, n. 4968. [1] Opinano a favore della convertibilità del rito: C. E. Gallo, Il giudizio avverso il silenzio della P.A., la cumulabilità delle azioni e la convertibilità dei riti (commento a C.d.S., Sez.IV, 23 aprile 2004 n. 2386) in Urb.e Appalti 2004, n. 8; C.d.S. Sez. V, 10 aprile 2002 n. 1974 in Foro amm. C.d.S., 2002, e in Diritto Processuale amministrativo, 2002, 1005 [2] Ante riforma del 2005 Cons. St. Ad.Plen. n. 1/2002 affermava infatti che nel giudizio avverso il silenzio-inadempimento della p.a. il giudice amministrativo deve limitarsi a dichiarare l’obbligo di provvedere. [3] In questi termini anche Cons. St., Sez. IV, 7 marzo 2005, n. 875 e A.P. 15 settembre 2005 n. 7 che si pronunciano sulla giurisdizione in tema di danno da ritardo. [4] [5] Cfr. R. Giovagnoli, I silenzi della Pubblica amministrazione dopo la L. n. 80/2005, Giuffrè, 2005. [6i] F. Caringella – R.Garofoli – G. Montedoro, Le tecniche di tutela nel processo amministrativo, Giuffrè, 2006. Cfr. G. Virga, L’evoluzione dell’istituto del ricorso per motivi aggiunti, nota a Tar Catania, sez. I, 15 maggio 2000 n. 922, in Lexitalia – Rivista Internet di diritto pubblico, n. 6-2000, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarcatania1_2000-922.htm. [7] Cfr. A. Bertoldini, I riti immediati ed abbreviati previsti dalla L. 21 luglio 2000 n. 205:la mediazione giurisprudenziale tra certezza ed effettività di tutela, in Dir.proc.ammm., in Diritto processuale amministrativo 2003, n. 4, 1339. [8] [9] Cfr. F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 2006. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE (SEZIONE QUARTA) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso iscritto al NRG 6384\2007, proposto da Cooperativa edilizia Florida I, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Enrico Soprano ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via degli Avignonesi n. 5; contro Comune di Frattamaggiore, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Damiano e Luigi Parisi, domiciliato in Roma, via della Balduina n. 120/5 presso lo studio dell’avvocato F. Auletta; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania , sez. V, n. 5863 del 31 maggio 2007 e per l’accoglimento del ricorso di primo grado. Visto il ricorso in appello principale proposto dalla Cooperativa edilizia Florida I (in prosieguo Cooperativa); visto l'atto di costituzione in giudizio e contestuale appello incidentale proposto dal comune di Frattamaggiore; visti gli atti tutti della causa; data per letta alla camera di consiglio del 9 ottobre 2007 uditi gli avvocati Soprano e Damiano; la relazione del consigliere Vito Poli, ritenuto e considerato quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. La Cooperativa edilizia Florida I, con diffida del 9 – 12 dicembre 2006, ha chiesto al comune di Frattamaggiore di dare esecuzione al p.e.e.p. approvato in data 9 marzo 2005 e, conseguentemente, di assegnare le aree in esso ricomprese. 1.1. A fronte dell’inerzia dell’amministrazione, la Cooperativa ha notificato – il 22 marzo 2007 - ricorso al T.a.r. della Campania a mente dell’art. 21 bis, l. n. 1034 del 1971. Si costituiva il comune di Frattamaggiore concludendo per l’improcedibilità del ricorso in considerazione dell’emanazione, da parte del dirigente del Settore Assetto e Gestione del Territorio, della nota prot. n. 7812 del 17 aprile 2007, recante le ragioni ostative all’accoglimento della richiesta (in estrema sintesi e per quanto qui interessa, ravvisate nella necessità di raccordare le previsioni del p.e.e.p. con quelle del nuovo strumento urbanistico generale in corso di redazione). 1.3. L’impugnata sentenza – T.a.r. della Campania, sez. V, n. 5863 del 31 maggio 2007 - ha dichiarato cessata la materia del contendere dopo aver esaminato ed escluso, alla luce della nuova disciplina sancita dall’art. 2, co. 5, l. n. 241 del 1990 come sostituito dalla l. n. 80 del 2005, la fondatezza della pretesa azionata col rito del silenzio dalla Cooperativa; ciò nel decisivo presupposto del carattere non vincolato dell’attività provvedimentale richiesta all’amministrazione. 2. Con ricorso notificato il 23 luglio 2007, e depositato il successivo 30 luglio, la Cooperativa proponeva appello principale avverso la su menzionata sentenza del T.a.r., deducendone l’erroneità sotto plurimi profili ed in particolare evidenziando: a) il carattere vincolato dell’azione amministrativa, tenuta a dare immediata attuazione alle vigenti previsioni di p.e.ep. mercé l’espropriazione ed assegnazione delle aree in esso ricomprese; b) l’impossibilità di attendere, ai fini del coordinamento della pianificazione del territorio, l’approvazione del p.u.c. attualmente in fase di semplice redazione; c) l’impossibilità di fare ragionevole affidamento su una successiva, seria attività provvedimentale diretta alla pianificazione del proprio territorio da parte del comune, quantomeno mediante l’adozione di una delibera di giunta recante la proposta, al consiglio comunale, di una nuova disciplina urbanistica generale (contrariamente a quanto affermato dal T.a.r.); d) l’erroneità delle argomentazioni poste a base del diniego comunale del 17 aprile 2007 (in limine la sezione osserva che avverso tale provvedimento pende ricorso ordinario di legittimità innanzi al T.a.r. della Campania). 3. Si costituiva il comune di Frattamaggiore - con memoria notificata il 5 settembre 2007 e depositata il successivo 13 settembre - da un lato contestando la fondatezza del gravame principale, dall’altro proponendo appello incidentale onde ottenere la declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado per sopravvenuta carenza d’interesse. 4. La causa è passata in decisione alla camera di consiglio del 9 ottobre 2007. 5. E’ consolidato nella giurisprudenza di questo Consiglio (sin dal lontano capostipite sez. VI, 6 marzo 1992, n. 159), il principio secondo cui allorquando, come nel caso di specie, l’appello incidentale è da qualificarsi come improprio, perché vertente su capi autonomi dell’impugnata sentenza e sostenuto da un interesse proprio, devono essere esaminate prioritariamente le questioni sollevate con quest’ultimo gravame se in ordine logico – a mente del fondamentale canone sancito dall’art. 276, comma 2, c.p.c. - assumono carattere pregiudiziale rispetto a quelle introdotte con l’impugnazione principale (cfr. ex plurimis, e da ultimo sez. IV, 22 marzo 2005, n. 1144). Pertanto, poiché a seguito della proposizione degli appelli principale ed incidentale è riemerso in questo grado l’intero thema decidendum , il collegio potrà esaminare le questioni e le censure articolate in prime cure secondo la tassonomia propria. 5.1. In ordine logico è prioritario l’esame del gravame incidentale nella parte in cui reitera l’eccezione di improcedibilità del ricorso di primo grado per sopravvenuta carenza di interesse. Il mezzo è fondato. 5.2. Antecedentemente alla riscrittura dell’art. 2, l. n. 241 del 1990 e nella vigenza dell’art. 21 bis, l. n. 1034 del 1971, la giurisprudenza prevalente di questo Consiglio (cfr. ex plurimis ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1; sez. VI, 10 maggio 2007, n. 2237; sez. IV, 10 giugno 2004, n. 3741), aveva ricostruito il sistema di tutela avverso l’inerzia della p.a., nei termini che per brevità così si sintetizzano: a) il giudizio sul silenzio rifiuto verte esclusivamente sull’accertamento della sussistenza o meno dell’obbligo della p.a. di provvedere; b) conseguentemente il giudice non può compiere un accertamento sulla fondatezza della pretesa sostanziale indicando all’amministrazione il contenuto del provvedimento da adottare; c) l’amministrazione non perde il potere di esercitare la funzione dopo lo scadere del termine di conclusione del procedimento; d) il menzionato art. 21 bis non introduce una norma sulla giurisdizione ma sul rito, di carattere speciale ed accelerato, coerente con i valori costituzionali ed internazionali della ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2, Cost. e 6, C.E.D.U.). Dalla individuata natura del rito sul silenzio, la giurisprudenza ha fatto discendere precisi corollari processuali. Si è così affermato che l’adozione di qualsivoglia atto da parte dell’amministrazione, in quanto espressione di funzione pubblica in risposta alla diffida dell’interessato, determini l’inammissibilità o improcedibilità del ricorso proposto ex art. 21 bis cit. a seconda che intervenga prima o dopo la proposizione del ricorso medesimo; l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale contenente due distinte azioni (impugnatoria e di accertamento), disciplinate da due diversi riti e aventi diversi oggetto e contenuto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, ord. 27 marzo 2007, n. 1532; Cons. giust. amm., 13 febbraio 2006, n. 36); l’impossibilità di proporre motivi aggiunti avverso il provvedimento sopravvenuto (sfavorevole) nel corso del giudizio instaurato ex art. 21 bis cit., e di convertire il ricorso speciale in ricorso volto ad introdurre un giudizio ordinario di legittimità; l’improponibilità di domande risarcitorie e di adempimento di diritti di credito, formulate secondo il rito disegnato dall’art. 21 bis; l’impugnativa degli atti del commissario ad acta, nominato dal giudice, ex art. 21 bis, co. 2, cit., in sede ordinaria di legittmità e non già con ricorso per ottemperanza (cfr. sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1586). 5.3. Il riformulato art. 2, co. 5, l. n. 241 cit., ha introdotto le seguenti novità: è stata eliminata la necessità della diffida all’amministrazione quale condizione di proponibilità dell’azione ex art. 21 bis, l. n. 1034 cit.; il termine di decadenza del ricorso ex art. 21 bis, non è più quello ordinario di sessanta giorni, ma quello più lungo di un anno decorrente dallo scadere del termine di conclusione del procedimento; si stabilisce che <<il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza della pretesa>>; si ammette, infine, la reiterabilità dell’istanza ove ne ricorrano i presupposti. Come si è visto, l’impugnata sentenza ha fatto discendere dalla previsione della delibazione, da parte del giudice, della fondatezza della pretesa, l’impossibilità di una pronuncia di improcedibilità del ricorso, nel caso di sopravvenienza del provvedimento espresso sfavorevole. Tale conclusione non appare condivisibile. La formulazione della norma sancita dall’art. 2, co. 5, l. n. 241 cit., sembra autorizzare il giudice ad andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere, accertando direttamente la fondatezza della pretesa e sostituendosi all’amministrazione; si tratterebbe allora di una norma attributiva, in modo indiscriminato, di giurisdizione c.d. di merito. Un primo ordine di obiezioni si rinviene sul piano costituzionale. Così interpretata la norma non si sottrarrebbe a censure di incostituzionalità, per aver previsto surrettiziamente una giurisdizione di merito senza confini, in cui sussiste in termini generali il potere del giudice di sostituirsi alla p.a. Al contrario la giurisdizione di merito, al pari di quella esclusiva, ponendosi come derogatoria rispetto a quella di legittimità nella trama costituzionale improntata al principio di separazione dei poteri, necessita di una puntuale e tassativa previsione normativa (cfr. in tema di giurisdizione esclusiva Cons. Stato, ad plen., 30 luglio 2007, n. 10; in tema di giurisdizione di merito, sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2830; sez. IV, 14 aprile 2006, n. 2133). Ulteriori critiche possono muoversi, sul piano logico, sotto il profilo che: a) sarebbe contraddittorio con il rito del silenzio che si consegua un risultato maggiore di quello ottenibile in un ordinario giudizio di legittimità finalizzato all’annullamento di un provvedimento illegittimo; b) l’accertamento della fondatezza della pretesa nei casi di maggiore complessità sarebbe incompatibile con la struttura snella e celere del giudizio in base al più volte menzionato art. 21 bis, l. 1034 cit.. Per attribuire alla norma un significato utile e legittimo occorre muovere dai seguenti dati ermeneutici: a) si attribuisce al giudice un potere da esercitarsi nell’ambito di un rito speciale improntato ad esigenze di snellezza; b) non si obbliga ma si facoltizza il giudice a conoscere della fondatezza della pretesa, senza autorizzarlo a sostituirsi in via diretta alla p.a. adottando il provvedimento richiesto; c) la cognizione sulla fondatezza dell’istanza può sfociare in un accertamento negativo per il richiedente. Queste osservazioni inducono a ritenere che la norma in commento non abbia inteso istituire una ipotesi senza confini di giurisdizione di merito ma, più limitatamente, abbia attribuito al giudice, nei limiti della propria preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva (cfr. sul punto, dopo la l. n. 80 del 2005, Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2006, n. 6003), uno strumento processuale ulteriore nella stessa logica acceleratoria del contenzioso che ha ispirato l’intervento riformatore del 2000; dal punto di vista sistematico si è previsto un meccanismo che ricorda il giudizio c.d. immediato (art. 26, l. n. 1034 del 1971). Pertanto, nell’ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della accoglibilità dell’istanza: a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni (cfr. sul punto, dopo la l. n. 80 del 2005, Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318), e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all’amministrazione (in altri termini si potrà condannare l’amministrazione ad adottare un provvedimento favorevole dopo aver valutato positivamente l’an della pretesa ma nulla di più); b) nell’ipotesi in cui l’istanza è manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare la p.a. a provvedere laddove l’atto espresso non potrà che essere di rigetto. 5.4. Applicando i su esposti principi all’odierna fattispecie, emerge che la nuova formulazione dell’art. 2, l. n. 241 cit., non scalfisce l’approdo cui era giunto l’orientamento giurisprudenziale formatosi in precedenza che, nel caso di sopravvenienza del provvedimento negativo nel corso del giudizio, optava per la declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Invero, ogni qualvolta l’amministrazione eserciti la funzione pubblica con un provvedimento espresso, viene meno l’esigenza di certezza sottesa alla ratio della norma sancita dall’art. 21 bis, sicché il giudice amministrativo, ante omnia, dovrà limitarsi a prenderne atto, con le consequenziali statuizioni processuali a seconda del contenuto del provvedimento esplicito; in questo frangente, infatti, sarà inibita ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa sostanziale, che troverà la naturale sede di scrutinio nell’eventuale giudizio di legittimità che il richiedente insoddisfatto vorrà intraprendere. Sotto tale angolazione si deve evidenziare come, affinché si possa dichiarare cessata la materia del contendere, sia necessario che il privato abbia conseguito effettivamente il bene della vita cui in concreto aspira (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2001, n. 5896). Ne discende, nel caso di sopravvenienza del provvedimento espresso nel giudizio sul silenzio, che tale formula di conclusione del giudizio potrà essere adottata esclusivamente in presenza di un provvedimento favorevole all’istante (circostanza questa che non si è verificata nel caso di specie). 5.5. La declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado, traducendosi in una causa impeditiva del giudizio di prime cure, comporta, a mente dell’art. 34, co. 1, l. n. 1034 del 1971, l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 maggio 2007, n. 2235). 6. L’accoglimento dell’appello incidentale priva la Cooperativa edilizia Florida I dell’interesse a veder esaminato il proprio gravame principale che, conseguentemente, deve essere dichiarato improcedibile. 7. In conclusione l’appello incidentale deve essere accolto, mentre quello principale deve essere dichiarato improcedibile. Le spese di entrambi i gradi di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso meglio specificato in epigrafe: - accoglie l’appello incidentale proposto dal comune di Frattamaggiore e per l’effetto, dichiara improcedibile il ricorso di primo grado ed annulla senza rinvio la sentenza impugnata; - dichiara improcedibile l’appello principale proposto dalla Cooperativa edilizia Florida I; - condanna la Cooperativa edilizia Florida I a rifondere in favore del comune di Frattamaggiore le spese, gli onorari e le competenze di ambedue i gradi di giudizio che liquida in complessivi euro 3000, oltre I.V.A. e C.P.A. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del 9 ottobre 2007, con la partecipazione di: Luigi Maruotti - Presidente f.f. Pierluigi Lodi - Consigliere Antonino Anastasi - Consigliere Vito Poli Rel. Estensore - Consigliere Sandro Aureli - Consigliere Depositata in segreteria il 10 ottobre 2007. 7) CGA, Sez. Giur., 4 novembre 2005, n. 726 1. L’art. 2, comma 5, della L. 7 agosto 1990, n. 241, modificato dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, e successivamente sostituito dall’art. 3, comma 6 bis, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, nel testo integrato dalla legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, stabilisce, tra l'altro, che "il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza"; quest'ultima espressione non può essere interpretata se non come attribuzione al giudice di provvedere sull’oggetto del giudizio che non può essere ridotto all'illegittimità del silenzio serbato, ma comprende anche la fondatezza della domanda. Quella prevista dalle recenti modifiche costituisce quindi una nuova ipotesi di giurisdizione di merito. 2. L’art. 2, comma 5, della L. 7 agosto 1990, n. 241, modificato dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, e successivamente sostituito dall’art. 3, comma 6 bis, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, nel testo integrato dalla legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, nel prevedere che "il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza", è di immediata applicazione, prevedendo l’obbligo del giudice di provvedere sostituendosi alla amministrazione inadempiente sulla istanza della parte. 3. Va accolto un ricorso avverso il silenzio-rifiuto formatosi su di una istanza (nella specie, tendente all’adeguamento del trattamento contrattuale dovuto nei confronti di alcuni dipendenti pubblici) nel caso in cui la stessa P.A. inadempiente abbia tenuto un comportamento processuale di non contestazione della pretesa degli istanti, ma anzi - come emerge dalla documentazione prodotta - di ammissione della fondatezza della pretesa stessa.