La filosofia dei (e con) bambini e ragazzi è eminentemente metacognitiva L. Rossetti Quando si temeva che per "filosofia con i bambini" si potesse intendere qualcosa come un Kant spiegato a mio figlio, dunque una sorta di Bignami super-semplificato (e il fortunato Mondo di Sofia di J. Gaarder non era certo attrezzato per fugare simili dubbi!), era normale dubitare sia che avesse senso fare filosofia a quelle condizioni, sia che potesse delinearsi un'alternativa all'esposizione di questa o quella filosofia, tanto più che all'epoca – intendo dire tra i professori di filosofia italiani negli ultimi decenni del XX secolo – si discettava sull'opportunità di passare dall'insegnamento della storia della filosofia all'insegnamento di una "filosofia per problemi" che, almeno nel nostro paese, non è riuscita ad attecchire. Poi un po' alla volta si è capito (e anch’io sono arrivato a capire, non certo tra i primi) che non si trattava di “spiegare”, né di “introdurre”, né di “iniziare”, ma più semplicemente di “coltivare” il potenziale filosofico di b. e r., e intanto la diffusione dei caffè filosofici mostrava che era possibile e aveva senso fare qualcosa di comparabile anche con gli adulti. E mentre si affermava il modello Lipman, un dubbio strisciante sembra essersi affacciato: che senso avrebbe fare filosofia senza darsi dei contenuti precisi, senza identificare con apprezzabile precisione un interrogativo tra altri, senza saper bene su che punto “siamo qui per” pronunciarci, senza addurre delle ragioni e possibilmente anche delle contro-ragioni? Il rischio non sarebbe stato di finire addirittura per bamboleggiare vanamente, ossia di chiudere i bambini nel loro piccolo mondo e dunque non tanto coltivare quanto subdolamente reprimere il loro potenziale filosofico? In realtà una risposta era già disponibile, in quanto almeno la tradizione continentale, ermeneutica, heideggeriana del filosofare aveva abbondantemente acclimatato la comunità filosofica all’idea che in filosofia bisogna prima di tutto affinare i sensori, ossia pervenire ad accorgersi, pervenire a notare, in altre parole a decondizionarci dall’uso di notare solo ciò che, per l’appunto, siano stati educati a notare. Tanto basta perché si delinei una dimensione non meno credibile rispetto al filosofare inteso come un argomentare e un essere per quanto possibile rigorosi. Il rigore argomentativo presuppone infatti che la fase della rilevazione, della ricerca sul campo, si sia virtualmente conclusa e siano cominciati i lavori di assestamento delle acquisizioni, di controllo, di verifica delle compatibilità, di esplicitazione di ciò che era stato solo intuito. Sempre che la ricerca sul campo sia andata a buon fine senza passi falsi, ma chi ce lo garantisce? Veramente si può dire anche il contrario, ossia che la buona rilevazione è frutto di una lunga educazione a ben rilevare, dopodiché il circolo parrebbe chiudersi, rivelarsi cioè vizioso. Abbiamo di che preoccuparci? Credo di non banalizzare la questione osservando che accade comunemente di giocare ora soprattutto la carta della rilevazione, ora la carta dell’assestamento; ora la carta dello scavo e della lente di ingrandimento, ora la carta del riordino dei materiali negli scaffali e dell’apposizione di etichette non strampalate. Questo vale a maggior ragione per i minori e per chi non disponga di 1/3 una preparazione specifica. Nel momento in cui ci avviciniamo per la prima volta (o quasi per la prima volta) alle molte facce di un certo problema, troviamo naturale girare attorno all’oggetto poliedrico e notare ora l’una ora l’altra faccia, sorprenderci di scoprire che ce ‘è anche una quinta, una sesta, una sedicesima e continuare a lungo senza provare stanchezza o fastidio. Ma proprio la quantità di rilevazioni accumulate – quasi grandi foglie di vite o di fico che cadano in disordine per terra, talvolta sovrapponendosi, talvolta lasciando zone scoperte – alimenta il bisogno di mettere le cose in ordine e dunque di assestare, istituire classi e sottoclassi, disporre, eliminare i doppioni, rimuovere eventuali contraddizioni. Di nuovo, si potrebbe obiettare che, siccome tutti abbiamo un’esperienza di vita su cui contare, e quindi anche l’esperienza di cumuli più o meno disordinati di unità informative, in ogni età si dovrebbe registrare la prevalenza del bisogno di assestare un po’ meglio ciò che è già disponibile. Questo è parzialmente falso, perché ci sono, in effetti, età in cui il bisogno di mettere ordine è poco sentito ed età in cui, al contrario, quel bisogno campeggia. A dieci anni specialmente i maschietti collezionano di tutto ma non per nulla, a distanza di qualche tempo, quelle raccolte vengono per lo più buttate. Traduzione: in filosofia trovano posto il piacere di provare a dire (di guardare nella penombra e provare a dare un nome a ciò che si intravede appena) così come il piacere di avventurarsi nella costruzione di edifici argomentativi anche improbabili, il riordino rassicurante (ma spesso un po’ troppo conformista) delle idee già familiari e le avventure della mente. E fin qui sembra difficile istituire una differenza tra il modo di fare filosofia quando si è bambini o ragazzi e il modo di fare filosofia quando si è adulti e magari si dispone di una laurea specifica, di un dottorato di ricerca eccetera. Fortunatamente, a sbloccare la situazione provvede, se non erro, la distinzione tra dimensione cognitiva e dimensione meta cognitiva del filosofare. Se per dimensione cognitiva si intende il sapere filosofico, dunque ciò che i filosofi presumono di aver capito e correttamente denominato, il sapere che ha dato luogo a concrezioni, scuole di pensiero, libroni, paroloni e quant’altro, diventa evidente che solo se sei più o meno informato su tutta questa tradizione puoi ‘maneggiare’ il sapere filosofico e trarne beneficio, perché altrimenti ti troveresti a usare malamente congegni di cui non ti sfuggono soltanto svariati componenti ma addirittura la logica che li fa esistere e costituisce la ragion d’essere, il fattore identificante di ognuno. D’altra parte la dimensione metacognitiva della filosofia si manifesta in modo eminente in quelle forme di presa di coscienza della complessità che non danno luogo a un sapere particolare. Esempio tipico è l’universo delle competenze. Se sono bravi, il meccanico alle prese con l’auto che non va più bene, l’arredatore cui chiedo di inventarsi qualcosa per casa nostra, la sarta da cui vado per farmi un bel vestitino, il chirurgo cui affido il mio addome sanno infinite cose ognuno nel suo settore, sono proprio maestri, eppure non sanno che cosa sarà il caso di fare nel caso particolare. Noi ci affidiamo a loro sapendo che non sanno ancora precisamente che cosa sarà il caso di fare. La loro è una competenza diffusa, preziosa ma, almeno per quanto riguarda il da farsi, cognitivamente povera, molto povera, necessariamente povera. Povera ma preziosa. Ora i filosofi non si occupano solo di ciò che si presume sia ormai noto, ben noto, ma anche (se non soprattutto) del quadro di riferimento, delle terre di nessuno, e preferibilmente di ciò che non è ancora diventato o non riesce a diventare un sapere specialistico. Infatti, se in un determinato campo si è venuto costruendo un sapere, quell’ambito tenderà a costituirsi in un campo di 2/3 specializzazione a sé, da tenere accuratamente distinto dalla filosofia. Ne deduco che la funzione di attenzione per ciò che rischia di passare inosservato o di risultare inafferrabile, la funzione di primo orientamento in un contesto che si presume sia piuttosto refrattario all’assestamento cognitivo, costituisca una componente non esclusiva ma pur sempre elettiva del filosofare. Di cui di tanto in tanto ci si è dimenticati. Ed è proprio questa, io credo, la funzione peculiare del filosofare che si addice a bambini e ragazzi che provano a filosofare sapendo di brancolare nel buio e che solo in momenti successivi si adopereranno per fare un po’ d’ordine nella loro testa. Non avrebbe senso portarli a prendere confidenza con nozioni già disponibili ‘sul mercato’. Molto meglio creare le condizioni perché provino a dire, si tuffino nell’esercizio del denominare ciò che hanno solo intravisto e accumulino idee su come orientarsi in un simile oceano di realtà inafferrabili. Trovo che sia un valore, in particolare, il tentativo di dar voce alla varietà dei punti di vista, la cura nel non chiudere discorsi o modi di inquadrare le esperienze (chiudere equivarrebbe a precludere prematuramente e magari a torto delle piste appena accennate, che non sappiamo dove possano portare). In questo senso – e qui deluderò o impensierirò più d’uno – il nostro metterci a filosofare con i minori non ha molto di socratico perché, tolte alcune apparenze, Socrate è notevolmente aggressivo e direttivo. Come ho cominciato a far presente in Quale dialogo? (online nel sito web di Amica Sofia) e come spero di poter argomentare più diffusamente altrove in un prossimo futuro, il grande filosofo si è dedicato, in prevalenza, a scompaginare le certezze altrui, a generare un iniziale disorientamento. Orbene, almeno con i più piccini sarebbe del tutto fuor di luogo giocare una simile carta. D’altronde, non è certo un caso che Socrate operasse esclusivamente con adulti, dunque con menti dove le concrezioni e le sedimentazioni possono essere più un limite che una risorsa. Perugia, estate 2008 3/3