NARDOZZI 1. L`ETA` DELL`ORO EUROPEA E LO SPRINT ITALIANO

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NARDOZZI
1. L’ETA’ DELL’ORO EUROPEA E LO SPRINT ITALIANO
- il tasso di crescita del reddito pro-capite medio annuo nel periodo 1950 – 1963 fu del 5%.
- questo tasso è il doppio del suo trend secolare.
- lo stesso processo di crescita investì gli altri paesi europei, anche se in misura leggermente
inferiore.
- la gara che l’Europa prostrata dalla dalla guerra e liberata dagli americani intrapprese fu la
rincorsa sull’America, il catching up. I paesi ritardari hanno un vantaggio di crescita nei confronti
del paese leader. Imitano le tecnologie, hanno lavoro abbondante e pagato poco, l’aumento della
dimensione dei mercati consente rendimenti crescenti di scala.
- nella gara con l’America conta particolarmente il clima politico, istituzionale e macroeconomico
che si instaura nel dopoguerra.
- il caso italiano, dentro il contesto europeo, fu molto caratterizzato:
1) fu un successo straordinario mai raggiunto finora (2004) da nessun altro paese. E fu il
terzo successo dopo l’egemonia dell’età romana, e dell’età del rinascimento.
2) lo sviluppo fu particolarmente intenso, in termini di tassi di crescita e di trasformazione
morfologica, da società agricola a società industriale. Certamente il piu intenso in
Europa.
3) lo sviluppo fu breve; giunse al culmine nel periodo 1959 – 1963. Poi si interruppe, vi fu
recessione seguita da una ripresa. Ma ormai l’accumulazione di capitale perse slancio
e dagli anni 70’ iniziò la lunga fase della ristrutturazione del sistema industriale dalle
grandi imprese al sistema delle piccole imprese.
Nardozzi anticipa le ragioni del successo e del declino così:
a) nel dopoguerra si crearono le condizioni necessarie a incanalare positivamente tutte le
energie imprenditoriali latenti nella nostra società civile e si seppe rompere l’insieme degli interessi
economici legati alla rendita, alla protezione dall’esterno (autarchia del periodo fascista e anche
della precedente epoca liberale).
b) la gestione politica delle conseguenze sociali dello sviluppo rapidissimo dette nuovo
spazio alle forze della conservazione e agli interessi legati alla rendita e le modalità della crescita
mutarono carattere tanto da preludere al successivo declino.
2. IL PROBLEMA INDUSTRIALE ITALIANO E LE GRANDI SCELTE DEL DOPOGUERRA (la
ricostruzione 1946 – 50)
- l’economia ereditata dal fascismo è un’economia dirigistica e protetta dalla concorrenza
internazionale.
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- un gruppo numericamente piccolo di grandi aziende gode di posizioni di monopolio o quasi con
tante protezioni dallo stato (credito, domanda, normative); un gruppo numericamente grande di
medie aziende si arrabatta ma genera la gran parte del PIL.
- appare necessario rompere la protezione alle grandi imprese per indurle a rischiare e investire.
- la strada che l’allora classe politica scelse fu l’apertura del mercato italiano agli scambi
internazionali e l’inserimento dell’Italia nel piu grande, allora nascente, mercato europeo.
- nell’ottobre del 1946 il governo unitario decide l’adesione dell’Italia al nuovo ordine
monetario internazionale (Bretton Woods) e la liberalizzazione commerciale, la quale porterà alla
creazione del mercato comune europeo (trattato di Roma 1957).
- la Banca d’Italia, prima con Einaudi e poi con Menichella, mise in atto una dura politica di
abbattimento dell’inflazione (100% annuo) che eliminò la speculazione e i facili profitti che sono
connessi all’alta inflazione. La deflazione consentì prezzi stabili, l’entrata nell’accordo di cambio
con il dollaro con la stabilizzazione del tasso di cambio, il riequilibrio della bilancia dei pagamenti.
All’inizio degli anni 50’ la situazione era stabilizzata e adatta a favorire lo sviluppo successivo.
- alla caduta del fascismo lo stato repubblicano ereditò l’IRI. Gli americano volevano che lo
si smantellasse. Anche per le difficoltà di vendere le aziende dell’IRI in un mercato ove non c’erano
capitali sufficienti per acquistarle si decise per dare invece avvio al sistema delle partecipazioni
statali. E all’IRI si affiancò l’ENI di Enrico Mattei.
3. LO SVILUPPO DEGLI ANNI 50’ (1951 – 58)
- Attraverso le partecipazioni statali si creò un motore che consentì una crescita tra le maggiori del
mondo; l’Italia fu seconda solo alla Germania nel mix crescita - stabilità dei prezzi – accumulazione
di capitale (Tabella 1)
- l’apertura al commercio internazionale generò una crescita vivacissima (come oggi per la Cina)
del tasso di svilluppo delle esportazioni; come incidenza sul PIL la quota non assume valore
elevato, il 6%; i settori piu dinamici per l’attivo commerciale sono i tessili, calzature e gomme. I
mezzi di trasporto si appaiono dopo.
- la componente di domanda autonoma che si muove di piu è quella per investimenti; nel 1958
arriva al 22% sul PIL. La componente piu forte fu quella in opere pubbliche (infrastrutture e
abitazioni – edilizia popolare) che crebbe in media del 13,5% per anno. Gli investimenti in impianti
industriali crebbero ad un tasso meno della metà.
- entro questo quadro un ruolo fondamentale ebbero le partecipazioni statali che fornirono materie
di base in sostituzioni a merci importate per l’industria a valle e energia (ENI) a un costo non
superiore a quello di provenienza esterna.
- le partecipazioni statali, concentrate per lo piu nelle produzioni di base e nella produzione di
grandi impianti ebbero un ruolo rilevantissimo sia per la domanda di investimenti sia per l’offerta di
beni di investimento tecnologicamente avanzati per l’industria privata.
- la produzione si oriento’, forse precocemente, attraverso le esportazioni, verso i beni di consumo
tipici di aree piu sviluppate, a vocazione fordista, come le automobili e gli elettrodomestici. Il
modello di consumo interno si adeguò alla produzone per le esportazioni. Noi, anzitempo,
assumemmo una struttura di consumo di paesi con reddito pro-capite piu alto del nostro lasciando
del tutto insoddisfatti altri tipi di consumo piu di base e infrastrutturali (ricchezza privata e povertà
pubblica).
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4. IL MIRACOLO ECONOMICO E LA CONGIUNTURA (1958 -1963)
- al termine miracolo economico si aggiunse il termine congiuntura. Al primo si associano la
crescita, gli aumenti della produttività del lavoro, di profitti, di investimenti, di salari e consumi
privati in crescita. Al secondo l’inflazione e al deficit dei conti con l’estero che provocarono i
provvedimenti restrittivi del 63 che posero fine al nostro miracolo economico e provocarono la
caduta nel reddito e negli investimenti del 1964.
- tra il 1957 e il 1963 la crescita media annua del PIL fu del 6,5%. A tale crescita fondamentale fu il
contributo delle esportazioni (dopo l’avvio del mercato comune) che aumentarono inizialmente al
ritmo del 18% annuo, di piu degli investimenti che nel periodo furono per lo più in macchinari e
impianti nei settori metallurgico e meccanico e che raggiungesro il 26% del PIL e che aumentarono
a un ritmo piu che doppio rispetto al periodo precedente.
- al seguito degli investimenti crebbero anche i consumi privati (del 10%) che si concentrarono
nella domanda di beni durevoli; la crescita dei consumi venne spinta anche dalla crescita delle
retribuzioni (+ 17% nominale nel bienno 62-63). I sindacati riuscirono a strappare questi forti
incrementi salariali per la relativa scarsità di lavoro determinatasi nel triangolo industriale.
- a seguito della politica di trasferimento sui prezzi dei maggiori oneri salariali da parte
imprenditoriale l’inflazione superò il 7%; la bilancia commerciale passò da un attivo di 200 a un
passivo di 750 milioni di dollari tra il 62 e il 63; si mise in moto anche un flusso in uscita di capitali
motivati dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica e dall’introduzione di una tassa sui dividendi
(profitti distribuiti) delle azioni.
- Guido Carli, governatore della Banca d’Italia attuò una forte stretta monetaria che congelò parte
della domanda autonoma. L’effetto fu un riequilibrio immediato della bilancia dei pagamenti;
l’inflazione invece calò lentamente negli anni successivi. A seguito della manovra restrittiva nel
1964 il PIL si contrasse del 2,5% e gli investimenti si ridussero del 20% rispetto all’anno
precedente. Gli investimenti stagnarono in tutto il periodo successivo
(Figura 1).
- la crisi del 63 e la manovra restrittiva di Carli segnarono la fine di un ciclo; gli investimenti non
ripresero più con i ritmi precedenti. E senza investimenti non c’era innovazione e crescita della
produttività. Tra il 64 e il 69 avemmo un fortissimo attivo di bilancia commerciale più che
compensato da una fuga di capitali verso la Svizzera che andarono a finanziare la crescita di altre
economie. A seguito della scarsa propensione al rischio della classe imprenditoriale (uscita di
capitali alla ricerca di rendimenti finanziari e di posizioni di rendita) in quel periodo regalammo
parte della nostra produzione, del nostro lavoro, all’estero. La nostra struttura industriale rimase
incompiuta, debole nelle produzioni tecnologicamente avanzate e molto orientata sulle produzioni
tradizionali che rappresentarono in seguito in nerbo del “made in Italy”.
- l’interpretazione dominante della crisi del 1963 fu che le richieste salariali furono troppo elevate
rispetto alla crescita della produttività in un contesto di quasi piena occupazione; tale
interpretazione fu variamente critica, in seguito. I salari industriali restavano molto al di sotto di
quelli dei paesi concorrenti; la piena occupazione era concentrata in una parte ristretta del territorio
nazionale ove un quarto della forza lavoro era occupata ancora in agricoltura e un altro quarto in
attività tradizionali di bassa produttività (terziario e artigianato arretrato). Il modello di consumo dei
salariati stabili del nord-ovest (beni di consumo durevoli, gli stessi beni che si esportavano con
successo) formato sulla struttura delle esportazioni si diffuse anche alla parte restante della
popolazione occupata in attività in cui la produttività era stagnante sostenuto dalla caduta dei
prezzi relativi di questi beni che godevano, nella produzione, di economie di scala notevoli. Ma nel
contempo aumentavano i prezzi relativi dei beni più necessari. Sul mercato del lavoro si
scaricarono tutte queste contraddizioni. Furono i tipici squilibri da sviluppo troppo accelerato e non
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governato da una mano pubblica o da una classe imprenditoriale consapevole o che ancora non
usciva da uno schema mentale che finiva per privilegiare le posizioni di rendita.
5. LA MANUTENZIONE STRAORDINARIA (dopo il 1964 verso il 1969)
- furono gli anni della programmazione economica che puntava a risolvere gli squilibri economici
tra settori (industria – agricoltura), sociali (sviluppo dei consumi pubblici – istruzione, salute, ...) e
territoriali (industrializzazione del mezzogiorno e delle aree depresse; cogestione con crescita del
costo delle abitazioni e del costo della vita nel nord-ovest) in parte generati dallo sviluppo
industriale vorticoso degli anni del miracolo, in parte endemici. La programmazione ebbe come
strumento forte le partecipazioni statali ma ambiva a orientare anche il settore privato
dell’economia. Si pensava a uno schema di concertazione tra parti sociali (sindacati e imprenditori)
per creare le condizioni per uno sviluppo più equilibrato che evitasse le frizioni del mercato del
lavoro e riequilibrasse la struttura dei consumi troppo orientata su quelli privati. Non ebbe esiti di
rilievo e fu molto ostacolata dalle forze sociali e politiche più conservatrici e pure dalla Banca
d’Italia. Rimasero, della programmazione, tre effetti negativi:
a) la paura degli imprenditori di una pianificazione di tipo socialista;
b) l’affermarsi del comando della politica (prima della Democrazia Cristiana, poi del Partito
Socialista) sulle imprese delle partecipazioni statali;
c) l’avvio della contrattazione programmata che significò la distribuzione di ampi sussidi
pubblici alle imprese private.
In queste vicende non aiutò la modalità di attuazione della nazionalizzazione del settore elettrico,
modalità imposta dalla banca d’Italia che ambiva a salvaguardare l’impresa privata, che beneficiò
di una quantità ingentissima di quattrini le ex società elettriche nazionalizzate e che finirono per
disperdersi o in mille rivoli industrialmente insignificanti o in corrutele di varia natura ed entità (si
veda il libro di Gallino) che inquinarono per molti anni il corretto funzionamento di un’economia di
mercato.
6. LA CHIAVE DEL SUCCESSO
- si richiama lo schema concorrenziale in cui nuove imprese entrano sul mercato e con la loro
offerta creano nuova occupazione nuova domanda sul mercato che acquisisce la maggior offerta. I
profitti fluiscono e si reinvestono. E’ uno schema di crescita dal basso in cui gli “animal spirits” si
liberano e trovano un ambiente favorevole ad esplicarsi. Gli anni 50’ e i primi anni 60’ hanno
rappresentato questo schema. Per la prima volta l’economia italiana rimase a lungo senza
protezioni ne’ le cercò.
Il contrario può accadere in un contesto oligopolistico in cui l’orientamento è il profitto o lo
sfruttamento della posizione di rendita. Non certo la crescita e lo sviluppo dell’occupazione.
- negli anni 51 – 61 le imprese con meno di 100 addetti passarono da 137mila a 200mila e
crearono più di un milione e centomila posti di lavoro su un totale di un milione e mezzo. Le
imprese piccole crebbero come dimensione tanto che nel 61 non c’era grande differenza con la
Germania, differenza che riapparse netta nel 71 e continuò ad ampliarsi fino ad oggi (la nostra
dimensione media ha continuato a declinare, quella tedesca a crescere).
- esempi di questo furono le aziende degli elettrodomestici bianchi (Candy, Ignis, Zanussi) che a
metà anni 60’ erano i maggiori produttori europei, poi disintegrate.
- negli anni 50’ e 60’ continua a diminuire il grado di monopolio (prezzo-costo marginale, diviso il
prezzo); a metà anni 60’ si mette a risalire e con esso i margini di profitto. Ma l’investimento non
segue la crescita del profitto, anzi tende a decrescere. Dove vanno i profitti?
- il ruolo delle partecipazioni statali negli anni del miracolo fu essenziale, come già detto. Le
aziende publiche sfruttarono la loro posizione spesso di monopolio in alcuni comparti per fare ampi
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profitti per investirli in progetti di crescita di lungo termine a cui i capitalisti privati, per rischio,
calcolo, o scarsità di mezzi finanziari, mai sarebbero arrivati. Con l’Ilva e l’ENI diventammo
indipendenti dall’estero per la siderurgia e per l’energia da petrolio, i prezzi di questi prodotti
scesero a tutto vanataggio delle industrie utilizzatrici, largamente private.
- quello che non si seppe fare fu adeguare il sistema normativo e bancario a questi mutamenti
dell’industria che richiedevano ricambi imprenditoriali, credito a buon mercato e fornito con criteri
lungimiranti anche per impegni di lungo periodo. La separazione tra banca commerciale e istituti di
credito speciale non fu opportuna perchè le prime non finanziavano gli impegni a lungo delle
imprese e i secondi, quasi tutti in mano pubblica (dei politici) erano più che altro enti che
distribuivano sussidi pubblici, incapaci di sostenere progetti di investimento di lungo corso, anche
rischiosi.
- da tenere presente che la concorrenza internazionale influenzava solo una parte dell’offerta di
beni, quelli esposti alla concorrenza (come ora d’altronde). Tanti beni e servizi (ad esempio le
banche) erano immuni dalla concorrenza e operavano in ambiti molto protetti con garanzia di
buone rendite, non doversamente da oggi.
7. IL CAPITALISMO ASSISTITO
- Gli squilibri prodotti dalla crescita furono affrontati dai governi di centro sinistra; ma questi governi
non affrontarono l’altro aspetto di rilievo che caratterizzò gli anni del miracolo, quello che un
piccolo gruppo di grandi dirigenti fece, di avviare lo sviluppo su solide basi di concorrenza sui
mercati spingendo sugli animal spirits.
- la lotta agli squilibri sociali, giustissima di per sé, minò la capacità delle imprese pubbliche di
produrre progetti industriali competitivi e l’orientamento concorrenziale delle imprese private; le
quali incominciarono a chiedere favori, protezioni, finanziamenti agevolati, a cercare posizioni di
rendita.
- dopo il miracolo inizia questa nuova fase dell’economia italiana del capitalismo assistito in cui si
ricrearono condizioni distorsive della concorrenza per le imprese private e in cui le partecipazioni
statali furono sottoposte ad uno stretto controllo politico che elimino alla radice ogni loro capacità
autonoma progettuale e manageriale.
- nel capitalismo assistito la protezione alle imprese è fatta di agevolazioni fiscali e creditizie, di
aiuti pubblici diretti (raggiunsero nel 1970 il 3,5% del PIL, il 6% del valore aggiunto dell’industria).
La politica monetaria aggiunse un’altra protezione dalla concorrenza estera: la pratica della
svalutazione che si stima dette un vantaggio all’industria, tra il 1970 e il 1980 dell’ordine di un 15%
(Figura 2). Solo agli inizi degli anni 80’ si tentò di porre un freno a questa pratica, passate le due
grandi crisi petrolifere del 71 e del 79.
8. LA SVOLTA DI CIAMPI E LA STABILIZZAZIONE INCOMPIUTA
- le crisi petrolifere produssero una contrazione dell’economia reale e lasciarono una situazione di
altissima inflazione (22% nel 1980). L’economia italiana nel 78 uscì da un regime di cambi flessibili
ed entrò in un accordo monetario europeo (SME) di cambi stabili. Il governatore Ciampi tentò di
domare l’inflazione con forti restrizioni monetarie, in qualche modo riandando all’esempio di
Einaudi del dopoguerra. Anche il suo rifiuto a svalutazioni andava nella stessa direzione. Voleva
obbligare le imprese da un lato a ristrutturarsi per vincere la concorrenza non la svalutazione ma
con nuovi investimenti che aumentassero la produttività dell’economia, dall’altro a resistere alle
pressioni salariali dei sindacati.
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- con la nuova politica del cambio rigido, anche se aggiustamenti ve ne furono perchè l’inflazione
italiana rimaneva più alta dei concorrenti europei, si rispose con una politica di aumento della
produttività; anche il tasso di interesse alto obbligava le imprese a selezionare i progetti migliori. In
dieci anni (70 – 80) il prodotto per addetto aumenta del 50% con crescita dei profitti. Questo
recupero di produttività non fu però sufficiente a contrastare il cambio fisso e la competitività delle
imprese all’estero si deteriorò fino alla catarsi del 1992. L’aspetto problematico dei questa politica
fu l’aumento della disoccupazione.
- l’inflazione pur bassa restava superiore a quella degli altri paesi; i servizi e i beni non soggetti a
concorrenza tenevano alta l’inflazione. Sul versante della finanza pubblica le cose andarono
tuttavia peggiorando. Nel decennio le spese crebbero più delle tasse e gli alti tassi di interesse che
si pagavano sul debito aiutarono a far crescere il deficit e il debito fino a oltre il 100% del PIL dal
60% dell’inizio degli anni 80’. A questa situazione contribuirono fortemente l’evasione fiscale e la
corruzione che aumentava la spesa pubblica ben al di là del valore dei servizi erogati o delle opere
realizzate.
- nonostante i propositi della Banca d’Italia, non sostenuta dai governi della repubblica, nel 1992,
con il rischio di default del debito pubblico italiano, si arrivò a ripristinare il protezionismo
monetario. Negli stessi anni Germania e Francia perseguirono nella politica di crescita della
produttività delle loro imprese che portò al rafforzamento delle rispettive monete modificando a loro
favore i rapporti di scambio con le merci di provenienza esterna. In altre parole si arricchirono.
L’Italia si impoverì.
9. DALLA CRISI ALLA LIRA NELL’EURO
- la crisi del 92 fu il punto di svolta. La forte svalutazione che ne seguì venne accompagnata da
una manovra restrittiva di finanza pubblica (taglio di spese e aumento di tasse) di dimensioni mai
viste prima. Il PIL fermò la sua crescita. Ciampi divenne presidente del consiglio e avvio una
politica di concertazione tra le parti sociali che inizio un decennio di bassa crescita salariale che
consentì di abbattere fortemente l’inflazione nonostante la spinta opposta della svalutazione della
lira.
- in pochi anni si raddrizzarono i conti dissestati: cessò la corruzione, aumentarono le tasse, si
iniziò a ridurre l’evasione fiscale, si ridussero alcune componenti di spesa. In otto anni il saldo
primario del bilancio crebbe di 8 punti percentuali, di cui sette tra il 1993 e il 1996. Questa manovra
di aggiustamento fece perdere 3,3 punti percentuali di PIL tra il 92 e il 95. Con un altro punto di
aggiustamento di saldo primario si riuscì a entrare nell’accordo per la moneta unica a fine 1998. I
tassi di interesse presero a scendere liberando risorse dal bilancio pubblico consentendo di
sotenere la politica di finanziamento degli investimenti che già dal 94 ebbero a crescere più della
media europea.
- ma tra il 1998 e il 2000 l’economia italiana incominciò a crescere meno degli altri paesi europei
accumulando un gap di 3,8 punti percentuali a causa della progressiva caduta delle esportazioni.
Con la moneta unica la nostra inflazione rimase più alta dei paesi concorrenti, nonostante i salari
fermi e i profitti elevati. Le nostre imprese anche sui mercati internazionali mantennero alti i prezzi
per preservare gli elevati margini di profitto che si stavano guadagnando. Infatti gli indici di
competitività, misurati sui salari, restarono elevati. L’effetto fu una caduta delle quantità vendute.
Le importazioni tuttavia continuano a crescere. Si formano le premesse per una politica di
riaggiustamento che non può più ora basarsi sulla svalutazione.
10. IL MADE IN ITALY E I DISTRETTI INDUSTRIALI:UN NUOVO MIRACOLO
- i distretti si riconoscono nelle statistiche a partire dagli anni 70’. In parte nascono come effetto
della politica di decentramento delle grandi imprese per sottrarsi alla conflittualità del sindacato. In
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parte si assiste ad una evoluzione della domanda interna e mondiale in alcuni comparti specifici
verso la diversificazione e la personalizzazione del prodotto. I settori a favore dei quali questo
avviene sono quelli dell’arredo casa, della meccanica strumentale, del sistema moda. Per ragioni
storiche, talvolta anche lontane, l’Italia si viene a trovare in una situazione di vantaggio
competitivo. Piccole imprese addensate localmente i distretti, al’interno dei quali si svolgono tutte
le fasi della filiera e pure si diversifica e si personalizza il prodotto, crescono di numero a partire
dagli anni 70’ fino a coprire il 30% dell’occupazione manifatturiera. Il numero di distretti, da nuclei
preesistenti o da fenomeni di spin off, cresce del 50% alla fine degli anni 80’. Il successo è
evidente nelle esportazioni. Le imprese dei distretti collocano all’estero tra il 50% al 70% del loro
fatturato dando un contributo fino al 70% di copertura valutaria al nostro fabbisogno di importazioni
petrolifere.
- ma i distretti rimangono una organizzazione fragile, aleatoria, seppure dinamicissima e molto
elastica. Forse non era questa l’attesa dei grandi riformatori degli anni 50’. Con il capitalismo
assistito le grandi imprese entrano in crisi e abbandonano il loro ruolo storico di far crescere
l’innovazione e di creare stabilità. Le piccole si inseriscono nelle nicchie lasciate libere dal ritrarsi
delle grandi, sia in Italia che all’estero. La struttura produttiva italiana, ancora spinta dalle
esportazioni, si rafforza sul made in Italy che solo le piccole imprese sanno fare bene. Sui mercati
delle grandi imprese la presenza italiana sparisce.
- il distretto potrebbe esser considerato come una media impresa organizzata per unità produttive
separate ma interagenti. Ma a differenza dell’unica impresa il distretto non sa crescere o almeno
non presenta al suo interno un meccanismo di crescita endogena, non sa produrre conoscenze
che diventino un patrimonio trasferibile e stratificabile nel tempo. L’innovazione nel distretto essa è
di tipo incrementale, di miglioramento; le innovazioni vere, quelle incorporate negli impianti, si
acquisiscono per lo più da altre imprese, anche dall’estero.
- un’economia solo basata sui distretti è un’economia monca; i distretti a volte sono un artificio
della storia che possono aver bcreato certamente produttori ricchi che investendo i guadagni
accumulati in impieghi sicuri, senza rischio, di rendita, potranno far vivere comodamente la loro
figliolanza per alcune generazioni future. Non investono più, questi nuovi ricchi, rinunciano al ruolo
di imprenditori (il passaggio generazionale lo sta evidenziando con cruda nettezza).
11. IL DECLINO INDUSTRIALE
- l’economia italiana cresce sempre meno. Negli anni 90’ il tasso medio di crescita è dell’1,6%. Il
tasso potenziale dell’1,7%. Anche il reddito pro capite ha lo stesso andamento. Il suo andamento
dipende da quello della produttività e da quante persone sono occupate sul totale delle persone in
età di lavoro. Le persone occupate sono poche rispetto agli altri paesi. La produttività per ora
lavorata è invece altissima ma il suo ritmo di crescita ha dimostrato una caduta sensibilissima negli
anni 90’ rispetto ai nostri concorrenti (Tabella 2). E’ questo il segno più evidente del nostro declino.
- la bassa crescita della produttività è legata alle dimensioni piccole delle imprese e nelle piccole
imprese il costo per unità di prodotto risulta anche più elevato. Negli anni 70’ i rapporti erano
invertiti. Finita la fase del decentramento e sfruttati i vantaggi statici delle piccole imprese la
produttività delle grandi inizia a sopravanzare quella delle piccole con un tasso doppio rispetto a
quella delle piccole. Ma noi ormai ci siamo specializzati nel made in Italy in cui abbiamo solo
imprese medio – piccole. Ora di fronte alla concorrenza cinese non si sa come rispondere. E il
problema è essenzialmente italiano, non europeo.
- all’inefficienza dell’industria si sommano le inefficienze delle infrastrutture (trasporti,
comunicazioni) alla congestione del territorio (nord-est), al non funzionamento del fisco. Se gli
imprenditori non avessero evaso come han fatto nel passato ci saremmo evitati i drastici
risanamenti della finanza pubblica che hanno costretto ad azzerare gli investimenti pubblici. Le
piccole imprese sono più restie ad adottare le tecnologie a rete perchè risultano molto costose. Le
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famose economie esterne di distretto sembrano esser state completamente sfruttate. Per la
dimensione piccola le imprese non sanno cogliere quei guadagni di produttività agguantabili solo
con la grande dimensione.
- va ricordato che nei settori dove abbiamo vantaggi competitivi in altri paesi ci sono grandi
imprese che dominano i mercati mondiali e esibiscono guadagni di produttività alti.
- sulle esportazioni stiamo perdendo rapidamente; nel 1995,dopo la svalutazione eravamo a 105
su una base 100 del 1988 come quota sul commercio mondiale. Nel 2002 siamo a 80 mentre le
quote di Francia e Germania sono calate di pochissimo. La scarsa crescita della produttività e la
crescita dei salari orari, inferiore a Francia e Germania, hanno comunque peggiorato la
competitività di prezzo delle nostre esportazioni (Figura 3). Le nostre esportazioni si concentrano
dove la domanda cresce poco e il valore aggiunto è basso. Subiamo in toto la concorrenza di
paesi come la Cina. Ma la nostra quota di esportazioni è caduta sia in Francia che in Germania
proprio nei nostri settori tradizionali. Francesi e tedeschi incominciano a fare meglio di noi, con
prezzi più competitivi o con qualità migliore nei nostri comparti di specializzazione (Tabella 4).
12. MIRACOLO, DECLINO, CONCORRENZA
- La chiave del successo italiano negli anni dl miracolo fu l’orientamento dell’industria italiana alla
concorrenza, allo smantellamento della protezione esterna, all’uso di imprese pubbliche
competitive.
- ora l’industria è in declino; ha abbandonato i settori dove i guadagni di produttività sono più
elevati, si è rimpicciolita e si è concentrata in settori in cui è forte le concorrenza dei nuovi arrivati.
- allora c’erano bassi salari e abbondante manodopera; ora i salari restano bassi, rispetto ai nostri
concorrenti, e abbiamo ancora abbondanza di manodopera perchè occupiamo un sacco di
immigrati che paghiamo un po’ meno rispetto al lavoratore italiano.
- la differenza la fa l’attitudine alla concorrenza e a vincerla con innovazioni di processo e di
prodotto; e questo vale anche per i sistemi di piccola impresa. La spesa per ricerca e sviluppo è
bassissima; il mark up resta molto elevato. I guai italiano si riassumono con il dire che l’impresa
italiana si è trovata a subire una concorrenza nuova con nessuna propensione competitiva.
- è questa la differenza con gli anni del miracolo. Finito il quale riemerse la vocazione italiana della
ricerca di posizioni di rendita; negli anni 90’ accade un po’ la stessa cosa con la privatizzazione
delle public utilities; le maggiori imprese italiane vi si gettarono sopra abbandonando i loro settori di
riferimento cercando protezione sicura per i loro patrimoni accumulati nel tempo.
- d’altronde le ripetute svalutazioni del passato avevano convinto le imprese che la competizione
fosse sul prezzo, non sulla qualità; la svalutazione del 92 dà fiato a una struttura produttiva già
sbagliata perchè orientata a produzioni la cui domanda cresceva poco, con scarso valore aggiunto
e con tante piccole imprese che non volevano né vogliono crescere. All’origine del declino c’e’
quindi una storia di protezionismi mai risolta. La nuova classe politica che si è affacciata di recente
al governo del paese, sostenuta ampiamente dal ceto imprenditoriale, con i provvedimenti assunti
ha abbassato il tono concorrenziale dell’economia (falso in bilancio che allontana dalla borsa
valori, condoni fiscali che premiano l’evasione passata e incentivano quella futura, riforma della
giustizia che allenta le maglie del rigore, ...). D’altronde tutto cio’ è coerente con la storia
imprenditoriale dell’attuale presidente del consiglio che con le rendite e con i mercati protetti ha
creato la sua fortuna economica.
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