L’ ISLAM E L’OCCIDENTE a cura di Gino Ragozzino La culla dell’Islàm L a culla dell’Islàm Com’è noto, culla dell’Islàm fu la penisola arabica. Protendendosi tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, questa vasta regione (3.000.000 di Km2 ca) costituisce nel Continente Antico un passaggio o, piuttosto, un ostacolo naturale tra l’Oriente e l’Occidente. Paese arroventato, nel quale però di notte il termometro scende sotto lo zero, terra arida, dove però all’improvviso la pioggia si scatena a nubifragio, ogni cosa vi è rigida e angolosa: meteorologia, colori del paesaggio, carattere degli abitanti, la loro costituzione fisica, asciutta e nervosa; perfino la loro lingua, povera di vocali, irta di gutturali. L’ambiente geografico educa l’uomo alle posizioni nette, estreme, ignare di sfumature. Ieri, come in gran parte ancora oggi, le occupazioni principali delle popolazioni erano la pastorizia e i traffici carovanieri da un punto all’altro del deserto. 3 Gli avvenimenti storici che diedero origine all’Islàm si svilupparono principalmente nella regione chiamata Higia–z (= barriera di monti), situata tra il Mar Rosso e l’altopiano del Nagid. I principali centri abitati erano Yatrib, chiamata poi Medina, La Mecca e Ta’if. C’erano inoltre nuclei abitati in alcuni punti della costa e nelle oasi a nord di Yatrib. Intorno a questi centri di sedentari vagavano i Beduini, i figli del deserto, trasmigranti per le aride steppe e le vaste distese sabbiose in cerca di scarsi pascoli e misere fonti, in perpetuo stato di guerra contro chiunque non appartenesse alla loro tribù. Gli stessi abitanti delle città conducevano una vita sociale che si riduceva alla cerchia della famiglia e della tribù. Il governo delle città si poggiava sull’equilibrio perennemente precario della convivenza delle varie tribù, ciascuna delle quali costituiva uno Stato a sé, con il proprio governo, con il proprio tribunale. L’etica sociale aveva come fulcri fondamentali l’inviolabilità dell’ospite, la fedeltà alla parola Caratteristici dell’Arabia sono i widyân, il cui alveo è normalmente asciutto, tranne che durante le brevi stagioni delle piogge La culla dell’Islàm data, l’implacabilità della vendetta per il sangue sparso. Prima della predicazione di Maometto, quelle popolazioni professavano un politeismo misto ad elementi animistici (culto di fonti, di alberi, di pietre), demonistici (spiritelli, ginn, presenti un po’ dovunque) e avevano vaghe cognizioni della sopravvivenza dell’anima di là dalla morte. Il pantheon, assai vario e numeroso, non era comune a tutte le tribù, ciascuna delle quali aveva le proprie divinità protettrici con i relativi santuari. Alcuni di questi erano meta di pellegrinaggio e luoghi di culto anche al di fuori della tribù per altri gruppi etnici dell’Arabia. Le antiche divinità arabe erano di varia origine e natura; ma tra esse prevalevano quelle astrali. Fra tutte andava emergendo, per l’importanza comune che aveva in varie tribù, la figura di All a–h, dio maschile celeste. Accanto ad Alla–h, le varie tribù conservavano comunque anche il culto tradizionale degli altri dèi, ovvero, come dirà 5 poi il Corano, esse “associavano” al culto di Alla–h altri esseri divini. Le divinità “associate” più diffuse erano femminili, e si riteneva che esse si manifestassero in corpi celesti. Così All a–t, la “dea” per eccellenza, si significava nel Sole, al-’Uzza–, la “gloriosissima, nel pianeta Venere, al-Mana–t, la dea del destino, forse nella Luna. I Meccani denominavano queste dee “figlie di Alla–h”, probabilmente non per indicare vera e propria filiazione, ma solo rapporto di affinità e di subordinazione al dio celeste. Generalmente le divinità arabe antiche erano adorate sotto forma di pietre, di varie dimensioni e figure, o stele o piccoli obelischi, i quali, piuttosto che rappresentare il dio, erano creduti essere pervasi dal suo spirito, essere segno del luogo ove egli volentieri scendeva ad accogliere la venerazione, l’offerta e la preghiera dei fedeli. Erano luogo e oggetto di venerazione anche alberi piantati in recinti sacri, molte fonti, che spesso furono il primo nucleo di santuari, e certe grotte ritenute 6 sacre. Il più famoso dei santuari era quello della Ka’ba, alla Mecca. Il santuario consisteva in una piccola superficie quadrangolare, recintata da un muro. Centro del culto era la così detta “Pietra Nera”, incastonata in un angolo del muro perimetrale; ma nell’area sacra erano ospitati anche i simboli di altre divinità, sì che il santuario aveva una importanza pressoché panaraba. Nei recinti che circondavano i santuari era risparmiata la vita ad ogni uomo e agli animali; le stesse piante erano al sicuro da qualsiasi mano- missione. I santuari erano deserti per la maggior parte dell’anno; soltanto in primavera e in autunno le tribù vi si adunavano per celebrarvi riti religiosi. I partecipanti dovevano sottoporsi a purificazioni ed astinenze rituali per assumere su di sé uno stato di sacralità. Non vi era sacerdozio vero e proprio, ma vi erano dei servi del santuario, che ereditavano e svolgevano i diversi uffici. Il sangue degli animali sacrificati, talvolta anche libazioni di latte, erano offerti sull’idolo oppure in una buca ai suoi piedi. 7 M aometto non fu in Arabia l’«inventore» del monoteismo Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, Maometto non fu in Arabia l’«inventore» del monoteismo. Al suo tempo e prima ancora non pochi arabi dell’Higia–z, senza essere né cristiani né ebrei, professavano fede nella esistenza di Dio uno e unico e si davano a pratiche ascetiche. Questi uomini sono denominati hanı-f, termine che poi nel Corano passerà ad indicare il praticante della “pura religione”, in contrasto con il politeismo. Essi non facevano mistero della loro fede, ma avevano poco seguito. Infatti la loro predicazione era confusa dalla gente comune con le curiose esibizioni dei ka–hin, indovini, con i deliri dei maginu–n, posseduti, con le magniloquenti tirate degli sha–’ir, poeti, che insieme frequentavano i mercati e le fiere propalando stranezze d’ogni genere. Sicché le idee monoteistiche, pur essendo presenti e professate, vivacchiavano prive di ogni vigore organico e risultavano incapaci di suscitare una rivoluzione contro l’imperante politeismo. Comunque la presenza degli hanı-f costituisce un fenomeno che va spiegato. Cosa non difficile, se si tiene presente che l’Arabia confinava a nord con il cristiano Impero Bizantino e nella zona di confine contava non pochi gruppi arabi che avevano abbracciato il Cristianesimo. Questo inoltre era la religione dominante in Egitto e in Abissinia, regioni con le quali gli Arabi avevano fitti rapporti commerciali. Inoltre il monoteismo era professato a sud, nello Yemen, da robuste comunità ebraiche. Ma comunità ebraiche ed elementi cristiani erano presenti nello stesso Higia–z. Una serie di oasi, da Taima– a Yatrib, ospitavano da tempo una numerosa popolazione giudaica, economicamente fiorente e religiosamente fedele alle proprie tradizioni. Questi ebrei erano di lingua araba (si conservano poesie di autori ebrei in lingua e stile Tipo arabo nel costume nazionale Maometto non fu in Arabia l’«inventore» del monoteismo arabo) ma conservavano ed usavano il testo ebraico originale della Torah. A Medina, e probabilmente un po’ dovunque, avevano sinagoghe. Il Cristianesimo in Arabia invece non era ortodosso. Era infatti prevalentemente o monofisita o nestoriano. I monofisiti attribuivano a Gesù Cristo la sola natura divina, negandogli quella umana. I nestoriani vedevano invece in Cristo la natura divina e quella umana, ma l’una separata dall’altra, in due persone distinte e sostenevano che Maria è madre solo del Cristo uomo. Oltre che dottrinalmente il Cristianesimo in Arabia era mal rappresentato anche sul piano sociale, culturale e talvolta anche sul piano morale. Alla Mecca confluivano numerosi schiavi abissini, di cui si faceva commercio. Pare che le famose truppe qurascite, che erano dette aha–bı–sh e che ebbero molta importanza nella storia militare della Mecca, fossero composte unicamente di abissini, così come indicherebbe il loro nome. Schiavi o no, i cristiani erano inoltre piccoli artigiani o esercita- 9 vano professioni ritenute dagli Arabi umilianti e non proprie di uomini liberi, fra cui quella di flebotomo, di chirurgo, di fabbricante di protesi di denti, di nasi, ecc. Assai stimati dagli Arabi erano invece i monaci che conducevano vita solitaria nel deserto. Le laure, le loro dimore, erano spesso tappe preziose sulle vie carovaniere e punti di appoggio per gli accampamenti dei Beduini. È importante rilevare che nell’Higia–z ai tempi di Maometto era possibile che un arabo facesse esperienze della vita di una comunità ebraica; ma non gli era possibile accedere ad una comunità ecclesiale, per il semplice fatto che non v’era traccia di vita cristiana organizzata. A rendere conto del fenomeno degli hanı–f può infine valere il fatto che già prima di Maometto l’antica religione araba era in fase di decadenza: il rito, con la sua tipica tenacia, si conservava ancora nella sua interezza, ma la partecipazione spirituale dei fedeli si andava affievolendo. Non fa perciò meraviglia che alcuni uomini di pia 10 disposizione sentissero, in forma più o meno vaga, l’aspirazione verso una vita religiosa incentrata nella fede in un solo Dio e che tendessero ad indicarlo col nome di Alla–h, ovvero con l’appellativo col quale giudei e cristiani di lingua araba indicavano Dio creatore e signore dell’universo. L’originalità di Maometto consisterà nella coerenza con la quale egli saprà inserire l’idea giudeo-cristiano di Alla–h entro un quadro genuinamente arabo, ispirato alla tradizione nazionale. Ceppo con iscrizione preislamica 11 I l Profeta In questo ambiente socio-religioso, tra il 570 e –l-Ka–sim ibn ’Abdil 580, alla Mecca nacque Abu Alla–h, detto Muhammad, “il glorificato”. In Occidente il nome arabo sarà poi latinizzato in Maometto. Il bambino ebbe un’infanzia infelice e travagliata. Infatti nacque già orfano, poiché il padre, agiato commerciante della potente tribù dei Quraysh, morì durante un viaggio di affari, prima che la moglie, Amina, lo mettesse alla luce. Per ordine del nonno paterno ’Abd-al-Muttalib, il neonato venne affidato a una balia; era infatti consuetudine che i figli degli abitanti agiati della Mecca venissero allattati da balie appartenenti a famiglie di pastori nomadi della tribù dei Bakr. A sei anni, il bambino perdé anche la madre; a otto pianse la morte del nonno paterno. Dell’orfano si – Ta–lib, che assai prese cura allora uno zio, Abu pre sto lo ingaggiò, ancora adolescente, nelle carovane commerciali dirette in Siria. È immaginabile che queste vicende dovettero incidere non poco sulla formazione del carattere e sul temperamento del futuro profeta dall’Islàm. Intorno ai venticinque anni di età, Maometto, che viveva in condizioni economiche ancora modeste, entrò al servizio di Khadigia, vedova di un ricco commerciante. Presto ne divenne l’uomo di fiducia; qualche anno più tardi la sposò. Il matrimonio fu per Maometto un momento decisivo. Per più motivi. Innanzi tutto gli diede come coniuge una donna che doveva essere dotata d’intelligenza e di volontà non comuni se, in un ambiente sociale che, come si vedrà più avanti, teneva in condizioni di assoluta inferiorità il sesso femminile, aveva assunto sopra di sé il carico e la re sponsabilità della condizione di un’azienda commerciale. Certo è che Maometto ne ebbe sempre una stima affettuosa e profonda. In secondo luogo, Maometto poté finalmente avere una posizione economica agiata, e ciò gli permise Veduta del centro storico della Mecca Il Profeta di dedicarsi ai problemi che, forse, gli covavano nella mente e nel cuore chissà da quanto. Erano problemi che riguardavano la unicità di Dio, il senso della vita terrena, il destino ultimo dell’uomo. Certo è che dopo il matrimonio Maometto incominciò a raccogliersi in meditazione in luoghi solitari, intorno alla Mecca. Una notte – oggi i musulmani la dicono “la Notte del Decreto” – si addormentò in una caverna ai piedi del monte Hira– e in sogno ebbe una visione. Qui conviene lasciare la parola al biografo Ibn Hisha–n, che ci dà il più antico racconto dell’evento: «Una notte, mentre ero addormentato, venne (l’angelo) Gabriele con un panno di broccato sul quale c’era qualcosa di scritto e mi disse: «Leggi!». Risposi: «Che devo leggere?». Allora mi strinse col panno in modo tale che credetti fosse la morte. Poi mi lasciò andare e disse: «Leggi!». Questa scena si ripetè due volte e infine Maometto disse: «Che è ciò che debbo leggere?». Allora Gabriele recitò ciò che oggi si legge nel 13 Corano nei primi cinque versetti del capitolo (su–ra) 93: «Per la mattina avanzata e per la notte quando s’abbuia! Il tuo Signore non ti ha trascurato, né ti odia. In verità, la vita avvenire sarà, per te, migliore della presente, e il tuo Signore ti darà una ricompensa, di cui sarai soddisfatto». Poi Gabriele se n’andò, ed io mi svegliai dal sonno, ed era come se quelle parole mi si fossero impresse nel cuore. Uscii e, quando fui in mezzo al monte, udii una voce dal cielo che diceva: «O Maometto, –h, e io sono Gabriele». tu sei l’inviato di Alla Alla prima visione ne seguirono altre, e Maometto le considerò rivelazione attraverso la quale Alla–h gli affidava la missione profetica. Riferendo ai parenti e agli amici ciò che gli viene dettato nelle visioni, ci terrà a distinguersi subito dai soliti esaltati (maginu–n) e dai soliti poeti (sha–’ir) che davano spettacolo di sé nei mercati e nelle fiere: «Questa non è la parola d’un poeta, – quanto poco voi credete! – questa non è la parola d’un 14 indovino, – quanto poco voi riflettete! – questa è una rivelazione, da parte del Signore delle creature». (Corano, 69, 41-43) Nulla autorizza a dubitare della buona fede di questa convinzione. Il primo a credere nella propria missione fu certamente lo stesso Maometto. D’altronde, in generale, non si può essere trascinatori di masse, se non si crede nella autenticità del proprio compito. Quando si passa a considerare la personalità di Maometto, non è facile destreggiarsi obiettivamente tra il cumulo di accuse dei più antichi critici cristiani e le non troppo convincenti apologie di certi scrittori musulmani. Lo studio scientifico delle fonti non ha fatto ancora sufficienti progressi, sì da permetterci di distinguere con sicurezza l’antica tradizione geuina dalle aggiunte più tarde. Giacché, bisogna ammetterlo, la figura storica di Maometto ha molto sofAgiato mercante arabo nella sua casa Il Profeta ferto anche per il miscuglio di banalità che su di essa hanno ammesso le successive generazioni di musulmani. Tuttavia, anche nella massa dei particolari fantastici, risaltano una benignità profondamente sentita, una spiccata simpatia per i deboli, una gentilezza che raramente si mutava in collera, salvo quando gli sembrava che si offendesse Dio, un pizzico di timidezza nei rapporti personali con gli altri e persino un bagliore di umorismo: doti tutte che contrastavano con il temperamento e lo spirito prevalenti del suo tempo e dei suoi primi seguaci e che, perciò, altro non possono essere che un riflesso dell’uomo reale. Fin dal primo momento Maometto fu alieno dall’idea d’essere mandato a fondare una nuova religione. Egli si presentava semplicemente come un nadı-r, un ammonitore, il primo inviato al suo popolo: «Avverti dunque. Tu sei solo uno che avverte Tu non hai autorità sopra di essi. Se non che chi avrà volto le spalle e non avrà creduto, 15 Dio infliggerà loro il più grave castigo». (Corano, 88, 21-24) Come ammonitore, egli ha la missione di dare al suo popolo una rivelazione scritta, così come la posseggono ebrei e cristiani. Ecco, il “Libro Celeste”, che fu già rivelato ad ebrei e cristiani, ora viene comunicato agli Arabi in “chiara lingua araba”: «Perciò noi lo abbiamo reso di facile intelligenza, nella tua lingua, affinché essi riflettano» (Corano 44, 58). Gli ebrei designavano sprezzantemente gli Arabi col nome di “illetterati”, volendo dire che questi erano in condizioni di inferiorità, perché non avevano un proprio kita–b o Libro rivelato. Ora gli Arabi non hanno più motivo di vergognarsi: per la rivelazione che ricevono attraverso Maometto, anch’essi entrano a far parte della “Gente del Libro”. Non v’è che un’unica “rivelazione”. Essa si manifestò nel passato per mezzo di Abramo, Mosé, Aronne, Giona, Lot e Gesù. Oggi essa si apre anche agli Arabi e si conclude definitivamente per mezzo di Maometto. Maometto riceve dall’angelo Gabriele una recitazione del Corano (miniatura turca) 17 I temi fondamentali dell’ultima “rivelazione” Fin dal principio la rivelazione ricevuta da Maometto e da questi ripetuta testualmente ai suoi “compagni” ebbe tre punti basilari: la unicità di Dio, la resurrezione dei corpi, il giudizio universale finale. a – Unicità di Dio: «Nel nome di Dio, misericordioso e compassionevole. Dici: Egli, Dio, è uno, Dio l’eterno. Egli non ha generato, né è stato generato. E non v’è alcuno uguale a lui». (Corano, 112) b – Resurrezione dei corpi: «Quando le anime verranno ricongiunte ai corpi, […] quando le pagine delle azioni umane verranno dispiegate, quando il cielo verrà rimosso, quando il giahı-m (l’inferno) verrà fatto avvampare, quando il paradiso verrà fatto avvicinare, ogni anima conoscerà ciò che avrà prodotto» (Corano 81, 7, 10-14) c – Giudizio universale finale: «L’ora percuotente! Che è l’ora percuotente? E che ti farà conoscere che cosa sia l’ora percuotente? Il giorno in cui gli uomini saranno come farfalle disperse, e le montagne saranno come lana tinta, cardata, allora colui, le cui bilance saranno cariche di opere buone avrà una vita piacevole. Quanto a colui, invece, le cui bilance saranno leggiere, avrà un baratro come dimora». (Corano 101, 1-6). 18 Questi messaggi, comunicati dall’angelo a Maometto e da Maometto prima in privato ai propri familiari e agli amici poi in pubblico, fecero inizialmente un certo numero di adepti. Fra coloro che ebbero l’onore di essere i primi le tradizioni annoverano Khadigia, Alì, cugino di Maometto, e Abu– Bakr suo futuro suocero. Invece Abu– Ta–lib non volle mai prestar fede al nipote. Chi accettò di “sottomettersi” (salima) alla signoria di Dio uno e unico fu detto muslim (musulmano) ovvero “colui che si sottomette”; consistendo essenzialmente nella sottomissione a Dio, la sua fede fu detta islàm, “sottomissione”. Il contrario di muslim è ka–fir, che vuol dire insieme “infedele” e “ingrato”. Idolo preislamico (Museo Archeologico di Roma) 19 L ’ ora della prova Benché Maometto li avvertisse del contrario, i meccani ritennero per un bel po’ che il loro conterraneo fosse null’altro che uno dei tanti posseduti, dei tanti indovini, dei tanti “poeti” che andavano in giro propalando mille stranezze. E perciò si limitarono a punzecchiarlo, soprattutto chiedendogli ironicamente quando sarebbe venuta la fine del mondo e quando il tanto minacciato giudizio finale. Ma a poco a poco la tenacia del Profeta e l’influsso che egli andava guadagnando sulle classi umili con le sue tirate contro i ricchi e i profittatori incominciarono ad impensierire i dirigenti della Mecca. Forse indifferenti all’aspetto strettamente religioso dell’agitazione, principiarono a sospettarvi aspirazioni di riforma sociale e di egemonia politica. In ogni caso il loro intuito di accorti mercanti Maometto trasmette ai suoi “compagni” la parola del Corano (miniatura turca) li portava a prevedere i danni che poteva causare ai loro interessi il discredito delle divinità venerate alla Ka’ba, il santuario che richiamava intorno a sé ogni anno folle di pellegrini e carovane ricche di merci. Il rigido sistema tribale voleva che ogni attentato contro un membro di qualche tribù obbligasse solidarmente tutti gli altri membri a difenderlo o a vendicarlo. Toccare la persona di Maometto, che poi apparteneva alla più potente tribù della città, avrebbe provocato un conflitto fune- 20 sto. Non restava che combatterlo con le armi del ridicolo e dell’assurdo, per dimostrare all’opinione pubblica che il preteso “profeta” era null’altro che un folle o un posseduto dai ginn. Maometto rispondeva che anche se avesse fatto miracoli, non gli avrebbero creduto. Il vero miracolo, egli diceva, stava nella grandezza delle verità che aveva la missione di trasmettere e nella incomparabile bellezza della parola che le esprimeva. Ma la sua era una lotta impari e logorante. Sicché nell’animo gli sopraggiunsero la stanchezza e lo sconforto, malgrado l’esortazione dell’angelo che così gli dettava: «Il tuo Signore non ti trovò, forse, orfano e ti ha raccolto? Non ti trovò traviato e ti ha guidato? Non ti trovò povero e ti ha arricchito?» (Corano 43, 6-8); «Segui dunque ciò che ti è stato rivelato e sii perseverante, La solitudine del Profeta è come tamerice nel deserto fino a che Dio abbia pronunziato il suo giudizio, perché Egli è il migliore dei giudici» (Corano 10, 109). A rendere più penosa la situazione intervenne prima la morte di Khadigia, poi quella di Abu– Ta–lib, che privarono Maometto di due saldi appoggi morali. Sì che il Profeta incominciò a pensare che non gli restasse che abbandonare la città natia e migrare altrove. 21 L a migrazione Ma l’emigrazione dalla città natia era un atto assai grave, perché comportava l’abbandono della propria tribù e, di conseguenza, anche la rinunzia ai diritti e alla protezione che la solidarietà tribale garantivano. Allora, sì, che Maometto si sarebbe trovato alla mercé dei suoi nemici, che avrebbero potuto impunemente anche ucciderlo, senza tirarsi addosso la ritorsione e la vendetta della solidarietà tribale. Ben consapevole della gravità della decisione, Maometto non agì di furia, non fuggì, come assai spesso ancor oggi si dice, ma ponderò ogni passo con estrema cautela e scelse con sapiente oculatezza la città dove trasferirsi. Infine la scelta cadde su Yatrib. Da tempo questa città si trovava in una situazione singolare. Essa infatti ospitava una numerosa e prospera colonia ebraica, che tuttavia costi- tuiva la minoranza della popolazione. Di contro le tribù arabe s’erano cacciate in una sanguinosa fratricida catena di offese e di vendette. Sì che, in pratica, la maggioranza araba, debole per la sua interna discordia, finiva con l’essere alla mercé della minoranza giudaica, compatta e concorde. Maometto, con pronto acume politico, colse i termini della situazione e si offrì alle tribù arabe come paciere, a condizione però che tutte riconoscessero in lui l’unica indiscussa autorità. Vi furono colloqui e trattative segrete tra i rappresentanti della città e Maometto, la cui fama lo raccomandava come possibile arbitro e capo. Infine fu concluso un patto, per il quale le tribù arabe di Medina rinunziavano al tradizionale isolamento e costituivano un’unica comunità politica e rimettevano ogni facoltà e potere nelle mani di Maometto. Ciascuno dei gruppi costituenti la comunità conservava la propria identità etnica e le proprie credenze religiose; ma tutti dovevano contribuire alla difesa e avevano diritto 22 ad essere protetti dagli altri. Tutti si rimettevano all’autorità di Maometto, che giudicava in definitiva istanza. Con questo patto Maometto modificava la legge del deserto e fondava una comunità sopratribale, all’interno della quale si stabilivano rapporti analoghi a quelli della tribù o del clan. L’unificazione dei gruppi arabi, abituati da sem- Veduta attuale della città di Medina pre ad uno stato di semi-ostilità permanente, era un evento nuovo, che suscitava lo stupore dei Beduini. E li esaltava. Attraverso il Profeta, il Corano li esortava: «Attenetevi saldamente alla corda di Dio, tutti assieme, e non vi disperdete! Ricordate il dono che Dio v’ha fatto: eravate nemici, ed Egli unì i vostri cuori, sì che, per grazia sua, ora siete fratelli” (3, 98). La migrazione Preceduto dai suoi fedelissimi, che partirono alla spicciolata, nel settembre del 622 il Profeta lasciò la Mecca e si trasferì a Yatrib, che da allora fu chiamata Madı-nat al-Nabı-, la “Città del Profeta”, ovvero Medina. Operando all’interno della neonata comunità di Medina, i “compagni” del Profeta ottennero presto che gli arabi medinesi si sentissero uniti non solo politicamente, ma anche religiosamente nella comune fede in Dio Uno e Unico. Nacque così una comunità, la cui dimensione religiosa non è separabile da quella giuridica; una comunità che trova coesione nell’islàm ovvero nel fiducioso abbandono alla volontà di Dio. Ben a ragione i musulmani presero come data di inizio della loro èra l’anno 622, l’anno della migrazione (hı-gra, italiano ègira), perché proprio con l’emigrazione del Profeta dalla Mecca a Medina l’Islàm si definì come corpo religioso a sé stante, distinto e separato sia dall’Ebraismo sia dal Cristianesimo, pur ribadendo che con queste 23 religioni condivideva l’origine comune in Abramo. A Medina gli ebrei fecero notare a Maometto le differenze che v’erano fra il dettato della Bibbia e il dettato del Corano, e si burlarono di lui, come di un ignorante. Di contro, Maometto accusò ebrei e cristiani d’aver adulterato l’autentica rivelazione da essi ricevuta, si proclamò “restauratore” di quella rivelazione, e stabilì che l’orientamento (qibla) nel rito della preghiera non fosse più verso Gerusalemme, così come precedentemente aveva ordinato, ma verso La Mecca. Questa emancipazione soddisfaceva anche l’orgoglio nazionale degli Arabi. Fin da principio il Profeta aveva inteso dare alla nazione araba una “religione del Libro” che fosse pari in dignità a quelle degli ebrei e dei cristiani. Proclamandosi, ora restauratore della rivelazione e “suggello dei profeti”, faceva della propria nazione la portatrice d’un messaggio che concludeva e suggellava per sempre la storia stessa delle rivelazioni di Dio 24 all’umanità. Ciò non vuol dire che l’Islamismo assumesse un carattere strettamente nazionalistico; anzi bisogna riconoscere che neppure nei primi tempi esso escluse un’apertura universale a tutti gli uomini, di là dalle differenze di razza e di nazione. Resta tuttavia innegabile che la nazione araba ha sempre occupato nell’Islàm un posto di preminenza e di privilegiata nobiltà. Infine a Medina avvenne un fatto gravido di conseguenze per il futuro: Maometto si trovò ad essere il capo d’una comunità che era, insieme, e politica e religiosa. Questa coincidenza della sfera politico-sociale con quella religiosa resterà uno dei caratteri fondamentali dell’Islàm. La distinzione che il cristiano fa tra “ciò che appartiene a Cesare” e “ciò che appartiene a Dio” per il musulmano non ha senso alcuno. Antica pianta della moschea di Medina, che ingloba in sé i luoghi legati alla vita del Profeta (miniatura del «Libro dei pellegrini». Biblioteca Nazionale di Parigi) 25 L a comunità del Profeta La neonata comunità islamica fu indicata col nome di umma. Derivando da umm, che significa “madre”, questo nome evoca i legami di sangue, che vincolavano fra loro, un tempo, i membri di una stessa gente. Nella prospettiva cosmica, la nuova comunità, la ummat-al-Nabı-, la “comunità del Profeta” è la realizzazione completa e definitiva delle comunità che ciascun profeta, anteriore a Maometto, era stato incaricato di formare. Fin dai primi tempi la umma è aperta a tutti coloro che abbracciano l’islàm. Oggi la umma è costituita dall’insieme dei gruppi umani, a qualsiasi popolo o razza appartengano, che accolgono un principio unificante superiore ai legami del sangue, agli odi o alle attrattive naturali degli uomini. Questo principio superiore è la sottomissione alla legge di Dio, riconosciuto l’unico Signore. Ma, pure in questa apertura universale, la comunità isla- mica costituisce il “popolo eletto” in mezzo agli altri popoli. Il Corano infatti proclama: «Voi siete la migliore nazione che sia stata prodotta dagli uomini». (3. 106). La umma unisce fra loro i musulmani, ma contemporaneamente li separa da tutti gli altri uomini, perché, di fronte agli errori e alle impurità degli altri, essi hanno il privilegio di proclamare la unicità di Dio e la purezza della Sua legge. Appartenendo al popolo eletto, veridico e puro, i musulmani hanno una coscienza acuta di ciò che li rende differenti dagli altri. Nello stesso tempo, il legame giuridico della comunità alimenta, all’interno della stessa, un sentimento di unità di ordine affettivo. Anche se ignorante o scettico nel campo della dottrina e della legislazione islamica, il musulmano prova per gli altri musulmani un sentimento fraterno, che può divenire molto intenso e rendere assai viva la coscienza del legame religioso, che uniscce i musulmani in comunità coerente, ombrosa e perfino 26 aggressiva in faccia a tutti coloro che le sono estranei. Fortissimo all’interno della umma, il sentimento di fraternità del musulmano è, però, incapace di estendersi a tutti gli uomini. Il senso di separazione dagli altri è reso tangibile e più vivo dalla dimensione territoriale che tradizionalmente i musulmani attribuiscono alla loro religione. Il diritto musulmano considera il mondo come diviso in due parti: il da–r-al-islàm, ovvero “dimora dall’Islàm”, e il da–r-al-narb, “dimora di guerra”. I paesi, nei quali vige la legge coranica e che sono soggetti a governi musulmani, costituiscono il da–r-al-islàm; il resto è la terra degli “infedeli”, contro i quali i musulmani si trovano, teoricamente, in stato di guerra, finché tutto il mondo non abbia abbracciato l’Islàm. Maometto parla ai suoi guerrieri prima d’una battaglia contro gli idolatri meccani (miniatura turca) La comunità del Profeta Fin dai tempi più antichi, tuttavia, alcuni autori islamici introdussero una categoria intermedia, il da–r-al-sulh., ovvero “dimora del patto” o del trattato, per indicare paesi non musulmani tributari o alleati dell’Islàm. Il sentimento di fraternità, che unisce fra loro i musulmani, non esclude divergenze e discordie intestine, giacché queste, dicono i musulmani, sono permesse dalla misericordia al Dio, che ha pietà delle debolezze umane. La storia dimostra che l’Islàm ha conosciuto lotte politiche e dottrinali fin dall’inizio. Ci volle più di un secolo perché gli Arabi rinunziassero ai loro privilegi e ammettessero effettivamente l’uguaglianza politica di tutti i credenti. Le lotte intestine dei primi secoli indussero alcuni musulmani a suggerire un altro termine per designare la comunità. Questo termine è jama–’a, che significa “riunione”, assemblea. Esso vuole evocare una nozione più spirituale di quella espressa dal termine umma, che sembra restringersi al concetto di consanguineità. La jama–’a 27 designa l’insieme dei credenti in quanto “coscienti” della loro unità nella essenza del Messaggio divino e della Legge rivelata. Il vincolo, che unisce fra loro i musulmani, non è alcuna forma di partecipazione alla vita soprannaturale. È il Libro sacro, il Corano, tesoro inestimabile e insostituibile, del quale solidalmente è depositaria e custode la Comunità del Profeta. Il Corano è la prova tangibile dalla presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Attraverso il Corano, Dio insegna, ammaestra, ammonisce, guida, conforta, illumina. In una religione priva di sacramenti, qual è l’Islàm, il Corano è l’unico canale attraverso il quale un “qualcosa” che venga da Dio, si comunica all’uomo. Pertanto, per il musulmano il Corano è tutto. C’è anche una unità dogmatica alla base della vita della umma; ma si tratta di un vincolo dogmatico estremamente semplice, che si può così formulare: è musulmano e, quindi, fa parte della umma chiunque attesti pubblicamente la unicità di Dio e la missione profetica di Maometto, e si volga 28 verso la Mecca per pregare. Nessun musulmano può essere escluso dalla comunità, se conserva questa minima esigenza dogmatica, anche se egli appartenga ad una delle tante sètte, nata dalla discussione e dai disaccordi relativi alla successione del Profeta, anche se trascuri l’osservanza della legge di Dio, anche se, in fondo al cuore, nutra dubbi o sia scettico riguardo ai due articoli (unicità di Dio e missione profetica di Maometto) di cui si compone la shaha–da ovvero il “credo” del musulmano. Solo i peccatori pubblici, che turbano l’ordine sociale della comunità agendo contro la legge di Dio o insegnando modi di agire opposti alle osservanze esteriori, devono necessariamente essere espulsi dalla comunità. La loro espulsione si attua con l’esecuzione capitale; e contro di essi c’è la presunzione della dannazione eterna. Gli ebrei di Medina vengono cacciati dalla città dopo la costituzione della “comunità del Profeta” La comunità del Profeta Ma nessuno può lasciare la umma di propria volontà. Che un musulmano lasci volontariamente la comunità del Profeta, per aderire ad un’altra religione, è una eventualità che il mondo islamico si rifiuta di prendere in considerazione. L’apostata è assimilato al peccatore pubblico. Pertanto è reo di morte. Tuttavia, se in particolarissime circostanze la professione di fede islamica dovesse comportare grave pericolo, il musulmano può, secondo la legge, trovare rifugio nel “nascondimento” (kitma–n), nel segreto, che lo esime dall’adempiere i precetti religiosi in caso di forza maggiore o se si teme un danno considerevole. L’occultamento delle proprie convinzioni religiose per motivi di prudenza non è una innovazione tardiva della legislazione islamica. Infatti già il Corano proclama: 29 «Colui che non crede in Dio […] sarà punito, eccetto colui che sia stato costretto a ciò, ma il cui cuore riposi sicuro nella fede» (16, 108). Commentando questo passo, Al-Tabarı-, dottore musulmano del IX-X secolo, sentenzia che, se qualcuno si vede forzato a dichiararsi infedele e a rinnegare la sua fede con la lingua per liberarsi così del suo nemico, non v’è nulla da rimproverargli, purché il suo cuore si mantenga fermo nella verità; Dio guarda, infatti, alla fede del cuore. In sintesi, la umma è una comunità nella quale chiunque creda nella unicità di Dio e nella missione profetica di Maometto, può entrare; ma dalla quale nessuno è libero di uscire. Cavalieri arabi 31 I l combattimento nella via di Dio A Medina, Maometto ricevé dall’angelo la recitazione di due versetti del Corano, che dicono: «I miscredenti non cessano di combattervi per farvi apostatare dalla vostra religione, se ci riescono. Ora chi di voi apostaterà dalla sua religione, morendo infedele, vedrà rese vane, in questa vita e nell’altra le sue azioni […]. Coloro, invece, che credono, che emigrano e combattono nella via di Dio, costoro possono sperare nella misericordia di Dio, perdonatore e misericordioso». (2, 214-215). Maometto li intese come una approvazione del le operazioni militari che aveva intrapreso contro i meccani e come una esortazione a perseverare in essa. Con circa trecento dei suoi affrontò mille meccani presso i pozzi di Badr e vinse. Con il «miracolo di Badr» Alla–h confermava la missione di Maometto e scompigliava i piani dei miscredenti. D’ora in poi non bisognava più contare il loro numero. Cento musulmani potevano vincerne mille: «O profeta, incita i credenti al combattimento. Venti di voi, che siano perseveranti, vinceranno duecento miscredenti. Cento di voi vinceranno mille di quelli che non credono» (Corano 8, 66). Nasceva così il giha–d, il combattimento nella via di Dio, la guerra sacra, come uno dei doveri fondamentali della umma, impegnata a lottare perché sulla terra si estenda il rispetto dei diritti di Dio. Le più importanti disposizioni del Corano concernenti la guerra sacra risultano dai seguenti versetti: «Fate guerra per la causa di Dio a coloro che vi fanno guerra, ma non siate aggressori: Iddio non ama gli aggressori. Uccideteli dovunque li incontriate e cacciateli di donde vi hanno cacciati» (2, 190-191). «Combatteteli dunque, finché non vi sia più persecuzione e la fede in Dio sia libera. Se la 32 smettono, non vi sia ostilità che contro gli iniqui» (2, 193). «Dio difende i credenti. Dio non ama i traditori ingrati. Coloro che combattono perché è stato fatto loro torto, vi sono autorizzati, e Dio è ben capace di sostenerli. Coloro che sono stati costretti ad uscire dal loro paese senza alcun diritto, ma solo perché dicono: “Il nostro Signore è Iddio. – Ché se Iddio non contenesse gli uni per mezzo degli altri, quanti monasteri e chiese e sinagoghe e mo schee sarebbero distrutti in cui viene menzionato il nome del Signore! – Certamente Iddio assisterà chi Lo aiuta: Egli è forte e potente» (22, 38-40). Oggi soltanto alcune correnti estremiste dell’Islàm sostengono ancora lo stretto dovere del combattimento con le armi; la maggior parte dei riformisti contemporanei insegnano, invece, che Proclamazione della unicità di Dio e spada sguainata. Simboli dell’Islàm Il combattimento nella via di Dio basta rispondere con mezzi pacifici alla chiamata missionaria che impegna tutti i musulmani. Ma è da tutti riconosciuto che, se una terra musulmana viene attaccata dagli “infedeli” ovvero da una potenza non musulmana, tutti i credenti, donne e bambini compresi, hanno il dovere di rispondere secondo le proprie forze alla mobilitazione generale. In tal caso, tutti debbono essere volontari per il giha–d. Se il paese musulmano aggredito non è in grado di rispondere all’aggressione, è dovere dei paesi musulmani vicini di entrare in guerra contro l’aggressore. E, se anche questi paesi vengono sopraffatti, allora tutti i musulmani del mondo devono entrare in guerra contro il nemico comune. Tornando alla guerra intrapresa da Maometto contro gli idolatri meccani, va ricordato che essa si protrasse per circa sette anni con alterne vicende, ma complessivamente a favore dei musulmani. Nell’anno ottavo dall’ègira, 630, Maometto si presentò avanti alla Mecca con forze numerose e vi entrò quasi senza alcuna resistenza. La sua 33 entrata fu pacifica, perché egli non veniva a distruggere ma a dominare e a guadagnarsi con la magnanimità gli ostinati. Anzi lo fece a tal punto da suscitare il malumore dei “compagni” della prima ora. Ordinò soltanto di distruggere dentro e fuori la Ka’ba gli emblemi dell’idolatria e di uccidere alcuni meccani che riteneva particolarmente pericolosi. La vittoria gli fu favorita dalla saggezza con la quale seppe trattare con i capi meccani. Salvi restando i dogmi fondamentali della unicità di Dio, dalla resurrezione dei corpi, del giudizio universale, non pochi elementi della religiosità araba tradizionale venivano conservati: era stata accolta l’antica istituzione del pellegrinaggio alla Mecca e al monte Arafat, la quale veniva anzi ad occupare un posto d’onore fra i doveri del culto; la Ka’ba era diventata il centro spirituale della comunità islamica; antiche credenze popolari, come quella nei ginn, spiritelli in parte buoni e in parte cattivi, erano state islamizzate. 34 D ivisioni nell’Islàm: Sunniti e Sciiti Tornato a Medina, Maometto si dedicò ad ampliare la cerchia della sua autorità, mostrandosi terribile con gli ostinati e liberale con i sottomessi. La tendenza generale degli Arabi era quella di entrare a ingrossare le file dei musulmani; ma la qualità dei nuovi adepti non era più quella dei primi fedelissimi, né può dirsi che la convinzione religiosa fosse il motivo primo della loro adesione all’Islàm. Lo stesso Corano, del resto, testimonia: «Dicono i beduini: “noi crediamo”. Di’ loro: “voi non credete; dite piuttosto: abbiamo abbracciato l’islàm; poiché la fede non è ancora entrata nei vostri cuori”. (49, 14). L’anno decimo dell’egira, 632 dell’era cristiana, Maometto era appena tornato dal suo ultimo pellegrinaggio alla Mecca, pellegrinaggio che i musulmani oggi ricordano come quello “del con- gedo”, quando fu colto da febbre, da attacchi di delirio e, in breve, nel mese di giugno morì, senza aver lasciato alcuna disposizione circa il futuro governo della umma. Nel disordine e nello scompiglio generale che ne seguì, il cadavere rimase insepolto, contrariamente all’uso, per più di un giorno. Infine fu sepolto da pochi seguaci nella stessa casa, a porte sbarrate, di notte. E si scatenò tra i compagni e i parenti la lotta per il potere. Che il Profeta potesse avere un “successore” era, chiaramente cosa assurda; bisognava comun que designare un “vicario” (Khalı-fa) che prendesse le redini del governo. Che il “califfo” dovesse essere scelto tra i consanguinei del Profeta era un principio accettato da tutti. Si trattava comunque di decidere se fosse – Bakr, più opportuno affidare il governo ad Abu suocero di Maometto, oppure ad Alì, suo cugino e – Bakr; ma genero. Prevalse la candidatura di Abu Alì e il suo “partito” (shi’a) abbandonarono per protesta l’assemblea e si rifiutarono di riconoscere Divisioni nell’Islàm: Sunniti e Sciiti 35 – Bakr e, in seguito, dei suoi sucla nomina di Abu cessori. Solo nel 656 Alì poté ottenere il califfato; e fu il quarto califfo. Ma la legittimità della sua elezione fu sanguinosamente contestata. Infine –fa nel egli cadde assassinato nella moschea di Ku gennaio del 661, anno 40° dell’ègira. Le travagliatissime vicende che seguirono la morte di Maometto hanno provocato scissioni nel corpo dell’Islàm, non solo di natura politica, ma anche di prassi religiosa. Quando, infatti, con l’estendersi geografico della sua area, la umma si trovò a dover risolvere problemi di natura giuridicomorale non esplicitamente trattati nel Corano, ci si domandò che cosa, al suo tempo, avesse deciso, sentenziato, fatto, in circostanze analoghe il Profeta. Si cercò di ricostruirne la Sunna, ovvero il comportamento, nei detti e nei fatti. A tale scopo –d), si ricorse alla “catena delle testimonianze” (isna per arrivare fino al Profeta o almeno ad un persoMaometto e Abu– Bakr nella grotta (miniatura turca) Maometto sul letto di morte (miniatura turca) Divisioni nell’Islàm: Sunniti e Sciiti naggio che fosse direttamente o indirettamente testimone autorevole. Ora, nella catena dei testimoni spesso compaiono delle figure che la shi’a, i “partigiani di Alì”, ovvero gli Sciiti, non riconoscono per il semplice fatto che quei testimoni risultano essere stati i primi tre califfi ed i loro fautori, ovvero i nemici di Alì. Sicché la loro Sunna risulta meno ricca di «fatti» e di «detti» del Profeta di quanto non sia la Sunna riconosciuta da tutti gli altri musulmani. Questa differenza ha prodotto all’interno dell’Islàm, la distinzione tra Sunniti e Sciiti. Nella stragrande maggioranza, i musulmani sono sunniti. La loro Sunna si compone di alcune migliaia di “narrazioni” (had -ı th) di fatti e detti del Profeta. Quella degli sciiti è notevolmente più stringata. Sicché gli Sciiti finiscono con l’essere più Sunniti degli stessi Sunniti, nel senso che la maggiore ristrettezza della loro tradizione li induce ad essere più legittimisti degli altri musulmani. Ya Alì, l’ascia di Alì 37 38 Per esempio, essi non ammettono la dissimulazione delle convinzioni religiose che, in caso di grave pericolo personale, è ritenuta lecita dagli altri musulmani. L’ambiente di violenza e di repressione in cui è nata e si è sviluppata la Shi’a ha contribuito potentemente a fomentare in essa uno spirito aspro e ostile nelle sue relazioni con membri di altre confessioni religiose, sia musulmani che non musulmani. La turbolenza congenita degli sciiti ha dato luogo, nel corso dei secoli, a frequenti scissioni. Sarebbe lunga e complessa una rassegna, anche sommaria, delle sètte alla quali la shi’a ha dato origine. Maometto e Alì ripuliscono la Ka’ba dagli idoli 39 I l Corano Assai al di sopra della Sunna la fonte dottrinale primaria dell’Islàm è il Corano. Il nome Corano è la traduzione occidentale dell’arabo al-Qur’a–n che significa “recitazione” o “lettura recitata”, perché effettivamente secondo la dottrina islamica, esso contiene le proposizioni che, di volta in volta, l’angelo Gabriele recitò a Maometto, leggendo da un volume arcano, sublime e santo, ben conservato in Cielo, e che, a sua volta il Profeta recitò ai suoi compagni, a mano a mano che gli venivano dettati in “chiara lingua araba”. Pertanto il Corano è parola testuale di Dio. Di proprio, il Profeta non vi ha posto nulla. La sacralità del Corano comprende ogni sillaba del testo, tanto che il tollerare anche semplici errori materiali nella riproduzione manoscritta o stampata della lezione sarebbe offesa assai grave fatta al Libro. Il Corano si compone di 114 capitoli, detti sure; ciascuna sura consta di periodi più o meno lunghi, chiamati “versetti” (a–ya–t). Ciascuna sura ha un titolo proprio. La prima, per esempio, è detta “La aprente il Libro”, l’ultima è “La sura degli uomini”. È inutile cercare nella successione delle sure un ordine logico o tematico, giacché esso non v’è; la recitazione dei versetti da parte dell’angelo fu infatti intermittente e frammentaria, secondo una lo gica che si rifà alla insondabile sapienza di Dio e alla opportunità del mo mento, còlta dalla Sua mi se ricordiosa provvidenza. A mano a mano che venivano dal Profeta recitati ai compagni, i versetti furono da essi dapprima imparati a memoria e poi fissati per iscritto. So lo più tardi, durante il califfato di Abu– Bakr, si provvide a raccogliere tutti i passi del Corano conservati per iscritto o ricordati a memoria dai recitatori, così che niente del Libro andasse perduto. La numerazione dei versetti di ciascuna sura avvenne in un secondo momento, e non fu sempre seguito lo stesso ordine. Sì che 40 oggi è possibile trovarsi di fronte a redazioni che hanno numerazioni diverse. Nell’ordinare le sure fu invece seguito un ordine abbastanza concorde e uniforme nelle diverse re dazioni. Tranne la prima, che contiene una breve preghiera, si decise di disporle secondo la loro lunghezza, cominciando dalla più lunga e procedendo in ordine decrescente fino alle più brevi. Quest’ordine di successione rispondeva a certe abitudini proprie dal mondo semitico. È così, infatti, che i filologi iracheni dei secoli VIII e IX hanno sistemato le raccolte dell’antica poesia araba: dai passi più lunghi via via a quelli più brevi. Verso la metà dell’Ottocento gli orientalisti europei, appoggiandosi a criteri di evidenza interna, di stile, di lessico, di allusioni, cercarono di ricostruire l’ordine cronologico delle sure e distinsero le sure del periodo meccano da quelle del Frontespizio del Corano Il Corano periodo medinese. Ma è chiaro che questo lavorio storico-filologico non ha alcuna importanza per il fedele musulmano. I versetti coranici sono in massima parte in versi o in prosa rimata. Ciò ne favorisce la memorizzazione. Notevoli per il valore poetico sono le vigorose, immaginose, ardite descrizioni del giudizio universale, le commosse esaltazioni della bontà di Dio, le invettive contro i miscredenti e i disonesti. Non senza ragione i musulmani considerano il Corano, oltre che fonte primaria di dottrina e di diritto e guida di vita pratica, anche incomparabile monumento letterario. Con il Corano, infatti, nasce e si codifica la letteratura araba. Nei Paesi islamici la recitazione del Corano costituisce una vera arte, coltivata in scuole speciali e oggetto di studio da parte di molti autori. 41 “Masticato e rimasticato” continuamente in ogni occasione, il sacro testo incide profondamente sulla formazione spirituale e sulla mentalità del musulmano. Poiché il testo conserva intatta la propria sacralità solo nella “pura lingua araba” in cui fu originariamente dettato dall’angelo Gabriele, è in lingua araba che esso va recitato dal musulmano. Ciò spiega quell’aria comune di famiglia e quei vincoli di fratellanza che si osservano fra popoli musulmani anche di razza e di lingue diverse. La recitazione del Corano accompagna la vita giornaliera di ogni musulmano e solennizza gli atti più importanti della sua esistenza, dalla culla al sepolcro; in molti Paesi musulmani fa parte del programma radio e riscuote un alto indice di gradimento. Albero genealogico dei profeti e dei “santi” (disegno dell’Autore su schema islamico) 43 L a “storia sacra” nel Corano Nel Corano non v’è nulla che, in quanto a contenuto e struttura, corrisponda al Genesi della Bibbia. Chi voglia ricostruire una “storia sacra” del mondo e dell’uomo secondo il dettato coranico deve ricercare qua e là nel Libro i passi più significativi, per poi disporli in ordine logiconarrativo. Bisogna prendere le mosse dalla proclamazione della eternità e unicità di Dio, principio e fine ultimo di tutte le cose: «Egli è il primo e l’ultimo […] ed è l’onnipotente» (57, 3). Con l’onnipotenza del suo comando, Dio ha tratto dal nulla il cielo e la terra, le montagne e i fiumi, le piante e gli animali. Con l’onnipotenza della Sua parola ha tratto dal nulla gli angeli, della cui creazione però il Corano, come del resto anche la Bibbia, non fa esplicita narrazione. Un tempo Dio comunicò agli angeli la sua volontà di creare l’uomo e di farlo vicario (khalifa) amministratore della terra: «Il tuo Signore disse agli angeli: “in verità, io sto per costituire in terra un vicario”; gli angeli risposero: “costituirai su di essa uno che porterà corruzione su di essa e spargerà sangue, mentre noi celebriamo le tue lodi ed esaltiamo la tua santità?”. Dio rispose: “io, in verità, so ciò che voi non sapete”» (2, 28). Come si vede, gli angeli manifestano previsioni pessimistiche, forse anche un po’ invidiose, per la nuova creatura che deve venire. Ma, come sempre, anche questa volta i progetti di Dio restano insondabili dalle creature. Dio sa bene, senza che gli angeli glielo dicano, che la nuova creatura sarà fragile e, inevitabilmente, cadrà nell’errore e nel peccato. E tuttavia permane nella volontà di crearla e di farla khalı-fa, vicaria amministratrice della Terra. Ma, sapendone in anticipo la debolezza, la dota di una “rivelazione” innata, che la premunisca dall’idolatria e, comun- 44 que, non le lasci la scappatoia dell’ignoranza, quando vorrà scusarsi: «Il tuo Signore trasse dai lombi dei figli di Adamo la loro discendenza e li fece testimoniare contro se stessi, dicendo: “non sono io il vostro Signore?; essi risposero: “sì, lo attestiamo”. Ciò facemmo perché non aveste a dire, il giorno della risurrezione: “in verità, noi fummo incuranti di ciò, perché lo ignoravamo» (7, 171). Così Dio convoca alla propria presenza tutta l’umanità futura allo stato potenziale, e le fa testimoniare la verità fondamentale dell’Islàm, cioè che non v’è altra divinità al di fuori di Dio. Così Dio imprime nel singolo uomo la fitra, ovvero la religione innata, per effetto della quale ogni uomo nasce naturalmente credente, naturalmente muslim, ovvero musulmano per costituzione. Poi Dio procede alla creazione dell’uomo: ne plasma il corpo con la creta, e nel corpo «soffia del Suo spirito» (32,8), dandogli in tal modo la vita e le facoltà di udire, di vedere, di amare. Islàm e Occidente Infine comanda agli angeli: «Prostratevi davanti ad Adamo» (2, 32). Gli angeli, obbedienti, si prostrano tutti, tranne uno: «Essi si prostrarono tutti, eccetto Iblı-s, il quale si rifiutò, anzi s’inorgoglì e così divenne uno dei miscredenti». (2, 32). Per la sua disobbedienza dettata da orgogliosa superbia, Iblı-s, il diavolo, viene scacciato dal paradiso; e dovrebbe essere precipitato nell’inferno. Invece ottiene di rimanere sulla terra, quale nemico dichiarato dall’uomo: «Poiché tu mi hai fatto errare – disse Iblı-s – io insidierò gli uomini sul tuo sentiero diritto, poi sopraggiungerò ad essi, per dinanzi e per di dietro, da destra e da sinistra, e tu non troverai la maggior parte di loro riconoscenti». (7, 15-16) Gli effetti dell’opera tentatrice di Iblı-s-Satana non tardano a farsi sentire. Infatti il Corano prosegue: «Noi dicemmo: “o Adamo, abita tu e la tua sposa nel giardino, e mangiate dei frutti di esso abbondantemente, a vostro piacere, però non vi La “storia sacra” nel Corano avvicinate a questa pianta, perché non diventiate iniqui”. Però Satana li fece scivolare da esso e li fece bandire dal luogo in cui si trovavano; allora noi dicemmo loro: “scendete dal Paradiso […]; sulla terra voi avrete una dimora e un godimento per un tempo limitato”» (2, 34-35). In questo passo il Corano ricorda stringatamente la disobbedienza di Adamo e le sue conseguenze, che furono la perdita del paradiso terrestre e la brevità della vita sulla terra. Tuttavia essa fu “il primo” peccato dell’uomo, non “il peccato originale” di cui parlano i cristiani. Nella narrazione coranica, infatti, il peccato di Adamo e di Eva, anche se costò al genere umano la perdita del paradiso, non incise sostanzialmente sulla sua natura. Il primo peccato non tolse ad Adamo la qualifica di credente né gli precluse il perdono di Dio e la salvezza. Di fatto, pur dopo il peccato: «Adamo imparò dal tuo Signore parole di preghiera, e Dio si volse benigno verso di lui, 45 poiché Egli è il misericordioso, il compassionevole». (2, 35) Dio sa di aver dato esistenza e vita ad una crea tura costituzionalmente fragile, incline al peccato e, in più, esposta alle insidie di Satana; specificamente Egli sa che, malgrado la fitra ovvero la religione innata che gli ha stampato nel cuore, l’uomo ha bisogno continuo del Suo soccorso per conservarsi fedele ai compiti di vicario e di servo (abd) che gli ha affidato. Perciò gli promette la Sua assistenza attraverso i profeti che gli manderà col compito di rammentargli che non v’è altra divinità al di fuori di Dio e di esortarlo alla “prostazione”. Il Corano assicura: «Quelli che seguiranno la mia direzione non avranno alcun timore» (2, 36). L’invio e la missione dei profeti è un beneficio divino di cui l’uomo ha assolutamente bisogno; ma da parte di Dio è un libero atto della Sua grazia. Il primo degli Inviati di Dio (rusul Alla–h) è lo stesso Adamo; seguono nel tempo Noé, Abra- 46 mo, Giuseppe, Mosé, Giona, Davide, Salomone, alcuni personaggi i cui nomi non si trovano nella tradizione biblica, e infine Giovanni il Battista e Gesù il figlio di Maria. Nella successione dei profeti non v’è progressività di rivelazione, perché ciascun profeta viene a ricordare e a ribadire ciò che è stato ricordato dal profeta che lo ha preceduto. Tra l’invio d’un profeta e di quello successivo si apre un vuoto (fatra), durante il quale gli uomini giacciono in una notte tenebrosa, perché, non avendo la guida d’un profeta e la luce della profezia, non sanno testimoniare l’unicità e la signoria assoluta di Dio. L’avvento degli “ammonitori” è come una illuminazione discontinua che rompe le tenebre della notte. Tutti uguali fra loro per la comune identica missione, i profeti non sono però uguali anche nei carismi che ricevono da Dio. Il Corano dice: «Di tali profeti abbiamo preferito alcuni ad altri» (2, 254). Islàm e Occidente Fra tutti emergono gli “apostoli privilegiati”, che sono: Noé, che “levò il suo grido a Dio e fu esaudito» (21, 76); Abramo, l’amico di Dio (khalı-l Alla–h) che ricevette “la via retta” (21, 52); Mosé, l’“interlocutore di Dio” (28, 30); Gesù, il figlio di Maria, “eminente in questo mondo e nell’altro e uno dei più prossimi a Dio” (2, 40). La serie dei profeti culmina nella missione di Maometto: «Oggi ho reso perfette, per voi, la vostra religione e completata, per voi, la mia grazia, e ho gradito, per voi, l’isla–m come religione» (5, 5). E si chiude definitivamente con lui: «Maometto non è il padre di alcuni dei vostri uomini, bensì l’apostolo di Dio e il suggello dei profeti» (33, 40). Con l’invio del Corano la trasmissione della pa rola di Dio si chiude definitivamente,e con Maometto viene suggellata la serie dai profeti. D’ora in poi, Dio non manderà più profeti. Nella successione dei messaggi, così come il La “storia sacra” nel Corano Vangelo abroga la Tora–h, il Corano abroga il Vangelo. Ma, di volta in volta, si tratta di una abrogazione che è anche una conferma. L’ultimo annuncio, ovvero il Corano, riprende e ricapitola gli annunci precedenti. Si spiega così, fra l’altro, la frammentarietà della sua trasmissione, frammentarietà che trova organicità nei testi della Tora–h e del Vangelo. Si spiega così il suo linguaggio che raramente è espositivo; più spesso è evocativo e allusivo: «Ricordate la grazia di Dio verso di noi e il patto che Egli ha concluso con voi…» (5, 10); «Ricordatevi pure come noi vi liberammo dalla gente di Faraone…» (7, 137). «Ricorda quando gli angeli dissero a Maria: 47 “O Maria, Dio ti ha scelta, ti ha resa pura, ti ha prescelta fra le donne…» (3, 37). Essendo tra le genti che nel tempo hanno ricevuto profeti e messaggi, contenuti rispettivamente nella Tora–h e nel Vangelo, gli ebrei e i cristiani fanno parte della “Gente del Libro”. La loro fede religiosa non è falsa; è semplicemente adulterata e mutila. A chi voglia professare rettamente e pre cisamente la fede in Dio, Uno e Unico, a chi voglia essere, cioè, vero muslim, non resta che attenersi al Corano, giacché solo questo Libro contiene inalterata la Parola di Dio. E riconoscere a Maometto per eccellenza la missione e il titolo di Profeta, perché egli “suggella” e chiude, per sempre, la serie degli Inviati di Dio. La moschea Selimiye di Edirne, Turchia (XVI secolo) 49 I l clero islamico Per quanto i princìpi e i precetti islamici siano esplicitamente e chiaramente enunciati nel Corano, possono sempre sorgere dubbi e perplessità nell’atto di calarli nelle contingenze della vita quotidiana. Appunto allo scopo di offrire al musulmano una guida sicura nell’applicazione dei precetti coranici è nata la sharı-ah, la “strada maestra”, il cui studio è affidato ai dottori della legge. Secondo il musulmano la sharı-ah non è, però, opera dell’uomo: essa è stata rivelata da Dio stesso, che l’ha inserita implicitamente nel testo coranico. Compito dei dottori della legge è perciò solo quello di coglierlo ed esplicitarlo. Obiettivo dichiarato della sharı-ah è di stabilire per il credente una esistenza equilibrata e sana, nel rispetto dei diritti di Dio. L’Islàm non conosce né la figura né la funzione mediatrice del sacerdote. Pur inserito esistenzialmente nella umma, ciascun musulmano è solo nei suoi rapporti con Dio. E tuttavia gli u–lema, studiosi del Corano e della Sunna, e i faqı-h, studiosi del diritto positivo, esercitano qualcosa come un sacerdozio del diritto, formano una specie di clero, ed hanno sempre goduto, nel mondo islamico, di una venerazione religiosa e di una grande autorità. Tuttavia l’Islàm non ha un corpo docente unitario, e i dottori della legge seguono scuole diverse. Sicché è possibile che su uno stesso tema vengano formulate ed espresse sentenze diverse. La Ka’ba nella Grande Moschea 51 I “segni distintivi” del popolo eletto Poiché, con Maometto, l’invio dei profeti è definitivamente concluso, è ai musulmani che Dio affida il compito di «comandare il bene e proibire il male» (3, 106), di promuovere “i diritti di Dio” in mezzo alla gente. Questa è la missione della umma. Dopo la morte del Profeta, la sua comunità resta messaggiera e testimone permanente di Dio, sino alla fine dei tempi. Essa è incaricata di dare vittoria alla Legge e alla Parola di Dio, di attuare il governo divino degli uomini, conducendoli con la persuasione e l’esempio e, se è necessario, con la forza a riconoscere la sola autorità legittima, che è quella di Dio. Perché possa compiere la sua missione, la umma è disciplinata da una serie di precetti, dettati dal Corano. Vedere tali precetti come “obblighi” o costrizioni è errato ad occhi musulmani. Il musulmano vede i precetti coranici come un pri- vilegio, come “segni distintivi dell’Islàm” (sha’ a’ir al-Isla–m), come blasone d’una nobiltà sacrale. Ciò alimenta in lui l’orgoglio di ottemperare ai suoi precetti e una sorta di rispetto umano alla rovescia che, per esempio, lo induce a non detergersi la polvere dalla fronte, dopo la preghiera, affinché tutti possano vedere quanto profonde siano state le sue prostrazioni. Generalmente, il musulmano è più scrupoloso esecutore delle prescrizioni coraniche, proprio quando si trova in compagnia e si sente osservato. La vita del musulmano è informata da un insieme di doveri culturali e sociali, alcuni dei quali riguardano i singoli credenti, altri invece investono la comunità nel suo insieme. I doveri “personali”, però, sono tali solo in quanto impegnano le singole persone e non nel senso che si esauriscano come valore e significato nell’azione personale, quasi fossero un affare privato: segnando e ritmando la vita comunitaria della umma, essi anzi sono manifestazione e suggello di unità. 52 I doveri personali sono cinque: la professione di fede, la preghiera, l’elemosina legale, il digiuno nel mese di Ramada–n, il pellegrinaggio alla Mecca. Dovere fondamentale di ciascun musulmano è rendere testimonianza della propria fede, proclamandola. Perciò la recitazione della shaha–da è la testimonianza prima e principale. Nella prospettiva musulmana, la fede (ima–n) è prima di tutto interiorità; ma questa non avrebbe valore, se non si manifestasse nella testimonianza della parola e nell’osservanza delle prescrizioni coraniche. La shaha–da costituisce il nucleo centrale della preghiera, che il musulmano recita in cinque momenti della giornata: al mattino, nel primo pomeriggio, al vespro, la sera e prima del riposo della notte. La preghiera (as-sala–h) si svolge secondo un rituale rigidamente stabilito, perché è il culto ufficiale che la comunità dei credenti rende a Dio. Essa è preghiera “pubblica”, è liturgia. E conserva il carattere di pubblicità, anche se, per ipotesi, viene recitata da un sinMusulmano raccolto in preghiera privata I “segni distintivi” del popolo eletto golo musulmano nella solitudine del deserto o nell’intimità della propria casa. La preghiera del venerdì, recitata nella moschea poco dopo il mezzogiorno, nulla aggiunge alla preghiera degli altri giorni. Di speciale ha soltanto che è “in comune” e perciò rinsalda nel musulmano la coscienza di appartenere ad un’unica comunità. Coscienza che comunque e sempre è alimentata dal fatto che i musulmani, in qualunque angolo della terra si trovino, nell’atto di pregare, rivolgono tutti la propria fronte verso la Mecca. Alla preghiera liturgica, il musulmano può, se vuole, aggiungere la preghiera privata, che la pietà personale gli suggerisce. L’elemosina legale è detta zaka–t. Tutti i musulmani, il cui patrimonio in denaro, metalli preziosi, merci, bestiame ed altri beni superi un certo minimo stabilito, sono tenuti a pagare una tassa percentuale annua. La zaka–t ha lo scopo religioso di rendere grazie a Dio dei beni da Lui concessi, ed è un dovere sociale in quanto sostegno economico della Comunità. Un musulmano dà l’elemosina 53 I pellegrini si prostrano nella Grande Moschea della Mecca 55 R amada–n Ramada–n è il mese del digiuno e della penitenza. All’apparire della luna nuova, i musulmani cominciano ad astenersi dal cibo, dalle bevande, dal fumo, dall’uso dei profumi e da ogni altro possibile godimento fisico. Il digiuno vale dall’alba al tramonto, finché v’è tanta luce da poter distinguere ad occhio nudo un filo di lana bianca da uno di lana nera. I fedeli pii si ritirano nella moschea a pregare e a ringraziare il Creatore dei favori ricevuti. Durante il mese del digiuno ciascun credente proverà la sua forza di volontà nel rispettarlo interamente, rinnoverà il suo atto di fede con l’ubbidienza alla Legge e si purificherà con la preghiera. Ramada–n è il nono mese dell’anno islamico, che si compone di 354 giorni, distribuiti in 12 mesi di 29 e 30 giorni ciascuno, alternativamente. Fra il 26 e il 27 di Ramada–n cade la “Notte del Decreto”, cioè la notte in cui il Profeta ebbe la prima celeste visione. I musulmani dicono che nessuno sa dire veramente il mistero di questa notte in cui i fiumi cessano di scorrere, il vento si tace, la natura s’addormenta, gli spiriti del male sono ridotti all’impotenza, e si può sentire l’erba crescere e udire la voce degli alberi. Coloro che sanno viverla, che sanno percepirne la bellezza, diventano santi o sapienti, perché «vedono attraverso le dita del Signore». Durante il mese del digiuno i musulmani ricordano in preghiera l’anniversario della morte di Khadigia, la moglie prediletta del Profeta (10° giorno), il ritorno vittorioso del Profeta alla Mecca (19° giorno), l’anniversario della morte di Alì, quarto califfo dell’Islàm (21° giorno). Mese dunque anche di meditazione. I rigori del digiuno non sono però tali da opprimere i fedeli. Intanto sono esentati dall’obbligo di osservarlo gli ammalati, i fisicamente deboli, i viaggiatori affaticati. Dice infatti il Corano: «Dio vuole portarvi conforto non disagio» (2, 181). Musulmani durante la preghiera del venerdì nella Moschea di Balkh –n Ramada Poi l’obbligo cessa al calare del Sole: «Mangiate e bevete fino a quando appaia a voi distinto il filo bianco dal filo nero, per l’alba; poi compite il digiuno fino alla notte successiva, né praticate quelle (i.e. le vostre donne), bensì attendete alla preghiera nei templi» (2, 183). Dal calare del sole all’alba la vita rientra nella normalità e le privazioni dell’astinenza diurna vengono spesso compensati da una eccessiva libertà notturna, benché il clero non si stanchi di ricordare che sta scritto «Dio non ama gli immoderati» e «mangiate, ma non scialacquate». Ma, quando l’alba si profila all’orizzonte, il silenzio 57 torna a regnare nelle città e nei villaggi: i fuochi dei bivacchi si spengono, i barracani tornano ad avvolgere i viaggiatori (che si astengono quasi sempre dal proseguire), le calzature d’ogni tipo tornano ad allinearsi davanti alle moschee, dove i fedeli si raccolgono di nuovo in preghiera e in meditazione. Al termine di Ramada–n il mondo musulmano entra in festa. Il primo del mese di Shawwa– l, appena chiuso il digiuno, ha inizio uno “svago” di tre giorni, durante i quali ha luogo una preghiera solenne nella moschea e vige l’obbligo di distribuire elemosine. Donne nelle vie di Kabul 59 L a donna e il matrimonio Un sereno discorso sulla condizione della donna nell’Islàm deve prendere le mosse dalla condizione della donna nella società araba preislamica. Prima di Maometto in Arabia la donna era considerata poco più e per certi aspetti anche meno di un animale domestico. Al punto che la “eccedenza” delle nascite femminili veniva smaltita con l’infanticidio, perpetrato in modo feroce, ovvero con il seppellimento delle neonate, spesso ancora vive, nella sabbia del deserto. Il Corano condannerà decisamente e ripetutamente l’infanticidio: «Non uccidete i bambini» (6, 141 e 152; 16,61; 17,33) e si occuperà specificamente della sorte delle neonate: «Quando viene annunziata a qualcuno la nascita di una femmina, il suo volto si oscura, ed Donne saudite al mercato 60 egli è profondamente afflitto; si nasconde dalla gente, per l’onta di ciò che gli è stato annunziato, chiedendosi se debba lasciare in vita la neonata, oppure seppellirla vivente nella polvere» (16, 60-61). Per gli uccisori delle bambine non vi sarà scampo il giorno del Giudizio Universale, perché allora le neonate saranno invitate ad accusare davanti al tribunale di Dio i loro carnefici: «La sepolta viva sarà interrogata, per colpa di chi sia stata uccisa» (81, 8-9) L’aver rivendicato il diritto alla vita di tutti i bambini, specialmente delle femmine, è non trascurabile innovazione nel costume sociale degli Arabi. Per quanto poi riguarda lo status della donna, bisogna tenere presente che esso s’inquadra nella visione monoteistica dell’essere umano, che vede in ciascun uomo, maschio o femmina che sia, una “persona”, ovvero una realtà unica e irripetibile, a somiglianza dell’unicità e della irripetibilità di Colui che le dà esistenza e vita. L’uomo e la donna hanno origine comune. Dio creò l’essere umano e poi fece «di esso i due sessi, il maschio e la femmina» (75, 39). I due sessi sono concordi nel disegno di Dio: «I credenti e le credenti sono amici, gli uni degli altri; essi ordinano ciò che è lodevole e vietano ciò che è riprovevole» (9, 72). E Dio non fa differenza nell’apprezzare l’operato dell’uomo e della donna: «Non lascerò che vada perduta l’opera di alcun operante, fra di voi, sia egli maschio o femmina; gli uni di voi provengono dagli altri» (3, 193). Di conseguenza neanche nella vita sociale può esservi discriminazione di diritti tra uomo e donna. E tuttavia Dio ha voluto concedere all’uomo una maggiore maturità. Ciò lo rende superiore alla donna, ma anche responsabile della sua tutela: «Gli uomini hanno autorità sulle donne per la superiorità che Dio ha concesso agli uni sulle altre e a causa di ciò che essi hanno speso per esse delle proprie sostanze. Le donne oneste, alla loro 61 La donna e il matrimonio volta, sono sottomesse e custodiscono il proprio onore durante l’assenza dei mariti in cambio della protezione loro concessa da Dio» (4, 38). A motivo della loro fragilità, viene consigliata alle donne una vita ritirata: «Rimanete tranquille nelle vostre case e non fate pompa di ornamenti come al tempo oscuro della idolatria, osservate la preghiera, fate l’elemosina e ubbidite Iddio e il suo profeta» (33, 33); e di tutelare la loro modestia coprendosi il capo quando escono di casa: «O profeta, di’ alle tue mogli, alle tue figlie e alle donne dei credenti che facciamo scendere un lembo del loro mantello (gilba–b) su di sé; questo sarà il modo più acconcio, perché esse vengano distinte e non ricevano noie. Dio è indulgente e compassionevole» (33, 59). In sostanza, il Corano prescrive che le donne abbiano il capo coperto, cosa che è comune a Tradizionale costume di gala saudita 62 numerose altre tradizioni culturali, Cristianesimo compreso. Di più non dice. La proclamata “minorità” della donna nei riguardi dell’uomo emerge in modo particolare nella articolazione del diritto matrimoniale musulmano. Il matrimonio è considerato lo stato obbligatorio per ogni musulmano che per condizioni personali ed economiche possa contrarlo. Non solo i puberi capaci ed atti, ma anche gli impuberi, per mezzo dei loro rappresentanti legali, possono sposarsi, attendendo la pubertà per la coabitazione. Gli interessati, tuttavia, possono rescindere il contratto matrimoniale nel momento in cui acquistano capacità legale di farlo. Alla stipula del contratto è indispensabile la presenza dal patrono (walı-) della donna, che, a motivo della sua presunta inesperienza, ha bisogno di essere tutelata nei suoi interessi. Il walı- è, d’ordinario, il parente più prossimo. L’oggetto del contratto è, per il marito, il diritto alla moglie; per la donna, il pagamento della dote nuziale stipulata. Il perfezionamento del contratto stabilisce il vincolo del matrimonio, per il quale la donna rimane soggetta all’autorità del marito, non può uscire di casa senza il suo permesso, né mostrarsi a capo scoperto, né riceve visita di maschi salvo i parenti prossimi coi quali è proibito il matrimonio. La donna deve badare alla casa. Il marito può correggerla, come i figli, ma senza eccedere. La tradizione equipara le funzioni del marito ai più alti doveri religiosi e raccomanda la bontà e la tenerezza. Il diritto obbliga il marito a mantenere la moglie in modo conforme alla sua posizione sociale. La donna, invece, anche se ricca non è obbligata a concorrere alle spese della casa; nemmeno a soccorrere il marito indigente, poiché fra marito e moglie c’è divisione di beni. Al padre spetta la patria potestà sopra i figli, che egli deve educare, correggere e mantenere finché il figlio è pubere o finché la figlia non si La donna e il matrimonio sposa. La madre non è obbligata a concorrere al mantenimento dei figli. Per quanto riguarda la disparità di religione tra gli sposi, le unioni miste sono permesse nel senso che un musulmano può prendere moglie fra la “Gente del Libro”, ossia cristiani, ebrei e assimilati, però questi non possono prendere in spose delle musulmane. Gli idolatri sono totalmente esclusi. Oltre che per morte o per apostasia dall’Islàm che ha lo stesso valore della morte, il matrimonio musulmano può essere sciolto dal ripudio (tala–q), da parte del marito, che comunque è dovuto a risarcire la moglie ripudiata con un «mantenimento secondo le sue facoltà» (Corano 2, 237). In casi eccezionali la donna può ottenere dal marito il divorzio (tatlı-q) in cambio di una certa somma come riscatto. Il diritto islamico prevede la poligamia con un numero massimo di quattro mogli legittime. La poligamia simultanea non è tanto estesa come molti occidentali pensano, perché ragioni econo- 63 miche la restringono d’ordinario ai ricchi. Del resto lo stesso Corano consiglia la monogamia: «Se voi temete d’essere ingiusti, sposatene una sola» (4, 3). Più che la poligamia simultanea, nei paesi musumani è oggi diffusa quella che si potrebbe chiamare “poligamia successiva” che consiste nella sostituzione successiva dei coniugi nel processo di ripudi e di nuovi matrimoni. Ma questo è un fenomeno che i paesi musulmani hanno in comune con tutti gli altri paesi, anche non musulmani, in cui sia ammesso il divorzio. Le disposizioni coraniche sul matrimonio sono per la donna un progresso sugli antichi costumi arabi, poiché danno un carattere meno precario alle unioni ed elevano le condizioni della donna. Questa non è ormai più una “cosa” che fa parte dell’eredità. La donna acquista diritti non solo ad un equo trattamento ma anche alla successione ereditaria, a un compenso in caso di ripudio e all’amministrazione indipendente dei suoi beni. (da G. Mori, Via Maestra. Atlante storico commentato, Milano 1951) 65 C onquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm Nel 633, dopo la morte di Maometto, gran parte dell’Arabia si trovò, per la prima volta nella storia, riunita in uno Stato unitario, tenuto insieme dalla comune religione. Allora gli Arabi iniziarono un movimento di conquista politica e religiosa di proporzioni grandiose; movimento sostenuto dall’entusiasmo religioso e dalla sicurezza della protezione di Alla–h. Le bande arabe invasero i territori dall’impero bizantino e dell’impero persiano, che si rivelarono due colossi dai piedi di argilla. I Bizantini, sconfitti in varie battaglie tra il 634 e il 336, dovettero sgombrare la Palestina e la Siria, rinchiudendosi nelle roccheforti della costa sostenute dalla flotta. I Persiani furono rapidamente disfatti negli anni 635-637, e gli Arabi occuparono l’Iraq, la Mesopotamia e Ctesifone, la capitale dell’impero. Dalla Palestina si rovesciarono sull’Egitto e sconfissero l’esercito bizantino. La cavalcata proseguì verso occidente, e nel 642 furono strappate ai Bizantini la Cirenaica e la Tripolitania. Invece nella Siria gli Arabi, giunti ai piedi della barriera del Tauro, dovettero segnare il passo: ci vollero ancora quattro secoli prima che l’Islàm riuscisse a dilagare nell’Asia Minore. I meravigliosi successi delle prime schiere partite alla conquista richiamarono nuove ondate di guerrieri dall’Arabia, e il movimento di espansione fu ripreso sotto il terzo califfo ‘Utma–n (644656). Fu proseguita la conquista dell’impero persiano e in Africa fu occupato l’Alto Egitto sino alla Nubia. Fatto importante fu la creazione di una marina araba, che operò sbarchi nelle isole di Cipro, Rodi e Creta. Intanto, all’interno dello Stato arabo, il potere andava concentrandosi nelle mani degli Ommiadi, la famiglia di ‘Utma–n; ciò destò risentimenti e reazioni che culminarono nella uccisione del califfo da parte di ribelli venuti dal- Veduta aerea del maidan di Isfahan Conquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm l’Egitto. Allora fu nominato califfo Alì, genero di Maometto. Anche questa nomina suscitò ribellioni, e Alì fu ucciso (661). Il potere ritornò nelle mani degli Ommiadi, che stabilirono la loro sede a Damasco e ressero l’Islàm per 89 anni. Fu ripreso il movimento di conquista. Nell’Asia centrale gli Arabi avanzarono fino all’Aral, toccarono i confini della Cina ed occuparono l’altopiano dell’Iran sino al fiume Indo. In Africa l’avanzata fu ripresa oltre Tripoli; nel 682 gli Arabi giunsero all’Oceano Atlantico e si spinsero nel deserto sino al Fezzan. La conquista di questa regione fu fatta sui Berberi, che gli Arabi riuscirono a convertire e ad associare in nuove conquiste. Così, nel 711, un esercito islamico, composto in gran parte di Berberi, ma sotto il comando di Arabi, invase la penisola iberica o, come gli Arabi dicevano, “il paese dei Vandali” (Andalus), e la conquistò quasi tutta, strappandola a Visigoti. Quindi gli Arabi passarono i Pirenei, con l’intento di conquistare il cuore dell’Europa cristiana. Ma a 67 Poitiers furono arrestati da Carlo Martello, re dei Franchi, nel 732. Fu questo il periodo della maggiore estensione dell’impero arabo, che si mantenne in un primo tempo uno Stato unitario; estensione territoriale molto maggiore di quella di tutti gli altri imperi che lo avevano preceduto. In seguito, l’Islàm si diffuse sino al centro dell’Africa e nell’Asia orientale, ma solo come religione, mentre nei primi secoli l’espansione della religione islamica era andata di pari passo con l’espansione dall’impero arabo. Nel 750 gli Ommiadi furono violentemente soppressi e sostituiti dagli Abassidi, discendenti di Abbas, zio di Maometto. Gli Abassidi instaurarono una monarchia assoluta ed ereditaria, che diede all’Islamismo parecchi grandi sovrani, quali Al-Mansur e Harun ar-Rashid, e portò il mondo arabo ad una grande floridezza economica e ad un alto grado di cultura. Nei due secoli di dominio degli Abassidi furono conquista- La ex Moschea di Cordova Conquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm te dagli Arabi l’isola di Malta e la Sicilia (827878); scorrerie furono fatte poi nel Mediterraneo occidentale, con occupazione di punti sulla costa, che servivano di base a spedizioni di saccheggio. I califfi abassidi accolsero sempre più largamente nel loro esercito truppe di schiavi turchi, che essi ritenevano fedelissimi; ma queste truppe finirono per diventare padrone dello Stato e degli stessi sovrani. Di conseguenza, il potere centrale s’indebolì, e si formarono Stati particolari autonomi entro i confini dell’impero. Il primo fu quello spagnuolo; seguirono quelli del Marocco, dell’Egitto, dalla Mesopotamia, della Persia. Nel 1055 Bagdad fu conquistata dai Turchi Selgiuchidi, i quali occuparono l’Asia Minore e lottarono per il possesso della Siria e della Palesti- 69 na. Contro di essi e la loro intolleranza furono rivolte le crociate dei paesi europei. L’occupazione araba della Spagna fu accompagnata da discordie e lotte fra i conquistatori. Nel 929 un ommiade si proclamò califfo dell’Andalus. Intanto gli Stati cristiani, costituitisi nel settentrione della Spagna, iniziavano la lotta per la “riconquista” del paese. Lotta che durò fino al 1492, anno in cui i cristiani conquistarono l’ultimo superstite Stato musulmano: il regno di Granata. L’epoca del califfato di Cordova fu la più splendida della Spagna musulmana. La nuova fiorente civiltà arabo-ispanica fu il risultato della fusione della civiltà romana di Spagna con gli apporti degli Arabi e dei Berberi ed esercitò una grande influenza non solo sulla Spagna cristiana, ma su tutta la civiltà europea dell’ultimo Medio Evo. Osservatorio astronomico del XVI secolo a Istanbul (miniatura turca) 71 M usulmani e cristiani nell’Occidente medievale La Spagna musulmana divenne la regione più popolosa e ricca d’Europa. La città di Cordova si estese fino a raggiungere le 200.000 abitazioni; fu abbellita da numerosi e fastosi edifici, da palazzi riccamente decorati, da una maestosa moschea cattedrale. Divenne meta di viaggiatori che venivano da ogni parte del mondo per ammirare lo splendore in cui vivevano i califfi e anche per acquisirvi la scienza. Tanta magnificenza era dovuta all’eccezionale sviluppo dell’industria e del commercio. L’arboricoltura e l’orticoltura, grazie ad un’abbondante e sapiente irrigazione, fecero del paese una regione in cui si producevano i frutti più diversi. A questo proposito il geografo arabo al-Bakri (XI secolo) scrive: «La Spagna è come la Siria per la piacevolezza del clima e la salubrità dell’aria, come lo Yemen per la mitezza e la costanza della temperatura, come l’India per i penetranti profumi, come alAhwaz [in Persia] per l’abbondanza delle entrate fiscali, come la Cina per le pietre preziose, come Aden per le produzioni del litorale». I califfi seppero valorizzare le abbondanti risorse minerarie: oro, argento, rame, piombo, mercurio, ecc. I tessuti di lana e di seta di Cordova, Malaga e Almeria erano meritamente famosi. Soltanto a Cordova pare ci fossero quasi 13.000 telai. Come a Bagdad, nella Spagna musulmana esisteva una celebre industria della ceramica e del vetro; le sue fabbriche di vasi in bronzo e in ferro e di armi erano molto apprezzate. Cordova era la patria dell’industria del cuoio. Il commercio relativo a questa attività industriale contribuiva ad arricchire considerevolmente le casse dello Stato. La Spagna musulmana esportava i suoi prodotti in Africa e nell’Asia centrale. Un regolare servizio postale assicurava i contatti tra il governo e i suoi lontani corrispondenti. La lingua ufficiale del governo era l’arabo classico, che costituiva anche la lingua della lette- 72 ratura, della scienza e dell’insegnamento. La lingua parlata era un dialetto derivato dall’arabo classico, con una sintassi semplificata e con mescolanze di latino e del dialetto romanzo iberico. L’educazione primaria era obbligatoria e così diffusa che quasi tutti gli spagnoli dell’epoca musulmana sapevano leggere e scrivere: un livello di istruzione che era sconosciuto nel resto dell’Europa. L’insegnamento superiore era lo stesso che oggi viene impartito agli studenti nelle università islamiche tradizionali: lingua araba classica, letteratura, storia e le scienze religiose propriamente dette: esegesi coranica, Sunna, giurisprudenza, dottrina (kala–m); infine, scienza (astronomia, calcolo, geometria, ecc.) e musica. L’universale diffusione dell’istruzione promuoveva la passione per i libri (i manoscritti, beninteso) e per la loro collezione. In assenza delle assemblee politiche, dei teatri e delle accademie che caratterizzarono la vita sociale in Grecia e a Roma, gli Arabi ricorrevano ai libri come fonte d’informazione. Grazie al periodo di pace e di ordine sotto il califfato di Abd al-Rahma–n III (912-961), eruditi invitati dall’Oriente, studenti venuti da ogni parte, esperti copisti, ricchi collezionisti di libri assicurarono alla vita intellettuale di Cordova una fama internazionale. La biblioteca reale arrivò a contare circa 400.000 volumi. Anche i privati possedevano ricche collezioni di libri. E tuttavia nella Spagna musulmana la maggioranza islamica e la minoranza cristiana si ignoravano reciprocamente, pur vivendo in pace l’una accanto all’altra. Forse da parte cristiana ciò era dovuto a intolleranza, a un preciso proposito di ignorare la religione del nemico per non permetterle d’intaccare ulteriormente le proprie forze spirituali. La comunità cristiana manteneva effettivamente i propri vescovi e preti, le chiese e i monasteri; conservava, così come prescrive la legge islamica, i propri tribunali; e alcuni cristiani prestavano persino servizio agli emiri musulmani. Ma questi indigeni “arabizzati” erano considerati dagli Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale Arabi autentici come dei cittadini di seconda classe. Anche coloro che si convertivano all’Islàm erano sospettati di averlo fatto solo per interesse. E poi il culto pubblico, con le sue processioni, le sue campane, le sue manifestazioni, era proibito ai cristiani. E chi, in momento di collera o di sconsiderato fervore religioso malauguratamente ingiuriava il Profeta, diventava passibile delle peggiori punizioni, compresa la morte in caso di mancato pentimento. Ciò che aumentava l’amarezza dei cristiani zelanti era vedere come molti dei propri correligionari si lasciavano attrarre dalla brillante civiltà dei nuovi venuti, abbandonando così le loro tradizioni e la loro lingua. Tra l’850 e l’860 questo processo d’arabizzazione suscitò una reazione violenta non tanto contro l’Islàm quanto contro quei cristiani che abbandonavano la loro fede e la loro cultura tradizionale. Questa reazione portò alcuni a concepire l’Islàm come il segno precursore dell’Anticristo e della fine del mondo. Alla loro immagina- 73 zione l’Islàm appariva come una perversa cospirazione contro la cristianità. Per essi, l’unica soluzione era di lasciare questo mondo dando la suprema testimonianza della loro fede. Desiderando il martirio, lo provocavano insultando pubblicamente il Profeta, così che le autorità musulmane, irritate dal pubblico oltraggio alla religione di Stato, finivano per condannarli a morte. Intanto la Reconquista cristiana della penisola iberica proseguiva lenta ma inesorabile. D’altra parte, le condizioni politiche dal paese erano favorevoli a questa impresa. Difatti, qualche anno dopo la morte di quell’energico e terribile dittatore che fu il ministro Al-Mansu–r (751-775), la Spagna musulmana s’era frantumata in un pulviscolo di piccoli Stati indipendenti retti dai reyes taifas, che si combattevano tra loro indebolendosi e facilitando così i prìncipi cristiani. Traendo profitto da questa confusa situazione, Alfonso VI di Castiglia nel 1085 s’impadronì di Toledo, la cittadella dei musulmani che dominava tutta la valle del Tago. 74 La caduta di Toledo atterrì i prìncipi musulmani. I loro ministri, per scongiurare il pericolo cristiano si rivolsero ai nuovi padroni del Sahara marocchino, gli almovàridi. Rispondendo alla loro richiesta di aiuto, Yu–suf Ibn Ta–shfin venne in Spagna, ma per stabilirvi il proprio dominio. La Reconquista per un certo tempo venne arginata, ma presto i rudi cavalieri dal deserto si lasciarono prendere dal fascino della vita cittadina, e furono scalzati e costituiti da nuovi dominatori, più rigidi e più fanatici, gli almohadi. Dotati di notevoli capacità militari costoro inflissero ai cristiani la disfatta di Alarcos (1195). Ma non fu che una pausa: diciassette anni dopo, nel 1212, i cristiani riportarono la decisiva vittoria di Las Navas de Tolosa. Fu l’inizio d’una serie di eclatanti successi. Nel 1236 Cordova, la metropoli della Spagna musulmana, cadde nella mani di Ferdinando III. Il re Giovanni I d’Aragona s’impadronì delle isole Baleari e di tutto il Federico II di Svevia (miniatura dall’Exultet di Salerno) Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale regno di Valencia. Solo il regno di Granada rimase nelle mani dei musulmani. Quest’ultimo lembo di dominio islamico in terra iberica conobbe ancora quasi un secolo d’intensa vita intellettuale. Poi fu la fine. Il 2 gennaio 1492, Granada, il gioiello della civiltà musulmana, aprì le porte ai “re cattolici” Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. La bandiera di San Girolamo fu issata sulla cima dell’Alhambra. C’erano voluti sette secoli di guerra perché la Spagna cristiana si riscattasse dal dominio musulmano. Altra importante regione d’Europa, dove si realizzò l’incontro delle due culture, fu la Sicilia. Qui la conquista araba non fu fulminea come in Spagna. Le prime incursioni, semplici atti di pirateria, ci furono nel 650 e nel 670, e non ebbero se guito. Incursioni più massicce ci furono nel 701. La conquista dell’isola avvenne nel 740. Tuttavia Mazara fu presa solo nell’827, Palermo nell’831, Messina nell’842, Siracusa nel’878, Taormina nell’892. La conquista dell’isola da parte 75 dei musulmani fu completa nel 903, dopo due secoli e mezzo di incursioni e di guerre. Dalla Sicilia, avventurosi pirati saraceni non esitarono a lanciarsi attraverso lo stretto di Messina per rapide incursioni in Italia. Nell’846 arrivarono a prendere Ostia e la chiesa dei Santi Pietro e Paolo in Roma. Riuscirono persino a stabilirsi a Bari per un quarto di secolo. Ma presto i dissensi intestini dei musulmani in Sicilia portarono Ibn al-Thumna a chiedere, incautamente, l’aiuto dei Normanni. Nel 1061 Roberto il Guiscardo si affrettò a raccogliere l’invito. Ma anche a lui la conquista dell’isola richiese un certo numero di anni (1072-1092). Ben presto nella Sicilia arabo-normanna si formò una originalissima simbiosi tra le due culture. Ruggero I il Normanno (1071-1101) si dimostrò notevolmente tollerante: il suo esercito era formato per la maggior parte da musulmani. Il re normanno favorì l’insegnamento dell’arabo, consentì ai musulmani il libero esercizio del loro culto, aiu- Chiostro del Paradiso nella Cattedrale di Amalfi Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale tandoli persino nella conservazione della loro religione, mantenne l’amministrazione nelle mani di funzionari arabi. La corte di Palermo fu più orientale che occidentale. L’agricoltura, rimasta in mano agli Arabi, conobbe un grande sviluppo. Ruggero II (1130-1154) si vestiva all’orientale; costruì la sua famosa cappella in stile orientale, patrocinò arti e scienze secondo la tradizione araba e ospitò a corte al-Idrı-sı-, il maggior cartografo e geografo del Medio Evo. Guglielmo II leggeva e scriveva l’arabo. Sotto il suo regno, navi cristiane trasportavano pellegrini musulmani alla Mecca. Ma fu soprattutto con Federico II di Svevia (1215-1250) che la cultura siculo-musulmana conobbe il suo apogeo. Federico si circondò di filosofi e di saggi arabi, intrattenne relazioni e scambiò doni con il sultano d’Egitto alKa–mil Muhammad, nipote di Saladino, e con alAshraf di Damasco. Fece venire dei falconieri dalla Siria, essendo egli stesso un appassionato della caccia col falcone. Il suo astronomo, Teodoro, era 77 un cristiano giacobita di Antiochia. La “crociata”, da lui promessa al papa Innocenzo III e pretesa da Gregorio IX (1227), fu più una missione diplomatica che un’impresa militare. Promotore delle scienze arabe nella scuola medica di Salerno e nella università di Napoli, da lui fondata nel 1224, Federico suscitò un movimento culturale, che può ben dirsi umanesimo arabo-cristiano. Malauguratamente, soprattutto nel popolo, le relazioni tra cristiani e musulmani peggiorarono. I cristiani, ritornati al potere, pretendevano di riavere i loro beni sottratti dai musulmani. In seguito a frizioni sempre più numerose e a massacri sia a Palermo sia nelle campagne, i musulmani si rifugiarono sulle montagne e, guidati da un certo Ibn al-Labba– d, organizzarono una rivolta. Federico II represse con decisione questo tentativo, fece arrestare e uccidere il capo dei rivoltosi, ed esiliò molti musulmani a Lucera. Nel 1249, in Sicilia l’intesa e la simbiosi arabocristiana erano praticamente finite. Il castello di Gormaz (Soria) 79 I l mondo cristiano “scopre” la religione islamica Per lunghi secoli, da parte cristiana, i rapporti con l’Islàm sono stati condizionati da un equivoco di fondo, che è consistito nel pensare che l’Islamismo non fosse una religione a sé stante, ma più semplicemente una delle tante eresie rampollate dal Cristianesimo. A generare l’equivoco fu inizialmente Giovanni Damasceno, padre e dottore della Chiesa del secolo VIII, il quale, probabilmente ingannato dalla corposa presenza di personaggi biblici nel Corano, dal posto di onore che vi occupano Gesù, il figlio di Maria, e la stessa Maria quale vergine e madre, confutando le eresie, mise i musulmani sullo stesso piano degli iconoclasti, dei pauliciani e dei manichei. È chiaro che con un’eresia non si discute, tanto meno si dialoga. La si combatte. E con ogni mezzo. Tanto che Giubert de Nogent nella sua storia delle crociate, Gesta Dei per Francos, esprimendo l’opinione comune del suo tempo, arrivò a dire che di Maometto era lecito dire ogni male. Bisogna attendere la metà del XII secolo per vedere nella cultura cristiana profilarsi un atteggiamento un poco più ragionevole. Una data memorabile in questo senso fu il viaggio in Spagna nel 1141 di Pietro il Venerabile, abate della celebre abbazia di Cluny. Egli intraprese quel viaggio per questioni che interessavano il suo ordine, ma anche per risolvere un problema che lo preoccupava. Si rendeva conto dell’ignoranza in cui l’Europa versava riguardo alla dottrina dei musulmani e, in obbedienza alla regola del suo ordine, era persuaso che, per salvare l’anima dei seguaci di Maometto, esistevano mezzi diversi dalla guerra. Ma occorreva, anzitutto, procurarsi una conoscenza diretta della dottrina di coloro che fino a quel momento erano stati combattuti con le armi, in modo da poter mettere in mano ai teologi i testi originali circa la loro fede e la vita di Mao- Veduta di Istanbul e Galata Il mondo cristiano “scopre” la religione islamica metto. Pietro il Venerabile promosse perciò la traduzione in latino del Corano e di altri testi arabi. Ma forse egli stesso non lesse attentamente i libri di cui aveva voluto la traduzione, tant’è che in una lettera indirizzata a Bernardo di Chiaravalle non uscì dai vecchi schemi mentali e definì l’Islam «la cloaca di tutte le eresie». E tuttavia, con la sua iniziativa, l’abate di Cluny aveva aperto una pista. Nel mondo cristiano còlto, coloro che avevano la responsabilità della missione presso i musulmani e gli ebrei si rendevano conto della necessità di conoscere la loro lingua, per poter accedere allo studio diretto delle loro dottrine. A tale scopo, Alfonso il Saggio (12211284) istituì una cattedra di arabo all’università di Salamanca. Tra il 1238 e il 1240 il domenicano Raimondo di Peñafort fondò in Catalogna numerose scuole di lingua araba, ottemperando ad una disposizione emanata dal capitolo generale 81 di Parigi nel 1236, che raccomandava lo studio dell’arabo e di ogni altra lingua di cui i padri avessero avuto bisogno nel loro ministero. Nel 1311 papa Clemente V dispose l’istituzione di cattedre di lingue orientali (arabo, greco, ebraico, caldaico) nelle università di Roma, Oxford, Bologna e Salamanca. Frutto di questo studio fu, tra l’altro, l’approccio diretto al Corano e ad altri testi islamici. In questo contesto si collocherà la Cribratio Alcorani, l’esame critico del Corano, di Nicolò Cusano. Nel 1453 Costantinopoli cadeva sotto l’ondata delle armate musulmane turche. I polemisti cristiani, Martin Lutero in testa, indirizzarono allora i loro strali contro quella che chiamavano la “religione dei Turchi”. Ma che si trattasse d’una religione a sé e non d’una eresia cristiana non v’era più dubbio. Dimostranti con immagini di Khomeini in Iran 83 M usulmani fondamentalisti, liberali e tradizionalisti Il risveglio dell’Islàm come forza religiosa e politica è oggi una tendenza culturale diffusa in quasi tutti i settori del mondo islamico. A partire dalla seconda metà del Settecento e soprattutto dall’Ottocento i popoli islamici si sono impegnati nello sforzo di superare il ristagno della vita spiriturale e la decadenza politica manifestatasi intorno al XVI secolo. Il predominio politico e la superiorità tecnica degli Occidentali cristiani sono diventati la principale preoccupazione dei popoli musulmani. Essi sentono la necessità d’una grande riforma, intesa come ritorno allo spirito originario dell’Islàm, che porti al superamento delle divisioni politiche interne al mondo musulmano. Uno dei primi e maggiori promotori del movimento panislamico è stato lo scrittore afgano Gemal ad-Din al-Afgani, che nell’Ottocento si batté per l’unione degli Stati islamici in un unico regno unitario. Dopo la seconda guerra mondiale, con la fine degli imperi colonialisti europei, il movimento panislamico ricevette un decisivo impulso dalla nascita di grandi Stati islamici quali l’Indonesia (1945), il Pakistan (1947), la Libia (1951). Da allora gli Stati islamici hanno promosso una politica di alleanze e di scambi economici, culturali, sociali. Ma già dal 1906 operava la Lega Musulmana, un’associazione politica di indiani di religione islamica. Questo movimento promosse e ottenne nel 1947 la separazione del Pakistan (letteralmente il “Paese dei puri”) dall’India, paese a maggioranza induista e pertanto giudicato “impuro”. Grande peso ha pure avuto la Confraternita Musulmana, fondata in Egitto nel 1928 allo scopo di salvaguardare le tradizioni politicoreligiose islamiche dalle influenze occidentali. Dal 1945 questa associazione è diventata, in Egitto, un potente e attivo movimento di massa, capace di mobilitare, nel 1948, ingenti forze nel corso 84 della guerra contro lo Stato di Israele. Benché messa fuori legge nel 1954 in seguito ad un attentato alla vita del presidente egiziano Nasser, la Confraternita Musulmana è punto di riferimento per varie associazioni operanti in Iran, in Pakistan, in India. La Lega Araba, fondata col Patto del Cairo del 1945, è una organizzazione sorta tra Stati arabi dell’Asia e dell’Africa, che mira ad una stretta collaborazione politica, sociale e culturale tra gli Stati aderenti. La Lega Araba considera lo Stato di Israele come una spina nel fianco del mondo islamico. Circa i rapporti tra Stato e religione, nel mondo musulmano si possono attualmente distinguere quattro principali correnti di opinione. 1) Il così detto “fondamentalismo islamico” propugna un ritorno alle origini, riproponendo l’unione indissolubile tra religione e organizzazio- Architettura araba moderna Musulmani fondamentalisti, liberali e tradizionalisti 85 ne statale. I fondamentalisti rifiutano, perciò, nel modo più assoluto il patrimonio di idee e i modelli di vita del mondo occidentale e tentano di elevare a leggi dello Stato i princìpi giuridici della sharı-’a, la legge religiosa islamica. 4) La quarta tendenza è rappresentata dai così detti “liberali”, che propugnano la religione islamica ma respingono una visione integralista dello Stato. Attualmente essi costituiscono solamente una minoranza. 2) Su posizioni opposte a quelle dei fondamentalisti si pongono quei musulmani che si possono definire “secolaristi”, giacché sono sostenitori della laicità dello Stato. Essi operano in Turchia, Siria, Egitto, Iraq. A prescindere dalla corrente religiosa o d’opinione dominante, i popoli islamici si considerano la seconda potenza politico-religiosa del mondo, dopo l’Occidente che, pur largamente laicizzato e desacralizzato qual è, essi continuano a vedere come “cristianità”. E, paradossalmente, addebitano al Cristianesimo, ormai concettualmente espulso dalla legislazione occidentale, le licenze sociali e morali che l’Occidente legalizza. Ma anche se avviene assai più tardi e con premesse storiche diverse che nell’Occidente, anche nel mondo islamico si verifica un processo di secolarizzazione di vasti settori della vita umana. Anche l’Islàm, come il Cristianesimo, è minacciato dal diffondersi di concezioni laiciste e materia- 3) In posizione intermedia si trova la corrente dei “tradizionalisti”. Essi distinguono la vita interna dello Stato islamico dalla politica estera. In pratica, pur richiamandosi allo spirito originario della religione islamica e pur applicando la sharı-’a anche nella vita pubblica interna, non assumono atteggiamenti pregiudizialmente negativi nei confronti del mondo occidentale. Su questa linea si pongono l’Arabia Saudita e gli Stati dal Golfo. 86 listiche della vita. Si tratti di indipendenza economica e politica, di evoluzione della condizione femminile e della famiglia, dell’educazione umana o tecnica dei lavoratori, i Paesi musulmani si trovano all’incrocio di due strade: o verso un laicismo che, per un certo tempo, accetterebbe una possibile fede religiosa nelle coscienze individuali, ma rifiuterebbe a Dio ogni posto nella “città” come tale; o verso una soluzione nuova fondata su valori musulmani purificati e universalizzati. Assai presto nelle scuole coraniche i bambini apprendono a memoria lunghi brani del Libro sacro 87 P er saperne di più Indicazioni bibliografiche Corano Il Corano, a cura di Bausani A., Sansoni, Firenze 1955. Il Corano, versione di Bonelli L., Hoepli, Milano 1960. Il Corano, tr. e cura di Moreno M.M., U.T.E.T., Torino 1967. Il Corano, introd., trad. e commento di Peirone F., 2 voll, Mondadori, Milano 1979. Il Corano, tr. e cura di Guzzetti G.M., Elle Di Ci, Torino-Leumann 1989. TESCAROLI, L. 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La donna e il matrimonio ........................... Conquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale ...................................................... • Il mondo cristiano “scopre” la religione islamica ..................................................... • Musulmani fondamentalisti, liberali e tradizionalisti ............................................. • Per saperne di più ...................................... 43 49 51 55 59 65 71 79 83 87