Luciana Paracchini 17 febbraio 2011 ANTROPOLOGIA CULTURALE La famiglia e la parentela “Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione. […] E le idee comuni che vediamo aver credito intorno a noi […] sembra che siano quelle generali e naturali. Per cui accade che quello che è fuori dei cardini della consuetudine lo si giudica fuori dei cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù.” (Michel de Montaigne, Saggi, 1580) Che cos’è l’antropologia culturale Il termine antropologia , derivato dal greco anthropos (uomo) e logos (discorso) indica la
disciplina che ha per oggetto il mondo umano considerato sotto vari profili : etnico, storico,
sociale, linguistico ecc. L’antropologia culturale è sorta tra Ottocento e Novecento come studio
delle “culture” intese come relazioni complesse tra gruppi di individui: affettive, linguistiche, di
parentela, di scambio, di vicinato ecc. Ricordiamo che ogni gesto, ogni regola sociale, ogni
parola vengono compresi in quanto condivisi e riconosciuti da un gruppo più o meno vasto :
pensiamo, ad esempio, ai diversi modi di salutare un amico o un estraneo o al pagamento di una
merce con una banconota o una carta di credito nella nostra società. I diversi modi di
organizzare la società e la vita quotidiana rispondono a esigenze diverse; ogni organizzazione
sociale crea una specie di rete, un insieme di connessioni, che l’antropologia cerca di studiare
mettendo in luce le relazioni tra ogni singolo elemento, ogni “nodo” della rete, e la “rete”
complessiva.
Si possono far risalire le origini, ancora non scientifiche, dell’antropologia come studio di ciò
che è “diverso da noi”, che appare “altro”, ai resoconti di missionari cristiani, conquistatori,
viaggiatori e mercanti, in seguito ai viaggi di esplorazione e alle conquiste coloniali. Il punto di
vista di questi primi osservatori è, inutile dirlo, fortemente etnocentrico: “noi” siamo uomini
giusti, civili, cristiani; gli “altri” presentano costumi barbari e disumani o, nell’ipotesi migliore,
ingenui, spontanei e primitivi, fermi ad una condizione “naturale”(mito del buon selvaggio).
La cultura illuministica si è interessata allo studio comparativo delle civiltà, ponendo al grado
più alto del progresso l’uomo europeo contemporaneo e collocando sui piani inferiori diversi
tipi di umanità, più o meno lontani dal vertice. L’impulso più significativo agli studi
antropologici si è avuto però soprattutto nell’Inghilterra vittoriana, e non per caso: basti pensare
ai diversi popoli soggetti al dominio coloniale britannico che fornivano ampio materiale di
studio e comparazione, alla cultura positivistica, che vedeva nelle scienze della società
possibilità di sviluppo pari a quelle che avevano già mostrato le scienze fisiche, all’influenza
dell’evoluzionismo darwiniano.
Ricordiamo di questo periodo almeno James G. Frazer (1854-1941) titolare della prima cattedra
di Antropologia sociale in Inghilterra e studioso del pensiero magico dei popoli primitivi.
Tra Ottocento e Novecento vi è stato un grande sviluppo dell’antropologia negli USA, favorito
dalla presenza sul territorio nordamericano di molti popoli “nativi americani” organizzati in
modo autonomo ed estraneo al modello occidentale. L’antropologia americana si sviluppa
contemporaneamente alla tragedia storica delle tribù indiane decimate e costrette nelle riserve.
Citiamo di questo periodo almeno Lewis H. Morgan (1818-1881), grande studioso delle lingue e
dei costumi degli Irochesi e loro difensore (era avvocato) in una causa, che vinse, per difendere
il loro territorio dagli speculatori. Morgan sostenne che la civiltà irochese, basata su legami di
solidarietà tra famiglie e tribù, aveva portato all’elaborazione di un modello democratico non
inferiore a quello degli antichi ateniesi; pertanto le misere condizioni economiche in cui
vivevano le tribù irochesi non autorizzavano gli occidentali a formulare giudizi di valore
negativi su questa civiltà.
Nel Novecento l’antropologia non è più solo lo “sguardo” dell’Occidente sugli “altri”: i confini
sono sempre più permeabili, e spesso gli antropologi si occupano non solo di culture lontane,
ma anche di usanze, modi di agire, eventi che ci riguardano da vicino. Gli antropologi cercano
regole nell’insieme delle pratiche che un gruppo umano – qualsiasi gruppo umano - mette in
atto; necessariamente partono dal particolare, dall’osservazione sul campo; l’approccio
relativista nella descrizione è uno dei fondamenti della disciplina: ogni espressione culturale
deve essere compresa all’interno del quadro simbolico della società che la produce.
Perché occuparsi delle relazioni di parentela? Una battuta citata dall’antropologo Marco Aime dice che “ i filosofi si occupano di Dio, gli
psicologi dell’io e gli antropologi dello zio”. Vi è qualcosa di vero in questa battuta: se
l’antropologia studia il sistema delle relazioni sociali, le relazioni di parentela costituiscono la
grammatica elementare di ogni società, il primo modo in cui gli uomini organizzano le relazioni
sociali. Non esiste società che non abbia elaborato regole per i rapporti tra genitori e figli e per la
scelta dei partner; spesso società che, se volessimo usare una terminologia positivistica ormai
superata definiremmo “primitive”, non evolute, presentano sistemi di parentela estremamente
complessi.
Le relazioni di parentela affondano le radici nella natura ( il fatto biologico della riproduzione) ma
non si riducono a questa dimensione: in tutte le società vigono regole sociali riconosciute che
riguardano il rapporto di filiazione, di coppia, di affinità ecc.
Esogamia – endogamia Prima di discutere dei diversi “modelli” di famiglia, sottolineiamo che la parentela è una
costruzione sociale, ed ogni società stabilisce regole su chi si può , si deve od è preferibile sposare.
Se nella nostra società attuale la scelta del coniuge è essenzialmente personale ed esclude un
ristretto nucleo di consanguinei, in molte culture esistono vincoli complessi. In antropologia il
termine esogamia indica la preferenza o l’obbligo, per un uomo, di sposare una donna esterna al
proprio gruppo (clan, tribù, villaggio, ecc.). Il termine endogamia indica invece la preferenza o
l’obbligo per il matrimonio all’interno del gruppo. L’esempio storico più noto di endogamia è
quello delle caste tradizionali dell’India: nessuno può cambiare la casta di nascita e neppure
sposarsi fuori della propria casta; anzi, l’endogamia è applicata anche alle sottocaste, che spesso
sono caratterizzate da una professione comune. I trasgressori possono essere processati da un
tribunale di casta ed espulsi dalla casta stessa. L’esogamia è molto più frequente: nelle società che
trasmettono la discendenza solo per via paterna, non si può sposare una donna del gruppo paterno
(per un uomo la cugina figlia di un fratello del padre, o “cugina parallela”, è “proibita”) mentre è
favorito il matrimonio con una donna esterna al gruppo paterno (e quindi una cugina che sia figlia
del fratello della madre, o “cugina incrociata”, che appartiene ad un altro gruppo, può essere la
scelta preferibile se non obbligata per un uomo). Notiamo che, da un punto di vista strettamente
biologico, i cugini paralleli e incrociati sono consanguinei allo stesso modo. La constatazione che
esistono categorie di parenti “proibite” ci porta a considerare l’importanza della proibizione
dell’incesto, presente in tutte le culture, e pertanto considerata un tempo una sorta di legge naturale.
La proibizione dell’incesto Perfino il sistema endogamico più rigoroso incontra un limite preciso: vi sono parenti che non si
possono sposare e con i quali non si possono avere rapporti sessuali. La definizione della categoria
di parenti “proibiti” può variare di molto nelle diverse società: noi tendiamo a giudicare “naturale”
l’esclusione che riguarda genitori / figli e fratelli / sorelle, mentre non abbiamo difficoltà a giudicare
“convenzionali” le regole, presenti in molte culture, che riguardano parenti non consanguinei: per
fare un solo e facile esempio che riguarda la tradizione occidentale, per secoli è stato vietato il
matrimonio di un vedovo con la sorella della moglie defunta ( e anche di un uomo con la vedova del
fratello); la Chiesa basava la proibizione sulla tesi che con il matrimonio i coniugi diventerebbero
“una sola carne” e quindi i consanguinei dell’uno acquisterebbero lo status di consanguinei
dell’altro (la sorella della moglie diventerebbe la propria sorella). Questo divieto è stato cancellato
dopo secoli di dibattiti dalle leggi civili in Francia e in Inghilterra; il divieto ecclesiastico è stato
cancellato solo nel 1983.
Esempio simmetrico e contrario è quello del levirato (dal latino levir, fratello del marito) presente
già nella tradizione biblica: il fratello di un uomo morto senza figli è tenuto a sposarne la vedova, in
modo da assicurare una discendenza al defunto. Vediamo qui che un’unione giudicata incestuosa e
quindi proibita in un contesto viene ritenuta non solo lecita ma doverosa in un altro: sarà il quadro
complessivo della cultura di una società, non una presunta “legge di natura”, a rendere
comprensibile il senso delle singole regole.
Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss l’esogamia è un sistema che consente
di creare legami con altri gruppi, potenzialmente nemici, quando si riconosce che è preferibile
“sposarsi fuori che essere uccisi fuori”; la proibizione dell’incesto non va vista come regola
puramente repressiva, ma è soprattutto una regola di reciprocità e di scambio con altri gruppi: lo
“scambio delle sorelle” sarebbe quindi il primo atto politico dell’uomo, e consentirebbe di istituire
alleanze e strutture sociali più complesse. La proibizione della relazione sessuale con la propria
figlia o sorella costringe a dare in moglie la figlia o la sorella ad un altro uomo, e
contemporaneamente crea un diritto sulla figlia o sorella dell’altro; l’esogamia è l’espressione
sociale allargata della proibizione dell’incesto.
Famiglia o famiglie? Una tradizione talmente diffusa anche nella nostra società da non aver quasi bisogno di illustrazione
definisce la famiglia come “società naturale”. Noi italiani la troviamo anche nell’art. 29, primo
comma, della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio”.
Gli antropologi, trovandosi a constatare sul campo la grande varietà dei modelli di famiglia, hanno
tuttavia a lungo cercato di definire i caratteri essenziali e universali della famiglia. Possiamo partire
per comodità da quella che George P. Murdock ha definito (1935) famiglia nucleare: l’unità
composta da marito, moglie e figli. Questa unità minima comprende gli otto rapporti “parentali” di
base: marito, moglie, padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella. Sempre secondo Murdock,
nessuna società ha potuto trovare un efficace sostituto della famiglia nucleare e di tutte le sue
funzioni (riproduttiva, economica, educativa ecc.). Eppure poche società riconoscono
esclusivamente il modello nucleare; Murdock considerava la famiglia nucleare una sorta di “atomo
sociale” che può essere combinato ed entrare nella composizione di “molecole”, le famiglie
composite : poligamiche ed estese. Con il modello della famiglia nucleare Murdock riteneva di aver
individuato una costante, un fondamento irrinunciabile di ogni organizzazione sociale; oggi questa
teoria è messa in discussione da diversi punti di vista. Innanzitutto, vi sono formazioni famigliari in
cui il marito-padre è del tutto assente, e il nucleo risulta ridotto alla madre con i suoi figli; inoltre,
non sembra un buon metodo partire con una gabbia concettuale (famiglia nucleare) troppo rigida;
risulta più produttivo, secondo Francesco Remotti, cercare delle “somiglianze” tra le diverse forme
di famiglia, come suggeriva di fare Wittgenstein a proposito della definizione di “gioco” (“Questa, e
simili cose, si chiamano giochi…non conosciamo i confini perché non sono tracciati”).
Poligamia Da quanti coniugi può essere composta una famiglia? Le famiglie poligamiche ( costituite da più
legami matrimoniali ) possono essere poliginiche (un marito e più mogli) oppure poliandriche (una
moglie e più mariti). Da un punto di vista quantitativo la poligamia nella versione poliginica è assai
più diffusa; la spiegazione del suo successo va cercata, nell’ambito delle società tradizionali, nella
maggiore possibilità di crescita economica per il lavoro di più mogli, nel più elevato numero di
discendenti, nella formazione di una rete di alleanze più vasta per i capi e gli uomini più eminenti
del gruppo. Nelle società che ammettono la poliginia solo una minoranza di uomini può realmente
avere più mogli (avere più mogli è una possibilità, non un obbligo). La poliginia è ammessa non
solo dall’Islam, come comunemente si crede, ma anche dalla più antica tradizione ebraica; gli Ebrei
residenti in Europa vi rinunciarono a partire circa dal Mille, applicando il “divieto” del rabbino
Gershom di Magonza; nel 1950 il Rabbinato d’Israele ha esteso il divieto a tutti gli Ebrei, anche
provenienti da paesi di tradizione islamica.
Troviamo esempi di matrimonio poliandrico soprattutto presso alcune popolazioni dell’India, del
Tibet e del Nepal, presso le quali un gruppo di fratelli vive con una sola moglie. In un ambiente
naturale molto difficile, la poliandria riduce il numero delle nascite e mantiene integra la proprietà
famigliare; a queste motivazioni economiche si aggiunge un altro elemento, la forte solidarietà del
gruppo dei fratelli maschi. Naturalmente non tutte la famiglie possono essere poliandriche: questa
forma di famiglia riguarda di solito la classe sociale superiore.
Famiglia “fraterna” La famiglia nucleare monogamica e la famiglia poligamica non sono le sole forme studiate
dall’antropologia: presso i Na (Cina meridionale) e i Nayar (India meridionale) la “famiglia” è
costituita da un gruppo molto coeso e solidale di fratelli e sorelle che convivono nella stessa casa e
collaborano per tutta la vita in campo economico e nell’allevamento dei figli delle sorelle, nati da
libere relazioni con uomini di altri gruppi; ovviamente i fratelli maschi della famiglia che stiamo
descrivendo avranno figli da relazioni con donne di altri gruppi. In queste società a discendenza
matrilineare (è riconosciuta la parentela solo attraverso la madre) non esiste, propriamente, il
legame marito-moglie, ma solo quello tra fratelli e sorelle (siblings) e figli delle sorelle. Per quanto
lontane dai modelli più diffusi e fortemente combattute dalle autorità queste “famiglie” appaiono
dotate di una forte stabilità nel tempo, che non troviamo nella famiglia nucleare.
Concludendo questo breve excursus potremmo dire che le società umane non hanno ricevuto dalla
natura un unico modello, ma hanno inventato soluzioni molteplici, per certi aspetti opposte e per
certi altri simili e sovrapponibili.
Matriarcato Nell’Ottocento si è sviluppata la teoria – o il mito – del matriarcato come primitiva organizzazione
sociale in cui non solo la discendenza è matrilineare ( una persona appartiene al gruppo della
madre), ma la proprietà e il potere sono in mano alle donne. Oggi questa teoria è stata fortemente
ridimensionata: anche nelle società matrilineari l’eredità passa semplicemente “attraverso” le
donne, non alle donne: l’erede di un uomo è il figlio della sorella. In numerose società è presente
l’avunculato (dal latino avunculus zio materno; i latini chiamavano patruus lo zio paterno), cioè
l’organizzazione che riconosce l’autorità dello zio materno, e non del padre, sulla famiglia. Questo
è il caso, ad esempio, delle società delle isole Trobriand (Melanesia) studiate da Bronislaw
Malinowski : il figlio o la figlia appartengono alla famiglia e alla comunità della madre: il figlio
succede nella posizione sociale al fratello della madre mentre il padre, nella vita dei figli, non
riveste il ruolo dell’ autorità ma solo quello di genitore affettuoso e quasi materno.
Bibliografia essenziale Aime, M. Il primo libro di antropologia. Piccola biblioteca Einaudi Mappe 2008
Bonte, P, Izard ,M. (a cura di) Dizionario di antropologia e etnologia. Einaudi 2006
Lévi-Strauss, C. Le strutture elementari della parentela. Feltrinelli (prima ed. francese 1949)
Magli, I. ( a cura di ) Matriarcato e potere delle donne. Feltrinelli 1982
Mair, L. Il matrimonio: un’analisi antropologica. Il Mulino 1976
Remotti, F. Contro natura. Una lettera al papa. Laterza, 2008
Remotti, F. I sistemi di parentela. Loescher 1973