Approfondimento III Le Operette morali viste da vicino (dall’ironia alla satira al sarcasmo, un modo di raccontare e di intendere la storia dell’umanità) 1. L’ironia come cifra delle Operette… I fatti che abbiamo illustrato nei due Avviamenti alla lettura delle Operette morali sono sufficienti a spiegare le principali ragioni della cattiva fortuna che trovò il capolavoro leopardiano, un libro concepito apposta per intrattenere, a tratti piacevolmente e con molto spirito e molta arguzia, anche il più distratto dei lettori. Un libro che, se avesse trovato lo stesso numero di commentatori che ebbe I promessi sposi, si sarebbe imposto facilmente all’attenzione dei lettori. In fondo è una raccolta di scritti brevi, da leggersi e da rileggersi un tanto al giorno, fino a capire volta per volta il senso di un discorso che, a cominciare dalla Storia del genere umano cresce su se stesso, culminando nel Dialogo di Tristano e di un amico. Quest’operetta, che, nel suo carattere spiccatamente meta-narrativo e meta-letterario, vale un bilancio conclusivo autoironicamente tendente al negativo (l’autore accetta di giustificarsi, perché il gioco lo impone, ma lascia al tempo stesso intendere che non ce ne sarebbe bisogno, dovendosi piuttosto giustificare altri scrittori, quelli che vendono sogni, illusioni, chimere solo perché “piacciono”) è la degna conclusione di tutto un discorso1. Ci riferiamo innanzitutto al discorso avviato col pubblico dei lettori che, come accade per tutti gli autori di libri filosofici, cresce coerentemente su se stesso, per cui sostenuta o adombrata una tesi oggetto di critiche e di polemiche, il lettore si aspetta una replica convincente. E la replica sarà una riedizione delle Operette che nel 1834 appariranno nell’edizione Piatti che includerà il Dialogo di un Venditore d’almancchi e 1 d’invenzioni e di capricci malinconici”. Questa frase, nella quale Gentile aveva visto “fatta la palinodia” del libro (G. Gentile, Proemio, p. LV), è giustamente intesa da Tellini quale “chiara coscienza” in Leopardi “della propria irrimediabile sconfitta di fronte alla cultura egemone” (G. Tellini, Leopardi, op. cit. p. 217). In questo sens un Passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, scritte nel ’32, e che vengono a sigillare il senso di un discorso interrotto con i lettori, che sono in quell’occasione i lettori che Leopardi si era guadagnati e che si aspettano dal loro autore un chiarimento. In secondo luogo ci riferiamo alla coerenza interna del discorso che, proprio nel Dialogo di Tristano e di un amico è costellato di ironiche, anzi ironicissime battute sulla “profonda filosofia de’ giornali”, sulla “perfettibilità indefinita dell’uomo”, a cui si accompagnano tirate assai violente, a parte quella citatissima per cui “questo secolo è un secolo di ragazzi” . Ci riferiamo per esempio a questa osservazione: Mi diceva pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli 2 esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati o ancora Ma viva la statistica! Vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, le tante belle creazioni del nostro secolo! E viva sempre il secolo decimonono! Forse povero di cose ma ricchissimo e larghissimo di parole; che sempre fu segno ottimo come sapete. E consoliamoci 3 per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni. battuta di Tristano resa più eloquente dalla risposta dell’Amico: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico 4 che rende esplicito, chiaro, diretto, addirittura inequivocabile, l’intento dello scrittore. Non c’è dubbio qui Leopardi è stato ironico e perfino uno sciocco se ne accorgerebbe. 2 …e, a parte l’ironia la satira Che poi gli accenti dell’ultima operetta, con cui si chiude il libro siano addirittura più che ironici satirici, è quanto, secondo noi giustamente, vede Gino Tellini, il quale coglie molto opportunamente un dettaglio che riguarda al tempo stesso la riedizione delle Operette e la riedizione dei Canti, quelle ristampate nel 1834 e questi nell’anno successivo. Ci riferiamo al fatto che la Palinodia, introdotta in chiusura nei secondi Canti come magistrale pezzo satirico, a meglio 2 3 4 O. M. Dialogo di Tristano e di un Amico ibidem ibidem marcare il pluristilismo del libro, riprende dal Tristano (analogo pezzo conclusivo) il motivo della finta ritrattazione. Sono due testi palinodici che, nella stampa Sparita, hanno in comune il privilegio 5 dell’epilogo . Che si condividano o meno le conclusioni che Tellini e altri possono trarre come illazione da questo fatto, il fatto rimane e resta in particolare evidente che, se il finale di un’opera è satirico, l’opera stessa è nella sua sostanza satirica, il che spiega che meglio non si potrebbe il tono ironico che domina l’opera nel suo complesso. E’ stato peraltro necessario del tempo perché l’ironia delle Operette morali balzasse fuori, come caratteristica dell’opera. Sono state le osservazioni di Cesare Luporini, di Ettore Bonora, di Sebastiano Timpanaro6 a spianare la strada alle più recenti indagini che, su questo tema, hanno condotto Gino Tellini, Luigi Blasucci, Franco Musarra e altri ancora, grazie ai quali il tema dell’ironia in Leopardi è stato sempre meglio focalizzato7. In particolare è vero che Leopardi, specialmente il Leopardi delle Operette morali, sia il più ironico in assoluto di tutti gli scrittori italiani dell’Ottocento. Lo nota un fine ed esigente lettore come Ettore Bonora che scrive: “Musa delle Operette è l’ironia, con dosature e risultati che variano dall’una all’altra, ed elemento comune a tutte è l’invenzione di una situazione specifica nella quale le idee del poeta trovano la possibilità di una rappresentazione concreta e animata”8. Ogni specificazione, sempre breve e contenuta, che segue nel tempo l’edizione dello Stella del 1827, è appunto caratterizzata da sobrietà e ironia, due aspetti tipici delle Operette fin dal loro primo apparire e che vengono a ogni nuova edizione portate sempre più in luce dall’autore. La stessa edizione postuma dell’opera, fatta a cura di Antonio Ranieri nel rispetto del desiderio dell’autore, risponde all’esigenza di dare maggior risalto all’ironia leopardiana, includendovi finalmente alcune Operette la cui pubblicazione non 5 G. Tellini, Leopardi, op. cit. p. 270. Fondamentali, a questo riguardo, sono le seguenti opere critiche: C. Luporini, Leopardi progressivo, in C. Leporini, Filosofi vecchi e nuovi, Sansoni, Firenze 1947, pp.272-274; S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965. 7 G. Tellini, Leopardi, op. cit, l’opera fa in realtà il punto circa ricerche condotte in precedenza dall’autore e tra queste appare importante il volume collectaneo L’arte della prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, La Nuova Italia, Firenze 1995, dallo stesso Tellini curato. Circa Blasucci vale la pena consultare L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985 ma anche Le ragioni storiche della satira leopardiana, in R. Ceserani – L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario. Manuale e laboratorio di letteratura, vol. IV, Società e cultura della borghesia in ascesa, Loescher, Torino 1993, p. 1162. Infine, per quanto riguarda Musarra, può leggersi Marche ironiche nella “storia del genere umano” delle Operette morali, in H-L. Scheel – M. Lentzen (a cura di), Giacomo Leopardi. Rezeption. Interpretation. Perspektiven, Stauffenberg Colloquium, Tubingen 1992, pp. 217-25. 8 E. Bonora, Letteratura italiana. Istituzioni e percorsi didattici, Petrini p. 367. 6 era stata possibile, vista l’azione dell’occhiuta censura borbonica. Ora l’ironia, quando la si intende, diverte, perché crea tra scrittore e lettore una sintonia che premia da un lato lo sforzo di comprensione del lettore e dall’altro quello di farsi comprendere da parte dello scrittore, che dà segnali perché si legga, come si dice, tra le righe. Da questo punto di vista non stupisce che l’ironia sia un po’ la cifra di un libro che intende avviare alla filosofia e al gusto per il filosofare. In fondo quel che, fin dall’epoca degli antichi Greci, caratterizza l’approccio alla filosofia è appunto la disponibilità a cogliere quel che immediatamente non si nota e che sta, per così dire, dietro alle cose. Quel che dunque il lettore di Leopardi deve innanzitutto tener presente a avere cura di individuare è proprio l’ironia. Ora l’ironia si coglie alla lettura cercando di assumere il tono giusto, un tono di distacco, pungente, scherzoso che aiuti a cogliere il significato vero di certe espressioni tipicamente tradizionalmente accolte come dolorosa manifestazione di un disperante male di vivere. 3. Un esempio: il Venditore di almanacchi Dicevamo nella Guida che nel capolavoro leopardiano si incontrano toni di fiaba e che “il dialogo filosofico si esprime nei termini diretti e franchi del linguaggio usato nelle premure degli affetti familiari”. Chiarendo, come è giusto che sia in sede di approfondimento questo punto per noi importantissimo, ci piace sottolineare il fatto che gli interlocutori di questi dialoghi, i personaggi di Leopardi insomma, spesso dotati di grande fantasia, parlano come padri premurosi verso i loro figli e, nella veste di figli, interrogano i padri per sapere, come nel Dialogo di Porfirio e Plotino. Altre volte sono fratelli che si amano o che si intendono a meraviglia, magari un po’ gaglioffamente, come la Moda e la Morte nel Dialogo che le vede protagoniste. In alcuni punti il lettore riceve degli stimoli a una riflessione che prosegue facilmente da sé. Si pensi a un dialogo “facile”, come quello tra il Venditore di almanacchi e un Passeggere, che abbiamo appena ricordato come operetta aggiunta all’edizione del ’34, mancante nell’edizione del ’27, quando ancora non era stata neppure composta. Qui lo scrittore avvia un gioco molto divertente perché è chiaro, per poco che ci si rifletta, che al termine del dialogo accade quello che non dovrebbe accadere, cioè che il Venditore continua nel suo “lavoro”, ben sapendo ormai che si tratta di un’attività completamente inutile, addirittura parassitaria. Egli è stato avvertito, con ragionamenti impeccabili che ha pure mostrato di dover condividere, del fatto che sull’almanacco che vende non ci sono notizie in alcun modo nuove per il lettore, che i soldi che ricava da quelle vendite sono per così dire rubati. Ma preferisce non darsene per inteso e continua imperterrito ad offrire “almanacchi nuovi, lunari nuovi”, patacche, come oggi diremmo, vecchie come il cucco. Tuttavia per il fatto di essere “belli”, questi almanacchi valgono cioè “costano” e il passeggere, nel quale può vedersi lo stesso Leopardi, paga i “trenta soldi” (il prezzo del tradimento?) che, dal punto di vista del venditore, costituiscono il valore della preziosa merce che egli vende. E’ vero, Leopardi non lo dice esplicitamente, ma proprio qui è il gioco del dialogo come lui lo intende, un dialogo che non è fatto solo di ragionamenti, ma anche di azioni che compiono i personaggi che dicono una cosa e, come in questo caso, ne fanno un’altra. Lo stesso Passeggere, per quanto critico della logica della speranza, dell’augurio, dell’ottimismo, acquista significativamente la “patacca”, forse per una forma di obbligo sociale, visto che si è intrattenuto a parlare col Venditore e, avendogli tolto del tempo, deve alla fine per buona educazione fare quello che tante volte facciamo anche noi oggi, per cui entrando in un negozio e avendo chiesto, curiosato, cercato, chiacchierato, alla fine ne usciamo con un pacchetto che non contiene esattamente quel che intendevamo comprare e di cui avremmo a ogni buon conto avuto bisogno. E’ trasparente, alla nostra percezione, il fatto che la vendita degli inutili almanacchi servisse al Venditore per sopravvivere sul piano morale, facendo ipocritamente finta di vivere decorosamente del proprio lavoro. Questo lavoro è però, come tanti altri lavori, solo in apparenza gratificante e onesto, in quanto prevede un guadagno che solo le convenzioni sociali fanno legittimo. Eppure, consistendo nel vendere, promuovere e diffondere qualcosa che non serve a nessuno, quel “lavoro” è perfino dannoso perché in competizione con qualsiasi altra sana e lodevole iniziativa che si persegua per l’utile comune. Si aggiunga che, per poco che ci si addentri nella logica di un'editoria di almanacchi per come questa può essere colta nella prospettiva di Leopardi, si capisce assai bene che rieditando a distanza di anni un bell' Almanacco di cui il pubblico abbia una vaga memoria, si fa un gran bel colpo, vendendo per nuovo ciò che è vecchio. Logica che si completa in quest'altra, che cioè variando qualcosa di anno in anno, ritagliandola da vecchi almanacchi, si fa un almanacco “nuovo”. Venendo a una conclusione, la sostanziale inutilità di quanto il Venditore di almanacchi fa potrebbe porre qualcuno di fronte alla domanda se non sia per caso più dignitoso vivere della pubblica carità invece che rubando agli altri tempo e denari. Discorso che non riguarda soltanto il Venditore di almanacchi, ma anche l’editore che nell’Ottocento continua a dare alle stampe opere sostanzialmente diseducative, magari giustificandosi col dire che i denari che fa con calendari, almanacchi e figurine gli servono per pubblicare cose come le Operette morali o I promessi sposi. Col che siamo di nuovo alle ragioni sostanziali di certe trasformazioni della società nell’arco di tutta un’epoca, per la quale la liberalizzazione del mercato è di per se stessa progresso ma poi non bada a come, in nome di questo progresso, il mercato si chiuda invece d’aprirsi. Si chiude sul vecchio, sul ciarpame, sul sorpassato, sul kitch impreziosendolo per il piacere di bizzarri collezionisti9. 4. Più che una punta di sarcasmo La denuncia è bruciante, se non addirittura dolorosa, da parte di chi, come Leopardi, sperava con i proventi del proprio lavoro di potersi affrancare dall’oppressione della famiglia, che insistentemente lo richiamava a Recanati sapendo delle sue ristrettezze finanziarie. Il fatto poi che la denuncia sia velata non toglie ma anzi aggiunge efficacia a questo vero e proprio elzeviro di Leopardi, il quale ricama sui legittimi sospetti del lettore, che non sia del tutto candido, circa i retroscena degli affari del mondo delle lettere. Questo lettore è pronto a cogliere di quell’operetta il tono sarcastico con cui lo scrittore esperto lo pone di fronte al fatto che un libro da sfogliare piace ahimé di più di un libro che va letto. Che sia questo, e non altro, il significato del dialogo è per noi certo, dal momento che esso fu inserito, come già abbiamo ricordato, in una successiva edizione delle Operette, e Leopardi vi cominciò a pensare subito dopo che il libro aveva ricevuto 9 Già nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo si ragiona dei lunari (genere che evidentemente Leopardi disprezzava), dove lo Gnomo, di fronte al sospetto che il genere umano sia scomparso dalla faccia della Terra, esclama, con finta apprensione: “Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari” e il Folletto gli risponde: “Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada”. un’accoglienza, che, per quanto degna, fu, come è noto, al di sotto delle aspettative sia dell’autore che dell’editore10. Rivelatrice, a nostro modo di vedere è poi la data di composizione dell’operetta, che, ”pensata” nel 1827, è poi materialmente scritta nella primavera del 1832. A stimolare lo scrittore ci fu sicuramente la pubblicazione dei Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831 di Monaldo Leopardi, suo padre, opera la cui pubblicazione si colloca da parte degli studiosi tra la fine del 1831 e gli inizi del 1832. In quell’occasione Leopardi andò su tutte le furie, preoccupato del fatto che tanti gli attribuissero la paternità dell’opera che ebbe un immediato quanto inaspettato successo. Di qui, se non il bisogno, almeno una spinta a chiarire la propria posizione, di tornare sul già detto e ribadire i concetti in precedenza espressi, ironizzando sempre di più su libri che, come quello di Monaldo, si sforzano di interpretare i fatti correnti, come se quel che accade un anno possa essere diverso da quel che è accaduto l’anno precedente e che accadrà l’anno seguente. 5. Leopardi di fronte alla nascente industria culturale E’ a questo punto importante approfondire sul piano storico il discorso e aprire una finestra su quanto all’epoca di Leopardi si diceva e si pensava intorno al rapporto lettore - scrittore. Nel caso del Dialogo di un Venditore di almanacchi e un Passeggere, non sembra a tutta prima che si discuta di letteratura o che si affrontino problemi di politica culturale, eppure la questione dei modi di diffusione e di commercializzazione di quanto si scriveva e si pubblicava era, già all’epoca di Leopardi, oggetto di un dibattito che andava presumibilmente a logorarsi in cavilli giuridici. Da Mario Cantella, che si è preso la briga di ricostruire la vicenda di una lite sorta tra l’editore Le Monnier di Firenze e Alessandro Manzoni, sappiamo che nel periodo compreso tra il 1815 e il 1840 (nel ’27, come 10 Il primo spunto per quest’operetta si trova nello Zibaldone [p.4284] e risale al luglio del 1827, anche se solo nel 1832 Leopardi si risolverà a scriverla, probabilmente con lo scopo di pubblicarla per “Lo Spettatore”. abbiamo già ricordato, appaiono le Operette morali) il mercato librario “era dilaniato da una vera e propria guerra editoriale”11. Sicuramente la pirateria era esercitata ancor più che dal libraio che tenesse al proprio nome, da “editori” improvvisati, di quelli che insomma stampano biglietti da visita, inviti, annunci e naturalmente… almanacchi e lunari12. Aggiungiamo che nel 1844 Carlo Tenca, in un saggio da lui scritto per la “Rivista Europea” e di cui la censura proibì la pubblicazione13, lamentava il fatto che l’autore non avesse quasi parte dei profitti legati alla stampa dell’opera da lui scritta. Equiparato al tipografo non è quanto questi ritenuto necessario, infatti “l’editore quando non trovi in lui un operaio compiacente e sommesso ne fa senza, e si dà al tradurre ed al ristampare”14. Perciò – sostiene Tenca – la “prima e grande immoralità del traffico librario” è “il monopolio degli editori”15, commentando: “Quest’è veramente la peste, che ha contaminato la povera letteratura, e l’ha fatta discendere nella sfera del più volgare industrialismo”16. Chi in questo contesto parla di peste, in senso ovviamente figurato, allude a un male endemico che nel 1844 aveva messo ormai salde radici. Sicché è da ritenere che con questa “peste” avesse a che fare lo stesso Leopardi, le cui Operette morali, apparse come abbiamo ricordato nel 1827, furono ristampate una prima volta nel 1834, quindi l’anno successivo cioè nel 1835 e infine, realizzando un desiderio dell’autore ormai scomparso, nel 1845 con quella che può considerarsi l’edizione definitiva delle Operette. 6. La mancata risposta da parte del pubblico 11 M. Cantella, Prefazione a A. Manzoni, Processo Manzoni Le Monnier, La Spiga, Milano 1984, p. 7. Ci pare interessante osservare che, in margine alla vicenda della “Convenzione” apparve un articolo di Pasquale Stanislao Mancini, che attirò l’attenzione di Pasquale Galluppi che, evidentemente toccato anche lui su un aspetto vivo della sua vita professionale, manifesta la sua indignazione per un aspetto in realtà interessantissimo che è quello della “proprietà letteraria” e della sua definizione. “Un Autore, scrive Galluppi, produce un’opera; egli fa delle spese per pubblicarla: i prodotti della sua opera servono al sostentamento suo e della sua famiglia. Un libraio avido di arricchirsi co’ sudori altrui la stampa; il libraio si arricchisce, e l’Autore cade nella miseria; domando al buon senso degli uomini onesti: un tal libraio non è un ladro peggiore di quelli, che ne’ boschi rubano i passeggeri?” (P. Galluppi, Saggi e polemiche. La collaborazione a periodici dal 1828 al 1845, Pantograf, Genova 1991, p. 254). 13 C. Tenca, Del commercio librario in Italia e dei mezzi per riordinarlo, in C. Scarpati, Un saggio inedito di Carlo Tenca, in Studi di letteratura e storia in memoria di Antonio Di Pietro, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 185. E’ appunto nell’intervento di Scarpati che si dà notizia del reperimento dello scritto, che da allora è a disposizione degli studiosi. 14 ibidem 15 ibidem 16 ibidem 12 Fatti del genere avrebbero dovuto risvegliare, nell’intellighenzia italiana dell’età in cui Leopardi visse, un’attenzione tutta particolare a un’opera veramente capace di destare un qualche senso critico, per poco che fosse letta veramente, anche per il livore che qua e là traspare per “gazzette” e “giornali”, cioè per un modo di diffondere e gestire la cultura che difetta nel punto di tutelare i diritti degli autori. Si fece una scelta diversa e si preferì, secondo noi, non capire, con la conseguenza che si continuò a non capire anche in seguito. Che lo si sia fatto apposta, o meno, l’accento posto dalla critica sul pessimismo leopardiano andò a scapito dell’ironia, talvolta così sottile da essere perfino divertita, cosa che ha impedito in passato e impedisce ancora oggi una corretta lettura delle Operette. Le implicazioni morali relative a un costume diffuso che vede il furto solo nel gesto mariuolo del borseggiatore, ma non in chi ci sollecita a una spesa inutile non furono viste, perché colpivano tutta una concezione di vita, che da mille passi dello Zibaldone risulta essere invisa a Leopardi. Non si intende la critica a questo pressappochismo morale, perché non si ha il coraggio di dire come veramente stanno le cose e riconoscere che chi è ladro è ladro anche (e soprattutto) quando ruba legittimamente. Il furto per disperazione, per fame, può giustificarsi, anche perché chi lo compie ha sofferto prima di decidersi a farlo e quella sofferenza, oltre che fisica è quasi certamente anche morale, almeno quando chi ruba per fame non abbia mai rubato prima e si risolva dopo un dissidio interiore a compiere, per sopravvivere, un gesto che altrimenti gli ripugnerebbe. Chi ruba per avidità è vile, perché aspetta il momento propizio per fare quello che non va fatto. Chi ruba “legittimamente” poi è vile due volte, quando ruba e quando si nasconde, con ipocrita orgoglio, dietro il paravento della legittimità. Il Venditore di almanacchi e il padrone per il quale egli lavora difettano di grandezza perché esercitano un tipo di ricatto morale sul pubblico a cui si rivolgono. Ora che un libro di filosofia, che alla filosofia introduce, alluda a queste cose, con un’ironia al limite del sarcasmo, è un elemento di sicura novità, specie in un’epoca in cui il pubblico preme per avere di più (in termini di quantità) e manca chi assolva alle funzioni di mecenate, situazione che fa a pugni con un conclamato liberalismo, che si sospetta sia conclamato solo perché è alla moda parlarne. Commento: Il liberalismo secondo noi non fu l’ideologia della borghesia, utile alla borghesia per prendere il potere politico, dopo che di quello economico si era già appropriata. Ridurre a tutto questo il liberalismo significa fare un torto agli intellettuali che nell’epoca di Leopardi e anche successivamente pensarono a una “rivoluzione liberale”, nel senso in cui ne parlava ancora Piero Gobetti. Questa “rivoluzione” consisteva nell’ampliamento dei quadri della classe dirigente in tutti i paesi europei. Per secoli l’aristocrazia aveva rivendicato per sé ed esclusivamente per sé diritti esclusivi, di fatto chiudendo a chi aristocratico non fosse la via per il conseguimento dei posti “importanti”, che dessero lustro e prestigio alla persona. La nuova economia, che si fondava sulle attività lucrative del commercio e dell’industria, lasciava intendere che la base della classe dirigente si potesse ampliare ben oltre i limiti dell’ 1% che per secoli era stato canonico un po’ in tutta Europa. Sul piano culturale questo significò la crisi della cultura contadina, cioè il tramonto dei valori legati alla terra, infatti il terreno di incontro era dato adesso dalla città, dove la piazza, il caffè, il circolo prendono il posto della dimora signorile, del patio e dell’aia. Lasciare Donnafugata per risiedere a Palermo è quanto nella vita quotidiana richiede quel gattopardismo di cui il liberalismo ottocentesco fu ispiratore. In sostanza si trattò, o si sarebbe dovuto trattare, di rendere partecipi quanti volessero entrare a far parte di una schiera di persone che per secoli avevano esercitato l’arte di governare città, terre, averi, di tutta una cultura che non consisteva solo nel saper comandare, ma anche in una memoria storica vissuta. Che tale memoria storica fosse necessaria e che certi rituali ad essa legata dovessero mantenersi è quanto pochi avvertono necessario. Per Leopardi è per esempio vitale che si trasmetta alle generazioni future l’aspirazione alla gloria, chiedere che si dia prova del valore personale per essere assunti nell’Olimpo dei “grandi”, scrittori, filosofi, statisti, che, praticando le “arti liberali”, devono passare il testimone a quanti ne seguiranno le orme. Ma già per molti queste sono formalità legate al passato, cerimoniali inutili. Si vuol fare e si vuol fare presto ad aprire e a richiudere i corridoi d’accesso alla nuova classe dirigente, senza dare troppe spiegazioni in pubblico di quanto in alto è stato deciso come ineluttabile. Di qui la decisione che fu quella di dare vita a una nuova aristocrazia basata sul censo, nuovo metro obiettivo del valore personale. Il rischio di un’apertura che consentisse a chiunque di farsi strada grazie al merito, alle capacità personali, alle ambizioni generose, all’impegno profuso è quanto si volle scongiurare. Perciò le Operette morali furono nel breve giro di poche generazioni aperte, lette e riposte badando che, oltre alla polvere della storia se ne costruisse attorno una teca che, senza far torto a nessuno, rendesse un decoroso onore a un poeta che per suo capriccio si era dedicato alla filosofia. Questo e non altro ha secondo noi lavorato contro questo libro. Un tale sospetto si è trasformato in ferma convinzione quando, studiandolo più da vicino, abbiamo scoperto che si tratta di un capolavoro tutto costruito e mandato avanti per aggirare la macchina della censura. Ogni allusione, ogni levità, ogni pausa nelle Operette morali serve a questo scopo e tutto il sarcasmo che c’è nel libro, e che solo in parte è sotterraneo, si rivolge a tutto quanto ha a che fare con la censura. E’ questo un punto molto importante e sul quale abbiamo attirato l’attenzione negli Approfondimenti, che ci sono parsi lo spazio più idoneo all’impresa, nella convinzione che il lettore d’oggi dovrebbe cogliere quest’aspetto delle Operette sapendolo attualizzare, come ci pare sia, oltre che legittimo, anche opportuno. 7. Lo sfondo storico culturale delle Operette morali Abbiamo fin qui dato un assaggio di lettura delle Operette badando a porre sui giusti binari la comunicazione tra scrittore e lettore, per come Leopardi la concepì. Ammettiamo inoltre che l’assaggio è stato dato alquanto provocatoriamente. Quel che ora faremo sarà aggiungere altri elementi indispensabili, a nostro modo di vedere, per illustrare lo sfondo storico e culturale di un libro scritto ormai quasi duecento anni fa. Si vedrà allora che l’assaggio era un boccone che andava giù da solo. Fatto questo potremo poi procedere a illustrare la logica interna alle Operette dando, come si conviene a una guida, dei criteri per maneggiare il libro. Abbiamo parlato di “opera aperta”, ma non per alludere a un laboratorio, immagine a cui l’opera di Leopardi può, a nostro avviso, essere alquanto equivocamente ridotta nel suo insieme dall’abuso di quel vero e proprio laboratorio che è lo Zibaldone, opera aperta in quanto non conclusa perché impossibile a concludersi, come accade di tutti i diari. Le Operette, secondo quanto a noi sembra, sono opera che, nelle intenzioni dell’autore, deve lasciare una traccia nel lettore, nel quale dovrebbe restare un’eco dello spirito fortemente critico che le domina. Sotto certi aspetti, più che non di un libro di filosofia, si tratta di un libro che alla filosofia introduce. Ed è per questo che esso si propone come lettura abituale, vero e proprio “libro da comodino”, a cui tornare tutte le volte che si voglia riprendere un discorso dall’inizio. 8. Il posto dell’uomo nel mondo In vari modi, e comunque insistentemente, dopo aver chiarito che il suo intento è di stabilire se l’uomo moderno sia veramente superiore o pari all’eroe antico, lo scrittore torna a porre lo stesso problema: qual è il posto dell’uomo nel mondo? E sempre a questa domanda trova la maniera di rispondere diversamente da come tradizionalmente si era fatto. L’uomo non è, per Leopardi, signore del mondo; non occupa nel mondo universo alcun posto privilegiato, deve piuttosto pensare a guardarsi dalle gravi minacce che su di lui incombono, sia come individuo, sia come specie. Tutte le Operette ci pongono di fronte a questa realtà, a cominciare dalla Storia del genere umano con cui Leopardi apre il suo discorso. Qui l’uomo è visto come un diseredato, una creatura insoddisfatta di sé, a cui viene man mano tolto o dato qualcosa con lo scopo di rendergli sopportabile la vita. In questa che può apparire una visione liberamente ispirata alla teoria di Vico dei corsi e dei ricorsi storici, si ironizza sulla incapacità dell’uomo di diventare adulto e sul suo bisogno di continuare a credere alle fiabe. Sempre da Vico ci pare derivi una ricostruzione storica basata sul fatto che la ragione naturale sia sufficiente a porre l’uomo di fronte ad alcune sostanziali verità. Da queste però l’uomo preferisce rifuggire costruendosi un mondo di sogni che ha chiamato “civiltà”. Poetica e suggestiva nel tono, a tratti quasi enigmatica, specie quando acquista il sapore di una parodia dei miti creazionistici, l’operetta lascia la materia trattata nel vago e nell’indefinito, risalendo nel tempo all’origine della specie umana. Filologicamente è una ricostruzione assai interessante della vicenda della storia dell’umanità perché assume nei fatti l’idea che il mito costituisse la forma originaria della comunicazione colta. Inoltre è una rivalutazione dell’oralità e uno dei primissimi documenti di una civiltà letteraria che, pur riferendosi a una tradizione scritta, esplicitamente ripropone una narrazione che, come tale, si pensa venga tramandata sotterraneamente quale succo di tutte le storie possibili. Posto poi a confronto col Cantico del Gallo silvestre, che è il risveglio, può apparire un canto per un affannoso assopimento dell’intelletto che a questa sfida deve pure reagire. Sicuramente ha una funzione introduttiva a tutta la prima serie delle Operette che vedono personaggi fantastici, talvolta mitologici dialogare tra loro in un tempo e in un’atmosfera indefinita. La funzione di prologo che ha La storia del genere umano si chiarisce anche nel fatto che in ciascuna di esse si tiene ben presente un tema già trattato dagli antichi moralisti, che così in Grecia come nell’antica Roma, si erano interrogati sulla fine imminente del mondo morale e politico edificato dai padri fondatori. La serietà e la sensibilità a questo riguardo dimostrata dagli antichi scrittori sono in contrasto con un diffuso e incosciente ottimismo che, nell’età di Leopardi, mostra di possedere l’uomo moderno. Qui chiariamo che è secondo noi senz’altro sbagliato considerare Leopardi nemico del progresso. Se c’è qualcosa di cui lo scrittore diffida è la retorica che non esitiamo a definire alienante, che su questo misterioso oggetto si va creando nella sua età. Contro le menzogne di questa nuova mitologia egli tira le sue frecce avvelenate e dall’ironia giunge, attraverso la satira, fino al sarcasmo. Tale atteggiamento risponde a un ufficio civile che alcune situazioni storiche, maturate nel seguito della vicenda culturale e spirituale di Leopardi, giustificano pienamente. 9. Il valore profetico delle Operette morali Usando toni e argomenti divulgativi, che si addicono a una Guida da utilizzarsi da parte di giovani lettori, potremmo dire che la bomba atomica, i disastri ecologici e gli stessi conflitti sociali possono tranquillamente essere letti come conseguenza di quella retorica così sgradita a Leopardi, il quale avrebbe a questo punto visto in anticipo le implicazioni che in tempi lunghi avrebbe potuto produrre un tale atteggiamento mentale. Veramente il timore che Leopardi esprime, a volte perfino con un senso d’angoscia, è che, se la nuova mitologia del progresso diventa filosofia di vita di una classe dirigente, si innesteranno meccanismi i cui effetti saranno per tutti disastrosi. E non aveva torto. In fondo, proprio nel nome del progresso, si sono compiute certe scelte e oggi, paradossalmente, parliamo dei mali del benessere. Sempre rimanendo al livello di una spicciola quotidianità, possiamo riferirci ad alcune malattie, anzi alcune sindromi, di cui soffrono le popolazioni “progredite”. Alludiamo allo stato di stress, alla depressione, all’ipertensione, all’anoressia, alla bulimia, all’obesità, che sono immediatamente riconducibili al più alto livello di produttività e di reddito che i popoli “evoluti” hanno conosciuto negli ultimi cento anni. Sono i contenuti concreti in cui si traduce il leopardiano male di vivere che, con espressione dotta, si continua a chiamare taedium vitae. E, in effetti, se in tale forma si presenta all’intellettuale dell’Ottocento e del primo Novecento, in chi tale male di vivere prova nella società del benessere senza la capacità (o la pretesa) di un’elaborazione filosofica, il leopardiano taedium vitae, s’abbassa alle forme appena descritte, che comportano una percezione dolorosa della vita, senza però quel certo compiacimento estetico che può renderne più tollerabile il peso. Siamo insomma al senso di nulla e di vuoto che avvertono confusamente tanti adolescenti del nostro tempo. Ma è intanto bene sapere che il ragazzino obeso che mastica pop-corn all’uscita di una sala giochi, soffre, senza saperlo, di quel disagio morale che Leopardi descrive nelle sue Operette. Non sono peraltro questi gli “incidenti” più gravi che, a nostro avviso, Leopardi aveva avuto il merito di prevedere come conseguenza della retorica del progresso. L’ideologia dell’ottimismo, che lo scrittore combatte energicamente, avrebbe infatti finito col veicolare, proprio attraverso quella retorica, una mentalità diffusa, dormiente nei confronti di alcuni importanti problemi. L’Europa delle nazioni che lottano per la loro indipendenza diventerà, nel giro di pochi decenni, l’Europa dei popoli in guerra tra loro. Ci riferiamo ai versi 111-125 della Ginestra, nei quali si afferma che una nobil natura è quella…che grande e forte / mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna. Leggendo la Ginestra, che sviluppa alcuni temi centrali delle Operette morali, si ha quasi la sensazione che Leopardi avesse in mente gli scenari di quella che sarebbe poi stata la prima guerra mondiale, cioè la guerra dei due fronti, quello esterno, contro il nemico in armi e l’altro, interno, alimentato da contrasti sociali non risolti. Di questi contrasti sociali egli ebbe modo di vedere solo l’inizio, ma comprese perfettamente l’inganno che rappresentava una democrazia rigorosamente censitaria, che tendeva a lasciare le popolazioni allo stato infantile, pronte ad obbedire in nome di valori superiori quando ce ne fosse stato bisogno. Quest’ultimo fatto suona quasi come una profezia di ciò a cui la retorica delle umane sorti e progressive avrebbe nel tempo portato. Infatti la prima guerra mondiale, risultato della politica internazionale degli Stati portabandiera della retorica del progresso, fu una guerra nata anche dalla convinzione che bastasse armare un popolo per farlo sentire unito, non vedendo che proprio la guerra avrebbe invece fatto precipitare le cose. Quel che accadde allora in Russia, come quel che sarebbe poi accaduto in Germania e in Italia, mostra quanto complessa e difficile fosse la situazione interna agli stati europei e quanto superficialmente la classe dirigente delle grandi potenze si fosse fino a quel momento regolata per fronteggiare i problemi reali della società in cui viviamo. Tutto questo, unito alle conquiste della moderna antropologia che ha corretto definitivamente la prospettiva etnocentrica un tempo imperante nelle scienze sociali (e che sarebbe stata centrale alla visione, sostanzialmente antileopardiana, del neoidealismo italiano), induce a proporre le Operette morali quale testo veramente fondamentale per gli studenti delle nostre scuole, ai quali occorre pure mettere in mano degli strumenti per una lettura meno ovvia del nostro recente passato.