Approfondimento III Le Operette morali viste da vicino

Approfondimento III
Le Operette morali viste da vicino
(dall’ironia alla satira al sarcasmo, un modo di raccontare e di intendere la storia
dell’umanità)
1. L’ironia come cifra delle Operette…
I fatti che abbiamo illustrato nei due Avviamenti alla lettura delle Operette morali
sono sufficienti a spiegare le principali ragioni della cattiva fortuna che trovò il
capolavoro leopardiano, un libro concepito apposta per intrattenere, a tratti
piacevolmente e con molto spirito e molta arguzia, anche il più distratto dei lettori. Un
libro che, se avesse trovato lo stesso numero di commentatori che ebbe I promessi sposi,
si sarebbe imposto facilmente all’attenzione dei lettori. In fondo è una raccolta di scritti
brevi, da leggersi e da rileggersi un tanto al giorno, fino a capire volta per volta il senso di
un discorso che, a cominciare dalla Storia del genere umano cresce su se stesso,
culminando nel Dialogo di Tristano e di un amico. Quest’operetta, che, nel suo carattere
spiccatamente meta-narrativo e meta-letterario, vale un bilancio conclusivo autoironicamente tendente al negativo (l’autore accetta di giustificarsi, perché il gioco lo
impone, ma lascia al tempo stesso intendere che non ce ne sarebbe bisogno, dovendosi
piuttosto giustificare altri scrittori, quelli che vendono sogni, illusioni, chimere solo
perché “piacciono”) è la degna conclusione di tutto un discorso1.
Ci riferiamo innanzitutto al discorso avviato col pubblico dei lettori che, come
accade per tutti gli autori di libri filosofici, cresce coerentemente su se stesso, per cui
sostenuta o adombrata una tesi oggetto di critiche e di polemiche, il lettore si aspetta una
replica convincente. E la replica sarà una riedizione delle Operette che nel 1834
appariranno nell’edizione Piatti che includerà il Dialogo di un Venditore d’almancchi e
1
d’invenzioni e di capricci malinconici”. Questa frase, nella quale Gentile aveva visto “fatta la palinodia”
del libro (G. Gentile, Proemio, p. LV), è giustamente intesa da Tellini quale “chiara coscienza” in
Leopardi “della propria irrimediabile sconfitta di fronte alla cultura egemone” (G. Tellini, Leopardi, op.
cit. p. 217).
In questo sens
un Passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, scritte nel ’32, e che vengono a
sigillare il senso di un discorso interrotto con i lettori, che sono in quell’occasione i
lettori che Leopardi si era guadagnati e che si aspettano dal loro autore un chiarimento. In
secondo luogo ci riferiamo alla coerenza interna del discorso che, proprio nel Dialogo di
Tristano e di un amico è costellato di ironiche, anzi ironicissime battute sulla “profonda
filosofia de’ giornali”, sulla “perfettibilità indefinita dell’uomo”, a cui si accompagnano
tirate assai violente, a parte quella citatissima per cui “questo secolo è un secolo di
ragazzi” . Ci riferiamo per esempio a questa osservazione:
Mi diceva pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la
mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli
2
esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati
o ancora
Ma viva la statistica! Vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i
manuali, le tante belle creazioni del nostro secolo! E viva sempre il secolo decimonono! Forse povero di
cose ma ricchissimo e larghissimo di parole; che sempre fu segno ottimo come sapete. E consoliamoci
3
per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
battuta di Tristano resa più eloquente dalla risposta dell’Amico:
Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico
4
che rende esplicito, chiaro, diretto, addirittura inequivocabile, l’intento dello
scrittore. Non c’è dubbio qui Leopardi è stato ironico e perfino uno sciocco se ne
accorgerebbe.
2 …e, a parte l’ironia la satira
Che poi gli accenti dell’ultima operetta, con cui si chiude il libro siano addirittura
più che ironici satirici, è quanto, secondo noi giustamente, vede Gino Tellini, il quale
coglie molto opportunamente un dettaglio che riguarda al tempo stesso la riedizione delle
Operette e la riedizione dei Canti, quelle ristampate nel 1834 e questi nell’anno
successivo. Ci riferiamo al fatto che
la Palinodia, introdotta in chiusura nei secondi Canti come magistrale pezzo satirico, a meglio
2
3
4
O. M. Dialogo di Tristano e di un Amico
ibidem
ibidem
marcare il pluristilismo del libro, riprende dal Tristano (analogo pezzo conclusivo) il motivo della finta
ritrattazione. Sono due testi palinodici che, nella stampa Sparita, hanno in comune il privilegio
5
dell’epilogo .
Che si condividano o meno le conclusioni che Tellini e altri possono trarre come
illazione da questo fatto, il fatto rimane e resta in particolare evidente che, se il finale di
un’opera è satirico, l’opera stessa è nella sua sostanza satirica, il che spiega che meglio
non si potrebbe il tono ironico che domina l’opera nel suo complesso.
E’ stato peraltro necessario del tempo perché l’ironia delle Operette morali
balzasse fuori, come caratteristica dell’opera. Sono state le osservazioni di Cesare
Luporini, di Ettore Bonora, di Sebastiano Timpanaro6 a spianare la strada alle più recenti
indagini che, su questo tema, hanno condotto Gino Tellini, Luigi Blasucci, Franco
Musarra e altri ancora, grazie ai quali il tema dell’ironia in Leopardi è stato sempre
meglio focalizzato7.
In particolare è vero che Leopardi, specialmente il Leopardi delle Operette morali,
sia il più ironico in assoluto di tutti gli scrittori italiani dell’Ottocento. Lo nota un fine ed
esigente lettore come Ettore Bonora che scrive: “Musa delle Operette è l’ironia, con
dosature e risultati che variano dall’una all’altra, ed elemento comune a tutte è
l’invenzione di una situazione specifica nella quale le idee del poeta trovano la possibilità
di una rappresentazione concreta e animata”8.
Ogni specificazione, sempre breve e contenuta, che segue nel tempo l’edizione
dello Stella del 1827, è appunto caratterizzata da sobrietà e ironia, due aspetti tipici delle
Operette fin dal loro primo apparire e che vengono a ogni nuova edizione portate sempre
più in luce dall’autore. La stessa edizione postuma dell’opera, fatta a cura di Antonio
Ranieri nel rispetto del desiderio dell’autore, risponde all’esigenza di dare maggior risalto
all’ironia leopardiana, includendovi finalmente alcune Operette la cui pubblicazione non
5
G. Tellini, Leopardi, op. cit. p. 270.
Fondamentali, a questo riguardo, sono le seguenti opere critiche: C. Luporini, Leopardi progressivo,
in C. Leporini, Filosofi vecchi e nuovi, Sansoni, Firenze 1947, pp.272-274; S. Timpanaro, Classicismo
e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965.
7
G. Tellini, Leopardi, op. cit, l’opera fa in realtà il punto circa ricerche condotte in precedenza
dall’autore e tra queste appare importante il volume collectaneo L’arte della prosa. Alfieri, Leopardi,
Tommaseo e altri, La Nuova Italia, Firenze 1995, dallo stesso Tellini curato. Circa Blasucci vale la pena
consultare L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985 ma anche Le
ragioni storiche della satira leopardiana, in R. Ceserani – L. De Federicis, Il materiale e
l’immaginario. Manuale e laboratorio di letteratura, vol. IV, Società e cultura della borghesia in
ascesa, Loescher, Torino 1993, p. 1162. Infine, per quanto riguarda Musarra, può leggersi Marche
ironiche nella “storia del genere umano” delle Operette morali, in H-L. Scheel – M. Lentzen (a cura
di), Giacomo Leopardi. Rezeption. Interpretation. Perspektiven, Stauffenberg Colloquium, Tubingen
1992, pp. 217-25.
8
E. Bonora, Letteratura italiana. Istituzioni e percorsi didattici, Petrini p. 367.
6
era stata possibile, vista l’azione dell’occhiuta censura borbonica.
Ora l’ironia, quando la si intende, diverte, perché crea tra scrittore e lettore una
sintonia che premia da un lato lo sforzo di comprensione del lettore e dall’altro quello di
farsi comprendere da parte dello scrittore, che dà segnali perché si legga, come si dice, tra
le righe. Da questo punto di vista non stupisce che l’ironia sia un po’ la cifra di un libro
che intende avviare alla filosofia e al gusto per il filosofare. In fondo quel che, fin
dall’epoca degli antichi Greci, caratterizza l’approccio alla filosofia è appunto la
disponibilità a cogliere quel che immediatamente non si nota e che sta, per così dire,
dietro alle cose.
Quel che dunque il lettore di Leopardi deve innanzitutto tener presente a avere
cura di individuare è proprio l’ironia. Ora l’ironia si coglie alla lettura cercando di
assumere il tono giusto, un tono di distacco, pungente, scherzoso che aiuti a cogliere il
significato vero di certe espressioni tipicamente tradizionalmente accolte come dolorosa
manifestazione di un disperante male di vivere.
3. Un esempio: il Venditore di almanacchi
Dicevamo nella Guida che nel capolavoro leopardiano si incontrano toni di fiaba e
che “il dialogo filosofico si esprime nei termini diretti e franchi del linguaggio usato nelle
premure degli affetti familiari”. Chiarendo, come è giusto che sia in sede di
approfondimento questo punto per noi importantissimo, ci piace sottolineare il fatto che
gli interlocutori di questi dialoghi, i personaggi di Leopardi insomma, spesso dotati di
grande fantasia, parlano come padri premurosi verso i loro figli e, nella veste di figli,
interrogano i padri per sapere, come nel Dialogo di Porfirio e Plotino. Altre volte sono
fratelli che si amano o che si intendono a meraviglia, magari un po’ gaglioffamente, come
la Moda e la Morte nel Dialogo che le vede protagoniste. In alcuni punti il lettore riceve
degli stimoli a una riflessione che prosegue facilmente da sé. Si pensi a un dialogo
“facile”, come quello tra il Venditore di almanacchi e un Passeggere, che abbiamo appena
ricordato come operetta aggiunta all’edizione del ’34, mancante nell’edizione del ’27,
quando ancora non era stata neppure composta. Qui lo scrittore avvia un gioco molto
divertente perché è chiaro, per poco che ci si rifletta, che al termine del dialogo accade
quello che non dovrebbe accadere, cioè che il Venditore continua nel suo “lavoro”, ben
sapendo ormai che si tratta di un’attività completamente inutile, addirittura parassitaria.
Egli è stato avvertito, con ragionamenti impeccabili che ha pure mostrato di dover
condividere, del fatto che sull’almanacco che vende non ci sono notizie in alcun modo
nuove per il lettore, che i soldi che ricava da quelle vendite sono per così dire rubati. Ma
preferisce non darsene per inteso e continua imperterrito ad offrire “almanacchi nuovi,
lunari nuovi”, patacche, come oggi diremmo, vecchie come il cucco. Tuttavia per il fatto
di essere “belli”, questi almanacchi valgono cioè “costano” e il passeggere, nel quale può
vedersi lo stesso Leopardi, paga i “trenta soldi” (il prezzo del tradimento?) che, dal
punto di vista del venditore, costituiscono il valore della preziosa merce che egli vende.
E’ vero, Leopardi non lo dice esplicitamente, ma proprio qui è il gioco del dialogo come
lui lo intende, un dialogo che non è fatto solo di ragionamenti, ma anche di azioni che
compiono i personaggi che dicono una cosa e, come in questo caso, ne fanno un’altra. Lo
stesso Passeggere, per quanto critico della logica della speranza, dell’augurio,
dell’ottimismo, acquista significativamente la “patacca”, forse per una forma di obbligo
sociale, visto che si è intrattenuto a parlare col Venditore e, avendogli tolto del tempo,
deve alla fine per buona educazione fare quello che tante volte facciamo anche noi oggi,
per cui entrando in un negozio e avendo chiesto, curiosato, cercato, chiacchierato, alla
fine ne usciamo con un pacchetto che non contiene esattamente quel che intendevamo
comprare e di cui avremmo a ogni buon conto avuto bisogno.
E’ trasparente, alla nostra percezione, il fatto che la vendita degli inutili almanacchi
servisse al Venditore per sopravvivere sul piano morale, facendo ipocritamente finta di
vivere decorosamente del proprio lavoro. Questo lavoro è però, come tanti altri lavori,
solo in apparenza gratificante e onesto, in quanto prevede un guadagno che solo le
convenzioni sociali fanno legittimo. Eppure, consistendo nel vendere, promuovere e
diffondere qualcosa che non serve a nessuno, quel “lavoro” è perfino dannoso perché in
competizione con qualsiasi altra sana e lodevole iniziativa che si persegua per l’utile
comune. Si aggiunga che, per poco che ci si addentri nella logica di un'editoria di
almanacchi per come questa può essere colta nella prospettiva di Leopardi, si capisce
assai bene che rieditando a distanza di anni un bell' Almanacco di cui il pubblico abbia
una vaga memoria, si fa un gran bel colpo, vendendo per nuovo ciò che è vecchio. Logica
che si completa in quest'altra, che cioè variando qualcosa di anno in anno, ritagliandola da
vecchi almanacchi, si fa un almanacco “nuovo”.
Venendo a una conclusione, la sostanziale inutilità di quanto il Venditore di
almanacchi fa potrebbe porre qualcuno di fronte alla domanda se non sia per caso più
dignitoso vivere della pubblica carità invece che rubando agli altri tempo e denari.
Discorso che non riguarda soltanto il Venditore di almanacchi, ma anche l’editore che
nell’Ottocento continua a dare alle stampe opere sostanzialmente diseducative, magari
giustificandosi col dire che i denari che fa con calendari, almanacchi e figurine gli servono
per pubblicare cose come le Operette morali o I promessi sposi. Col che siamo di nuovo
alle ragioni sostanziali di certe trasformazioni della società nell’arco di tutta un’epoca,
per la quale la liberalizzazione del mercato è di per se stessa progresso ma poi non bada
a come, in nome di questo progresso, il mercato si chiuda invece d’aprirsi. Si chiude sul
vecchio, sul ciarpame, sul sorpassato, sul kitch impreziosendolo per il piacere di bizzarri
collezionisti9.
4. Più che una punta di sarcasmo
La denuncia è bruciante, se non addirittura dolorosa, da parte di chi, come
Leopardi, sperava con i proventi del proprio lavoro di potersi affrancare
dall’oppressione della famiglia, che insistentemente lo richiamava a Recanati sapendo
delle sue ristrettezze finanziarie. Il fatto poi che la denuncia sia velata non toglie ma anzi
aggiunge efficacia a questo vero e proprio elzeviro di Leopardi, il quale ricama sui
legittimi sospetti del lettore, che non sia del tutto candido, circa i retroscena degli affari
del mondo delle lettere. Questo lettore è pronto a cogliere di quell’operetta il tono
sarcastico con cui lo scrittore esperto lo pone di fronte al fatto che un libro da sfogliare
piace ahimé di più di un libro che va letto.
Che sia questo, e non altro, il significato del dialogo è per noi certo, dal momento
che esso fu inserito, come già abbiamo ricordato, in una successiva edizione delle
Operette, e Leopardi vi cominciò a pensare subito dopo che il libro aveva ricevuto
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Già nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo si ragiona dei lunari (genere che evidentemente
Leopardi disprezzava), dove lo Gnomo, di fronte al sospetto che il genere umano sia scomparso dalla
faccia della Terra, esclama, con finta apprensione: “Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese,
perché non si stamperanno più lunari” e il Folletto gli risponde: “Non sarà gran male, che la luna per
questo non fallirà la strada”.
un’accoglienza, che, per quanto degna, fu, come è noto, al di sotto delle aspettative sia
dell’autore che dell’editore10. Rivelatrice, a nostro modo di vedere è poi la data di
composizione dell’operetta, che, ”pensata” nel 1827, è poi materialmente scritta nella
primavera del 1832.
A stimolare lo scrittore ci fu sicuramente la pubblicazione dei Dialoghetti sulle
materie correnti nell’anno 1831 di Monaldo Leopardi, suo padre, opera la cui
pubblicazione si colloca da parte degli studiosi tra la fine del 1831 e gli inizi del 1832. In
quell’occasione Leopardi andò su tutte le furie, preoccupato del fatto che tanti gli
attribuissero la paternità dell’opera che ebbe un immediato quanto inaspettato successo.
Di qui, se non il bisogno, almeno una spinta a chiarire la propria posizione, di tornare sul
già detto e ribadire i concetti in precedenza espressi, ironizzando sempre di più su libri
che, come quello di Monaldo, si sforzano di interpretare i fatti correnti, come se quel che
accade un anno possa essere diverso da quel che è accaduto l’anno precedente e che
accadrà l’anno seguente.
5. Leopardi di fronte alla nascente industria culturale
E’ a questo punto importante approfondire sul piano storico il discorso e aprire
una finestra su quanto all’epoca di Leopardi si diceva e si pensava intorno al rapporto
lettore - scrittore.
Nel caso del Dialogo di un Venditore di almanacchi e un Passeggere, non sembra a
tutta prima che si discuta di letteratura o che si affrontino problemi di politica culturale,
eppure la questione dei modi di diffusione e di commercializzazione di quanto si scriveva
e si pubblicava era, già all’epoca di Leopardi, oggetto di un dibattito che andava
presumibilmente a logorarsi in cavilli giuridici. Da Mario Cantella, che si è preso la briga
di ricostruire la vicenda di una lite sorta tra l’editore Le Monnier di Firenze e Alessandro
Manzoni, sappiamo che nel periodo compreso tra il 1815 e il 1840 (nel ’27, come
10
Il primo spunto per quest’operetta si trova nello Zibaldone [p.4284] e risale al luglio del 1827, anche
se solo nel 1832 Leopardi si risolverà a scriverla, probabilmente con lo scopo di pubblicarla per “Lo
Spettatore”.
abbiamo già ricordato, appaiono le Operette morali) il mercato librario “era dilaniato da
una vera e propria guerra editoriale”11. Sicuramente la pirateria era esercitata ancor più
che dal libraio che tenesse al proprio nome, da “editori” improvvisati, di quelli che
insomma stampano biglietti da visita, inviti, annunci e naturalmente… almanacchi e
lunari12.
Aggiungiamo che nel 1844 Carlo Tenca, in un saggio da lui scritto per la “Rivista
Europea” e di cui la censura proibì la pubblicazione13, lamentava il fatto che l’autore non
avesse quasi parte dei profitti legati alla stampa dell’opera da lui scritta. Equiparato al
tipografo non è quanto questi ritenuto necessario, infatti “l’editore quando non trovi in
lui un operaio compiacente e sommesso ne fa senza, e si dà al tradurre ed al
ristampare”14. Perciò – sostiene Tenca – la “prima e grande immoralità del traffico
librario” è “il monopolio degli editori”15, commentando: “Quest’è veramente la peste,
che ha contaminato la povera letteratura, e l’ha fatta discendere nella sfera del più volgare
industrialismo”16.
Chi in questo contesto parla di peste, in senso ovviamente figurato, allude a un
male endemico che nel 1844 aveva messo ormai salde radici. Sicché è da ritenere che con
questa “peste” avesse a che fare lo stesso Leopardi, le cui Operette morali, apparse
come abbiamo ricordato nel 1827, furono ristampate una prima volta nel 1834, quindi
l’anno successivo cioè nel 1835 e infine, realizzando un desiderio dell’autore ormai
scomparso, nel 1845 con quella che può considerarsi l’edizione definitiva delle Operette.
6. La mancata risposta da parte del pubblico
11
M. Cantella, Prefazione a A. Manzoni, Processo Manzoni Le Monnier, La Spiga, Milano 1984, p. 7.
Ci pare interessante osservare che, in margine alla vicenda della “Convenzione” apparve un articolo di
Pasquale Stanislao Mancini, che attirò l’attenzione di Pasquale Galluppi che, evidentemente toccato anche
lui su un aspetto vivo della sua vita professionale, manifesta la sua indignazione per un aspetto in realtà
interessantissimo che è quello della “proprietà letteraria” e della sua definizione. “Un Autore, scrive
Galluppi, produce un’opera; egli fa delle spese per pubblicarla: i prodotti della sua opera servono al
sostentamento suo e della sua famiglia. Un libraio avido di arricchirsi co’ sudori altrui la stampa; il
libraio si arricchisce, e l’Autore cade nella miseria; domando al buon senso degli uomini onesti: un tal
libraio non è un ladro peggiore di quelli, che ne’ boschi rubano i passeggeri?” (P. Galluppi, Saggi e
polemiche. La collaborazione a periodici dal 1828 al 1845, Pantograf, Genova 1991, p. 254).
13
C. Tenca, Del commercio librario in Italia e dei mezzi per riordinarlo, in C. Scarpati, Un saggio
inedito di Carlo Tenca, in Studi di letteratura e storia in memoria di Antonio Di Pietro, Vita e Pensiero,
Milano 1977, p. 185. E’ appunto nell’intervento di Scarpati che si dà notizia del reperimento dello scritto,
che da allora è a disposizione degli studiosi.
14
ibidem
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ibidem
16
ibidem
12
Fatti del genere avrebbero dovuto risvegliare, nell’intellighenzia italiana dell’età in
cui Leopardi visse, un’attenzione tutta particolare a un’opera veramente capace di
destare un qualche senso critico, per poco che fosse letta veramente, anche per il livore
che qua e là traspare per “gazzette” e “giornali”, cioè per un modo di diffondere e gestire
la cultura che difetta nel punto di tutelare i diritti degli autori. Si fece una scelta diversa e
si preferì, secondo noi, non capire, con la conseguenza che si continuò a non capire anche
in seguito. Che lo si sia fatto apposta, o meno, l’accento posto dalla critica sul
pessimismo leopardiano andò a scapito dell’ironia, talvolta così sottile da essere perfino
divertita, cosa che ha impedito in passato e impedisce ancora oggi una corretta lettura
delle Operette. Le implicazioni morali relative a un costume diffuso che vede il furto solo
nel gesto mariuolo del borseggiatore, ma non in chi ci sollecita a una spesa inutile non
furono viste, perché colpivano tutta una concezione di vita, che da mille passi dello
Zibaldone risulta essere invisa a Leopardi.
Non si intende la critica a questo pressappochismo morale, perché non si ha il
coraggio di dire come veramente stanno le cose e riconoscere che chi è ladro è ladro anche
(e soprattutto) quando ruba legittimamente. Il furto per disperazione, per fame, può
giustificarsi, anche perché chi lo compie ha sofferto prima di decidersi a farlo e quella
sofferenza, oltre che fisica è quasi certamente anche morale, almeno quando chi ruba per
fame non abbia mai rubato prima e si risolva dopo un dissidio interiore a compiere, per
sopravvivere, un gesto che altrimenti gli ripugnerebbe. Chi ruba per avidità è vile, perché
aspetta il momento propizio per fare quello che non va fatto. Chi ruba “legittimamente”
poi è vile due volte, quando ruba e quando si nasconde, con ipocrita orgoglio, dietro il
paravento della legittimità. Il Venditore di almanacchi e il padrone per il quale egli lavora
difettano di grandezza perché esercitano un tipo di ricatto morale sul pubblico a cui si
rivolgono.
Ora che un libro di filosofia, che alla filosofia introduce, alluda a queste cose, con
un’ironia al limite del sarcasmo, è un elemento di sicura novità, specie in un’epoca in cui
il pubblico preme per avere di più (in termini di quantità) e manca chi assolva alle
funzioni di mecenate, situazione che fa a pugni con un conclamato liberalismo, che si
sospetta sia conclamato solo perché è alla moda parlarne.
Commento:
Il liberalismo secondo noi non fu l’ideologia della borghesia, utile alla borghesia per prendere il
potere politico, dopo che di quello economico si era già appropriata. Ridurre a tutto questo il liberalismo
significa fare un torto agli intellettuali che nell’epoca di Leopardi e anche successivamente pensarono a
una “rivoluzione liberale”, nel senso in cui ne parlava ancora Piero Gobetti. Questa “rivoluzione”
consisteva nell’ampliamento dei quadri della classe dirigente in tutti i paesi europei. Per secoli
l’aristocrazia aveva rivendicato per sé ed esclusivamente per sé diritti esclusivi, di fatto chiudendo a chi
aristocratico non fosse la via per il conseguimento dei posti “importanti”, che dessero lustro e prestigio
alla persona. La nuova economia, che si fondava sulle attività lucrative del commercio e dell’industria,
lasciava intendere che la base della classe dirigente si potesse ampliare ben oltre i limiti dell’ 1% che per
secoli era stato canonico un po’ in tutta Europa. Sul piano culturale questo significò la crisi della cultura
contadina, cioè il tramonto dei valori legati alla terra, infatti il terreno di incontro era dato adesso dalla
città, dove la piazza, il caffè, il circolo prendono il posto della dimora signorile, del patio e dell’aia.
Lasciare Donnafugata per risiedere a Palermo è quanto nella vita quotidiana richiede quel gattopardismo di
cui il liberalismo ottocentesco fu ispiratore. In sostanza si trattò, o si sarebbe dovuto trattare, di rendere
partecipi quanti volessero entrare a far parte di una schiera di persone che per secoli avevano esercitato
l’arte di governare città, terre, averi, di tutta una cultura che non consisteva solo nel saper comandare, ma
anche in una memoria storica vissuta. Che tale memoria storica fosse necessaria e che certi rituali ad essa
legata dovessero mantenersi è quanto pochi avvertono necessario. Per Leopardi è per esempio vitale che si
trasmetta alle generazioni future l’aspirazione alla gloria, chiedere che si dia prova del valore personale per
essere assunti nell’Olimpo dei “grandi”, scrittori, filosofi, statisti, che, praticando le “arti liberali”,
devono passare il testimone a quanti ne seguiranno le orme. Ma già per molti queste sono formalità legate
al passato, cerimoniali inutili. Si vuol fare e si vuol fare presto ad aprire e a richiudere i corridoi d’accesso
alla nuova classe dirigente, senza dare troppe spiegazioni in pubblico di quanto in alto è stato deciso
come ineluttabile.
Di qui la decisione che fu quella di dare vita a una nuova aristocrazia basata sul censo, nuovo
metro obiettivo del valore personale. Il rischio di un’apertura che consentisse a chiunque di farsi strada
grazie al merito, alle capacità personali, alle ambizioni generose, all’impegno profuso è quanto si volle
scongiurare. Perciò le Operette morali furono nel breve giro di poche generazioni aperte, lette e riposte
badando che, oltre alla polvere della storia se ne costruisse attorno una teca che, senza far torto a nessuno,
rendesse un decoroso onore a un poeta che per suo capriccio si era dedicato alla filosofia.
Questo e non altro ha secondo noi lavorato contro questo libro. Un tale sospetto si
è trasformato in ferma convinzione quando, studiandolo più da vicino, abbiamo scoperto
che si tratta di un capolavoro tutto costruito e mandato avanti per aggirare la macchina
della censura. Ogni allusione, ogni levità, ogni pausa nelle Operette morali serve a questo
scopo e tutto il sarcasmo che c’è nel libro, e che solo in parte è sotterraneo, si rivolge a
tutto quanto ha a che fare con la censura. E’ questo un punto molto importante e sul
quale abbiamo attirato l’attenzione negli Approfondimenti, che ci sono parsi lo spazio
più idoneo all’impresa, nella convinzione che il lettore d’oggi dovrebbe cogliere
quest’aspetto delle Operette sapendolo attualizzare, come ci pare sia, oltre che legittimo,
anche opportuno.
7. Lo sfondo storico culturale delle Operette morali
Abbiamo fin qui dato un assaggio di lettura delle Operette badando a porre sui
giusti binari la comunicazione tra scrittore e lettore, per come Leopardi la concepì.
Ammettiamo inoltre che l’assaggio è stato dato alquanto provocatoriamente. Quel che
ora faremo sarà aggiungere altri elementi indispensabili, a nostro modo di vedere, per
illustrare lo sfondo storico e culturale di un libro scritto ormai quasi duecento anni fa. Si
vedrà allora che l’assaggio era un boccone che andava giù da solo. Fatto questo potremo
poi procedere a illustrare la logica interna alle Operette dando, come si conviene a una
guida, dei criteri per maneggiare il libro.
Abbiamo parlato di “opera aperta”, ma non per alludere a un laboratorio,
immagine a cui l’opera di Leopardi può, a nostro avviso, essere alquanto equivocamente
ridotta nel suo insieme dall’abuso di quel vero e proprio laboratorio che è lo Zibaldone,
opera aperta in quanto non conclusa perché impossibile a concludersi, come accade di
tutti i diari. Le Operette, secondo quanto a noi sembra, sono opera che, nelle intenzioni
dell’autore, deve lasciare una traccia nel lettore, nel quale dovrebbe restare un’eco dello
spirito fortemente critico che le domina. Sotto certi aspetti, più che non di un libro di
filosofia, si tratta di un libro che alla filosofia introduce. Ed è per questo che esso si
propone come lettura abituale, vero e proprio “libro da comodino”, a cui tornare tutte le
volte che si voglia riprendere un discorso dall’inizio.
8. Il posto dell’uomo nel mondo
In vari modi, e comunque insistentemente, dopo aver chiarito che il suo intento è
di stabilire se l’uomo moderno sia veramente superiore o pari all’eroe antico, lo scrittore
torna a porre lo stesso problema: qual è il posto dell’uomo nel mondo? E sempre a
questa domanda trova la maniera di rispondere diversamente da come tradizionalmente si
era fatto. L’uomo non è, per Leopardi, signore del mondo; non occupa nel mondo
universo alcun posto privilegiato, deve piuttosto pensare a guardarsi dalle gravi minacce
che su di lui incombono, sia come individuo, sia come specie. Tutte le Operette ci
pongono di fronte a questa realtà, a cominciare dalla Storia del genere umano con cui
Leopardi apre il suo discorso. Qui l’uomo è visto come un diseredato, una creatura
insoddisfatta di sé, a cui viene man mano tolto o dato qualcosa con lo scopo di rendergli
sopportabile la vita. In questa che può apparire una visione liberamente ispirata alla
teoria di Vico dei corsi e dei ricorsi storici, si ironizza sulla incapacità dell’uomo di
diventare adulto e sul suo bisogno di continuare a credere alle fiabe. Sempre da Vico ci
pare derivi una ricostruzione storica basata sul fatto che la ragione naturale sia sufficiente
a porre l’uomo di fronte ad alcune sostanziali verità. Da queste però l’uomo preferisce
rifuggire costruendosi un mondo di sogni che ha chiamato “civiltà”. Poetica e suggestiva
nel tono, a tratti quasi enigmatica, specie quando acquista il sapore di una parodia dei
miti creazionistici, l’operetta lascia la materia trattata nel vago e nell’indefinito, risalendo
nel tempo all’origine della specie umana. Filologicamente è una ricostruzione assai
interessante della vicenda della storia dell’umanità perché assume nei fatti l’idea che il
mito costituisse la forma originaria della comunicazione colta. Inoltre è una rivalutazione
dell’oralità e uno dei primissimi documenti di una civiltà letteraria che, pur riferendosi a
una tradizione scritta, esplicitamente ripropone una narrazione che, come tale, si pensa
venga tramandata sotterraneamente quale succo di tutte le storie possibili. Posto poi a
confronto col Cantico del Gallo silvestre, che è il risveglio, può apparire un canto per un
affannoso assopimento dell’intelletto che a questa sfida deve pure reagire. Sicuramente
ha una funzione introduttiva a tutta la prima serie delle Operette che vedono personaggi
fantastici, talvolta mitologici dialogare tra loro in un tempo e in un’atmosfera indefinita.
La funzione di prologo che ha La storia del genere umano si chiarisce anche nel
fatto che in ciascuna di esse si tiene ben presente un tema già trattato dagli antichi
moralisti, che così in Grecia come nell’antica Roma, si erano interrogati sulla fine
imminente del mondo morale e politico edificato dai padri fondatori. La serietà e la
sensibilità a questo riguardo dimostrata dagli antichi scrittori sono in contrasto con un
diffuso e incosciente ottimismo che, nell’età di Leopardi, mostra di possedere l’uomo
moderno.
Qui chiariamo che è secondo noi senz’altro sbagliato considerare Leopardi nemico
del progresso. Se c’è qualcosa di cui lo scrittore diffida è la retorica che non esitiamo a
definire alienante, che su questo misterioso oggetto si va creando nella sua età. Contro le
menzogne di questa nuova mitologia egli tira le sue frecce avvelenate e dall’ironia giunge,
attraverso la satira, fino al sarcasmo. Tale atteggiamento risponde a un ufficio civile che
alcune situazioni storiche, maturate nel seguito della vicenda culturale e spirituale di
Leopardi, giustificano pienamente.
9. Il valore profetico delle Operette morali
Usando toni e argomenti divulgativi, che si addicono a una Guida da utilizzarsi da
parte di giovani lettori, potremmo dire che la bomba atomica, i disastri ecologici e gli
stessi conflitti sociali possono tranquillamente essere letti come conseguenza di quella
retorica così sgradita a Leopardi, il quale avrebbe a questo punto visto in anticipo le
implicazioni che in tempi lunghi avrebbe potuto produrre un tale atteggiamento mentale.
Veramente il timore che Leopardi esprime, a volte perfino con un senso d’angoscia, è
che, se la nuova mitologia del progresso diventa filosofia di vita di una classe dirigente, si
innesteranno meccanismi i cui effetti saranno per tutti disastrosi. E non aveva torto. In
fondo, proprio nel nome del progresso, si sono compiute certe scelte e oggi,
paradossalmente, parliamo dei mali del benessere. Sempre rimanendo al livello di una
spicciola quotidianità, possiamo riferirci ad alcune malattie, anzi alcune sindromi, di cui
soffrono le popolazioni “progredite”. Alludiamo allo stato di stress, alla depressione,
all’ipertensione, all’anoressia, alla bulimia, all’obesità, che sono immediatamente
riconducibili al più alto livello di produttività e di reddito che i popoli “evoluti” hanno
conosciuto negli ultimi cento anni. Sono i contenuti concreti in cui si traduce il
leopardiano male di vivere che, con espressione dotta, si continua a chiamare taedium
vitae. E, in effetti, se in tale forma si presenta all’intellettuale dell’Ottocento e del primo
Novecento, in chi tale male di vivere prova nella società del benessere senza la capacità
(o la pretesa) di un’elaborazione filosofica, il leopardiano taedium vitae, s’abbassa alle
forme appena descritte, che comportano una percezione dolorosa della vita, senza però
quel certo compiacimento estetico che può renderne più tollerabile il peso. Siamo
insomma al senso di nulla e di vuoto che avvertono confusamente tanti adolescenti del
nostro tempo. Ma è intanto bene sapere che il ragazzino obeso che mastica pop-corn
all’uscita di una sala giochi, soffre, senza saperlo, di quel disagio morale che Leopardi
descrive nelle sue Operette.
Non sono peraltro questi gli “incidenti” più gravi che, a nostro avviso, Leopardi
aveva avuto il merito di prevedere come conseguenza della retorica del progresso.
L’ideologia dell’ottimismo, che lo scrittore combatte energicamente, avrebbe infatti finito
col veicolare, proprio attraverso quella retorica, una mentalità diffusa, dormiente nei
confronti di alcuni importanti problemi. L’Europa delle nazioni che lottano per la loro
indipendenza diventerà, nel giro di pochi decenni, l’Europa dei popoli in guerra tra loro.
Ci riferiamo ai versi 111-125 della Ginestra, nei quali si afferma che una nobil natura è
quella…che grande e forte / mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più
gravi / d’ogni altro danno, accresce l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a
quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna.
Leggendo la Ginestra, che sviluppa alcuni temi centrali delle Operette morali, si ha
quasi la sensazione che Leopardi avesse in mente gli scenari di quella che sarebbe poi
stata la prima guerra mondiale, cioè la guerra dei due fronti, quello esterno, contro il
nemico in armi e l’altro, interno, alimentato da contrasti sociali non risolti. Di questi
contrasti sociali egli ebbe modo di vedere solo l’inizio, ma comprese perfettamente
l’inganno che rappresentava una democrazia rigorosamente censitaria, che tendeva a
lasciare le popolazioni allo stato infantile, pronte ad obbedire in nome di valori superiori
quando ce ne fosse stato bisogno.
Quest’ultimo fatto suona quasi come una profezia di ciò a cui la retorica delle
umane sorti e progressive avrebbe nel tempo portato. Infatti la prima guerra mondiale,
risultato della politica internazionale degli Stati portabandiera della retorica del
progresso, fu una guerra nata anche dalla convinzione che bastasse armare un popolo per
farlo sentire unito, non vedendo che proprio la guerra avrebbe invece fatto precipitare le
cose. Quel che accadde allora in Russia, come quel che sarebbe poi accaduto in Germania
e in Italia, mostra quanto complessa e difficile fosse la situazione interna agli stati
europei e quanto superficialmente la classe dirigente delle grandi potenze si fosse fino a
quel momento regolata per fronteggiare i problemi reali della società in cui viviamo.
Tutto questo, unito alle conquiste della moderna antropologia che ha corretto
definitivamente la prospettiva etnocentrica un tempo imperante nelle scienze sociali (e
che sarebbe stata centrale alla visione, sostanzialmente antileopardiana, del neoidealismo
italiano), induce a proporre le Operette morali quale testo veramente fondamentale per
gli studenti delle nostre scuole, ai quali occorre pure mettere in mano degli strumenti per
una lettura meno ovvia del nostro recente passato.