Università di Bologna Dipartimento di Filosofia e comunicazione Corso di Filosofia del linguaggio 2012/13 1ª settimana per le lauree di Scienze della comunicazione (6 cfu), DAMS (6 cfu integrati, assieme a 6cfu del corso di Analisi della comunicazione visiva nel corso di Filosofia del linguaggio C.I. di 12 cfu), Lingue e letterature straniere (9 cfu). Il corso di filosofia del linguaggio per le lauree triennali, quest’anno, tratta di due filosofi del linguaggio del ‘600 e ‘700 e di un filosofo del linguaggio dell’ ’800-900, e precisamente di Locke, Leibniz e Frege. (Studenti DAMS) Per la parte di Analisi della comunicazione visiva vedere il programma del corso con lo stesso nome. Testi/Bibliografia Brani da: John Locke Saggio sull'intelligenza umana, libro III (Roma-Bari Laterza 2006). Gottfried W. Leibniz Nuovi saggi sull'intelletto umano, libro III (Roma-Bari Laterza 1999). Gottlob Frege "Senso e significato" e "Il pensiero". Inoltre: Paolo Casalegno Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio (Roma Carocci 2011). Ogni settimana si possono ricuperare delle note dalle lezioni dal sito: http://web.dfc.unibo.it/paolo.leonardi/index.html Metodi didattici Oltre alla lezione frontale, gli studenti saranno richiesti di leggere alcuni testi e di discuterne pubblicamente. Modalità di verifica dell'apprendimento Esame orale. Strumenti a supporto della didattica Materiali e appunti disponibili on line. Tutti i materiali, le prove d'esame e gli avvisi si trovano all’URL sopraindicato. 2 Orario di ricevimento Consultare il sito http://www.unibo.it/SitoWebDocente/[email protected] Ecco il calendario del corso: 30 settembre 2013 Il programma: impostazione del problema. 1° ottobre 2013 La filosofia del linguaggio dell’empirismo classico: John Locke 1 2 ottobre 2013 La filosofia del linguaggio dell’empirismo classico: John Locke 2 7 ottobre 2013 Discussione di testi di John Locke 8 ottobre 2013 La filosofia del linguaggio dell’empirismo classico: John Locke 3 Fare filosofia: l’essere umano è un animale razionale – discussione sulla definizione aristotelica in Dell’interpretazione La filosofia del linguaggio del razionalismo classico: Gottfried Wilhelm Leibniz 1 9 ottobre 2013 14 ottobre 2013 15 ottobre 2013 22 ottobre 2013 Discussione di testi di Gottfried Wilhelm Leibniz La filosofia del linguaggio del razionalismo classico: Gottfried Wilhelm Leibniz 2 La filosofia del linguaggio del razionalismo classico: Gottfried Wilhelm Leibniz 3 Fare filosofia: discussione delle sezioni 491-513 della Prima parte delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein 23 ottobre 2013 La filosofia del linguaggio contemporanea: Gottlob Frege 1 28 ottobre 2013 Discussione di testi di Gottlob Frege 29 ottobre 2013 La filosofia del linguaggio contemporanea: Gottlob Frege 2 30 ottobre 2013 La filosofia del linguaggio contemporanea: Gottlob Frege 3 16 ottobre 2013 21 ottobre 2013 L’esame di questo corso, o per chi, studente DAMS segue questo come parte di un corso integrato con Analisi della comunicazione visiva, l’esame di questa parte del corso, è un colloquio orale sui testi e sugli appunti. La mia esperienza è che alcuni studenti trascurano sempre qualcosa, e per lo più questo vien fuori durante l’esame. Il questionario di valutazione del corso, che viene proposto la penultima o l’ultima settimana del corso, è importante, perché serve all’Università per migliorare la didattica che vi è offerta. Rispondete con cura, riflettendo sui diversi quesiti. Questo è un corso e non una serie di conferenze. Nel corso parlerò soprattutto io, ma ci saranno 5 incontri diversi. In 3 casi vi chiederò di leggere un pezzo, e ne discuteremo assieme con la formula: voi fate domande, qualunque domanda legata al testo proposto, e io rispondo. Cioè, in queste occasioni non introdurrò prima in nessun modo il testo che 3 vi propongo di leggere. In 2 casi vi proporrò di nuovo alcune pagine, nel primo un breve pezzo di Aristotele e un commento di Franco Lo Piparo; nel secondo cinque pagine di Ludwig Wittgenstein, e cercheremo insieme di analizzare i temi che Aristotele (e Lo Piparo) e Wittgenstein affrontano. Il filosofo non è uno scienziato, né un artista. Ci sono filosofi-scienziati (e scienziati-filosofi) come Aristotele e Descartes (Galileo e Chomsky), e ci sono testi filosofici di grande valore letterario come alcuni dialoghi di Platone, le Confessioni di Agostino, Il Principe di Machiavelli. Lo specifico del filosofo sono due dimensioni, e i benefici marginali della filosofia sono due generi di prodotti. Il filosofo rende il senso del tutto e si occupa di alcuni aspetti di base (come preferisco chiamarli invece di usare il termine ‘fondamenti’). Che differenza fa parlare una lingua è un aspetto di base. Così come cosa sono l’etica, l’estetica, la giustizia, la realtà, la conoscenza, la verità, la ragione, le passioni, l’esistenza. Gli esempi degli aspetti di base mostrano come la seconda dimensione si colleghi alla prima, cioè come gli aspetti di base si colleghino al rendere il senso del tutto. Un beneficio marginale della filosofia è imparare a fare mappe di problemi. Un altro beneficio marginale è imparare a controllare l’ansia che l’avere un problema dà. Questo secondo beneficio è ciò che fa credere i filosofi saggi. Il tema del corso di quest’anno sono due teorie sei-settecentesche sulla lingua, e una teoria otto-novecentesca. Se leggete questo passo della Genesi 2 [a]llora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi … a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici … La Genesi non dice come Adamo fosse arrivato a parlare, ma dice che Dio l’aveva creato, prima degli animali, nello stesso modo in cui racconta in questo passo come crea animali e uccelli. Quindi, suggerisce Dio abbia creato l’uomo capace di parlare. L’uomo sarebbe apparso insieme al suo tratto distintivo, il parlare, che la Genesi presenta in maniera speciale, quasi da filosofo del linguaggio, come imporre nomi alle cose. Gli esseri sono una creazione divina, le parole una creazione dell’uomo. Un altro passo della Genesi, riguarda la lingua e meriterebbe una discussione che non farò. In Genesi 11 si dice: Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in 3 4 progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro.» Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. Il mito di Babele ha alcuni aspetti interessanti e secondari. Gli uomini, secondo il mito, parlavano tutti una stessa lingua, o parlavano ciascuno la propria lingua e tutti comprendevano tutti, prima della punizione divina? Ha poi aspetti primari, perché suggerisce che la lingua sia una oggetto ben determinato, per esempio che l’italiano sia fatto così e così. No, la lingua è un’astrazione. L’italiano è un intorno di milioni di varianti, ed esiste come astrazione finché c’è una comunità che si identifica con la lingua (e anche questa è un’astrazione) ed è in contatto continuo, perché a scuola, nei tribunali, negli ospedali, in borsa, ecc, si parla quella lingua, perché a casa e al mercato si parla italiano. Appena ci si allontana un po’ la lingua cambia. Così ci sono varianti dell’italiano, che in una suddivisione molto ottimistica comprende l’italiano del nordovest, quello del nordest, quello del centro, quello del sud, quello della Sicilia e quello della Sardegna. Se fate attenzione, però, scoprirete che già a casa di vostra cugina l’italiano che parlano è qua e là diverso da quello di casa vostra. Il mito di Babele è un mito di semplificazione. Una lingua franca, come il latino in Europa e nell’area mediterranea, per secoli, e l’inglese oggi, sono complessi di pidgin, cioè lingue con più lessici e più grammatiche, che “imbastardiscono” la lingua originale. Non affronterò però la questione. Voglio solo mettervi in guardia. I filosofi da sempre, cioè da prima di Platone, hanno manifestato interesse per l’origine della lingua. Nel Cratilo, Cratilo stesso, uno dei tre personaggi del dialogo, immagina che la lingua sia stata introdotta da una specie di demiurgo, un legislatore che avrebbe creato nomi naturalmente adatti a ciò che nominano. Ermogene, che nel dialogo si contrappone a Cratilo, ritiene invece che i nomi siano convenzionali, siano imposti dagli uomini e da questi trasmessi. Ci sono molte dimensioni già in questa antica discussione che in parte ripresenta discussioni ancora precedenti. Qui me ne interessa una sola – che immagine della lingua ci è offerta? La posizione di Ermogene potrebbe sembrare più vicina a una posizione empirista, come quella di Locke. Complicando un po’ la questione e parlando non solo della nostra esperienza, la lingua che parliamo, si vorrebbe dire in questo caso, è un’eredità culturale dei nostri antenati limitatamente rivista dai nostri coetanei e da noi stessi (le lingue mutano). La posizione naturalista 5 di Cratilo, per il quale la lingua e giusta per natura, qualunque cosa questo voglia dire, suggerirebbe un’interpretazione innatista – la lingua come dono di Dio, o la lingua come un prodotto dell’esperienza della specie homo sapiens sapiens, e innata in ciascun individuo appartenente alla specie. Un’ipotesi innatista è quella di Leibniz che nel suo testo, che ha la forma del dialogo, viene sostenuta da Teofilo contro Filalete. Teofilo è la voce di Leibniz appunto e Filalete è la voce di Locke. Da John Locke Saggio sull’intelletto umano, libro III CAPITOLO I. DELLE PAROLE, O DEL LINGUAGGIO IN GENERALE 1. Dio, avendo inteso che l’uomo avesse a essere una creatura socievole, lo ha fatto, non soltanto con l’inclinazione, e dominato da una necessità, di accompagnarsi agli altri esseri della specie sua, ma lo ha anche fornito del linguaggio, destinato ad essere il grande strumento e il comune legame della società. L’uomo, perciò, da natura ha avuto gli organi suoi foggiati in tal modo da esser atti a formare suoni articolati, che chiamiamo parole. Ma questo non bastava a produrre il linguaggio; poiché i pappagalli, e vari altri uccelli, potranno essere istruiti a emettere suoni articolati abbastanza distinti, benché tali animali non siano in alcun modo capaci di linguaggio. 2. Oltre i suoni articolati, perciò, era ancor necessaria che egli fosse in grado di servirsi di tali suoni come segni di concezioni interiori, e di fissarli come contrassegni delle idee contenute nella sua mente: contrassegni mediante i quali esse potessero esser notificate ad altri, e i pensieri della mente degli uomini trasmessi dall’uno all’altro. 3. Ma nemmeno questo bastava a dare alle parole tutta l’utilità che dovevano avere. Non basta, per la perfezione del linguaggio, che i suoni siano presi come segni delle idee, ove di tali segni non si possa far 5 6 uso tale da comprendere in essi varie cose particolari: poiché la moltiplicazione delle parole- ne avrebbe reso l’impiego pieno di perplessità, se ogni cosa particolare avesse avuto bisogno di un nome distinto con cui significarla. [Per porre rimedio a questo inconveniente, il linguaggio ottenne ancora un altro miglioramento nell’uso dei termini generali coi quali fu fatta una sola parola a contrassegnare una moltitudine di esistenze particolari; e questo uso così vantaggioso dei suoni fu ottenuto soltanto mediante la differenza delle idee delle quali essi furono presi come segni: diventando generali quei nomi cui è stato dato da significare idee generali, e rimanendo particolari quelli che sono usati per idee particolari.]1 4. Oltre questi nomi che rappresentano delle idee, vi sono altre parole di cui gli uomini fanno uso, non per significare alcuna idea, ma la mancanza o assenza di certe idee, semplici o complesse, o delle idee tutte quante; tali sono nihil in Iatino, e, in italiano, ignoranza e sterilità (in ingl. barrenness). E non si può dire di tutte queste parole negative o privative che propriamente non appartengano a qualche idea o non ne significhino alcuna: poiché in tal caso sarebbero suoni perfettamente insignificanti; ma si riferiscono a idee positive, e ne significano l’assenza. 5. Ci aiuterà anche un poco a intendere l’origine di tutte le nostre nozioni e di ogni conoscenza l’osservare quanto sia grande la dipendenza delle nostre parole dalle idee sensibili comuni; e come quelle di cui si fa uso perché rappresentino azioni e nozioni del tutto remote dal senso, abbiano da quello il loro nascimento, e da idee sensibili ovvie siano trasferite a significati più astrusi, e portate a rappresentare idee che non cadono sotto la cognizione dei nostri sensi; ad es., immaginare, apprendere, comprendere, aderire, concepire, instillare, disgustare, turbamento, tranquillità, ecc, sono tutte parole tolte dalle operazioni di cose sensibili, e applicate a certi modi del pensiero. Spirito, nel suo senso primario, è il respiro; angelo è un messaggero; e non dubito che, se potessimo riportarli alle loro fonti, in tutti i linguaggi troveremmo che i nomi che esprimono cose che non cadono sotto i nostri sensi hanno avuto la loro prima origine da idee sensibili. Dal che possiamo in qualche modo congetturare di quale specie fossero le nozioni, e donde tratte, che 1 Aggiunto nella seconda edizione. 7 riempirono di sé le menti di coloro che furono i primi iniziatori delle lingue, e come inconsapevolmente la natura, già nel nominar delle cose, suggerisse agli uomini le origini e i principi di tutta la loro conoscenza; poiché, per dare nomi che potessero render note ad altri quelle operazioni, quali che fossero, che essi sentivano in se stessi, o qualunque altra idea che non cadesse sotto i loro sensi, furon costretti a prendere in prestito parole dalle idee di sensazione comunemente conosciute, per ottenere che, in tal modo, gli altri concepissero più facilmente quelle operazioni di cui facevano esperienza in se stessi, ma che non davano di sé alcuna manifestazione esteriore sensibile. E allora, quando avevano ottenuto che certi nomi fossero noti e concordati, a significare quelle operazioni interne delle loro menti, erano ormai abbastanza provvisti per rendere note con parole tutte le altre idee loro; poiché queste non potevano consistere in altro che nelle percezioni sensibili esteriori, o nelle operazioni interiori delle loro menti intorno a quelle: infatti, come si è dimostrato, non abbiamo alcuna idea che non ci sia venuta originalmente dagli oggetti sensibili che son fuori di noi, o da ciò che sentiamo dentro noi stessi, dall’interiore operare del nostro spirito, di cui siamo interiormente consapevoli di fronte a noi stessi. 6. Ma per meglio intendere l’uso e la forza del linguaggio, in quanto serve all’istruzione e alla conoscenza, sarà opportuno considerare: In primo luogo, a che cosa siano immediatamente applicati i nomi nell’uso del linguaggio. In secondo luogo, poiché tutti i nomi (tranne quelli propri) sono generali, e quindi non rappresentano particolarmente questa o quella cosa singola, bensì specie e categorie di cose, sarà necessaria considerare, successivamente, che cosa siano queste categorie e tipi, o, se preferite i nomi Iatini, che cosa siano le specie e i generi delle cose, in che consistano, e come vengano ad esser formati. Quando questi argomenti siano stati ben considerati (come e necessario), ci troveremo in posizione migliore per venir a scoprire il retto uso delle parole, i naturali vantaggi e difetti del linguaggio, e i rimedi che dovrebbero essere usati a evitare gli inconvenienti dell’oscurità e dell’incertezza nel significato delle parole: senza di che e impossibile discorrere intorno alla conoscenza con alcuna chiarezza o alcun ordine; poiché la conoscenza, riferendosi sempre a proposizioni, ed essendo, queste, le più comuni e universali, avviene che essa sia più connessa alle parole di quanto forse non si sospetti. 7 8 Queste considerazioni, perciò, forniranno la materia ai seguenti capitoli. CAPITOLO II. DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE 1. Benché l’uomo abbia una grande varietà di pensieri, e tali che da essi potrebbero trarre profitto e diletto altri come lui stesso, essi stanno tuttavia dentro il suo petto, invisibili e nascosti agli altri, né si potrebbe ottenere che di per se stessi apparissero. E poiché non si potrebbero avere i piaceri e i vantaggi della società senza comunicazione dei pensieri, fu necessaria che l’uomo scoprisse qualche segno sensibile esterno, mediante il quale le idee invisibili, di cui son costruiti i suoi pensieri, potessero venir rese note ad altri. Nulla era più adatto a tale scopo, sia per abbondanza che per rapidità, di quei suoni articolati che in modo cosi facile e vario l’uomo si trovo ad esser capace di produrre. In tal modo possiamo concepire come le parole, che di natura loro erano cosi adattate a quello scopo, venissero a essere impiegate dagli uomini come segni delle loro idee: non per alcuna connessione naturale che vi sia tra particolari suoni articolati e certe idee, poiché in tal caso non ci sarebbe fra gli uomini che una sola lingua, ma per un’imposizione volontaria, mediante la quale una data parola è assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea. Perciò, lo scopo delle parole è di essere segni sensibili delle idee; e le idee che esse rappresentano sono il loro significato proprio e immediato. 2. Poiché gli uomini usano questi segni o per registrare i loro pensieri, onde assistere la loro memoria, o, per dir così, metter fuori le loro idee, esporle agli occhi degli altri, le parole, nel loro significato primario o immediato, altro non rappresentano che le idee che sono nella mente di chi le usa, per quanto imperfettamente o negligentemente tali idee possano essere raccolte dalle cose che dovrebbero rappresentare. Quando un uomo parla a un altro, lo fa per esser capito: e il fine del parlare è che quei suoni, come segni, possano render note le sue idee all’ascoltatore. Dunque, ciò di cui le parole sono i segni sono le idee di chi parla; né alcuno può applicarle immediatamente, come segni, ad alcuna cosa che non siano le idee che egli stesso ha: poiché questo significherebbe farne dei segni delle sue concezioni, e tuttavia applicarli ad altre idee; ossia, farne dei segni e dei non-segni delle sue idee al tempo medesimo; e cosi, in effetti, ridurle a non 9 avere alcun significato. Poiché le parole sono segni volontari, non possono essere segni volontari imposti da lui a cose che egli non conosce. Questo significherebbe farne dei segni di nulla, suoni senza significato. Uno non può fare che le sue parole siano segni di qualità che si trovano nelle cose, o di concezioni che si trovano nella mente di un altro, se nella mente sua non abbia alcuna idea di tali qualità e di tali concezioni. Finché egli non abbia qualche idea in proprio, non può supporre che esse corrispondano alle concezioni di un altro; né può usare per esse alcun segno: poiché in tal modo sarebbero i segni di cosa che egli non sa che cosa sia; il che, in verità, vorrebbe dire essere segni di nulla; ma quando egli rappresenta a se stesso le idee di altri mediante qualche idea sua propria, se a queste egli acconsenta a dare gli stessi nomi che danno loro gli altri, egli li dà pur sempre alle sue proprie idee: ossia a idee che egli ha, e non a idee che egli non ha. 3. Questo è così necessario nell’impiego del linguaggio, che, per questo rispetto, chi conosce e chi non conosce, il dotto e l’indotto, tutti usano allo stesso modo le parole che dicono (quando le dicono con qualche significato). Le parole, nella bocca di ognuno, stanno per le idee che egli ha, e che intende esprimere con esse. Un bambino non avendo notato altro, nel metallo che egli sente chiamare oro, se non il colore giallo scintillante e vivace, applica la parola oro soltanto alia sua propria idea di quel colore, e nient’altro; e perciò lo stesso colore, visto nella coda di un pavone, lo chiama oro. Un altro, che ha meglio osservato la cosa, al giallo lucente aggiunge il grande peso: e allora il suono oro, quando egli lo usa, rappresenta un’idea complessa del giallo lucente e di una sostanza pesantissima. Un terzo aggiunge a queste qualità quella della fusibilità: e allora, per lui, la parola oro significa un corpo brillante, giallo, fusibile e pesantissimo. Un altro ancora aggiunge la malleabilità. Ciascuna di queste persone usa egualmente la parola oro, quando ha occasione di esprimere l’idea che ha applicata ad esso; né può prenderla a segno di una idea complessa che per avventura non abbia. 4. Ma sebbene le parole, quali sono usate dagli uomini, propriamente e immediatamente non possano significare altro dalle idee che sono nella mente di chi parla, questi, tuttavia, nei suoi pensieri attribuisce loro un segreto riferimento a due altre cose. Primo, egli suppone che le sue parole siano il segno di idee che si trovano anche nella mente di altri coi quali comunica: poiché altrimenti parlerebbe invano e non potrebbe esser capito, se i suoni da lui applicati a una data idea fossero tali che l’ascoltatore li applicasse ad un’altra; il che significa 9 10 parlare due lingue diverse. Ma, a questo proposito, gli uomini non sono soliti fermarsi a riflettere se per avventura l’idea che essi hanno, e l’idea che hanno in mente coloro con cui parlano, sia la medesima: ma pensano che basti usare la parola, com’essi immaginano, nella comune accezione di quella lingua; col che suppongono che l’idea di cui fanno segno quella data parola sia precisamente la stessa cui l’uomo comprensivo appartenente allo stesso paese applica quel nome. 5. In secondo luogo, poiché gli uomini non amerebbero che si pensasse che essi parlino unicamente di ciò che è nell’immaginazione loro, bensì anche di case quali sono realmente, spesso suppongono che le parole stiano altresì per la realtà delle cose. Ma poiché questa si riferisce più particolarmente alle sostanze e ai loro nomi, mentre forse il primo caso si riferisce alle idee semplici e ai modi, parleremo più ampiamente di queste due diverse maniere di applicar le parole quando verremo a trattare dei nomi dei modi misti e delle sostanze in particolare; ma concedetemi qui di aggiungere che si perverte l’uso delle parole, e si porta inevitabile oscurità e confusione nei loro significati, ogni volta che pretendiamo esse rappresentino cosa alcuna che non siano quelle idee che noi stessi abbiamo nella mente. 6. Riguardo le parole, bisogna ancor considerare: Primo, che essendo esse immediatamente i segni delle idee degli uomini, e, per tal modo, gli strumenti coi quali gli uomini comunicano i loro concetti, e si esprimono l’un l’altro quei pensieri e immaginazioni che hanno nel loro petto, per l’uso costante viene ad esistere un tal rapporto fra certi suoni e le idee che essi rappresentano, che i nomi uditi suscitano certe idee non meno prontamente che se di fatto ci colpissero i sensi quegli oggetti che sono atti a produrre le idee medesime. Il che appare manifestamente in tutte le qualità sensibili ovvie, e in tutte le sostanze che ricorrono nella nostra esperienza in modo frequente e familiare. 7. Secondo, che, sebbene il significato proprio e immediato delle parole siano idee nella mente di chi parla, tuttavia, poiché per l’uso familiare fin dalla culla veniamo ad apprendere in modo perfettissimo certi suoni articolati, e prontamente ci vengono alle labbra, e sempre sono a tiro di mana nella memoria, benché poi non abbiamo sempre cura di esaminare o stabilire in modo perfetto il loro significato, spesso accade che gli uomini, anche quando vorrebbero dedicarsi ad un’attenta considerazione, di fatto applicano i loro pensieri più alle parole che alle case. Anzi, molte parole 11 essendo apprese prima che si conoscano le idee che rappresentano, accade che certuni, non solo bambini, ma uomini, usino molte parole non diversamente dai preconcetti, solo perché le hanno imparate, e si sono abituati a quei suoni. Ma, di quanto le parole abbiano un uso e un significato, di tanto vi sarà una connessione co­ stante fra il suono e l’idea, e traccia del fatto che l’uno sta per l’altra: mancando il qual modo di applicarle, altro esse non sono che insignificante rumore. 8. Le parole, per uso lungo e familiare, come si è detto, vengono a suscitare certe idee in noi in modo cosi costante e pronto, che siamo portati a supporre un rapporto naturale fra parole e idee. Ma che esse soltanto significhino le peculiari idee degli uomini, e le rappresentino per un’imposizione perfettamente arbitraria, è cosa evidente, in quanta spesso esse non riescono a suscitare in altri (anche tra coloro che usano lo stesso linguaggio) le stesse idee di cui assumiamo esse siano il segno; e ogni uomo ha una così inviolabile libertà di far che le parole stiano per le idee che a lui piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nella mente le stesse idee che ha lui, quando pur usino le stesse parole che egli usa. E perciò anche il grande Augusto, che pur aveva in mano quel potere che dominava il mondo, riconobbe che non avrebbe potuto fabbricare una nuova parola latina; il che veniva a dire che non poteva arbitrariamente assegnare l’idea di cui un qualunque suono dovesse essere il segno sulle labbra e nel comune linguaggio dei suoi sudditi. È ben vero che l’uso comune, per tacito consenso, attribuisce certi suoni a certe idee in tutte le lingue, il che tanto limita il significato di quel suono, che, ove uno non l’applichi alia stessa idea, non parla propriamente; e lasciatemi aggiungere che, ove le parole di un uomo non suscitino, nell’ascoltatore, le stesse idee che egli intende esse rappresentino nel suo parlare, allora egli non parlerà intelligibilmente. Ma quale che sia la conseguenza del fatto che un uomo qualsiasi usi delle parole in modo diverso, o dal loro significato generale, o dal senso particolare della persona cui egli le rivolge, questa e certo, che il loro significato, nel suo impiego di quelle parole, e limitato alle sue idee, e le parole non possono essere il segno di nient’altro. 1