Il “merito” come criterio allocativo

Terenzio Maccabelli
IL “MERITO” COME CRITERIO ALLOCATIVO.
LE ORIGINI DEL DIBATTITO SULLA “MERITOCRAZIA”
DSS PAPERS STO 03-08
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
The idea of meritocracy may
have many virtues, but clarity is not
one of them.
Amartya Sen
Merito e meritocrazia sono parole all’ordine del giorno del dibattito
politico e sociale contemporaneo. Attorno ad esse circola un’aura di
sacralità condivisa dai più disparati orientamenti politici. Da diverso tempo,
l’opinione pubblica è sottoposta a un’intensa campagna di sensibilizzazione
ai valori meritocratici, ritenuti imprescindibili per il buon funzionamento di
una società moderna. Soprattutto in Italia, anche se il discorso è più
generale, l’assenza di meritocrazia è diventato il cavallo di battaglia di una
composita schiera di opinion maker, politici, giornalisti e studiosi della
società, impegnati a sradicare dalla nostra cultura atteggiamenti avversi alla
valorizzazione del merito 1 .
Si è così tornati a discutere un problema che molti ritenevano ormai
superato, ossia il permanere di criteri ascrittivi nell’allocazione delle
posizioni sociali. Forse con eccessivo ottimismo si era liquidato il problema
della valutazione dei criteri allocativi operanti nel mercato; e forse con
eccessiva fiducia si era guardato al mercato come forza capace di
rimuovere i tradizionali meccanismi legati all’ereditarietà delle posizioni
sociali. Il criterio acquisitivo, basato sulle capacità e sul merito, secondo
1
Impossibile anche solo accennare agli innumerevole articoli di giornale che discutono
di merito e meritocrazia o alle proposte di legge che ambiscono a introdurre il merito
nell’economia, nella società e nella pubblica amministrazione per via legislativa.
Doveroso è invece il richiamo ad Abravanel (2008), libro che sta avendo un notevole
successo editoriale.
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Terenzio Maccabelli
molti commentatori, sarebbe invece ancora lungi dall’aver trovato piena
cittadinanza nelle nostre istituzioni e organizzazioni economiche.
È fuori discussione l’importanza svolta da queste denuncie per aver
riportato allo scoperto una questione irrisolta delle società di mercato
contemporanee. Ma molti dibattiti scaturiti sull’onda del crescente interesse
mostrato dall’opinione pubblica per il merito e la meritocrazia scontano il
deficit conoscitivo che ancora circonda tali concetti: non di rado, essi sono
assunti nel loro significato intuitivo, omettendo il problema della loro
criticità.
Le discipline economiche, politiche e sociali hanno offerto contributi
di rilievo sui temi del merito e della meritocrazia 2 . È altrettanto vero,
tuttavia, che anche in ambito accademico tali concetti continuino a
rimanere controversi e nebulosi, privi di una declinazione universalmente
accettata. Come ha di recente sottolineato Amartya Sen (2000, p. 5), “the
idea of meritocracy may have many virtues, but clarity is not one of them”
Il paper non ambisce a proporre soluzioni agli interrogativi che
circondano i concetti di merito e meritocrazia: più modestamente si
propone di ricostruire il pensiero di tre autori che indipendentemente l’uno
dall’altro e quasi contestualmente hanno dato contributi imprescindibili per
ogni discussione su questi temi. Ci soffermeremo, in particolare, muovendo
da una prospettiva di storia delle idee, su alcune celebri opere pubblicate
sul finire degli anni cinquanta da Richard Musgrave, Friedrich Hayek e
2
4
Senza alcuna pretesa di completezza, ci limitiamo qui a ricordare Arrow, Bowles,
Durlauf (2000) per l’economia; Bell (1972) e Geoff (2006) per le scienze politiche;
Goldthorpe (2005) per la sociologia; Lemann (2000) per la storia dei test attitudinali
come proxi del merito individuale; McNamee, Miller (2004) e Longoria (2008) per le
rappresentazioni del merito nell’opinione pubblica e per il gap tra realtà e percezione;
McCrudden (1998) per la tradizione di studi riguardante la “positive” o “affirmative
action”. Per quanto riguarda l’Italia, infine, da ricordare il recentissimo numero
monografico della “Rivista delle politiche sociali” (2008) dal titolo Il merito: talento,
impegno, caso. Le ombre dell'Italia.
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
Michael Young. Si tratta di tre autori molto diversi tra loro, raramente
accumunati: Musgrave è uno dei massimi esponenti dell’economia
pubblica e autore di una formulazione ancora oggi canonica dei fini della
finanza pubblica; Hayek, economista nonché filosofo sociale e politico, è
stato una delle voci più autorevoli del liberismo novecentesco; Young è
invece un personaggio decisamente più eccentrico e difficile da inquadrare
in un’ottica disciplinare, ma che riveste un ruolo fondamentale nella nostra
ricostruzione per avere coniato il termine stesso di meritocrazia.
L’orizzonte temporale della presente ricostruzione è volutamente
circoscritto a un numero limitato di anni, nella convinzione che questo
permetta di mettere maggiormente a fuoco i concetti e le categorie
interpretative proposte da questi tre autori. La scelta di individuare la fine
degli anni cinquanta come momento fondante il dibattito sul merito è
naturalmente arbitraria: non sarebbe difficile risalire indietro nel tempo per
trovare momenti altrettanto significativi. La nostra scelta è semplicemente
motivata dal fatto che solo nel 1958, come detto per opera di Young, il
concetto di meritocrazia entra nel lessico delle scienze sociali. E non è
probabilmente un caso che negli stessi anni, pur muovendo da presupposti
assai diversi, Musgrave e Hayek abbiano deciso di avvalersi del concetto di
merito per articolare le rispettive indagini economiche e sociali.
Il saggio è organizzato in quattro parti. Nella prima verranno discussi i
concetti di “merit wants” e “merit goods” introdotti da Musgrave nel 1956
e poi ripresi in forma più organica nel 1959. Non ci dilungheremo sulle
problematiche analitiche di questi concetti, che peraltro hanno alimentato
un dibattito ancora in corso. Il nostro interesse è rivolto principalmente ai
presupposti di filosofia sociale che lo stesso Musgrave ha sottolineato
essere fondamentali per comprendere la logica sottostante i concetti di
“merit wants” e “merit goods”. Nel secondo paragrafo presenteremo le idee
5
Terenzio Maccabelli
di Hayek sul merito, soffermandoci in particolare su due fondamentali
capitoli della sua The Constitution of Liberty del 1960. Qui troviamo, come
noto, una delle più feroci critiche all’idea che il mercato funzioni alla
stregua di un criterio allocativo volto al riconoscimento del merito. Nella
terza parte presenteremo The Rise of Meritocracy di Young, opera tra le più
citate e influenti nel dibattito sulla meritocrazia ma sulla quale permangono
ancora malintesi interpretativi (in larga parte dovuti al fatto che si tratta di
un’opera più citata che letta). Il quarto capitolo, infine, propone alcune
considerazioni di sintesi sui tre contributi proposti in queste pagine. Come
cercheremo di argomentare, nonostante si tratti di autori difficilmente
comparabili, vi sono singolari analogie nell’immagine del “merito” che essi
trasmettono: anziché prestarsi a una comprensione intuitiva, il concetto di
merito possiede ambivalenze non facilmente risolvibili; l’ideale di una
società meritocratica, presa nel suo significato letterario, richiede
condizioni incompatibili con molte delle attuali istituzione che reggono le
società liberali; merito e meritocrazia, infine, rimandano a criteri allocativi
e a un modello di organizzazione sociale per molti versi antagonisti al
mercato.
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Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
1.
“Merit wants” e “merit goods” in Richard Musgrave
Richard Musgrave è considerato il padre della moderna teoria della
finanza pubblica. La sua Theory of Public Finance (1959) è un vero e
proprio classico nella storia dell’economia pubblica. A Musgrave si deve la
celebre partizione delle finalità del bilancio pubblico nelle tre funzioni
allocativa, distributiva e stabilizzatrice. Ed è discutendo queste tre funzioni
che Musgrave introduce il concetto di “merit wants”.
Pochi anni prima della Theory of Public Finance Musgrave aveva
presentato le tre funzioni del bilancio pubblico avvalendosi della celebre
distinzione tra bisogni privati e bisogni pubblici. Il soddisfacimento dei
bisogni privati avviene attraverso l’acquisto di beni sul mercato per i quali
vale il “principio di esclusione” (o di rivalità nel consumo). I bisogni
pubblici, o sociali, sono invece soddisfati da beni che “debbono essere
consumati nella stessa quantità da tutti” (Musgrave 1956-1957, pp. 130131). Ma l’assenza di rivalità permette comportamenti opportunistici: ogni
consumatore di beni pubblici ha tutto l’interesse a non rivelare le proprie
preferenze, rendendo così impossibile la loro allocazione attraverso il
mercato 3 .
È necessario allora un processo politico attraverso il quale rendere
manifeste le preferenze dei consumatori, in modo da imputare a ciascuno di
essi la relativa quota di finanziamento del bene pubblico. Ma sebbene
allocati in modo diverso – attraverso il mercato i beni privati e attraverso lo
Stato i beni pubblici – vale per entrambi il principio della “sovranità del
3
“Poiché la stessa quantità deve essere consumata da tutti, gli individui sanno di non
poter essere esclusi dal godimento del bene. Stando così le cose, essi non sono
costretti a rivelare le loro preferenze attraverso la domanda sul mercato. Il ‘principio
di esclusione’, che è essenziale per lo scambio, non può essere applicato e quindi il
meccanismo di mercato non funziona” (Musgrave 1956-1957, pp. 131-132).
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consumatore”. Lo Stato simula il comportamento del mercato, realizzando
un allocazione di beni pubblici conforme alle preferenze dei consumatori.
Lo Stato, in altre parole, soddisfa la domanda di beni pubblici “in accordo
con le preferenze individuali e con il principio della sovranità del
consumatore” (1956-1957, p. 143).
Secondo Musgrave, tuttavia, vi sono alcune tipologie di bisogni che
non possono essere soddisfati con lo stesso criterio allocativo dei beni
pubblici. Esistono infatti alcuni bisogni che gli individui tendono a
sottostimare e che se lasciati al mercato darebbero luogo a una domanda
insufficiente. “L’evidente inclinazione della gente a dotarsi di una seconda
macchina o di un terzo frigorifero prima di assicurare un’adeguata
educazione ai propri figli ne è una dimostrazione” (1956-1957, p. 143). Il
mercato fallisce in questo caso non solo perché occulta le reali preferenze
dei consumatori ma perché rivela preferenze che sono per sé stesse
insoddisfacenti. Questo tipo di bisogni sono appunto quelli che Musgrave –
“in mancanza di un altro nome” – propone di chiamare “merit wants”.
Nella Theory of Public Finance (1959) Musgrave riprende e
approfondisce il problema dei beni meritori 4 . Egli sottolinea innanzitutto
che la qualifica di meritorio attribuita a un determinato bisogno implica che
il sistema delle preferenze individuali possa essere emendato dalle scelte
politiche 5 . La linea di demarcazione rispetto ai bisogni sociali, ai quali lo
Stato fa fronte attraverso i beni pubblici, si trova in questa “interferenza”
nel sistema delle preferenze individuali. La soddisfazione dei beni meritori
4
5
8
Nella Theory of Public Finance Musgrave chiarisce inoltre che il concetto di “merit
wants” attraversa ed è indipendente dalla divisione da lui stesso proposta del bilancio
pubblico nelle tre funzioni allocativa, distributiva e stabilizzatrice.
“The satisfaction of merit wants, by its very nature, involves interference with
consumer preferences”. “In the situations now considered [merit goods], interference
is […] the very purpose of public policy” (Musgrave, Peggy Musgrave 1980, p. 85;
West, McKee 1983, p. 1110).
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
avviene attraverso un processo differente rispetto ai bisogni sociali. La
differenza rispetto ai bisogni sociali, o pubblici, è che nel caso dei bisogni
meritori diventa legittimo correggere le preferenze “sbagliate” dei
consumatori per evitare una domanda sottodimensionata. Musgrave
aggiunge che lo stesso ragionamento può applicarsi al caso opposto:
tabacco e alcolici, ad esempio, possono essere definiti “demerit goods”, tali
da giustificare una tassazione suntuaria che disincentivi il loro consumo.
Tanto i “merit goods” quanto i “demerit goods” introducono in sostanza
deroghe ai principi fondamentali di una economia di mercato.
Anche nel 1959 Musgrave ribadisce come il settore più ragguardevole
per comprendere la logica dei beni meritori sia quello dell’educazione. In
questo ambito le preferenze individuali possono dar luogo a scelte non
ottimali. “I vantaggi dell’istruzione sono più evidenti per coloro che sono
informati che per coloro che non lo sono, giustificando così l’obbligatorietà
nell’allocazione delle risorse per l’istruzione” (Musgrave 1959, p. 180). È
appunto in questi casi che si rende necessario l’intervento pubblico, anche
se si tratta di beni che potrebbero tranquillamente essere offerti dal settore
privato. Bisogni come l’educazione sono “invece considerate così meritori
che si provvede alla loro soddisfazione con il bilancio pubblico, in aggiunta
a quanto è fornito dal mercato e acquistato da acquirenti privati” (Musgrave
1959, p. 179).
Questa concezione dei beni meritori, oltre a creare notevoli problemi
analitici, ha ripercussioni sul piano delle rappresentazioni sociali.
Musgrave
introduce
infatti
una
deroga
di
notevole
rilievo
all’individualismo metodologico al quale si era attenuto nella trattazione
dei beni pubblici. Il criterio del merito richiede di allargare lo sguardo al
sistema di valori, di fatto il giudice di ultima istanza riguardo ai bisogni che
possono o meno essere classificati come meritori. Ma ogni sistema di
9
Terenzio Maccabelli
valori, dal quale derivare la legittimità di interferire nel sistema delle
preferenze individuali, rimanda necessariamente a un dimensione “etica” e
“socio-istituzionale” (cfr. Ver Eecke, 1998). Come giustificare allora
questo allargamento dei compiti della scienza economica e l’interferenza
nel sistema delle preferenze individuali?
Musgrave riconosce espressamente la cornice normativa entro cui è
inserito il problema dei “merit goods”. Il discorso riguarda ciò che una
“buona società” dovrebbe fare in quei settori ritenuti strategici. Musgrave
articola il proprio ragionamento avvalendosi di uno schema concettuale
proposto dall’economista tedesco Gerhard Colm. Questi aveva distinto due
tipologie di preferenze: quelle che un individuo esprime allorché “è spinto
dal proprio interesse e si occupa dei propri bisogni” e quelle che lo
riguardano in quanto cittadino e che egli esprime attraverso la
partecipazione politica. Queste ultime sono “condizionate dalla sua
concezione di una buona società”, con conseguenze notevoli sui compiti
assegnati al bilancio pubblico. Musgrave accoglie pienamente la
distinzione suggerita da Colm e conviene sull’orizzonte “etico-politico”
della propria analisi. Spese come quelle per “la difesa, l’istruzione e il
sostengo delle attività artistiche” rientrano in una logica diversa da quella
dell’interesse personale. Le preferenze che un individuo manifesterebbe sul
mercato come soggetto economico sono diverse da quelle che egli
manifesterebbe come soggetto politico (Musgrave 1959, p. 181). In questo
caso entra in gioco il suo sistema di valori, radicato nella comunità di
appartenenza:
Le sue scelte possono essere determinate da ciò che egli considera un
impegno verso i valori culturali della sua comunità e della sua concezione
di una buona società, piuttosto che dal suo schema di preferenze individuali
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Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
basato sull’interesse personale a cui si affida nelle quotidiane scelte di
consumo nel mercato (Musgrave 1959, p. 183) 6 .
La fornitura di “beni meritori” si giustifica insomma solo includendo
una dimensione normativa e una prospettiva d’indagine non circoscritta alla
pura logica economica. Non sorprende che i concetti di Musgrave abbiamo
alimentato un lungo e contrastato dibattito, non ancora esaurito, nel quale
sono emersi giudizi discordanti sulla valenza conoscitiva dei “merit
goods”. Alcuni studiosi sono arrivati a contestarne in modo esplicito la
legittimità scientifica 7 ; altri, pur ravvisando le potenzialità conoscitive, ne
hanno in parte travisato il significato 8 ; mentre altri ancora hanno invece
insistito sulla necessità di uscire dagli steccati della scienza economica,
rivalutando l’idea originaria secondo cui la dimensione morale è del tutto
fondamentale nella definizione dei “merit goods” 9 .
6
L’importanza della “comunità” come luogo in cui è sedimentato il sistema di valori
che legittima i beni meritori è ribadito anche in Musgrave (1987, pp. 186-187): “I
valori comunitari possono quindi essere all’origine di beni di merito o di demerito.
[…] Gli individui, in quanto membri di una comunità, sono disposti ad accettare certi
valori o preferenze comunitarie, anche se il loro punto di vista personale non coincide
con essi”.
7
L’attacco più deciso in questa direzione è venuto da McLure (1968). Egli ritiene che i
giudizi di valori, se non sono manifesti nelle scelte individuali che i soggetti compiono
nel mercato, sono irrilevanti per l’economista.
8
Cfr. Head (1966, 1969), tra i primi a discutere i concetti di “merit wants” e “merit
goods”, ma introducendo alcuni fraintendimento del pensiero di Musgravie. Head
ritiene infatti che l’intervento dell’autorità pubblica per “correggere” le preferenze dei
consumatori, nel caso appunto dei “merit wants”, avviene allorché “incertezza” e
“imperfetta informazione” impediscono ai soggetti economici di operare in modo
razionale.
9
“Perhaps one of the gains from introducing the discussion of ‘merit wants’ is that it
calls for a broadening of the public economics discourse to embrace political science,
social philosophy and ethics, subjects that can more easily be bypassed in an
economic analysis of the private sector based on consumer sovereignty” (Peggy
Musgrave 2008, p. 345). Sulla dimensione etica e socio-istituzionalista del concetto di
“merit good”, cfr. soprattutto Van Eecke (1998; 2003). Per una lettura utilitaristica,
cfr. Mann (2006).
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Terenzio Maccabelli
Musgrave stesso ha preso una posizione ampiamente favorevole a
quest’ultima interpretazione. Anche nei suoi ultimi scritti, pur riconoscendo
l’ambivalenza dei suoi concetti, ha insistito sul loro fondamento eticonormativo:
I know that [merit goods] are a controversial topic, and I have changed
my view of them over time. I like to think of them relative to the
individuals place in society, not as an isolated person but as a member of
this community. As such he might support certain public services because
they are part of the community’s cultural heritage rather than a response to
his private preferences (Buchanan and Musgrave 1999, p. 95; Case 2008, p.
354).
I concetti di “merit wants” e “merit goods” sui quali ci siamo finora
soffermati potrebbero apparire estranei alla questione del merito e della
meritocrazia. Essi comportano un giudizio sui bisogni degli individui più
che sugli individui in sé. Riteniamo invece che essi rientrino a pieno titolo
nel nostro discorso, non solo per la contiguità temporale con i lavori di
Hayek e Young che andremo a presentare nei prossimi paragrafi. Vi sono
almeno tre ragioni che qui anticipiamo ma sulle quali ritorneremo nel
quarto paragrafo. Innanzitutto per il fatto che Musgrave conia il concetto di
“merit goods” alludendo espressamente a un processo allocativo basato su
criteri non di mercato. E la questione dei rapporti tra “merito” e “mercato”
è tra quelle sulla quale maggiormente insisteremo. Inoltre, perché anche i
beni meritori di Musgrave, come qualsiasi discussione sul merito e la
meritocrazia, rimandano a un orizzonte valutativo. Infine perché Musgrave
stesso insiste sull’educazione come esempio più ragguardevole di bene
meritorio, questione che sta all’origine di qualsiasi discorso sulla
meritocrazia.
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Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
2.
Merito, educazione e uguaglianza di opportunità: la critica di
Friedrich Hayek
In The Constitution of Liberty Friedrick Hayek (1960, p. 418) scrive
che qualsiasi comunità dovrebbe avere interesse a fare in modo che la
scienza sia concessa “a chi non ha un incentivo per cercarla da sé o per fare
qualche sacrificio per acquistarla. Queste ragioni si impongono
particolarmente nel caso dei ragazzi, ma alcune di esse sono altrettanto
importanti per gli adulti”. Hayek riconosce espressamente in questo brano
la possibilità che le preferenze individuali sottostimino l’utilità di un bene
particolare come l’educazione, ponendosi apparentemente in continuità con
il tipo di argomentazione che ha portato Musgrave a coniare il concetto di
“merit goods”. Hayek, tuttavia, prospetta per questo problema una
soluzione assai diversa: in primo luogo, pur riconoscendo il dovere dello
Stato di allocare parte delle sue risorse al settore dell’istruzione, non ritiene
necessario che lo Stato si sostituisca al mercato nella fornitura di tale
servizio; in secondo luogo, colloca il problema dell’educazione in una
riflessione molto più ampia, in cui la questione del “merito” come criterio
allocativo viene appositamente esaminata e approfondita.
Per quanto riguarda il primo punto, è sufficiente richiamare la nota
avversione di Hayek per l’educazione pubblica. A suo parere, qualora il
settore educativo fosse accentrato nelle mani dello Stato, nulla potrebbe
impedire che la formazione venga fagocitata degli interessi dei gruppi
dominanti del momento. Si dichiara pertanto favorevole a un modello quale
quello proposto da Milton Friedman dei buoni scuola da erogare alle
famiglie, poi libere di scegliere all’interno di un mercato scolastico
privatistico (Hayek, 1960, p. 423). Il secondo punto invece tocca da vicino
proprio la questione del merito come criterio allocativo. Quella di Hayek è
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Terenzio Maccabelli
a tutt’oggi una delle più radicali critiche del concetto di merito, che investe
indirettamente la stessa prospettiva avanzata da Musgrave.
Come noto, nel secondo dopoguerra Hayek ha dirottato la sua
riflessione su un terreno molto più ampio di quello economico in senso
stretto. Muovendo da una prospettiva di filosofia politica e sociale, Hayek
elabora una teoria dell’ordine spontaneo di mercato molto diversa da quella
basata sul concetto di equilibrio economico. In questo contesto prende
corpo la sua critica all’egualitarismo e in genere alle rivendicazioni
politiche basate sul concetto di “giustizia sociale”, uno dei temi
caratterizzanti soprattutto la seconda parte della sua lunga carriera
intellettuale.
The Constituion of Liberty, pubblicato nel 1960, rappresenta una tappa
fondamentale di questo percorso. Hayek dedica molto spazio alla questione
del “merito”, chiedendosi quale ruolo svolga all’interno di una “società
libera”. Il problema viene affrontato in due fondamentali capitoli, il
settimo, dal titolo “Uguaglianza, valore e merito”, e il penultimo, intitolato
“Istruzione pubblica e ricerca scientifica”. In questi capitoli l’economista
austriaco mette a fuoco l’ambiguità tanto del concetto di merito quanto
dell’ideale di uguaglianza di opportunità, due nozioni spesso ritenute
complementari.
Il ragionamento di Hayek si snoda attorno all’idea che la
rivendicazione del merito sia una delle forme in cui si è storicamente
manifestata l’aspirazione alla giustizia sociale. Secondo Hayek, dietro ogni
ideale di “giustizia sociale” si nasconde una concezione “atavica” della
società, di tipo primitivo, nella quale la posizione sociale di ciascun
individuo è determinata da regole comunitarie (cfr. Pennington, 2007). Ciò
è reso possibile dal fatto che i fini di tali società sono circoscritti, e vi sono
norme vincolanti sui criteri attraverso cui allocare beni, reputazione e
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Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
potere all’interno del gruppo. L’immagine cui Hayek ricorre più di
frequente è quella di processo distributivo personificato in una mente
ordinatrice. In una economia di mercato l’ordine spontaneo è invece l’esito
di astratte regole di condotta (come ad esempio il rispetto della proprietà) e
non l’esito di comandi o norme di gruppo. Non vi è alcun agente preposto
alla distribuzione. È perciò privo di significato riferirsi alla giustizia o
ingiustizia della distribuzione del reddito o della ricchezza. Il processo è di
tipo impersonale. Ciascun individuo persegue i propri scopi, in risposta ai
segnali di mercato.
Secondo Hayek, l’idea che la distribuzione dovrebbe rispettare il
criterio del merito è appunto una delle forme è in cui è stata declinata
l’aspirazione alla giustizia sociale. Storicamente, sono state soprattutto le
tradizioni socialiste a farsi promotori di tali rivendicazioni. Tuttavia, anche
molte correnti della tradizione liberale sono state attratte dall’idea che in
una economia di mercato si dovrebbero rimuovere gli ostacoli che
impediscono una corrispondenza tra “merito” e posizione sociale. La critica
di Hayek è naturalmente rivolta in via prioritaria contro le istanze
socialiste, ma egli arriva ad assumere una concezione controcorrente
all’interno della stessa tradizione liberale. Hayek contesta in generale
qualsiasi tentativo “di imporre deliberatamente alla società un dato modello
di distribuzione”; e anche quello basato sul “merito individuale” – ancorché
espresso in un orizzonte “liberale” – rientra in questa categoria di “ordine
deliberato” (1960, p. 110). La critica di Hayek nei confronti del merito
come principio allocativo non deriva dunque esclusivamente dalla sua
avversione per il socialismo, ma anche dalla sua insofferenza per taluni
orientamenti del tutto interni alla tradizione del liberalismo: egli ritiene, in
particolare, che molti “liberali” abbiano dato troppo credito all’ideale
15
Terenzio Maccabelli
dell’uguaglianza di opportunità, ritenendolo viatico per la valorizzazione
del merito all’interno di una società di mercato.
L’ideale dell’uguaglianza di opportunità è alimentato soprattutto dal
convincimento che la posizione sociale degli individui sia dovuta, più che
alle loro capacità, all’ambiente in cui sono cresciuti. Come scrive Hayek
(1960, p. 110), “oggi è di moda minimizzare l’importanza delle differenze
congenite esistenti tra gli uomini e di attribuire tutte le differenze
importanti all’influenza dell’ambiente”. Ma il fatto che gli individui
abbiano differenti opportunità ambientali, o diverse capacità innate, non ha
nulla a che vedere con l’idea di “merito morale”. Gli individui hanno
“differenze innate di capacità” dovute alla “natura”, mentre altre differenze
derivano dall’“ambiente” e dall’“educazione” ricevuta. Hayek ritiene che
“né le une né le altre” possano essere valutate con l’ottica del “merito
morale”. “Sebbene e le une e le altre possano riguardare in larga misura il
valore che l’individuo ha per i suoi simili, il merito di essere nato con
buone qualità non è maggiore di quello di essere cresciuto in circostanze
favorevoli” (Hayek 1960, p. 112).
Hayek rifiuta pertanto il principio secondo cui la posizione sociale di
un individuo è moralmente legittima e conforme al criterio del merito solo
quando non ci sono state circostanze ambientali che l’hanno favorito.
Secondo l’economista austriaco, anche l’avere attitudini o predisposizioni
particolari si potrebbe leggere come un vantaggio immeritato, del tutto
analogo a quello di una persona nata e vissuta in un ambiente sociale
favorevole. Hayek arriva dunque a esprimere tutto il proprio scetticismo
sull’idea che si possa far corrispondere la posizione sociale degli individui
al loro merito.
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Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
La giusta risposta è: in un sistema libero non è bene (né si può fare) far
corrispondere in genere le ricompense materiali a quel che gli uomini
riconoscono come un merito, ed è caratteristica essenziale di un società
libera che la posizione di un individuo non dipenda necessariamente dalle
opinioni dei suoi simili sui meriti da lui acquisiti (Hayek 1960, p. 117).
In una economia di mercato le persone sono remunerate in virtù del
valore attributo ai loro servizi, e non in virtù dei loro meriti personali. Il
mercato, in questo senso, non è ritenuto un meccanismo allocativo che
valorizza il “merito”. Il mercato tiene conto esclusivamente del valore che
gli individui assegnano ai beni e ai servizi. Ma appunto “valore” non è
sinonimo di “merito”. Questa distinzione è fondamentale agli occhi di
Hayek (1960, p. 117). Vi sono opportunità di mercato che alcuni individui
riescono a cogliere e quindi a valorizzare. Ma non necessariamente questo
è legato a particolari capacità o attitudini. Anche la fortuna svolge un ruolo
di
tutto
rilievo.
Le
remunerazioni
seguono
talvolta
dinamiche
assolutamente capricciose e casuali, come quando particolari abilità
subiscono improvvisi mutamenti della domanda (Pennington 2007).
Il mercato è altrettanto insensibile a un’altra componente solitamente
associata al merito cioè lo sforzo. Come scrive Hayek (1960, p. 120), “i
premi che una società libera offre per i risultati conseguiti servono a dire a
chi lotta per essi quali sforzi valga la pena di fare. Tuttavia gli stessi premi
andranno a chiunque produca gli stessi risultati, senza tener conto dello
sforzo”. Il merito è perciò ritenuto un criterio allocativo incompatibile
rispetto al meccanismo di mercato.
Questo giudizio è rafforzato dall’analisi dei diversi fattori che
influenzano il posto che ogni individuo occupa nella gerarchia sociale. Il
reddito e la ricchezza sono le variabili economiche fondamentali e come
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Terenzio Maccabelli
tali soggette alle leggi del mercato; ma redditi e ricchezza sono a loro volta
dipendenti da variabili extra-economiche, alcune delle quali si ritiene siano
incompatibili con il principio del merito. A parere di Hayek (1960, p. 112),
“i fattori più importanti da considerare” sono tre: “la famiglia, l’eredità e
l’educazione”. Ogni persona eredita innanzitutto uno stock genetico dal
quale dipendono, oltre il suo aspetto, il suo talento e le sue abilità; eredita
inoltre una ricchezza patrimoniale soggetta alla massima variabilità;
esistono poi tutte una serie di prerogative sociali dovute al contesto
familiare di appartenenza a cui vanno sommate le opportunità educative.
Questi fattori sono ritenuti responsabili della condizione di vantaggio, o di
svantaggio, di ciascun individuo. Ad essi si ascrive solitamente la colpa di
alterare le regole del gioco, istituendo diseguali opportunità. Ed è infatti
contro “la disuguaglianza ingenerata da essi [che] è particolarmente diretta
la critica” (Hayek 1960, p. 112). Hayek è viceversa convinto che queste
disuguali opportunità facciano parte delle regole delle gioco e abbiano
anche effetti desiderabili per la società.
1) Il fatto che alcuni individui possano trarre vantaggi dall’essere nati
in determinate famiglie non è secondo Hayek motivo di riprovazione. Vi
sono qualità “utili per la società” che raramente vengono acquisite in una
sola generazione ma che al contrario maturano lentamente nell’ambito di
stabili tradizioni familiari. Se si volessero annullare i vantaggi acquisiti di
generazione in generazione con l’intento di pareggiare le opportunità degli
individui si produrrebbe un danno per la società 10 .
10
“Quale ragione può esserci di credere che una qualità desiderabile in una persona
abbia per la società meno valore se deriva da una tradizione familiare che se deriva da
altro? […] Ciò posto, sarebbe illogico negare che una società si procurerà
probabilmente un’élite migliore se l’ascesa non sarà limitata a una generazione, se
deliberatamente non si faranno partire tutti gli uomini dallo stesso livello e se non si
priveranno i bambini della possibilità di beneficiare di una educazione migliore e
18
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
2) Parimenti, si ritiene che l’eredità patrimoniale conferisca “ad alcuni
vantaggi immeritati”. Hayek ribatte contro questa accusa accennando solo
brevemente al fatto che qualsiasi limitazione della successione ereditaria
potrebbe avere effetti distorsivi sul risparmio e sul processo di
accumulazione. Egli intende rimanere sul piano dei principi, chiedendosi
espressamente se sia giusto o meno che le persone trasmettano “ai figli o ad
altri quei beni materiali che provocheranno una grave disuguaglianza”.
Hayek ritiene al riguardo che qualsiasi meccanismo alternativo sarebbe
enormemente più costoso e meno efficiente, provocando maggiori sprechi,
“ingiustizie e sperperi di risorse di quelli creati da un’eredità di beni”
(Hayek 1960, pp. 114-115).
3) “Benché sia stata per un certo tempo la più criticata fonte di
disuguaglianza, oggi, probabilmente, la successione ereditaria non lo è più.
Oggi la contestazione degli egualitari tende a concentrarsi sull’iniqua
distribuzione dei vantaggi dovuti alle differenze di educazione” (Hayek
1960, p. 115). Questo è l’esito dei mutamenti avvenuti nell’idea di
uguaglianza. L’ideale liberale classico, che si era affermato a metà del XIX
secolo, era quello contenuto nella frase “la carrière ouverte aux talents”
(1960, pp. 115-116). Esso implicava la rimozione degli ostacoli formali,
cioè di quelle barriere giuridiche che impedivano l’accesso a certe
posizioni sociali. Hayek ritiene che questo principio sia stato stravolto,
trasformandolo nell’idea di uguaglianza dei punti di partenza 11 . La leva
dell’ambiente materiale che i loro genitori hanno la possibilità di procurar loro”
(Hayek 1960, p. 113).
11
“Quest’idea che fosse data a tutti la possibilità di tentare, è stata in gran parte
soppiantata da quella diametralmente opposta, che tutti devono avere la possibilità di
partire da un medesimo punto e avere le medesime prospettive. Ciò significa, in realtà,
che lo Stato, invece di assicurare a tutti le medesime condizioni, dovrebbe mirare a
controllare tutte le circostanze inerenti alle prospettive di un particolare individuo e ad
adattarle alle sue capacità in modo da garantirgli le stesse prospettive di tutti gli altri”
(Hayek 1960, p. 116).
19
Terenzio Maccabelli
utilizzata per realizzare questo obiettivo è stata l’educazione pubblica, che
si è ritenuto necessario estendere a tutti. Da ciò sono tuttavia scaturiti
dilemmi di difficile soluzione: “Se accettiamo le ragioni d’ordine generale
a favore dell’istruzione obbligatoria, rimangono pur sempre questi
importanti problemi. Come si deve provvedere all’educazione? Quanta se
ne deve fornire a tutti? Come vanno prescelti coloro cui se ne deve dare di
più?” (Hayek 1960, p. 421).
Questi interrogativi vengono affrontati nel penultimo capitolo di The
Constitution of Liberty, dove Hayek arriva a rovesciare l’assunto che
l’educazione dovrebbe avere il compito di eguagliare le opportunità degli
individui. Fin dalle prime battute di questo capitolo la posizione di Hayek è
del tutto esplicita:
Si può bensì sostenere che si debba assicurare la possibilità di
un’educazione
avanzata
al
massimo
a
chi
probabilmente
trarrà
dall’occasione offerta maggior profitto: però ci si è in gran parte serviti del
controllo pubblico sull’educazione per uguagliare le prospettive di tutti, il
che è una cosa ben diversa (Hayek 1960, p. 426).
Superato la soglia della formazione di base, l’istruzione deve essere
assolutamente selettiva. Non può essere somministrata a tutti in modo
indifferenziato. Questo comporta due ordini di problemi. Il primo è che
coloro i quali riceveranno questa maggiore istruzione, normalmente non
pagata da loro stessi, avranno in questo modo un vantaggio 12 ; il secondo
riguarda l’individuazione stessa degli individui che si ritiene più capaci e
quindi degni di ricevere maggiore educazione.
12
“Dobbiamo adattarci al fatto che, siccome di regola qualcun altro dovrà pagare per
l’educazione, chi ne beneficia usufruirà così di un vantaggio ‘non guadagnato’”
(Hayek 1960, p. 426).
20
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
Dal primo punto di vista, Hayek tende a ribadire che non vi è alcuna
corrispondenza tra l’essere prescelti come destinatari di una educazione
superiore e il merito. Sottolinea anzi che questo contribuisce ad acuire la
discrepanza tra posizione sociale e merito.
Coloro che nell’interesse generale più “meritano” una educazione
secondaria non sono necessariamente gli stessi che con sforzo e sacrificio si
sono guadagnati un merito individuale maggiore. La capacità naturale e le
doti innate sono “vantaggi ingiusti” tanto quanto è il caso a determinare
l’ambiente in cui si nasce; e il limitare i vantaggi di una educazione
secondaria a chi possiamo con fiducia prevedere ne trarrà il maggior
profitto, necessariamente aumenta piuttosto che diminuire il divario tra lo
status economico e il merito individuale (Hayek 1960, pp. 425-426).
Dal secondo punto di vista la critica di Hayek è rivolta contro
l’ambizione di poter misurare oggettivamente le capacità o l’intelligenza
degli
individui
attraverso
test
psicologici
come
quello
dell’IQ.
L’economista austriaco registra una fiducia sempre più diffusa in tali tipi di
test. A essi viene attribuito il compito di individuare con obiettività
scientifica gli individui più capaci già in tenera età, in modo da annullare il
vantaggio derivante dall’ambiente familiare. Questo permetterebbe al
“merito” – inteso appunto come intelligenza e capacità – di diventare il
criterio allocativo preminente nell’allocazione delle posizioni sociali.
Hayek non ritiene affatto che questo sia auspicabile. Innanzitutto si
dimostra alquanto scettico sul fondamento scientifico dei test psicologici. Il
tentativo di svelare il mistero dell’intelligenza tramite una sua
quantificazione rimane per Hayeke una chimera. Questo toglie ogni
fondamento all’idea che l’IQ sia una misura oggettiva del merito degli
21
Terenzio Maccabelli
individui. Anche questa strada, ribadisce pertanto Hayek, non è una
soluzione al problema di come “adeguare le remunerazioni al merito”.
Ma contro questa visione, Hayek svolge anche un altro tipo di
ragionamento, basato sull’ipotesi che i criteri di selezione basati sull’IQ
riescano alla fine a imporsi nella società. La sua critica a questo punto
prescinde del fondamento di tali test. Si chiede invece quanto sia allettante
una organizzazione sociale in cui il merito, personificato dall’IQ, si sia
imposto come criterio allocativo. Egli esprime apertamente la propria
avversione per una tale forma di società, ritenendo che l’uso intensivo dei
test darebbe luogo a “un ordine sociale” molto poco attraente.
L’insistere che l’istruzione debba esser dato solo a ragazzi di provata
capacità produce una situazione in cui tutta la popolazione si trova ad
essere classificata in base a qualche test obiettivo e in cui prevale, in tutto e
per tutto, un sistema di opinioni su quali siano le persone qualificate a
ottenere i benefici di una educazione secondaria. Ciò significa una qualifica
ufficiale delle persone suddivise in una gerarchia, che ha un genio patentato
in cima e gli idioti patentati alla base; una gerarchia resa ancor peggiore
dalla presunzione di esprimere il “merito” e, pertanto, di offrire occasioni
nelle quali il valore si può affermare da sé (Hayek 1960, p. 430).
Questo giudizio perentorio viene formulato da Hayek nel capitolo
sull’educazione, ma dopo averlo anticipato, nelle sue linee essenziali,
anche nel capitolo dedicato al “merito”. Vale la pena riportare per esteso
anche quest’altro brano, dato che entrambi riprendono nelle corrispondenti
note un fugace richiamo alla “meritocrazia” di Michael Young, autore sul
quale ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. Nel capitolo sul merito
Hayek non soltanto descrive la società meritocratica come poco attraente,
ma arriva a qualificarla come un ordine sociale “intollerabile”.
22
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
Se in esso si partisse dal presupposto generale che un alto reddito
costituisce la prova del merito e un basso reddito il contrario e
universalmente vi si riconoscesse che la posizione e la remunerazione
corrispondono al merito, e unica strada aperta per il successo fosse
l’approvazione della propria condotta da parte della maggioranza dei propri
simili, la società sarebbe molto probabilmente più insopportabile per chi
non ha successo, di quanto non sia quell’altra società in cui francamente si
riconosce che tra merito e successo non esiste una necessaria connessione
(Hayek 1960, p. 122).
Hayek conduce una sostanza una delle critiche più devastanti all’idea
che il merito possa diventare un criterio allocativo. Egli mette apertamente
in discussione l’aspirazione di poter giudicare se e quanto la posizione
socio-economica di un individuo sia “meritata” 13 . Hayek evidenza i
molteplici fattori dai quali dipende la posizione sociale degli individui –
dalla famiglia alle capacità, dall’educazione all’eredità – ma per
sottolineare che nessuno di questi può essere annullato in modo da
valorizzare esclusivamente il “merito”. Egli ritiene in particolare
impossibile discernere il “merito” individuale dalle condizioni ambientali,
ritenendo impraticabili tutte le soluzioni proposte, siano esse liberali,
socialiste o tecnocratiche. Questo spinge Hayek a puntare al cuore di una
delle maggiori aspirazioni delle democrazie moderne, l’uguaglianza di
opportunità, ideale definito “lodevole” ma “letteralmente impossibile da
realizzare”. (Hayek 1960, p. 428).
13
“Decidere del merito presuppone che possiamo giudicare se gli individui hanno
sfruttato le loro possibilità come avrebbero dovuto, e quanta forza di volontà o di
abnegazione sia loro costato; presuppone anche che sappiamo distinguere tra quanta
parte del loro successo sia dovuta a circostanze che dipendevano da loro e quanta
invece sia da esse indipendente” (Hayek 1960, p. 119).
23
Terenzio Maccabelli
3.
La società meritocratica di Michael Young
Come abbiamo anticipato, sia nel capitolo sul merito sia in quello
sull’educazione di The Constitution of Liberty Hayek menziona
fugacemente un’opera da poco pubblicata di Michael Young, The Rise of
Meritocracy. Riconosce di averne una conoscenza indiretta, ma è
significativo che richiami questo testo a supporto della sua critica al
principio del merito come criterio allocativo. Indubbiamente vi sono alcuni
punti di convergenza tra Hayek e Young, che tuttavia assumono un preciso
significato solo all’interno delle rispettive filosofie sociali, che si collocano
in un orizzonte assai diverso.
Fin dal momento della sua apparizione, The Rise of Meritocracy è in
effetti frequentemente stato oggetto di incomprensioni e fraintendimenti, un
destino che perdura ancora oggi. A ciò ha contribuito soprattutto il modello
espositivo scelto da Young per argomentare le proprie tesi, che si è tradotto
in un libro assolutamente atipico. The Rise of Meritocracy appartiene a
pieno titolo alla tradizione letteraria delle “distopie”, un filone che vanta
nomi come Edward Bellamy, Aldous Huxley o George Orwell. A
differenza delle opere di questi autori, il libro di Young non è tuttavia
entrato nell’olimpo dei testi letterari, ma il fatto di presentarsi come una
finzione letteraria non ha nemmeno facilitato la sua ricezione nelle scienze
sociali (Barker 2006, p. 44). A cinquant’anni dalla sua pubblicazione
possiamo comunque dire che esso sia diventato uno dei più influenti testi di
filosofia sociale, in linea con quelli erano gli stessi intendimenti
dell’autore.
Prima della pubblicazione di The Rise of Meritocracy Young aveva
guadagnato una notevole fama come esponente del Labour Party inglese (a
lui si deve il Manifesto del 1945). Dopo la laurea alla London School of
24
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
Economics, aveva comunque mantenuto contatti anche con l’accademia,
intervenendo soprattutto su riviste di pedagogia. L’educazione è sempre
stato uno dei suoi maggiori interessi, come del resto rivela il titolo esteso
della sua opera più famosa: The Rise of Meritocracy 1870-2033. An Essay
on Education and Equality.
La peculiarità del libro sta tutta nell’orizzonte temporale dell’indagine,
che si proietta nel terzo decennio del XXI secolo per ricostruire la storia
della società inglese degli ultimi centocinquanta anni. L’Inghilterra si
suppone sia ormai diventata una perfetta meritocrazia, e la storia mette a
fuoco i fatti salienti che hanno permesso l’avvento di questo modello di
organizzazione sociale. Autore del libro è un fittizio Michael Young,
aspirante Ph.D. in Sociologia, la cui tesi di dottorato viene pubblicata nel
2034. La tesi si propone di spiegare il perché l’Inghilterra meritocratica del
XXI secolo sia attraversata da pericolose agitazioni sociali che ne stanno
minando le fondamenta.
Come è stato giustamente osservato, il libro è per molti versi una satira
e come tale deve essere letto. Ma nello stesso tempo è un libro che va preso
molto sul serio. Non a caso esso è diventato un fondamentale testo
sociologico e politico su cui si stanno esercitando numerosi interpreti. Le
difficoltà maggiori derivano dal fatto che la storia raccontata da Young è
per metà una storia “vera” della società inglese e per l’altra metà una storia
immaginaria 14 . Per qualcuno, questo starebbe a significare che sono due i
Young che parlano nel libro: il Young fittizio, favorevole alla meritocrazia,
e il Young reale, avverso alla meritocrazia. Questo sdoppiamento della
personalità dell’autore non facilita l’interpretazione di questo testo. Come
leggere allora The Rise of Meritocracy?
14
Recentemente l’opera di Young è stata appunto definita una “social science fiction”
(Donovan 2006, p. 62).
25
Terenzio Maccabelli
Nostro punto di partenza è quello di considerare la società
meritocratica descritta da Young come un “ideal tipo” weberiano. Egli
individua alcune dinamiche in atto nelle società occidentali del secolo
scorso, le isola e su di esse costruisce la propria immagine della
meritocrazia. La società del 2033 immaginata da Young è appunto una
società in cui tali dinamiche si sono completamente dispiegate producendo
un modello puro di società meritocratica. A nostro parere, le dinamiche
storiche, politiche e sociali che Young ritiene fondamentali sono
sostanzialmente quattro.
1. Il lento ma inesorabile declino dei criteri ascrittivi nell’allocazione
delle posizioni sociali. Young scrive in una della società più classiste della
storia, l’Inghilterra appunto, nella quale nel 1958 perdurano ancora
meccanismi ereditari nell’acquisizione del potere e della ricchezza. Young
immagina che sotto la sferza della concorrenza internazionale l’Inghilterra
sia stata costretta ad abbandonare completamente queste convenzioni
sociali, lasciando libero spazio ai criteri acquisitivi. “Il pericolo di venir
‘sopraffatti nella competizione mondiale’ era così reale e venne così
vigorosamente messo in risalto nella seconda metà del secolo, e tanto
pressante era la necessità di subordinare tutto il resto alle esigenze della
produzione, che […] la famiglia fu strappata all’abbraccio feudale” (Young
1958, p. 48). Sono dunque ragioni di efficienza che spingono nella
direzione di una società basata esclusivamente sul contratto anziché sullo
status, dove appunto diminuiscono le sacche del privilegio economicosociale di taluni individui.
2. Il crescente apprezzamento per l’ideale dell’uguaglianza di
opportunità. È questa una dinamica politica e sociale che spinge verso la
radicalizzazione nella condanna dei meccanismi ascrittivi, e sulla quale
vanno convergendo alcune frange della tradizione liberale e soprattutto
26
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
correnti sempre più vaste della tradizione socialista. L’uguaglianza di
opportunità di cui parla Young è però qualcosa di molto diverso
dell’uguaglianza formale: è l’ideale dell’uguaglianza sostanziale dei punti
di partenza, ossia il principio in virtù del quale la ricchezza alla nascita di
ogni individuo dovrebbe essere eguagliata il più possibile. Nella propria
finzione, Young immagina appunto che questo ideale si sia completamente
affermato, dando luogo a un sistema economico caratterizzato da forti
imposte patrimoniali e, soprattutto, consistenti tasse sulle successioni
ereditarie (1958, p. 77; 136). Queste riforme appaiono a Young
pregiudiziali per realizzare una società in cui il merito degli individui
diventi il criterio allocativo preminente. La convergenza di tradizione
liberale e tradizione socialista sarebbe dovuto al fatto che la prima accoglie
un principio egalitario nelle proprie premesse, limitato appunto alle
condizioni di partenza, mentre la seconda rinuncia a perseguire ideali
egualitari sul fronte dei risultati
3. Ruolo strategico dell’educazione. L’uguaglianza di opportunità
riguarda non solo le risorse materiali ma anche quelle immateriali. Il
sapere, la conoscenza e l’educazione ne sono le componenti fondamentali.
La storia raccontata da Young segue da vicino le vicende (reali e fittizie)
della progressiva espansione dell’istruzione pubblica, su cui si innesta il
dilemma tra istruzione universale e selezione in base al merito. Su questo
punto si scontrano due diverse concezioni dell’uguaglianza di opportunità.
I cosiddetti “socialisti di sinistra” sostenevano “che tutti […] dovevano
frequentare le stesse scuole e ricevere la stessa educazione” (Young 1958,
p. 54). Per qualche tempo questo principio ebbe notevole risonanza, ma
venne poi sopraffatto, dopo gli anni settanta del secolo scorso, da una
concezione diversa dell’uguaglianza di opportunità, che venne accolta
anche dai socialisti cosiddetti “realisti”. Gli individui non sono una tabula
27
Terenzio Maccabelli
rasa a cui il sistema educativo si rivolge in modo indifferenziato. Se così
fosse, quanto ciascuno individuo potrebbe ricavare dall’educazione
dipenderebbe quasi esclusivamente dal proprio sforzo. Si afferma invece
prepotentemente l’idea che il merito sia uguale a “sforzo più intelligenza”,
dove quest’ultima è intesa come un’entità distribuita in modo molto
diseguale tra le persone. Soprattutto, si fa strada l’idea che l’intelligenza sia
qualcosa di congenito a ciascun individuo, quindi un potenziale che
richiede percorsi differenziati per essere messa a frutto in modo efficiente.
Il sistema educativo pubblico subisce pertanto una lenta trasformazione
fino al sua completo stravolgimento. La valorizzazione del merito si attua
indirizzando i più capaci verso percorsi educativi adeguati alla loro
maggiore intelligenza.
4. Si afferma definitivamente l’idea che l’intelligenza sia un’entità
misurabile attraverso test psicologici. Questa dinamica sta alla base del
mutamento intervenuto nel sistema educativo appena descritto. Dopo
decenni di controversie, gli psicologi e gli studiosi della società arrivano a
convenire sulla natura innata dell’intelligenza e sul suo fondamento
genetico. L’IQ diventa la misura accreditata di questa intelligenza. La
valorizzazione del merito cessa in questo modo di essere un processo ex
post, ma diviene un processo che si svolge ex ante. L’elite è selezionata fin
dall’inizio sulla base dell’IQ, dal quale dipende l’accesso a percorsi
differenziati di istruzione15 . Il posto occupato da ciascun individuo nella
gerarchia sociale è così prestabilito fin dalla nascita. “L’assioma del
15
“Il successo di queste riforme fu reso possibile dalla sempre maggiore efficienza dei
metodi di selezione. Quanto sarebbe stato vano isolare delle scuole superiori senza
avere i mezzi per identificare gli eletti! […] Ma quanto più largamente si riconobbe
che le scuole migliori dovevano essere riservate ai più intelligenti, tanto maggiore si
fece la pressione sugli psicologici scola statistici perché migliorassero le loro tecniche.
[…] Come si dovevano sceglier i migliori? […] L’alto quoziente di intelligenza fu
assunto come la qualifica principale per l’ammissione all’élite” (Young 1958, p. 81).
28
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
pensiero moderno è che gli individui sono ineguali; e da esso discende il
precetto morale che si debba dare a ciascuno una posizione nella vita
proporzionata alla sua capacità” (Young 1958, p, 123). Questo comporta
l’abbandono degli ideali egualitari, proprio in nome dell’uguaglianza di
opportunità 16 .
Il lento dispiegarsi di queste dinamiche culmina dunque nel XXI
secolo con l’avvento della meritocrazia, neologismo introdotto per la prima
volta da Young appunto per qualificare un ipotetico modello di società in
cui il merito è divenuto l’unico e universale criterio allocativo. Prerogativa
essenziale di questa forma di governo è di essere retta dalla parte
“intelligente” della popolazione, presentandosi quindi come modello
alternativo sia alla democrazia del governo del popolo, sia all’aristocrazia
del sangue sia alla plutocrazia dei ricchi 17 . Quali sono dunque le
caratteristiche salienti dell’Inghilterra del 2034 che il fittizio Michael
Young, aspirante sociologo, deve mettere a fuoco al fine di comprendere i
motivi del malcontento sociale?
L’aspetto più notevole, come anticipato, è la ferrea programmazione
del sistema educativo. Sulla base dell’IQ, misurato da test che si ritiene
abbiano raggiunto l’assoluta obiettività scientifica, vengono selezionati fin
dall’infanzia le persone più adatte a ricoprire i diversi ruoli sociali. Il primo
e fondamentale discrimine è tra quelli destinati a formare la classe dirigente
e i lavoratori e i tecnici dall’altra. Il meccanismo dei test assicura che la
16
“Gli uomini dopotutto si distinguono […] per l’ineguaglianza delle loro doti. Una
volta che tutti i genî stiano nell’élite, e tutti gli stupidi tra i lavoratori, quali significato
può avere l’eguaglianza?” (Young 1958, p. 122).
17
Il fittizio Young scrive che l’origine dell’espressione “meritocrazia”, come quella del
suo corrispettivo “uguaglianza di opportunità”, sia “ancora oggi oscura. Sembra che
fosse diventata d’uso comune negli anni sessanta del secolo scorso nelle piccole
riviste legate al partito laburista, e che abbia raggiunto una diffusione generale molto
più tardi” (Young 1958, p. 35).
29
Terenzio Maccabelli
selezione dei primi sia indipendente dalle condizioni ambientali, dal
nepotismo o dal denaro.
La schiera di eletti così selezionata riceve una appropriata istruzione
ed è automaticamente destinata a diventare l’élite di questa utopica società.
Il loro status economico è nettamente superiore a quello del resto della
popolazione: la società meritocratica è una società fortemente stratificata,
ma la gerarchia è legittimata e accettata “a tutti i livelli della società” dal
fatto di avere a fondamento “il principio del merito” (Young 1958, p. 130).
Nei gradini più bassi della gerarchia sociale c’è totale rassegnazione.
Tra gli individui c’è la consapevolezza che il loro status deriva dal basso
IQ. Una quota considerevole di questi individui è destinata a svolgere i
lavori domestici nelle famiglie delle élite, producendo un fenomeno che si
può chiamare di “ridomesticazione” della società” e che Young traduce con
l’espressione “di nuovo persone di servizio” 18 .
Per diversi anni la meritocrazia appare come una società pacificata,
senza conflitti, dove ognuno accetta di buon grado il posto nella gerarchia
sociale commisurato al proprio IQ. “La distribuzione delle ricompense è
diventata sempre più ineguale, eppure c’è meno conflitto di prima” (Young
1958, p. 157). All’origine dei conflitti del passato c’era principalmente il
fatto che molti individui erano collocati in classi sociali non corrispondenti
alle loro capacità. Quando questa ingiustizia venne sanata, “con una
riforma della struttura delle retribuzione che è stata tra le più efficaci del
nostro tempo, [….] la concordia subentrò alla concordia; e nel merito si
18
Fin dalla fine del XX secolo, “circa un terzo dell’intera popolazione adulta non era
più occupabile nell’economia normale. La complessità della civiltà aveva
sopravanzato queste persone; a causa della mancanza di intelligenza esser non erano
in grado di trovare una nicchia nella normale struttura occupazionale. […] Che cosa si
doveva fare di loro? C’era una sola risposta possibile. […] [Questi individui] erano in
grado di far fronte ad una sola richiesta: quella di personale di servizio” (Young 1958,
p. 127).
30
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
riconobbe il principio che doveva guidare tanto la riforma economica come
quella scolastica” (1958, p. 166). La diseguaglianza, pertanto, non veniva
più percepita come immorale appunto perché fondata sui presupposti del
merito e dell’uguaglianza di opportunità.
La lotta contro i privilegi ereditari nell’acquisizione delle posizioni
sociali era stata il motivo dominante del lungo processo di evoluzione verso
la meritocrazia. Ma per uno strano scherzo del destino l’ereditarietà si stava
prendendo una inattesa rivincita. Molti scienziati che studiavano il “modo
di trasmissione della capacità intellettuale” avevano dimostrato “che
l’intelligenza dei bambini può, in ultima analisi, esser dedotta con sicurezza
dall’intelligenza dei loro ascendenti” (Young 1958, p. 184). Una volta che
la meritocrazia e l’uguaglianza di opportunità avessero completato la loro
missione, portando i più meritevoli nelle file delle élite, si sarebbe potuto
ristabilire il principio ereditario. Impercettibilmente stava ricomparendo
sulla scena un criterio ascrittivo. L’ereditarietà dell’intelligenza stava
dunque compiendo una rivoluzione copernicana: la società meritocratica si
stava apprestando ad assumere i tratti di una aristocrazia sotto mentite
spoglie. Da qui il paradosso di una mobilità sociale inseguita come una
chimera che si traduce in una nuova forma società cristallizzata in caste
impermeabili.
L’élite si avvia a diventare ereditaria; i principi dell’ereditarietà e del
merito tendono a fondersi. Quella trasformazione fondamentale per la quale
sono occorsi più di due secoli è ormai quasi perfezionata (Young 1958, p.
181).
31
Terenzio Maccabelli
Questo è il primo motivo di inquietudine che attraversa l’Inghilterra
meritocratica del 2033 19 . Ma ve ne sono altri ancora più preoccupanti. Tra
le pieghe di questa utopica società avevano cominciano a farsi strada idee
discordanti con i principi meritocratici. A patrocinare questa rivolta
intellettuale erano stati soprattutto alcuni vecchi rappresentanti del partito
laburista, rimasti affezionati ai valori egualitari delle origini. Ai loro occhi,
la traduzione dell’idea di uguaglianza di opportunità in un modello sociale
che aveva generato una nuova forma di aristocrazia era stato un
tradimento 20 . Questo gruppo di dissidenti aveva trovato un prezioso alleato
nel movimento femminista, all’interno del quale vi erano anche molte
donne appartenenti alla élite. Le donne avevano cominciato a intravedere
profonde contraddizioni nei principi meritocratici, che avevano acuito il
dissidio tra le loro aspirazioni sociali e il loro istinto materno. In un
contesto in cui si erano di fatto imposti convincimenti eugenetici, il loro
ruolo materno era stato sottomesso alle esigenze riproduttive delle élite.
Molte donne avevano pertanto cominciato ad avversare “quei criteri di
giudizio, legati al successo, con i quali gli uomini si valutano
reciprocamente” (Young 1958, p. 178). Questa loro protesta aveva trovato
una sponda nei vecchi laburisti. Da questa alleanza era scaturito un
movimento politico, chiamato “populista”, che si riconobbe nel cosiddetto
“Manifesto di Chelsea”, un documento di rivendicazione politica redatto
nel 2009 che inizialmente non aveva suscitato “molto interesse nel
19
“Il solo accennare alla prospettiva che il principio ereditario venga restaurato, dopo
due secoli di lotte per distruggerlo, equivale ad un attacco al centro vitale del nostro
sistema di valori” (Young 1958, p. 189).
20
“I socialisti ottennero il premio dell’eguaglianza delle opportunità predicando
l’eguaglianza; e questo, mentre durò la battaglia, non diede luogo ad alcun
inconveniente. Ma dopo che l’eguaglianza delle opportunità era diventata realtà, la
predicazione dell’eguaglianza non solo era superflua, ma sembrava fatta apposta per
annullare proprio la conquista della quale i laburisti potevano prendersi gran parte del
credito” (Young 1958, p. 133; cfr. anche p. 154).
32
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
pubblico” ma che dopo due decenni cominciava invece ad avere molta
influenza.
Il Manifesto è pervaso da un egualitarismo sentimentale e romantico,
fortemente contrastante con la rigida stratificazione sociale imperniata sul
principio meritocratico. Esso rigetta l’idea che si possa istituire un
ordinamento delle persone sulla base delle loro capacità o della loro
intelligenza. Vi è l’anelito a una società senza classi, dove il
riconoscimento sociale cessa di essere ancorato a una metrica unilaterale
quale quella dell’IQ 21 . Ma, soprattutto, il Manifesto rilancia una versione
arcaica dell’uguaglianza di opportunità, che cessa di essere un criterio
selettivo per riproporsi come strumento di emancipazione sociale:
Gli autori del Manifesto hanno cercato di dare un nuovo significato
all’uguaglianza delle opportunità. Questa, hanno affermato, non deve
significare eguali opportunità di salire lungo la scala sociale, ma eguali
opportunità per tutte le persone, a prescindere dalla loro “intelligenza”, di
sviluppare le virtù e i talenti di cui sono dotate, tutte le loro capacità di
apprezzare la bellezza e la profondità dell’esperienza umana, tutte le loro
facoltà di vivere una vita piena (Young 1958, p. 175).
21
“La società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di
valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e
cultura, per la loro occupazione e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro
coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le classi
non potrebbero più esistere. Chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è
superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, che il funzionario statale
straordinariamente capace a guadagnare premi è superiore al camionista capace a far
crescere rose? La società senza classi sarà anche la società tollerante, in cui le
differenze individuali verranno attivamente incoraggiate e non solo passivamente
tollerate, in cui finalmente verrà dato il suo pieno significato alla dignità dell’uomo.
Ogni essere umano avrà quindi eguali opportunità non di salire nel mondo alla luce di
una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacità per vivere
una vita ricca” (Young 1958, p. 174).
33
Terenzio Maccabelli
Come si vede nel Manifesto vi erano echi del giovane Marx, in
particolare dei Manoscritti economici-filosofici del 1944, oltre a richiami
alla tradizione del socialismo fabiano 22 . Traspariva poi una concezione
pedagogica anti-produttivistica la quale avversava la sottomissione
dell’istruzione alle esigenze dell’economia.
Il bambino, ogni bambino, è un individuo prezioso, e non soltanto un
potenziale funzionario della società. Le scuole non debbono limitarsi a
fornire individui idonei a svolgere le mansioni considerate importanti in un
particolare momento, ma debbono dedicarsi a incoraggiare lo sviluppo di
tutte le qualità umane, siano o non siano queste del tipo richiesto da un
mondo scientifico. Alle arti e alle abilità manuali deve esser dato altrettanto
risalto che alla scienza e alla tecnologia (Young 1958, p. 175).
L’aspirazione dei populisti era infine quella di restaurare un sistema
educativo basato sul principio dell’istruzione universale, abbandonando i
percorsi differenziati e i criteri selettivi di accesso.
Il manifesto chiedeva l’abolizione della gerarchia delle scuole e la
restaurazione delle scuole a indirizzo unico. Queste ultime, a suo avviso,
dovrebbero disporre di un numero di buoni insegnanti tale da consentire
che tutti i ragazzi siano seguiti e stimolati individualmente. In tal modo essi
potrebbero svilupparsi secondo il proprio ritmo fino a raggiungere il
massimo delle loro possibilità. Le scuole non segregherebbero i simili, ma
mischierebbero i dissimili; promuovendo la diversità entro l’unità,
insegnerebbero il rispetto per quelle infinite differenze umane che non sono
certo gli ultimi valori del genere umano. Le scuole non considererebbero i
22
Marris (2006, p. 16) ritiene tuttavia che sia Matthew Arnold, più che Marx, la fonte
del “Manifesto di Chelsea”.
34
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
bambini come formati una volta per sempre dalla Natura, ma come una
combinazione
di
facoltà
che
possono
essere
coltivate
mediante
l’educazione (Young 1958, pp. 175-176).
Per il fittizio sociologo Michael Young che scrive nel 2034, il
“Manifesto di Chelsea” è decisivo per capire le turbolenze sociali
dell’Inghilterra meritocratica. Attorno ad esso si coagula il movimento di
“ribelli” che sta acquisendo sempre maggiore consenso. Per il maggio 2034
è previsto un grande sciopero generale che metterà alla prova la forza di
questo movimento formato da tecnici, vecchi laburisti e femministe. Per il
fittizio autore di The Rise of Meritocracy è venuto il momento di formulare
alcune ipotesi sulla possibilità che il movimento populista possa scardinare
l’ordinamento sociale basato sulla meritocrazia. Secondo il giovane
sociologo, nonostante le aspirazioni dei populisti, non vi saranno grandi
sommovimenti sociali. Magari ancora qualche sciopero, alcune richieste
che potrebbero essere accolte, ma nessuna rivoluzione. Le agitazioni sociali
andranno scemando, senza che vengano intaccati i principi meritocratici. Il
libro termina tuttavia con un colpo di scena, cioè con la morte del fittizio
Michael Young, avvenuta durante i tumulti del grande sciopero generale
del maggio 2034, comunicata con una nota editoriale posta alla fine del
volume 23 .
Questo è il racconto immaginario che Young ci propone per descrivere
la genesi, l’affermazione e forse la capitolazione della meritocrazia. Il
problema è capire quale sia la sua concezione di questo modello di
23
“Poiché l’autore di questo saggio è stato ucciso anch’egli a Peterloo, gli editori, con
rincrescimento, non hanno potuto sottoporgli le bozze del manoscritto per quelle
correzioni che forse avrebbe voluto apportargli prima della pubblicazione. Il testo,
anche nella sua ultima parte, è stato lasciato esattamente come egli lo scrisse. I
fallimenti della sociologia sono illuminanti quanto i suoi successi” (Young 1958, p.
193).
35
Terenzio Maccabelli
organizzazione sociale. Vi sono pochi dubbi sul fatto che questa venga
presentata come una distopia, a dispetto del fatto che il fittizio Michael
Young che scrive il libro sia totalmente pervaso dai valori meritocratici.
Per il vero Young la prospettiva di una meritocrazia compiutamente
realizzata prende le sembianze di un sogno angoscioso. L’uguaglianza di
opportunità portata alle sue estreme conseguenze ha prodotto una nuova
forma di aristocrazia dell’intelletto a base ereditaria. L’anelito per una
perfetta mobilità sociale si è ritorto contro la stessa meritocrazia, finendo
per ingessarla in un sistema di caste totalmente impermeabili tra loro. E per
i negletti di questa società non vi è neppure lo spiraglio consolatorio di
ricondurre a cause esterne o ambientali le ragioni del proprio umile status.
Questa inquietante figurazione della meritocrazia accomuna Young ad
Hayek, come dimostrano i segni di apprezzamento per lo scrittore inglese
che troviamo in The Constitution of Liberty. Ma le convergenze finiscono
qui, perché se è vero che entrambi critichino aspramente la meritocrazia, è
pure vero che lo fanno muovendo da antitetici orizzonti politici. È difficile
non pensare che il “Manifesto di Chelsea” rifletta in larga parte i
convincimenti dello stesso Young, che sono tuttavia poco o nulla
compatibili con l’immagine della società libera prospettata da Hayek. Per
entrambi il merito è un concetto ambiguo, forse addirittura da estromettere
dal discorso politico; ma per Young, a differenza di Hayek, l’eguaglianza
rimane un ideale sociale irrinunciabile.
36
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
4.
Considerazioni conclusive: merito, mercato ed educazione
I tre autori sui quali ci siamo soffermati appaiono molto diversi tra
loro. Essi appartengono a tradizioni di ricerca non facilmente
sovrapponibili, non a caso caratterizzati da stili argomentativi che stanno
agli antipodi. Dalle loro teorie scaturiscono prospettive differenti di
guardare al problema del merito come criterio allocativo. Nonostante
queste radicali differenze cercheremo in queste considerazioni conclusive
di svolgere un discorso di sintesi sulla possibilità di intendere il merito
come principio ordinatore della società. A nostro parere, l’ambivalenza
semantica, la necessità di ricorrere a valutazioni etico-normative e la
difficile compatibilità con il mercato sono i principali aspetti che
accomunano le riflessioni sul merito di Musgrave, Hayek e Young.
Dal punto di vista semantico, innanzitutto, è necessario sottolineare
l’indeterminatezza di questo concetto. In nessuno dei tre autori qui presi in
considerazione è possibile rintracciare un significato “oggettivo”. Il merito
affiora nelle rispettive teorie come un concetto sfuggente, non ancora
assodato e difficilmente traducibile in una definizione scientifica.
Musgrave e Hayek hanno espressamente richiamato la necessità di riferirsi
a criteri valutativi o normativi per riempire di contenuto tale concetto.
Mentre Young, che invece è ricorso a un’apparente definizione obiettiva
(merito inteso come “sforzo più intelligenza”), l’ha fatto proprio per
mostrare l’arbitrarietà di tale formula. Vi sono insomma elementi
sufficienti per confermare, come recentemente ribadito anche da Sen,
l’indeterminatezza dei concetti di merito e meritocrazia, che rimandano a
37
Terenzio Maccabelli
un sistema di valori e di opinioni soggettive per essere riempiti di
significato 24 .
L’ambiguità del concetto di merito si allarga ulteriormente se visto in
rapporto al mercato. Fino a che punto si può parlare del processo di
mercato come di un meccanismo allocativo che valorizza il merito? Anche
in questo caso è possibile una risposta unitaria. Se pure in forme diverse,
tutti e tre gli autori negano in modo risoluto che il merito, qualunque
definizione di esso si voglia dare, sia in qualche forma legato ai
meccanismi di mercato. Il più esplicito in questa direzione è naturalmente
Hayek. Nella sua teoria troviamo uno degli attacchi più devastanti all’idea
che il merito possa diventare un criterio distributivo. La sua critica è
principalmente rivolta a chi vorrebbe sostituire l’ordine spontaneo generato
dal mercato con un ordine deliberato basato su un qualsivoglia criterio di
giustizia. Ma è da sottolineare il fatto che anche la rivendicazione del
merito rientri a suo parere entro la tipologia dell’ordine deliberato. Il
mercato è infatti ritenuto un meccanismo allocativo del tutto impersonale e
indifferente al “merito” degli individui, per molti versi addirittura
contrastante con esso. Se pure con finalità completamente diverse, la
prospettiva di Musgrave appare abbastanza simile. Egli introduce il
concetto di merito proprio per qualificare quei bisogni – e i corrispondenti
beni – che il mercato non riesce a valorizzare. Mentre per quanto riguarda
Young, è del tutto evidente come la sua meritocrazia sia alla fine una
società nella quale il riconoscimento del merito non passa per il mercato. I
24
“Meritocracy, and more generally the practice of rewarding merit, is essentially
underdefined, and we cannot be sure about its content – and thus about the claims
regarding its ‘justice’ – until some further specifications are made (concerning, in
particular, the objectives to be pursued, in term of which merit is to be, ultimately,
judged). The merit of actions – and (derivatively) that of persons performing actions –
cannot be judged independent of the way we understand the nature of a good (or an
acceptable) society” (Sen 200, pp. 5-6).
38
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
tre autori propongono in sostanza un’immagine del merito come un
principio realizzabile solo da una “mano visibile” più che dalla “mano
invisibile”. L’idea paradossale che una organizzazione sociale di tipo
socialista avrebbe maggiori potenzialità nel mettere in pratica il criterio del
merito non è forse del tutto peregrina per gli autori qui discussi. 25
Un ulteriore elemento rafforza questa conclusione. Il mercato è del
tutto indifferente alla pre-condizione essenziale di ogni meritocrazia,
l’assenza di correlazione tra posizione sociale e origine familiare. “There is
no meritocracy prior to establishment of equal opportunity. This should act
as a precondition to any discussion of meritocracy. As long as the family
and class background have an influence on a person’s outcome, the
distribution of social goods are not distributed entirely on merit. In its ideal,
it is only after these factors are eliminated that the distribution of goods and
positions can be based on merit” (Longoria 2008, p. 4). Il concetto di
merito è in sostanza molto esigente. Preso alla lettera comporta un
rovesciamento di molti istituti che reggono le società di mercato, a partire
dalla trasmissione patrimoniale intergenerazionale. Un motivo in più per un
uso più parsimonioso di questo concetto, a meno di accoglierne la filosofia
sociale che esso incarna. Proprio l’orizzonte della filosofia sociale permette
di concludere con alcune osservazioni riguardanti l’educazione.
Hayek non ha esitazioni nel prendere le distanze dall’idea che il
sistema educativo sia uno strumento per eguagliare le opportunità degli
individui e rendere possibile la corrispondenza tra merito e posizione
sociale. Pur concedendo che lo Stato debba farsi carico di una parte delle
spese, egli rifiuta la prospettiva di un sistema educativo prevalentemente
25
Willetts (2006, p. 239) ha recentemente ricordato la provocatoria affermazione di
John Goldhorpe secondo cui “if you want an example of a society that efficiently
matches ability with occupation, using the state to do so, then the model is probably
the postwar Soviet Union”.
39
Terenzio Maccabelli
pubblico. Anche in questo ambito dovrebbe essere il mercato il giudice
supremo, lasciando la libertà ai soggetti di scegliere quantità e qualità
dell’istruzione. Poiché è impossibile, oltre certi livelli d’istruzione,
concedere a tutti questa opportunità di scelta, vi saranno per forza criteri di
ammissione selettivi. Hayek è però scettico sulla possibilità di avvalersi del
merito per questa selezione: senza ipocrisie, riconosce pertanto che
l’educazione – come del resto l’eredità genetica, l’eredità patrimoniale e in
genere la famiglia – sono fattori che concedono “vantaggi” a qualcuno
indifferentemente dal loro merito.
La spettrale descrizione della società meritocratica del XXI secolo
proposta da Young offre a Hayek ulteriori elementi di supporto per questa
tesi. Le finalità di Young sono tuttavia profondamente diverse da quelle di
Hayek. Young propone una visione disincantata e disillusa della
meritocrazia non per smantellare ma per ribadire il valore dell’uguaglianza
di opportunità. Egli avversa soltanto il travisamento subito da questo
ideale. La convergenza di due tradizioni antitetiche come quella socialista e
quella che si richiama all’eredità di Francis Galton ha trasformato l’idea di
uguaglianza di opportunità in un sistema rigidamente selettivo, arrivando a
inficiare in modo irrimediabile il fine dell’educazione. Essa è diventata
strumentale al processo di selezione delle élite, abbandonando ogni sua
aspirazione emancipatoria. Per Young questo rimaneva invece il fine
fondamentale dell’educazione, a prescindere da ogni considerazione sul
merito degli individui.
L’indirizzo di ricerca avviato da Musgrave sembrerebbe estraneo a
questo ordine di problemi. Egli introduce il concetto di merito non con
riferimento alle capacità delle persone ma ai bisogni ritenuti meritevoli. Ma
l’archetipo di tale tipo di bisogni è appunto ritenuto l’istruzione e la disputa
tra Hayek e Young si gioca non tanto sulla prospettiva di una improbabile
40
Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia”
società meritocratica quanto sulla scelta di considerare o meno l’istruzione
universale come un bisogno meritorio. A cinquant’anni di distanza da
questi dibattiti è davvero un’ironia della storia che la meritocrazia abbia
guadagnato così tanto consenso proprio nel momento in cui ne va perdendo
l’educazione come bene meritorio.
41
Terenzio Maccabelli
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