Terenzio Maccabelli IL “MERITO” COME CRITERIO ALLOCATIVO. LE ORIGINI DEL DIBATTITO SULLA “MERITOCRAZIA” DSS PAPERS STO 03-08 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” The idea of meritocracy may have many virtues, but clarity is not one of them. Amartya Sen Merito e meritocrazia sono parole all’ordine del giorno del dibattito politico e sociale contemporaneo. Attorno ad esse circola un’aura di sacralità condivisa dai più disparati orientamenti politici. Da diverso tempo, l’opinione pubblica è sottoposta a un’intensa campagna di sensibilizzazione ai valori meritocratici, ritenuti imprescindibili per il buon funzionamento di una società moderna. Soprattutto in Italia, anche se il discorso è più generale, l’assenza di meritocrazia è diventato il cavallo di battaglia di una composita schiera di opinion maker, politici, giornalisti e studiosi della società, impegnati a sradicare dalla nostra cultura atteggiamenti avversi alla valorizzazione del merito 1 . Si è così tornati a discutere un problema che molti ritenevano ormai superato, ossia il permanere di criteri ascrittivi nell’allocazione delle posizioni sociali. Forse con eccessivo ottimismo si era liquidato il problema della valutazione dei criteri allocativi operanti nel mercato; e forse con eccessiva fiducia si era guardato al mercato come forza capace di rimuovere i tradizionali meccanismi legati all’ereditarietà delle posizioni sociali. Il criterio acquisitivo, basato sulle capacità e sul merito, secondo 1 Impossibile anche solo accennare agli innumerevole articoli di giornale che discutono di merito e meritocrazia o alle proposte di legge che ambiscono a introdurre il merito nell’economia, nella società e nella pubblica amministrazione per via legislativa. Doveroso è invece il richiamo ad Abravanel (2008), libro che sta avendo un notevole successo editoriale. 3 Terenzio Maccabelli molti commentatori, sarebbe invece ancora lungi dall’aver trovato piena cittadinanza nelle nostre istituzioni e organizzazioni economiche. È fuori discussione l’importanza svolta da queste denuncie per aver riportato allo scoperto una questione irrisolta delle società di mercato contemporanee. Ma molti dibattiti scaturiti sull’onda del crescente interesse mostrato dall’opinione pubblica per il merito e la meritocrazia scontano il deficit conoscitivo che ancora circonda tali concetti: non di rado, essi sono assunti nel loro significato intuitivo, omettendo il problema della loro criticità. Le discipline economiche, politiche e sociali hanno offerto contributi di rilievo sui temi del merito e della meritocrazia 2 . È altrettanto vero, tuttavia, che anche in ambito accademico tali concetti continuino a rimanere controversi e nebulosi, privi di una declinazione universalmente accettata. Come ha di recente sottolineato Amartya Sen (2000, p. 5), “the idea of meritocracy may have many virtues, but clarity is not one of them” Il paper non ambisce a proporre soluzioni agli interrogativi che circondano i concetti di merito e meritocrazia: più modestamente si propone di ricostruire il pensiero di tre autori che indipendentemente l’uno dall’altro e quasi contestualmente hanno dato contributi imprescindibili per ogni discussione su questi temi. Ci soffermeremo, in particolare, muovendo da una prospettiva di storia delle idee, su alcune celebri opere pubblicate sul finire degli anni cinquanta da Richard Musgrave, Friedrich Hayek e 2 4 Senza alcuna pretesa di completezza, ci limitiamo qui a ricordare Arrow, Bowles, Durlauf (2000) per l’economia; Bell (1972) e Geoff (2006) per le scienze politiche; Goldthorpe (2005) per la sociologia; Lemann (2000) per la storia dei test attitudinali come proxi del merito individuale; McNamee, Miller (2004) e Longoria (2008) per le rappresentazioni del merito nell’opinione pubblica e per il gap tra realtà e percezione; McCrudden (1998) per la tradizione di studi riguardante la “positive” o “affirmative action”. Per quanto riguarda l’Italia, infine, da ricordare il recentissimo numero monografico della “Rivista delle politiche sociali” (2008) dal titolo Il merito: talento, impegno, caso. Le ombre dell'Italia. Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” Michael Young. Si tratta di tre autori molto diversi tra loro, raramente accumunati: Musgrave è uno dei massimi esponenti dell’economia pubblica e autore di una formulazione ancora oggi canonica dei fini della finanza pubblica; Hayek, economista nonché filosofo sociale e politico, è stato una delle voci più autorevoli del liberismo novecentesco; Young è invece un personaggio decisamente più eccentrico e difficile da inquadrare in un’ottica disciplinare, ma che riveste un ruolo fondamentale nella nostra ricostruzione per avere coniato il termine stesso di meritocrazia. L’orizzonte temporale della presente ricostruzione è volutamente circoscritto a un numero limitato di anni, nella convinzione che questo permetta di mettere maggiormente a fuoco i concetti e le categorie interpretative proposte da questi tre autori. La scelta di individuare la fine degli anni cinquanta come momento fondante il dibattito sul merito è naturalmente arbitraria: non sarebbe difficile risalire indietro nel tempo per trovare momenti altrettanto significativi. La nostra scelta è semplicemente motivata dal fatto che solo nel 1958, come detto per opera di Young, il concetto di meritocrazia entra nel lessico delle scienze sociali. E non è probabilmente un caso che negli stessi anni, pur muovendo da presupposti assai diversi, Musgrave e Hayek abbiano deciso di avvalersi del concetto di merito per articolare le rispettive indagini economiche e sociali. Il saggio è organizzato in quattro parti. Nella prima verranno discussi i concetti di “merit wants” e “merit goods” introdotti da Musgrave nel 1956 e poi ripresi in forma più organica nel 1959. Non ci dilungheremo sulle problematiche analitiche di questi concetti, che peraltro hanno alimentato un dibattito ancora in corso. Il nostro interesse è rivolto principalmente ai presupposti di filosofia sociale che lo stesso Musgrave ha sottolineato essere fondamentali per comprendere la logica sottostante i concetti di “merit wants” e “merit goods”. Nel secondo paragrafo presenteremo le idee 5 Terenzio Maccabelli di Hayek sul merito, soffermandoci in particolare su due fondamentali capitoli della sua The Constitution of Liberty del 1960. Qui troviamo, come noto, una delle più feroci critiche all’idea che il mercato funzioni alla stregua di un criterio allocativo volto al riconoscimento del merito. Nella terza parte presenteremo The Rise of Meritocracy di Young, opera tra le più citate e influenti nel dibattito sulla meritocrazia ma sulla quale permangono ancora malintesi interpretativi (in larga parte dovuti al fatto che si tratta di un’opera più citata che letta). Il quarto capitolo, infine, propone alcune considerazioni di sintesi sui tre contributi proposti in queste pagine. Come cercheremo di argomentare, nonostante si tratti di autori difficilmente comparabili, vi sono singolari analogie nell’immagine del “merito” che essi trasmettono: anziché prestarsi a una comprensione intuitiva, il concetto di merito possiede ambivalenze non facilmente risolvibili; l’ideale di una società meritocratica, presa nel suo significato letterario, richiede condizioni incompatibili con molte delle attuali istituzione che reggono le società liberali; merito e meritocrazia, infine, rimandano a criteri allocativi e a un modello di organizzazione sociale per molti versi antagonisti al mercato. 6 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” 1. “Merit wants” e “merit goods” in Richard Musgrave Richard Musgrave è considerato il padre della moderna teoria della finanza pubblica. La sua Theory of Public Finance (1959) è un vero e proprio classico nella storia dell’economia pubblica. A Musgrave si deve la celebre partizione delle finalità del bilancio pubblico nelle tre funzioni allocativa, distributiva e stabilizzatrice. Ed è discutendo queste tre funzioni che Musgrave introduce il concetto di “merit wants”. Pochi anni prima della Theory of Public Finance Musgrave aveva presentato le tre funzioni del bilancio pubblico avvalendosi della celebre distinzione tra bisogni privati e bisogni pubblici. Il soddisfacimento dei bisogni privati avviene attraverso l’acquisto di beni sul mercato per i quali vale il “principio di esclusione” (o di rivalità nel consumo). I bisogni pubblici, o sociali, sono invece soddisfati da beni che “debbono essere consumati nella stessa quantità da tutti” (Musgrave 1956-1957, pp. 130131). Ma l’assenza di rivalità permette comportamenti opportunistici: ogni consumatore di beni pubblici ha tutto l’interesse a non rivelare le proprie preferenze, rendendo così impossibile la loro allocazione attraverso il mercato 3 . È necessario allora un processo politico attraverso il quale rendere manifeste le preferenze dei consumatori, in modo da imputare a ciascuno di essi la relativa quota di finanziamento del bene pubblico. Ma sebbene allocati in modo diverso – attraverso il mercato i beni privati e attraverso lo Stato i beni pubblici – vale per entrambi il principio della “sovranità del 3 “Poiché la stessa quantità deve essere consumata da tutti, gli individui sanno di non poter essere esclusi dal godimento del bene. Stando così le cose, essi non sono costretti a rivelare le loro preferenze attraverso la domanda sul mercato. Il ‘principio di esclusione’, che è essenziale per lo scambio, non può essere applicato e quindi il meccanismo di mercato non funziona” (Musgrave 1956-1957, pp. 131-132). 7 Terenzio Maccabelli consumatore”. Lo Stato simula il comportamento del mercato, realizzando un allocazione di beni pubblici conforme alle preferenze dei consumatori. Lo Stato, in altre parole, soddisfa la domanda di beni pubblici “in accordo con le preferenze individuali e con il principio della sovranità del consumatore” (1956-1957, p. 143). Secondo Musgrave, tuttavia, vi sono alcune tipologie di bisogni che non possono essere soddisfati con lo stesso criterio allocativo dei beni pubblici. Esistono infatti alcuni bisogni che gli individui tendono a sottostimare e che se lasciati al mercato darebbero luogo a una domanda insufficiente. “L’evidente inclinazione della gente a dotarsi di una seconda macchina o di un terzo frigorifero prima di assicurare un’adeguata educazione ai propri figli ne è una dimostrazione” (1956-1957, p. 143). Il mercato fallisce in questo caso non solo perché occulta le reali preferenze dei consumatori ma perché rivela preferenze che sono per sé stesse insoddisfacenti. Questo tipo di bisogni sono appunto quelli che Musgrave – “in mancanza di un altro nome” – propone di chiamare “merit wants”. Nella Theory of Public Finance (1959) Musgrave riprende e approfondisce il problema dei beni meritori 4 . Egli sottolinea innanzitutto che la qualifica di meritorio attribuita a un determinato bisogno implica che il sistema delle preferenze individuali possa essere emendato dalle scelte politiche 5 . La linea di demarcazione rispetto ai bisogni sociali, ai quali lo Stato fa fronte attraverso i beni pubblici, si trova in questa “interferenza” nel sistema delle preferenze individuali. La soddisfazione dei beni meritori 4 5 8 Nella Theory of Public Finance Musgrave chiarisce inoltre che il concetto di “merit wants” attraversa ed è indipendente dalla divisione da lui stesso proposta del bilancio pubblico nelle tre funzioni allocativa, distributiva e stabilizzatrice. “The satisfaction of merit wants, by its very nature, involves interference with consumer preferences”. “In the situations now considered [merit goods], interference is […] the very purpose of public policy” (Musgrave, Peggy Musgrave 1980, p. 85; West, McKee 1983, p. 1110). Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” avviene attraverso un processo differente rispetto ai bisogni sociali. La differenza rispetto ai bisogni sociali, o pubblici, è che nel caso dei bisogni meritori diventa legittimo correggere le preferenze “sbagliate” dei consumatori per evitare una domanda sottodimensionata. Musgrave aggiunge che lo stesso ragionamento può applicarsi al caso opposto: tabacco e alcolici, ad esempio, possono essere definiti “demerit goods”, tali da giustificare una tassazione suntuaria che disincentivi il loro consumo. Tanto i “merit goods” quanto i “demerit goods” introducono in sostanza deroghe ai principi fondamentali di una economia di mercato. Anche nel 1959 Musgrave ribadisce come il settore più ragguardevole per comprendere la logica dei beni meritori sia quello dell’educazione. In questo ambito le preferenze individuali possono dar luogo a scelte non ottimali. “I vantaggi dell’istruzione sono più evidenti per coloro che sono informati che per coloro che non lo sono, giustificando così l’obbligatorietà nell’allocazione delle risorse per l’istruzione” (Musgrave 1959, p. 180). È appunto in questi casi che si rende necessario l’intervento pubblico, anche se si tratta di beni che potrebbero tranquillamente essere offerti dal settore privato. Bisogni come l’educazione sono “invece considerate così meritori che si provvede alla loro soddisfazione con il bilancio pubblico, in aggiunta a quanto è fornito dal mercato e acquistato da acquirenti privati” (Musgrave 1959, p. 179). Questa concezione dei beni meritori, oltre a creare notevoli problemi analitici, ha ripercussioni sul piano delle rappresentazioni sociali. Musgrave introduce infatti una deroga di notevole rilievo all’individualismo metodologico al quale si era attenuto nella trattazione dei beni pubblici. Il criterio del merito richiede di allargare lo sguardo al sistema di valori, di fatto il giudice di ultima istanza riguardo ai bisogni che possono o meno essere classificati come meritori. Ma ogni sistema di 9 Terenzio Maccabelli valori, dal quale derivare la legittimità di interferire nel sistema delle preferenze individuali, rimanda necessariamente a un dimensione “etica” e “socio-istituzionale” (cfr. Ver Eecke, 1998). Come giustificare allora questo allargamento dei compiti della scienza economica e l’interferenza nel sistema delle preferenze individuali? Musgrave riconosce espressamente la cornice normativa entro cui è inserito il problema dei “merit goods”. Il discorso riguarda ciò che una “buona società” dovrebbe fare in quei settori ritenuti strategici. Musgrave articola il proprio ragionamento avvalendosi di uno schema concettuale proposto dall’economista tedesco Gerhard Colm. Questi aveva distinto due tipologie di preferenze: quelle che un individuo esprime allorché “è spinto dal proprio interesse e si occupa dei propri bisogni” e quelle che lo riguardano in quanto cittadino e che egli esprime attraverso la partecipazione politica. Queste ultime sono “condizionate dalla sua concezione di una buona società”, con conseguenze notevoli sui compiti assegnati al bilancio pubblico. Musgrave accoglie pienamente la distinzione suggerita da Colm e conviene sull’orizzonte “etico-politico” della propria analisi. Spese come quelle per “la difesa, l’istruzione e il sostengo delle attività artistiche” rientrano in una logica diversa da quella dell’interesse personale. Le preferenze che un individuo manifesterebbe sul mercato come soggetto economico sono diverse da quelle che egli manifesterebbe come soggetto politico (Musgrave 1959, p. 181). In questo caso entra in gioco il suo sistema di valori, radicato nella comunità di appartenenza: Le sue scelte possono essere determinate da ciò che egli considera un impegno verso i valori culturali della sua comunità e della sua concezione di una buona società, piuttosto che dal suo schema di preferenze individuali 10 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” basato sull’interesse personale a cui si affida nelle quotidiane scelte di consumo nel mercato (Musgrave 1959, p. 183) 6 . La fornitura di “beni meritori” si giustifica insomma solo includendo una dimensione normativa e una prospettiva d’indagine non circoscritta alla pura logica economica. Non sorprende che i concetti di Musgrave abbiamo alimentato un lungo e contrastato dibattito, non ancora esaurito, nel quale sono emersi giudizi discordanti sulla valenza conoscitiva dei “merit goods”. Alcuni studiosi sono arrivati a contestarne in modo esplicito la legittimità scientifica 7 ; altri, pur ravvisando le potenzialità conoscitive, ne hanno in parte travisato il significato 8 ; mentre altri ancora hanno invece insistito sulla necessità di uscire dagli steccati della scienza economica, rivalutando l’idea originaria secondo cui la dimensione morale è del tutto fondamentale nella definizione dei “merit goods” 9 . 6 L’importanza della “comunità” come luogo in cui è sedimentato il sistema di valori che legittima i beni meritori è ribadito anche in Musgrave (1987, pp. 186-187): “I valori comunitari possono quindi essere all’origine di beni di merito o di demerito. […] Gli individui, in quanto membri di una comunità, sono disposti ad accettare certi valori o preferenze comunitarie, anche se il loro punto di vista personale non coincide con essi”. 7 L’attacco più deciso in questa direzione è venuto da McLure (1968). Egli ritiene che i giudizi di valori, se non sono manifesti nelle scelte individuali che i soggetti compiono nel mercato, sono irrilevanti per l’economista. 8 Cfr. Head (1966, 1969), tra i primi a discutere i concetti di “merit wants” e “merit goods”, ma introducendo alcuni fraintendimento del pensiero di Musgravie. Head ritiene infatti che l’intervento dell’autorità pubblica per “correggere” le preferenze dei consumatori, nel caso appunto dei “merit wants”, avviene allorché “incertezza” e “imperfetta informazione” impediscono ai soggetti economici di operare in modo razionale. 9 “Perhaps one of the gains from introducing the discussion of ‘merit wants’ is that it calls for a broadening of the public economics discourse to embrace political science, social philosophy and ethics, subjects that can more easily be bypassed in an economic analysis of the private sector based on consumer sovereignty” (Peggy Musgrave 2008, p. 345). Sulla dimensione etica e socio-istituzionalista del concetto di “merit good”, cfr. soprattutto Van Eecke (1998; 2003). Per una lettura utilitaristica, cfr. Mann (2006). 11 Terenzio Maccabelli Musgrave stesso ha preso una posizione ampiamente favorevole a quest’ultima interpretazione. Anche nei suoi ultimi scritti, pur riconoscendo l’ambivalenza dei suoi concetti, ha insistito sul loro fondamento eticonormativo: I know that [merit goods] are a controversial topic, and I have changed my view of them over time. I like to think of them relative to the individuals place in society, not as an isolated person but as a member of this community. As such he might support certain public services because they are part of the community’s cultural heritage rather than a response to his private preferences (Buchanan and Musgrave 1999, p. 95; Case 2008, p. 354). I concetti di “merit wants” e “merit goods” sui quali ci siamo finora soffermati potrebbero apparire estranei alla questione del merito e della meritocrazia. Essi comportano un giudizio sui bisogni degli individui più che sugli individui in sé. Riteniamo invece che essi rientrino a pieno titolo nel nostro discorso, non solo per la contiguità temporale con i lavori di Hayek e Young che andremo a presentare nei prossimi paragrafi. Vi sono almeno tre ragioni che qui anticipiamo ma sulle quali ritorneremo nel quarto paragrafo. Innanzitutto per il fatto che Musgrave conia il concetto di “merit goods” alludendo espressamente a un processo allocativo basato su criteri non di mercato. E la questione dei rapporti tra “merito” e “mercato” è tra quelle sulla quale maggiormente insisteremo. Inoltre, perché anche i beni meritori di Musgrave, come qualsiasi discussione sul merito e la meritocrazia, rimandano a un orizzonte valutativo. Infine perché Musgrave stesso insiste sull’educazione come esempio più ragguardevole di bene meritorio, questione che sta all’origine di qualsiasi discorso sulla meritocrazia. 12 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” 2. Merito, educazione e uguaglianza di opportunità: la critica di Friedrich Hayek In The Constitution of Liberty Friedrick Hayek (1960, p. 418) scrive che qualsiasi comunità dovrebbe avere interesse a fare in modo che la scienza sia concessa “a chi non ha un incentivo per cercarla da sé o per fare qualche sacrificio per acquistarla. Queste ragioni si impongono particolarmente nel caso dei ragazzi, ma alcune di esse sono altrettanto importanti per gli adulti”. Hayek riconosce espressamente in questo brano la possibilità che le preferenze individuali sottostimino l’utilità di un bene particolare come l’educazione, ponendosi apparentemente in continuità con il tipo di argomentazione che ha portato Musgrave a coniare il concetto di “merit goods”. Hayek, tuttavia, prospetta per questo problema una soluzione assai diversa: in primo luogo, pur riconoscendo il dovere dello Stato di allocare parte delle sue risorse al settore dell’istruzione, non ritiene necessario che lo Stato si sostituisca al mercato nella fornitura di tale servizio; in secondo luogo, colloca il problema dell’educazione in una riflessione molto più ampia, in cui la questione del “merito” come criterio allocativo viene appositamente esaminata e approfondita. Per quanto riguarda il primo punto, è sufficiente richiamare la nota avversione di Hayek per l’educazione pubblica. A suo parere, qualora il settore educativo fosse accentrato nelle mani dello Stato, nulla potrebbe impedire che la formazione venga fagocitata degli interessi dei gruppi dominanti del momento. Si dichiara pertanto favorevole a un modello quale quello proposto da Milton Friedman dei buoni scuola da erogare alle famiglie, poi libere di scegliere all’interno di un mercato scolastico privatistico (Hayek, 1960, p. 423). Il secondo punto invece tocca da vicino proprio la questione del merito come criterio allocativo. Quella di Hayek è 13 Terenzio Maccabelli a tutt’oggi una delle più radicali critiche del concetto di merito, che investe indirettamente la stessa prospettiva avanzata da Musgrave. Come noto, nel secondo dopoguerra Hayek ha dirottato la sua riflessione su un terreno molto più ampio di quello economico in senso stretto. Muovendo da una prospettiva di filosofia politica e sociale, Hayek elabora una teoria dell’ordine spontaneo di mercato molto diversa da quella basata sul concetto di equilibrio economico. In questo contesto prende corpo la sua critica all’egualitarismo e in genere alle rivendicazioni politiche basate sul concetto di “giustizia sociale”, uno dei temi caratterizzanti soprattutto la seconda parte della sua lunga carriera intellettuale. The Constituion of Liberty, pubblicato nel 1960, rappresenta una tappa fondamentale di questo percorso. Hayek dedica molto spazio alla questione del “merito”, chiedendosi quale ruolo svolga all’interno di una “società libera”. Il problema viene affrontato in due fondamentali capitoli, il settimo, dal titolo “Uguaglianza, valore e merito”, e il penultimo, intitolato “Istruzione pubblica e ricerca scientifica”. In questi capitoli l’economista austriaco mette a fuoco l’ambiguità tanto del concetto di merito quanto dell’ideale di uguaglianza di opportunità, due nozioni spesso ritenute complementari. Il ragionamento di Hayek si snoda attorno all’idea che la rivendicazione del merito sia una delle forme in cui si è storicamente manifestata l’aspirazione alla giustizia sociale. Secondo Hayek, dietro ogni ideale di “giustizia sociale” si nasconde una concezione “atavica” della società, di tipo primitivo, nella quale la posizione sociale di ciascun individuo è determinata da regole comunitarie (cfr. Pennington, 2007). Ciò è reso possibile dal fatto che i fini di tali società sono circoscritti, e vi sono norme vincolanti sui criteri attraverso cui allocare beni, reputazione e 14 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” potere all’interno del gruppo. L’immagine cui Hayek ricorre più di frequente è quella di processo distributivo personificato in una mente ordinatrice. In una economia di mercato l’ordine spontaneo è invece l’esito di astratte regole di condotta (come ad esempio il rispetto della proprietà) e non l’esito di comandi o norme di gruppo. Non vi è alcun agente preposto alla distribuzione. È perciò privo di significato riferirsi alla giustizia o ingiustizia della distribuzione del reddito o della ricchezza. Il processo è di tipo impersonale. Ciascun individuo persegue i propri scopi, in risposta ai segnali di mercato. Secondo Hayek, l’idea che la distribuzione dovrebbe rispettare il criterio del merito è appunto una delle forme è in cui è stata declinata l’aspirazione alla giustizia sociale. Storicamente, sono state soprattutto le tradizioni socialiste a farsi promotori di tali rivendicazioni. Tuttavia, anche molte correnti della tradizione liberale sono state attratte dall’idea che in una economia di mercato si dovrebbero rimuovere gli ostacoli che impediscono una corrispondenza tra “merito” e posizione sociale. La critica di Hayek è naturalmente rivolta in via prioritaria contro le istanze socialiste, ma egli arriva ad assumere una concezione controcorrente all’interno della stessa tradizione liberale. Hayek contesta in generale qualsiasi tentativo “di imporre deliberatamente alla società un dato modello di distribuzione”; e anche quello basato sul “merito individuale” – ancorché espresso in un orizzonte “liberale” – rientra in questa categoria di “ordine deliberato” (1960, p. 110). La critica di Hayek nei confronti del merito come principio allocativo non deriva dunque esclusivamente dalla sua avversione per il socialismo, ma anche dalla sua insofferenza per taluni orientamenti del tutto interni alla tradizione del liberalismo: egli ritiene, in particolare, che molti “liberali” abbiano dato troppo credito all’ideale 15 Terenzio Maccabelli dell’uguaglianza di opportunità, ritenendolo viatico per la valorizzazione del merito all’interno di una società di mercato. L’ideale dell’uguaglianza di opportunità è alimentato soprattutto dal convincimento che la posizione sociale degli individui sia dovuta, più che alle loro capacità, all’ambiente in cui sono cresciuti. Come scrive Hayek (1960, p. 110), “oggi è di moda minimizzare l’importanza delle differenze congenite esistenti tra gli uomini e di attribuire tutte le differenze importanti all’influenza dell’ambiente”. Ma il fatto che gli individui abbiano differenti opportunità ambientali, o diverse capacità innate, non ha nulla a che vedere con l’idea di “merito morale”. Gli individui hanno “differenze innate di capacità” dovute alla “natura”, mentre altre differenze derivano dall’“ambiente” e dall’“educazione” ricevuta. Hayek ritiene che “né le une né le altre” possano essere valutate con l’ottica del “merito morale”. “Sebbene e le une e le altre possano riguardare in larga misura il valore che l’individuo ha per i suoi simili, il merito di essere nato con buone qualità non è maggiore di quello di essere cresciuto in circostanze favorevoli” (Hayek 1960, p. 112). Hayek rifiuta pertanto il principio secondo cui la posizione sociale di un individuo è moralmente legittima e conforme al criterio del merito solo quando non ci sono state circostanze ambientali che l’hanno favorito. Secondo l’economista austriaco, anche l’avere attitudini o predisposizioni particolari si potrebbe leggere come un vantaggio immeritato, del tutto analogo a quello di una persona nata e vissuta in un ambiente sociale favorevole. Hayek arriva dunque a esprimere tutto il proprio scetticismo sull’idea che si possa far corrispondere la posizione sociale degli individui al loro merito. 16 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” La giusta risposta è: in un sistema libero non è bene (né si può fare) far corrispondere in genere le ricompense materiali a quel che gli uomini riconoscono come un merito, ed è caratteristica essenziale di un società libera che la posizione di un individuo non dipenda necessariamente dalle opinioni dei suoi simili sui meriti da lui acquisiti (Hayek 1960, p. 117). In una economia di mercato le persone sono remunerate in virtù del valore attributo ai loro servizi, e non in virtù dei loro meriti personali. Il mercato, in questo senso, non è ritenuto un meccanismo allocativo che valorizza il “merito”. Il mercato tiene conto esclusivamente del valore che gli individui assegnano ai beni e ai servizi. Ma appunto “valore” non è sinonimo di “merito”. Questa distinzione è fondamentale agli occhi di Hayek (1960, p. 117). Vi sono opportunità di mercato che alcuni individui riescono a cogliere e quindi a valorizzare. Ma non necessariamente questo è legato a particolari capacità o attitudini. Anche la fortuna svolge un ruolo di tutto rilievo. Le remunerazioni seguono talvolta dinamiche assolutamente capricciose e casuali, come quando particolari abilità subiscono improvvisi mutamenti della domanda (Pennington 2007). Il mercato è altrettanto insensibile a un’altra componente solitamente associata al merito cioè lo sforzo. Come scrive Hayek (1960, p. 120), “i premi che una società libera offre per i risultati conseguiti servono a dire a chi lotta per essi quali sforzi valga la pena di fare. Tuttavia gli stessi premi andranno a chiunque produca gli stessi risultati, senza tener conto dello sforzo”. Il merito è perciò ritenuto un criterio allocativo incompatibile rispetto al meccanismo di mercato. Questo giudizio è rafforzato dall’analisi dei diversi fattori che influenzano il posto che ogni individuo occupa nella gerarchia sociale. Il reddito e la ricchezza sono le variabili economiche fondamentali e come 17 Terenzio Maccabelli tali soggette alle leggi del mercato; ma redditi e ricchezza sono a loro volta dipendenti da variabili extra-economiche, alcune delle quali si ritiene siano incompatibili con il principio del merito. A parere di Hayek (1960, p. 112), “i fattori più importanti da considerare” sono tre: “la famiglia, l’eredità e l’educazione”. Ogni persona eredita innanzitutto uno stock genetico dal quale dipendono, oltre il suo aspetto, il suo talento e le sue abilità; eredita inoltre una ricchezza patrimoniale soggetta alla massima variabilità; esistono poi tutte una serie di prerogative sociali dovute al contesto familiare di appartenenza a cui vanno sommate le opportunità educative. Questi fattori sono ritenuti responsabili della condizione di vantaggio, o di svantaggio, di ciascun individuo. Ad essi si ascrive solitamente la colpa di alterare le regole del gioco, istituendo diseguali opportunità. Ed è infatti contro “la disuguaglianza ingenerata da essi [che] è particolarmente diretta la critica” (Hayek 1960, p. 112). Hayek è viceversa convinto che queste disuguali opportunità facciano parte delle regole delle gioco e abbiano anche effetti desiderabili per la società. 1) Il fatto che alcuni individui possano trarre vantaggi dall’essere nati in determinate famiglie non è secondo Hayek motivo di riprovazione. Vi sono qualità “utili per la società” che raramente vengono acquisite in una sola generazione ma che al contrario maturano lentamente nell’ambito di stabili tradizioni familiari. Se si volessero annullare i vantaggi acquisiti di generazione in generazione con l’intento di pareggiare le opportunità degli individui si produrrebbe un danno per la società 10 . 10 “Quale ragione può esserci di credere che una qualità desiderabile in una persona abbia per la società meno valore se deriva da una tradizione familiare che se deriva da altro? […] Ciò posto, sarebbe illogico negare che una società si procurerà probabilmente un’élite migliore se l’ascesa non sarà limitata a una generazione, se deliberatamente non si faranno partire tutti gli uomini dallo stesso livello e se non si priveranno i bambini della possibilità di beneficiare di una educazione migliore e 18 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” 2) Parimenti, si ritiene che l’eredità patrimoniale conferisca “ad alcuni vantaggi immeritati”. Hayek ribatte contro questa accusa accennando solo brevemente al fatto che qualsiasi limitazione della successione ereditaria potrebbe avere effetti distorsivi sul risparmio e sul processo di accumulazione. Egli intende rimanere sul piano dei principi, chiedendosi espressamente se sia giusto o meno che le persone trasmettano “ai figli o ad altri quei beni materiali che provocheranno una grave disuguaglianza”. Hayek ritiene al riguardo che qualsiasi meccanismo alternativo sarebbe enormemente più costoso e meno efficiente, provocando maggiori sprechi, “ingiustizie e sperperi di risorse di quelli creati da un’eredità di beni” (Hayek 1960, pp. 114-115). 3) “Benché sia stata per un certo tempo la più criticata fonte di disuguaglianza, oggi, probabilmente, la successione ereditaria non lo è più. Oggi la contestazione degli egualitari tende a concentrarsi sull’iniqua distribuzione dei vantaggi dovuti alle differenze di educazione” (Hayek 1960, p. 115). Questo è l’esito dei mutamenti avvenuti nell’idea di uguaglianza. L’ideale liberale classico, che si era affermato a metà del XIX secolo, era quello contenuto nella frase “la carrière ouverte aux talents” (1960, pp. 115-116). Esso implicava la rimozione degli ostacoli formali, cioè di quelle barriere giuridiche che impedivano l’accesso a certe posizioni sociali. Hayek ritiene che questo principio sia stato stravolto, trasformandolo nell’idea di uguaglianza dei punti di partenza 11 . La leva dell’ambiente materiale che i loro genitori hanno la possibilità di procurar loro” (Hayek 1960, p. 113). 11 “Quest’idea che fosse data a tutti la possibilità di tentare, è stata in gran parte soppiantata da quella diametralmente opposta, che tutti devono avere la possibilità di partire da un medesimo punto e avere le medesime prospettive. Ciò significa, in realtà, che lo Stato, invece di assicurare a tutti le medesime condizioni, dovrebbe mirare a controllare tutte le circostanze inerenti alle prospettive di un particolare individuo e ad adattarle alle sue capacità in modo da garantirgli le stesse prospettive di tutti gli altri” (Hayek 1960, p. 116). 19 Terenzio Maccabelli utilizzata per realizzare questo obiettivo è stata l’educazione pubblica, che si è ritenuto necessario estendere a tutti. Da ciò sono tuttavia scaturiti dilemmi di difficile soluzione: “Se accettiamo le ragioni d’ordine generale a favore dell’istruzione obbligatoria, rimangono pur sempre questi importanti problemi. Come si deve provvedere all’educazione? Quanta se ne deve fornire a tutti? Come vanno prescelti coloro cui se ne deve dare di più?” (Hayek 1960, p. 421). Questi interrogativi vengono affrontati nel penultimo capitolo di The Constitution of Liberty, dove Hayek arriva a rovesciare l’assunto che l’educazione dovrebbe avere il compito di eguagliare le opportunità degli individui. Fin dalle prime battute di questo capitolo la posizione di Hayek è del tutto esplicita: Si può bensì sostenere che si debba assicurare la possibilità di un’educazione avanzata al massimo a chi probabilmente trarrà dall’occasione offerta maggior profitto: però ci si è in gran parte serviti del controllo pubblico sull’educazione per uguagliare le prospettive di tutti, il che è una cosa ben diversa (Hayek 1960, p. 426). Superato la soglia della formazione di base, l’istruzione deve essere assolutamente selettiva. Non può essere somministrata a tutti in modo indifferenziato. Questo comporta due ordini di problemi. Il primo è che coloro i quali riceveranno questa maggiore istruzione, normalmente non pagata da loro stessi, avranno in questo modo un vantaggio 12 ; il secondo riguarda l’individuazione stessa degli individui che si ritiene più capaci e quindi degni di ricevere maggiore educazione. 12 “Dobbiamo adattarci al fatto che, siccome di regola qualcun altro dovrà pagare per l’educazione, chi ne beneficia usufruirà così di un vantaggio ‘non guadagnato’” (Hayek 1960, p. 426). 20 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” Dal primo punto di vista, Hayek tende a ribadire che non vi è alcuna corrispondenza tra l’essere prescelti come destinatari di una educazione superiore e il merito. Sottolinea anzi che questo contribuisce ad acuire la discrepanza tra posizione sociale e merito. Coloro che nell’interesse generale più “meritano” una educazione secondaria non sono necessariamente gli stessi che con sforzo e sacrificio si sono guadagnati un merito individuale maggiore. La capacità naturale e le doti innate sono “vantaggi ingiusti” tanto quanto è il caso a determinare l’ambiente in cui si nasce; e il limitare i vantaggi di una educazione secondaria a chi possiamo con fiducia prevedere ne trarrà il maggior profitto, necessariamente aumenta piuttosto che diminuire il divario tra lo status economico e il merito individuale (Hayek 1960, pp. 425-426). Dal secondo punto di vista la critica di Hayek è rivolta contro l’ambizione di poter misurare oggettivamente le capacità o l’intelligenza degli individui attraverso test psicologici come quello dell’IQ. L’economista austriaco registra una fiducia sempre più diffusa in tali tipi di test. A essi viene attribuito il compito di individuare con obiettività scientifica gli individui più capaci già in tenera età, in modo da annullare il vantaggio derivante dall’ambiente familiare. Questo permetterebbe al “merito” – inteso appunto come intelligenza e capacità – di diventare il criterio allocativo preminente nell’allocazione delle posizioni sociali. Hayek non ritiene affatto che questo sia auspicabile. Innanzitutto si dimostra alquanto scettico sul fondamento scientifico dei test psicologici. Il tentativo di svelare il mistero dell’intelligenza tramite una sua quantificazione rimane per Hayeke una chimera. Questo toglie ogni fondamento all’idea che l’IQ sia una misura oggettiva del merito degli 21 Terenzio Maccabelli individui. Anche questa strada, ribadisce pertanto Hayek, non è una soluzione al problema di come “adeguare le remunerazioni al merito”. Ma contro questa visione, Hayek svolge anche un altro tipo di ragionamento, basato sull’ipotesi che i criteri di selezione basati sull’IQ riescano alla fine a imporsi nella società. La sua critica a questo punto prescinde del fondamento di tali test. Si chiede invece quanto sia allettante una organizzazione sociale in cui il merito, personificato dall’IQ, si sia imposto come criterio allocativo. Egli esprime apertamente la propria avversione per una tale forma di società, ritenendo che l’uso intensivo dei test darebbe luogo a “un ordine sociale” molto poco attraente. L’insistere che l’istruzione debba esser dato solo a ragazzi di provata capacità produce una situazione in cui tutta la popolazione si trova ad essere classificata in base a qualche test obiettivo e in cui prevale, in tutto e per tutto, un sistema di opinioni su quali siano le persone qualificate a ottenere i benefici di una educazione secondaria. Ciò significa una qualifica ufficiale delle persone suddivise in una gerarchia, che ha un genio patentato in cima e gli idioti patentati alla base; una gerarchia resa ancor peggiore dalla presunzione di esprimere il “merito” e, pertanto, di offrire occasioni nelle quali il valore si può affermare da sé (Hayek 1960, p. 430). Questo giudizio perentorio viene formulato da Hayek nel capitolo sull’educazione, ma dopo averlo anticipato, nelle sue linee essenziali, anche nel capitolo dedicato al “merito”. Vale la pena riportare per esteso anche quest’altro brano, dato che entrambi riprendono nelle corrispondenti note un fugace richiamo alla “meritocrazia” di Michael Young, autore sul quale ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. Nel capitolo sul merito Hayek non soltanto descrive la società meritocratica come poco attraente, ma arriva a qualificarla come un ordine sociale “intollerabile”. 22 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” Se in esso si partisse dal presupposto generale che un alto reddito costituisce la prova del merito e un basso reddito il contrario e universalmente vi si riconoscesse che la posizione e la remunerazione corrispondono al merito, e unica strada aperta per il successo fosse l’approvazione della propria condotta da parte della maggioranza dei propri simili, la società sarebbe molto probabilmente più insopportabile per chi non ha successo, di quanto non sia quell’altra società in cui francamente si riconosce che tra merito e successo non esiste una necessaria connessione (Hayek 1960, p. 122). Hayek conduce una sostanza una delle critiche più devastanti all’idea che il merito possa diventare un criterio allocativo. Egli mette apertamente in discussione l’aspirazione di poter giudicare se e quanto la posizione socio-economica di un individuo sia “meritata” 13 . Hayek evidenza i molteplici fattori dai quali dipende la posizione sociale degli individui – dalla famiglia alle capacità, dall’educazione all’eredità – ma per sottolineare che nessuno di questi può essere annullato in modo da valorizzare esclusivamente il “merito”. Egli ritiene in particolare impossibile discernere il “merito” individuale dalle condizioni ambientali, ritenendo impraticabili tutte le soluzioni proposte, siano esse liberali, socialiste o tecnocratiche. Questo spinge Hayek a puntare al cuore di una delle maggiori aspirazioni delle democrazie moderne, l’uguaglianza di opportunità, ideale definito “lodevole” ma “letteralmente impossibile da realizzare”. (Hayek 1960, p. 428). 13 “Decidere del merito presuppone che possiamo giudicare se gli individui hanno sfruttato le loro possibilità come avrebbero dovuto, e quanta forza di volontà o di abnegazione sia loro costato; presuppone anche che sappiamo distinguere tra quanta parte del loro successo sia dovuta a circostanze che dipendevano da loro e quanta invece sia da esse indipendente” (Hayek 1960, p. 119). 23 Terenzio Maccabelli 3. La società meritocratica di Michael Young Come abbiamo anticipato, sia nel capitolo sul merito sia in quello sull’educazione di The Constitution of Liberty Hayek menziona fugacemente un’opera da poco pubblicata di Michael Young, The Rise of Meritocracy. Riconosce di averne una conoscenza indiretta, ma è significativo che richiami questo testo a supporto della sua critica al principio del merito come criterio allocativo. Indubbiamente vi sono alcuni punti di convergenza tra Hayek e Young, che tuttavia assumono un preciso significato solo all’interno delle rispettive filosofie sociali, che si collocano in un orizzonte assai diverso. Fin dal momento della sua apparizione, The Rise of Meritocracy è in effetti frequentemente stato oggetto di incomprensioni e fraintendimenti, un destino che perdura ancora oggi. A ciò ha contribuito soprattutto il modello espositivo scelto da Young per argomentare le proprie tesi, che si è tradotto in un libro assolutamente atipico. The Rise of Meritocracy appartiene a pieno titolo alla tradizione letteraria delle “distopie”, un filone che vanta nomi come Edward Bellamy, Aldous Huxley o George Orwell. A differenza delle opere di questi autori, il libro di Young non è tuttavia entrato nell’olimpo dei testi letterari, ma il fatto di presentarsi come una finzione letteraria non ha nemmeno facilitato la sua ricezione nelle scienze sociali (Barker 2006, p. 44). A cinquant’anni dalla sua pubblicazione possiamo comunque dire che esso sia diventato uno dei più influenti testi di filosofia sociale, in linea con quelli erano gli stessi intendimenti dell’autore. Prima della pubblicazione di The Rise of Meritocracy Young aveva guadagnato una notevole fama come esponente del Labour Party inglese (a lui si deve il Manifesto del 1945). Dopo la laurea alla London School of 24 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” Economics, aveva comunque mantenuto contatti anche con l’accademia, intervenendo soprattutto su riviste di pedagogia. L’educazione è sempre stato uno dei suoi maggiori interessi, come del resto rivela il titolo esteso della sua opera più famosa: The Rise of Meritocracy 1870-2033. An Essay on Education and Equality. La peculiarità del libro sta tutta nell’orizzonte temporale dell’indagine, che si proietta nel terzo decennio del XXI secolo per ricostruire la storia della società inglese degli ultimi centocinquanta anni. L’Inghilterra si suppone sia ormai diventata una perfetta meritocrazia, e la storia mette a fuoco i fatti salienti che hanno permesso l’avvento di questo modello di organizzazione sociale. Autore del libro è un fittizio Michael Young, aspirante Ph.D. in Sociologia, la cui tesi di dottorato viene pubblicata nel 2034. La tesi si propone di spiegare il perché l’Inghilterra meritocratica del XXI secolo sia attraversata da pericolose agitazioni sociali che ne stanno minando le fondamenta. Come è stato giustamente osservato, il libro è per molti versi una satira e come tale deve essere letto. Ma nello stesso tempo è un libro che va preso molto sul serio. Non a caso esso è diventato un fondamentale testo sociologico e politico su cui si stanno esercitando numerosi interpreti. Le difficoltà maggiori derivano dal fatto che la storia raccontata da Young è per metà una storia “vera” della società inglese e per l’altra metà una storia immaginaria 14 . Per qualcuno, questo starebbe a significare che sono due i Young che parlano nel libro: il Young fittizio, favorevole alla meritocrazia, e il Young reale, avverso alla meritocrazia. Questo sdoppiamento della personalità dell’autore non facilita l’interpretazione di questo testo. Come leggere allora The Rise of Meritocracy? 14 Recentemente l’opera di Young è stata appunto definita una “social science fiction” (Donovan 2006, p. 62). 25 Terenzio Maccabelli Nostro punto di partenza è quello di considerare la società meritocratica descritta da Young come un “ideal tipo” weberiano. Egli individua alcune dinamiche in atto nelle società occidentali del secolo scorso, le isola e su di esse costruisce la propria immagine della meritocrazia. La società del 2033 immaginata da Young è appunto una società in cui tali dinamiche si sono completamente dispiegate producendo un modello puro di società meritocratica. A nostro parere, le dinamiche storiche, politiche e sociali che Young ritiene fondamentali sono sostanzialmente quattro. 1. Il lento ma inesorabile declino dei criteri ascrittivi nell’allocazione delle posizioni sociali. Young scrive in una della società più classiste della storia, l’Inghilterra appunto, nella quale nel 1958 perdurano ancora meccanismi ereditari nell’acquisizione del potere e della ricchezza. Young immagina che sotto la sferza della concorrenza internazionale l’Inghilterra sia stata costretta ad abbandonare completamente queste convenzioni sociali, lasciando libero spazio ai criteri acquisitivi. “Il pericolo di venir ‘sopraffatti nella competizione mondiale’ era così reale e venne così vigorosamente messo in risalto nella seconda metà del secolo, e tanto pressante era la necessità di subordinare tutto il resto alle esigenze della produzione, che […] la famiglia fu strappata all’abbraccio feudale” (Young 1958, p. 48). Sono dunque ragioni di efficienza che spingono nella direzione di una società basata esclusivamente sul contratto anziché sullo status, dove appunto diminuiscono le sacche del privilegio economicosociale di taluni individui. 2. Il crescente apprezzamento per l’ideale dell’uguaglianza di opportunità. È questa una dinamica politica e sociale che spinge verso la radicalizzazione nella condanna dei meccanismi ascrittivi, e sulla quale vanno convergendo alcune frange della tradizione liberale e soprattutto 26 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” correnti sempre più vaste della tradizione socialista. L’uguaglianza di opportunità di cui parla Young è però qualcosa di molto diverso dell’uguaglianza formale: è l’ideale dell’uguaglianza sostanziale dei punti di partenza, ossia il principio in virtù del quale la ricchezza alla nascita di ogni individuo dovrebbe essere eguagliata il più possibile. Nella propria finzione, Young immagina appunto che questo ideale si sia completamente affermato, dando luogo a un sistema economico caratterizzato da forti imposte patrimoniali e, soprattutto, consistenti tasse sulle successioni ereditarie (1958, p. 77; 136). Queste riforme appaiono a Young pregiudiziali per realizzare una società in cui il merito degli individui diventi il criterio allocativo preminente. La convergenza di tradizione liberale e tradizione socialista sarebbe dovuto al fatto che la prima accoglie un principio egalitario nelle proprie premesse, limitato appunto alle condizioni di partenza, mentre la seconda rinuncia a perseguire ideali egualitari sul fronte dei risultati 3. Ruolo strategico dell’educazione. L’uguaglianza di opportunità riguarda non solo le risorse materiali ma anche quelle immateriali. Il sapere, la conoscenza e l’educazione ne sono le componenti fondamentali. La storia raccontata da Young segue da vicino le vicende (reali e fittizie) della progressiva espansione dell’istruzione pubblica, su cui si innesta il dilemma tra istruzione universale e selezione in base al merito. Su questo punto si scontrano due diverse concezioni dell’uguaglianza di opportunità. I cosiddetti “socialisti di sinistra” sostenevano “che tutti […] dovevano frequentare le stesse scuole e ricevere la stessa educazione” (Young 1958, p. 54). Per qualche tempo questo principio ebbe notevole risonanza, ma venne poi sopraffatto, dopo gli anni settanta del secolo scorso, da una concezione diversa dell’uguaglianza di opportunità, che venne accolta anche dai socialisti cosiddetti “realisti”. Gli individui non sono una tabula 27 Terenzio Maccabelli rasa a cui il sistema educativo si rivolge in modo indifferenziato. Se così fosse, quanto ciascuno individuo potrebbe ricavare dall’educazione dipenderebbe quasi esclusivamente dal proprio sforzo. Si afferma invece prepotentemente l’idea che il merito sia uguale a “sforzo più intelligenza”, dove quest’ultima è intesa come un’entità distribuita in modo molto diseguale tra le persone. Soprattutto, si fa strada l’idea che l’intelligenza sia qualcosa di congenito a ciascun individuo, quindi un potenziale che richiede percorsi differenziati per essere messa a frutto in modo efficiente. Il sistema educativo pubblico subisce pertanto una lenta trasformazione fino al sua completo stravolgimento. La valorizzazione del merito si attua indirizzando i più capaci verso percorsi educativi adeguati alla loro maggiore intelligenza. 4. Si afferma definitivamente l’idea che l’intelligenza sia un’entità misurabile attraverso test psicologici. Questa dinamica sta alla base del mutamento intervenuto nel sistema educativo appena descritto. Dopo decenni di controversie, gli psicologi e gli studiosi della società arrivano a convenire sulla natura innata dell’intelligenza e sul suo fondamento genetico. L’IQ diventa la misura accreditata di questa intelligenza. La valorizzazione del merito cessa in questo modo di essere un processo ex post, ma diviene un processo che si svolge ex ante. L’elite è selezionata fin dall’inizio sulla base dell’IQ, dal quale dipende l’accesso a percorsi differenziati di istruzione15 . Il posto occupato da ciascun individuo nella gerarchia sociale è così prestabilito fin dalla nascita. “L’assioma del 15 “Il successo di queste riforme fu reso possibile dalla sempre maggiore efficienza dei metodi di selezione. Quanto sarebbe stato vano isolare delle scuole superiori senza avere i mezzi per identificare gli eletti! […] Ma quanto più largamente si riconobbe che le scuole migliori dovevano essere riservate ai più intelligenti, tanto maggiore si fece la pressione sugli psicologici scola statistici perché migliorassero le loro tecniche. […] Come si dovevano sceglier i migliori? […] L’alto quoziente di intelligenza fu assunto come la qualifica principale per l’ammissione all’élite” (Young 1958, p. 81). 28 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” pensiero moderno è che gli individui sono ineguali; e da esso discende il precetto morale che si debba dare a ciascuno una posizione nella vita proporzionata alla sua capacità” (Young 1958, p, 123). Questo comporta l’abbandono degli ideali egualitari, proprio in nome dell’uguaglianza di opportunità 16 . Il lento dispiegarsi di queste dinamiche culmina dunque nel XXI secolo con l’avvento della meritocrazia, neologismo introdotto per la prima volta da Young appunto per qualificare un ipotetico modello di società in cui il merito è divenuto l’unico e universale criterio allocativo. Prerogativa essenziale di questa forma di governo è di essere retta dalla parte “intelligente” della popolazione, presentandosi quindi come modello alternativo sia alla democrazia del governo del popolo, sia all’aristocrazia del sangue sia alla plutocrazia dei ricchi 17 . Quali sono dunque le caratteristiche salienti dell’Inghilterra del 2034 che il fittizio Michael Young, aspirante sociologo, deve mettere a fuoco al fine di comprendere i motivi del malcontento sociale? L’aspetto più notevole, come anticipato, è la ferrea programmazione del sistema educativo. Sulla base dell’IQ, misurato da test che si ritiene abbiano raggiunto l’assoluta obiettività scientifica, vengono selezionati fin dall’infanzia le persone più adatte a ricoprire i diversi ruoli sociali. Il primo e fondamentale discrimine è tra quelli destinati a formare la classe dirigente e i lavoratori e i tecnici dall’altra. Il meccanismo dei test assicura che la 16 “Gli uomini dopotutto si distinguono […] per l’ineguaglianza delle loro doti. Una volta che tutti i genî stiano nell’élite, e tutti gli stupidi tra i lavoratori, quali significato può avere l’eguaglianza?” (Young 1958, p. 122). 17 Il fittizio Young scrive che l’origine dell’espressione “meritocrazia”, come quella del suo corrispettivo “uguaglianza di opportunità”, sia “ancora oggi oscura. Sembra che fosse diventata d’uso comune negli anni sessanta del secolo scorso nelle piccole riviste legate al partito laburista, e che abbia raggiunto una diffusione generale molto più tardi” (Young 1958, p. 35). 29 Terenzio Maccabelli selezione dei primi sia indipendente dalle condizioni ambientali, dal nepotismo o dal denaro. La schiera di eletti così selezionata riceve una appropriata istruzione ed è automaticamente destinata a diventare l’élite di questa utopica società. Il loro status economico è nettamente superiore a quello del resto della popolazione: la società meritocratica è una società fortemente stratificata, ma la gerarchia è legittimata e accettata “a tutti i livelli della società” dal fatto di avere a fondamento “il principio del merito” (Young 1958, p. 130). Nei gradini più bassi della gerarchia sociale c’è totale rassegnazione. Tra gli individui c’è la consapevolezza che il loro status deriva dal basso IQ. Una quota considerevole di questi individui è destinata a svolgere i lavori domestici nelle famiglie delle élite, producendo un fenomeno che si può chiamare di “ridomesticazione” della società” e che Young traduce con l’espressione “di nuovo persone di servizio” 18 . Per diversi anni la meritocrazia appare come una società pacificata, senza conflitti, dove ognuno accetta di buon grado il posto nella gerarchia sociale commisurato al proprio IQ. “La distribuzione delle ricompense è diventata sempre più ineguale, eppure c’è meno conflitto di prima” (Young 1958, p. 157). All’origine dei conflitti del passato c’era principalmente il fatto che molti individui erano collocati in classi sociali non corrispondenti alle loro capacità. Quando questa ingiustizia venne sanata, “con una riforma della struttura delle retribuzione che è stata tra le più efficaci del nostro tempo, [….] la concordia subentrò alla concordia; e nel merito si 18 Fin dalla fine del XX secolo, “circa un terzo dell’intera popolazione adulta non era più occupabile nell’economia normale. La complessità della civiltà aveva sopravanzato queste persone; a causa della mancanza di intelligenza esser non erano in grado di trovare una nicchia nella normale struttura occupazionale. […] Che cosa si doveva fare di loro? C’era una sola risposta possibile. […] [Questi individui] erano in grado di far fronte ad una sola richiesta: quella di personale di servizio” (Young 1958, p. 127). 30 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” riconobbe il principio che doveva guidare tanto la riforma economica come quella scolastica” (1958, p. 166). La diseguaglianza, pertanto, non veniva più percepita come immorale appunto perché fondata sui presupposti del merito e dell’uguaglianza di opportunità. La lotta contro i privilegi ereditari nell’acquisizione delle posizioni sociali era stata il motivo dominante del lungo processo di evoluzione verso la meritocrazia. Ma per uno strano scherzo del destino l’ereditarietà si stava prendendo una inattesa rivincita. Molti scienziati che studiavano il “modo di trasmissione della capacità intellettuale” avevano dimostrato “che l’intelligenza dei bambini può, in ultima analisi, esser dedotta con sicurezza dall’intelligenza dei loro ascendenti” (Young 1958, p. 184). Una volta che la meritocrazia e l’uguaglianza di opportunità avessero completato la loro missione, portando i più meritevoli nelle file delle élite, si sarebbe potuto ristabilire il principio ereditario. Impercettibilmente stava ricomparendo sulla scena un criterio ascrittivo. L’ereditarietà dell’intelligenza stava dunque compiendo una rivoluzione copernicana: la società meritocratica si stava apprestando ad assumere i tratti di una aristocrazia sotto mentite spoglie. Da qui il paradosso di una mobilità sociale inseguita come una chimera che si traduce in una nuova forma società cristallizzata in caste impermeabili. L’élite si avvia a diventare ereditaria; i principi dell’ereditarietà e del merito tendono a fondersi. Quella trasformazione fondamentale per la quale sono occorsi più di due secoli è ormai quasi perfezionata (Young 1958, p. 181). 31 Terenzio Maccabelli Questo è il primo motivo di inquietudine che attraversa l’Inghilterra meritocratica del 2033 19 . Ma ve ne sono altri ancora più preoccupanti. Tra le pieghe di questa utopica società avevano cominciano a farsi strada idee discordanti con i principi meritocratici. A patrocinare questa rivolta intellettuale erano stati soprattutto alcuni vecchi rappresentanti del partito laburista, rimasti affezionati ai valori egualitari delle origini. Ai loro occhi, la traduzione dell’idea di uguaglianza di opportunità in un modello sociale che aveva generato una nuova forma di aristocrazia era stato un tradimento 20 . Questo gruppo di dissidenti aveva trovato un prezioso alleato nel movimento femminista, all’interno del quale vi erano anche molte donne appartenenti alla élite. Le donne avevano cominciato a intravedere profonde contraddizioni nei principi meritocratici, che avevano acuito il dissidio tra le loro aspirazioni sociali e il loro istinto materno. In un contesto in cui si erano di fatto imposti convincimenti eugenetici, il loro ruolo materno era stato sottomesso alle esigenze riproduttive delle élite. Molte donne avevano pertanto cominciato ad avversare “quei criteri di giudizio, legati al successo, con i quali gli uomini si valutano reciprocamente” (Young 1958, p. 178). Questa loro protesta aveva trovato una sponda nei vecchi laburisti. Da questa alleanza era scaturito un movimento politico, chiamato “populista”, che si riconobbe nel cosiddetto “Manifesto di Chelsea”, un documento di rivendicazione politica redatto nel 2009 che inizialmente non aveva suscitato “molto interesse nel 19 “Il solo accennare alla prospettiva che il principio ereditario venga restaurato, dopo due secoli di lotte per distruggerlo, equivale ad un attacco al centro vitale del nostro sistema di valori” (Young 1958, p. 189). 20 “I socialisti ottennero il premio dell’eguaglianza delle opportunità predicando l’eguaglianza; e questo, mentre durò la battaglia, non diede luogo ad alcun inconveniente. Ma dopo che l’eguaglianza delle opportunità era diventata realtà, la predicazione dell’eguaglianza non solo era superflua, ma sembrava fatta apposta per annullare proprio la conquista della quale i laburisti potevano prendersi gran parte del credito” (Young 1958, p. 133; cfr. anche p. 154). 32 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” pubblico” ma che dopo due decenni cominciava invece ad avere molta influenza. Il Manifesto è pervaso da un egualitarismo sentimentale e romantico, fortemente contrastante con la rigida stratificazione sociale imperniata sul principio meritocratico. Esso rigetta l’idea che si possa istituire un ordinamento delle persone sulla base delle loro capacità o della loro intelligenza. Vi è l’anelito a una società senza classi, dove il riconoscimento sociale cessa di essere ancorato a una metrica unilaterale quale quella dell’IQ 21 . Ma, soprattutto, il Manifesto rilancia una versione arcaica dell’uguaglianza di opportunità, che cessa di essere un criterio selettivo per riproporsi come strumento di emancipazione sociale: Gli autori del Manifesto hanno cercato di dare un nuovo significato all’uguaglianza delle opportunità. Questa, hanno affermato, non deve significare eguali opportunità di salire lungo la scala sociale, ma eguali opportunità per tutte le persone, a prescindere dalla loro “intelligenza”, di sviluppare le virtù e i talenti di cui sono dotate, tutte le loro capacità di apprezzare la bellezza e la profondità dell’esperienza umana, tutte le loro facoltà di vivere una vita piena (Young 1958, p. 175). 21 “La società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e cultura, per la loro occupazione e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere. Chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, che il funzionario statale straordinariamente capace a guadagnare premi è superiore al camionista capace a far crescere rose? La società senza classi sarà anche la società tollerante, in cui le differenze individuali verranno attivamente incoraggiate e non solo passivamente tollerate, in cui finalmente verrà dato il suo pieno significato alla dignità dell’uomo. Ogni essere umano avrà quindi eguali opportunità non di salire nel mondo alla luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacità per vivere una vita ricca” (Young 1958, p. 174). 33 Terenzio Maccabelli Come si vede nel Manifesto vi erano echi del giovane Marx, in particolare dei Manoscritti economici-filosofici del 1944, oltre a richiami alla tradizione del socialismo fabiano 22 . Traspariva poi una concezione pedagogica anti-produttivistica la quale avversava la sottomissione dell’istruzione alle esigenze dell’economia. Il bambino, ogni bambino, è un individuo prezioso, e non soltanto un potenziale funzionario della società. Le scuole non debbono limitarsi a fornire individui idonei a svolgere le mansioni considerate importanti in un particolare momento, ma debbono dedicarsi a incoraggiare lo sviluppo di tutte le qualità umane, siano o non siano queste del tipo richiesto da un mondo scientifico. Alle arti e alle abilità manuali deve esser dato altrettanto risalto che alla scienza e alla tecnologia (Young 1958, p. 175). L’aspirazione dei populisti era infine quella di restaurare un sistema educativo basato sul principio dell’istruzione universale, abbandonando i percorsi differenziati e i criteri selettivi di accesso. Il manifesto chiedeva l’abolizione della gerarchia delle scuole e la restaurazione delle scuole a indirizzo unico. Queste ultime, a suo avviso, dovrebbero disporre di un numero di buoni insegnanti tale da consentire che tutti i ragazzi siano seguiti e stimolati individualmente. In tal modo essi potrebbero svilupparsi secondo il proprio ritmo fino a raggiungere il massimo delle loro possibilità. Le scuole non segregherebbero i simili, ma mischierebbero i dissimili; promuovendo la diversità entro l’unità, insegnerebbero il rispetto per quelle infinite differenze umane che non sono certo gli ultimi valori del genere umano. Le scuole non considererebbero i 22 Marris (2006, p. 16) ritiene tuttavia che sia Matthew Arnold, più che Marx, la fonte del “Manifesto di Chelsea”. 34 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” bambini come formati una volta per sempre dalla Natura, ma come una combinazione di facoltà che possono essere coltivate mediante l’educazione (Young 1958, pp. 175-176). Per il fittizio sociologo Michael Young che scrive nel 2034, il “Manifesto di Chelsea” è decisivo per capire le turbolenze sociali dell’Inghilterra meritocratica. Attorno ad esso si coagula il movimento di “ribelli” che sta acquisendo sempre maggiore consenso. Per il maggio 2034 è previsto un grande sciopero generale che metterà alla prova la forza di questo movimento formato da tecnici, vecchi laburisti e femministe. Per il fittizio autore di The Rise of Meritocracy è venuto il momento di formulare alcune ipotesi sulla possibilità che il movimento populista possa scardinare l’ordinamento sociale basato sulla meritocrazia. Secondo il giovane sociologo, nonostante le aspirazioni dei populisti, non vi saranno grandi sommovimenti sociali. Magari ancora qualche sciopero, alcune richieste che potrebbero essere accolte, ma nessuna rivoluzione. Le agitazioni sociali andranno scemando, senza che vengano intaccati i principi meritocratici. Il libro termina tuttavia con un colpo di scena, cioè con la morte del fittizio Michael Young, avvenuta durante i tumulti del grande sciopero generale del maggio 2034, comunicata con una nota editoriale posta alla fine del volume 23 . Questo è il racconto immaginario che Young ci propone per descrivere la genesi, l’affermazione e forse la capitolazione della meritocrazia. Il problema è capire quale sia la sua concezione di questo modello di 23 “Poiché l’autore di questo saggio è stato ucciso anch’egli a Peterloo, gli editori, con rincrescimento, non hanno potuto sottoporgli le bozze del manoscritto per quelle correzioni che forse avrebbe voluto apportargli prima della pubblicazione. Il testo, anche nella sua ultima parte, è stato lasciato esattamente come egli lo scrisse. I fallimenti della sociologia sono illuminanti quanto i suoi successi” (Young 1958, p. 193). 35 Terenzio Maccabelli organizzazione sociale. Vi sono pochi dubbi sul fatto che questa venga presentata come una distopia, a dispetto del fatto che il fittizio Michael Young che scrive il libro sia totalmente pervaso dai valori meritocratici. Per il vero Young la prospettiva di una meritocrazia compiutamente realizzata prende le sembianze di un sogno angoscioso. L’uguaglianza di opportunità portata alle sue estreme conseguenze ha prodotto una nuova forma di aristocrazia dell’intelletto a base ereditaria. L’anelito per una perfetta mobilità sociale si è ritorto contro la stessa meritocrazia, finendo per ingessarla in un sistema di caste totalmente impermeabili tra loro. E per i negletti di questa società non vi è neppure lo spiraglio consolatorio di ricondurre a cause esterne o ambientali le ragioni del proprio umile status. Questa inquietante figurazione della meritocrazia accomuna Young ad Hayek, come dimostrano i segni di apprezzamento per lo scrittore inglese che troviamo in The Constitution of Liberty. Ma le convergenze finiscono qui, perché se è vero che entrambi critichino aspramente la meritocrazia, è pure vero che lo fanno muovendo da antitetici orizzonti politici. È difficile non pensare che il “Manifesto di Chelsea” rifletta in larga parte i convincimenti dello stesso Young, che sono tuttavia poco o nulla compatibili con l’immagine della società libera prospettata da Hayek. Per entrambi il merito è un concetto ambiguo, forse addirittura da estromettere dal discorso politico; ma per Young, a differenza di Hayek, l’eguaglianza rimane un ideale sociale irrinunciabile. 36 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” 4. Considerazioni conclusive: merito, mercato ed educazione I tre autori sui quali ci siamo soffermati appaiono molto diversi tra loro. Essi appartengono a tradizioni di ricerca non facilmente sovrapponibili, non a caso caratterizzati da stili argomentativi che stanno agli antipodi. Dalle loro teorie scaturiscono prospettive differenti di guardare al problema del merito come criterio allocativo. Nonostante queste radicali differenze cercheremo in queste considerazioni conclusive di svolgere un discorso di sintesi sulla possibilità di intendere il merito come principio ordinatore della società. A nostro parere, l’ambivalenza semantica, la necessità di ricorrere a valutazioni etico-normative e la difficile compatibilità con il mercato sono i principali aspetti che accomunano le riflessioni sul merito di Musgrave, Hayek e Young. Dal punto di vista semantico, innanzitutto, è necessario sottolineare l’indeterminatezza di questo concetto. In nessuno dei tre autori qui presi in considerazione è possibile rintracciare un significato “oggettivo”. Il merito affiora nelle rispettive teorie come un concetto sfuggente, non ancora assodato e difficilmente traducibile in una definizione scientifica. Musgrave e Hayek hanno espressamente richiamato la necessità di riferirsi a criteri valutativi o normativi per riempire di contenuto tale concetto. Mentre Young, che invece è ricorso a un’apparente definizione obiettiva (merito inteso come “sforzo più intelligenza”), l’ha fatto proprio per mostrare l’arbitrarietà di tale formula. Vi sono insomma elementi sufficienti per confermare, come recentemente ribadito anche da Sen, l’indeterminatezza dei concetti di merito e meritocrazia, che rimandano a 37 Terenzio Maccabelli un sistema di valori e di opinioni soggettive per essere riempiti di significato 24 . L’ambiguità del concetto di merito si allarga ulteriormente se visto in rapporto al mercato. Fino a che punto si può parlare del processo di mercato come di un meccanismo allocativo che valorizza il merito? Anche in questo caso è possibile una risposta unitaria. Se pure in forme diverse, tutti e tre gli autori negano in modo risoluto che il merito, qualunque definizione di esso si voglia dare, sia in qualche forma legato ai meccanismi di mercato. Il più esplicito in questa direzione è naturalmente Hayek. Nella sua teoria troviamo uno degli attacchi più devastanti all’idea che il merito possa diventare un criterio distributivo. La sua critica è principalmente rivolta a chi vorrebbe sostituire l’ordine spontaneo generato dal mercato con un ordine deliberato basato su un qualsivoglia criterio di giustizia. Ma è da sottolineare il fatto che anche la rivendicazione del merito rientri a suo parere entro la tipologia dell’ordine deliberato. Il mercato è infatti ritenuto un meccanismo allocativo del tutto impersonale e indifferente al “merito” degli individui, per molti versi addirittura contrastante con esso. Se pure con finalità completamente diverse, la prospettiva di Musgrave appare abbastanza simile. Egli introduce il concetto di merito proprio per qualificare quei bisogni – e i corrispondenti beni – che il mercato non riesce a valorizzare. Mentre per quanto riguarda Young, è del tutto evidente come la sua meritocrazia sia alla fine una società nella quale il riconoscimento del merito non passa per il mercato. I 24 “Meritocracy, and more generally the practice of rewarding merit, is essentially underdefined, and we cannot be sure about its content – and thus about the claims regarding its ‘justice’ – until some further specifications are made (concerning, in particular, the objectives to be pursued, in term of which merit is to be, ultimately, judged). The merit of actions – and (derivatively) that of persons performing actions – cannot be judged independent of the way we understand the nature of a good (or an acceptable) society” (Sen 200, pp. 5-6). 38 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” tre autori propongono in sostanza un’immagine del merito come un principio realizzabile solo da una “mano visibile” più che dalla “mano invisibile”. L’idea paradossale che una organizzazione sociale di tipo socialista avrebbe maggiori potenzialità nel mettere in pratica il criterio del merito non è forse del tutto peregrina per gli autori qui discussi. 25 Un ulteriore elemento rafforza questa conclusione. Il mercato è del tutto indifferente alla pre-condizione essenziale di ogni meritocrazia, l’assenza di correlazione tra posizione sociale e origine familiare. “There is no meritocracy prior to establishment of equal opportunity. This should act as a precondition to any discussion of meritocracy. As long as the family and class background have an influence on a person’s outcome, the distribution of social goods are not distributed entirely on merit. In its ideal, it is only after these factors are eliminated that the distribution of goods and positions can be based on merit” (Longoria 2008, p. 4). Il concetto di merito è in sostanza molto esigente. Preso alla lettera comporta un rovesciamento di molti istituti che reggono le società di mercato, a partire dalla trasmissione patrimoniale intergenerazionale. Un motivo in più per un uso più parsimonioso di questo concetto, a meno di accoglierne la filosofia sociale che esso incarna. Proprio l’orizzonte della filosofia sociale permette di concludere con alcune osservazioni riguardanti l’educazione. Hayek non ha esitazioni nel prendere le distanze dall’idea che il sistema educativo sia uno strumento per eguagliare le opportunità degli individui e rendere possibile la corrispondenza tra merito e posizione sociale. Pur concedendo che lo Stato debba farsi carico di una parte delle spese, egli rifiuta la prospettiva di un sistema educativo prevalentemente 25 Willetts (2006, p. 239) ha recentemente ricordato la provocatoria affermazione di John Goldhorpe secondo cui “if you want an example of a society that efficiently matches ability with occupation, using the state to do so, then the model is probably the postwar Soviet Union”. 39 Terenzio Maccabelli pubblico. Anche in questo ambito dovrebbe essere il mercato il giudice supremo, lasciando la libertà ai soggetti di scegliere quantità e qualità dell’istruzione. Poiché è impossibile, oltre certi livelli d’istruzione, concedere a tutti questa opportunità di scelta, vi saranno per forza criteri di ammissione selettivi. Hayek è però scettico sulla possibilità di avvalersi del merito per questa selezione: senza ipocrisie, riconosce pertanto che l’educazione – come del resto l’eredità genetica, l’eredità patrimoniale e in genere la famiglia – sono fattori che concedono “vantaggi” a qualcuno indifferentemente dal loro merito. La spettrale descrizione della società meritocratica del XXI secolo proposta da Young offre a Hayek ulteriori elementi di supporto per questa tesi. Le finalità di Young sono tuttavia profondamente diverse da quelle di Hayek. Young propone una visione disincantata e disillusa della meritocrazia non per smantellare ma per ribadire il valore dell’uguaglianza di opportunità. Egli avversa soltanto il travisamento subito da questo ideale. La convergenza di due tradizioni antitetiche come quella socialista e quella che si richiama all’eredità di Francis Galton ha trasformato l’idea di uguaglianza di opportunità in un sistema rigidamente selettivo, arrivando a inficiare in modo irrimediabile il fine dell’educazione. Essa è diventata strumentale al processo di selezione delle élite, abbandonando ogni sua aspirazione emancipatoria. Per Young questo rimaneva invece il fine fondamentale dell’educazione, a prescindere da ogni considerazione sul merito degli individui. L’indirizzo di ricerca avviato da Musgrave sembrerebbe estraneo a questo ordine di problemi. Egli introduce il concetto di merito non con riferimento alle capacità delle persone ma ai bisogni ritenuti meritevoli. Ma l’archetipo di tale tipo di bisogni è appunto ritenuto l’istruzione e la disputa tra Hayek e Young si gioca non tanto sulla prospettiva di una improbabile 40 Il “merito”come criterio allocativo. Le origini del dibattito sulla “meritocrazia” società meritocratica quanto sulla scelta di considerare o meno l’istruzione universale come un bisogno meritorio. A cinquant’anni di distanza da questi dibattiti è davvero un’ironia della storia che la meritocrazia abbia guadagnato così tanto consenso proprio nel momento in cui ne va perdendo l’educazione come bene meritorio. 41 Terenzio Maccabelli Riferimenti bibliografici Abravanel, Roger, 2008 Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talent e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, Garzanti, Milano. Arrow, Kenneth - Bowles, Samuel - Durlauf, Steven (a cura di) (2000) Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton. Barker, Paul (2006) A Tract for the Times, Political Quarterly, vol. 77, n. 1 e in Dench (2006), pp. 36-44. Bell, Daniel (1972) On Meritocracy and Equality, The Public Interest, n. 29. Breen, Richard - Goldthorpe, John H. 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