Riflessioni sul merito In occasione della terza edizione del Festival dell’Economia svoltasi a Trento, tra il 29 maggio e il 2 giugno, si sono riuniti economisti di fama internazionale, e non solo, per discutere del rapporto tra democrazia e mercato. Tra gli argomenti trattati nella rassegna trentina ha destato particolare intereresse il tema del merito, non solo perché da tempo ormai al centro dell’opinione pubblica e politica, ma anche per le sue ricadute in ambito educativo. Due gli autori che hanno relazionato sull’argomento: Daniele Checchi, docente di economia del lavoro all’Università Statale di Milano, con un contributo dal titolo “Parola chiave – Merito” e il sociologo britannico John Goldthorpe, i cui ambiti di ricerca spaziano dalla stratificazione sociale e dalla mobilità, alla sociologia del sistema scolastico, con una relazione dal titolo “Il mercato premia il merito?”. Secondo l’accezione comune il merito è quel principio in base al quale il successo di una persona, di qualsiasi tipo (scolastico, lavorativo, remunerativo, sportivo ecc.) è attribuibile alle capacità della stessa e solo in minima parte ad altre caratteristiche, quali il genere, l’età o la provenienza sociale che non dipendono dal diretto interessato. Le ricadute fondamentali di tale principio sono essenzialmente due: per un verso, il successo è accessibile a chiunque abbia i requisiti di merito richiesti; per altro verso, ciascuno è artefice del proprio destino. Il principio meritocratico necessita, però, di una condizione preliminare consistente nell’uguaglianza delle opportunità, nel senso che sia garantita a tutti la possibilità di competere ad armi pari. Solo in questo modo, infatti, il migliore, la persona con più qualità può facilmente primeggiare. Considerato quale criterio allocativo dal punto di vista socio-lavorativo, il merito, pertanto, da un lato, consente di selezionare i migliori verso l’alto, dall’altro, targa i peggiori come responsabili della loro condizione. Approccio economico Il problema principale sollevato in economia in relazione al merito riguarda la sua misurabilità. Il primo ad essersi occupato del merito è stato, come noto, il sociologo inglese M. Young nel 1958 nel saggio “The rise of meritocracy”1. L’autore immagina una società del futuro dove il merito sia la risultante di due componenti, l’intelligenza più lo sforzo “IQ plus effort”, e sia certificato dal titolo di studio. La meritocrazia di Young si basa sul principio dell’achievement per il quale la posizione nella società e i risultati nella scuola sono strettamente legati alle doti naturali possedute e allo sforzo per svilupparle. Le persone con istruzione migliore hanno, pertanto, le posizioni più vantaggiose, di maggior potere, e utilizzano le abilità di cui dispongono per l’interesse generale della società. Checchi, rifacendosi alla definizione di Young, sostiene che il merito può essere espresso dal prodotto dell’impegno (sforzo) per il talento naturale di un individuo (quoziente intellettivo), a sua volta, influenzato da altre due componenti: la dotazione naturale-genetica (il fatto di essere belli o brutti, alti o bassi, ecc.) e il contesto ambientale e familiare in cui l’individuo è nato. Se entrambe le componenti del merito potessero essere facilmente osservate, il principio meritocratico sarebbe di facile applicazione. In realtà, come osserva Checchi, esse sono legate indissolubilmente l’una all’altra e si muovono in parallelo. E’ difficile, quindi, stabilire in che misura il merito sia dato dall’impegno personale e quanto dal talento innato della persona (indipendente dalla sua volontà). Ciò spiegherebbe perché, in genere, le persone con una sufficiente dotazione di talento, avendo una maggiore probabilità di successo, sono anche più disponibili al sacrificio2. Ma se il merito non è misurabile esattamente, avendo questa natura bidimensionale, risulta difficile allocare le persone sulla base di questo criterio. Negli anni ’60 con l’avvento della docimologia crebbe un certo ottimismo sulla possibilità di ricorrere al test IQ, quale metodologia per misurare il talento innato. Già negli anni ’80 però questa fiducia venne meno, perché si cominciò a nutrire 1 2 M. Young, The Rise of the Meritocracy, Thames and Hudson, London 1958. Cfr. D. Checchi, Come misurare il merito, in “Corriere Economia” del 23 giugno 2008. dubbi sulla rilevazione dell’intelligenza attraverso i test IQ. In particolare, grazie alle ricerche condotte da J.R. Flynn3, si dimostrò come il contesto socio-familiare esercitasse comunque una forte influenza sugli esiti del test. In ambito medico si sperimentò una ricerca alternativa, basata sul confronto tra persone geneticamente uguali per verificare, non il grado di talento posseduto dalle persone, ma il contributo del talento nel successo delle persone. Da qui lo studio condotto su gemelli monozigoti (con patrimonio genetico identico) e dizigoti, al fine di spiegare le differenze nel successo scolastico e lavorativo. Anche in questo caso, il metodo consente soltanto di isolare l’impatto del talento naturale sulle scelte formative e/o lavorative, ma non di misurarlo. Gli studi e le ricerche, in questo senso, hanno dimostrato – precisa Checchi - come il peso del quoziente intellettivo nel successo delle persone conti all’incirca per il 10%, mentre per il restante 90% pesino soprattutto le carriere scolastiche degli individui abbinate all’ambiente familiare di provenienza. Recenti studi, infine, sostengono che il test IQ consenta di misurare le capacità cognitive delle persone, mentre nel successo lavorativo non sempre queste risultano determinanti. Molto spesso, specie nel settore dei servizi, assumono un ruolo maggiore le capacità relazionali oppure la sicurezza in se stessi, ecc. Queste considerazioni sono alla base delle difficoltà che ostacolano la misurazione del talento. Sicuramente più facile è confrontarsi con la seconda componente del merito e cioè l’impegno. Quest’ultimo infatti è più facilmente misurabile, perché in ambito scolastico può essere espresso in termini di tempo investito nello studio, mentre in ambito lavorativo alcuni indici possono essere l’orario lavorativo, la disponibilità a muoversi oppure le prestazioni lavorative offerte in termini di output risultante. Un autore che ha cercato di studiare il merito come criterio di allocazione giusto, è stato l’economista americano J. Roemer, per il quale ciò che conta in una società liberale è l’uguaglianza delle opportunità e non quella degli esiti4. In questa prospettiva, ammettendo che la posizione socioeconomica di una persona sia il prodotto delle circostanze di provenienza (ad es. famiglia d’origine, genere, zona di residenza ) e dell’impegno, a parità di circostanze, il risultato rivelerebbe l’impegno. Quindi, come sostiene Roemer, la disuguaglianza di condizione socio-economica può essere decomposta in una componente accettabile, frutto dell’impegno personale, ed in una componente iniqua, riflesso delle circostanze di provenienza (indipendenti dal merito di una persona). Anche questo approccio, pur essendo, forse, il più coerente per la rilevazione del merito, presenta dei limiti, in quanto non considera la possibilità che sul successo della persona, oltre all’impegno e al talento, possano risultare determinanti anche eventi imprevedibili e favorevoli, cioè la fortuna. Quest’ultima, in altre parole, deve essere considerata componente del talento o dell’impegno o la si deve escludere? Un modo più consolidato per rilevare il grado di meritocrazia consiste nel considerare la mobilità intergenerazionale, per verificare quanto del reddito attuale dei figli sia spiegabile in base al reddito dei genitori. Una società è meritocratica quando il livello di persistenza intergenerazionale è basso, e cioè quando il reddito dei figli dipende in misura limitata da quello dei padri. In questo senso è opinione comune che la società più meritocratica sia rappresentata dagli USA. In realtà l’evidenza empirica dimostra il contrario, e cioè che la società americana sia tra le più immeritocratiche, perché caratterizzata da un’elevata persistenza intergenerazionale (pesa per il 50%, così come nel Regno Unito) rispetto a quanto registrato per i Paesi Scandinavi (dove la persistenza è meno del 20%). Anche questo tipo di misurazione non è esente da controindicazioni e limiti tecnici, in quanto 3 Il ricercatore neozelandese, sulla base dei risultati di 73 studi condotti negli Stati Uniti, pubblicati fra il 1932 e il 1978, nei quali gli individui erano stati sottoposti in successione a due diverse versioni di uno stesso test d'intelligenza, osservò che il livello medio dei campioni si fosse elevato ad ogni ripetizione del processo di verifica relativo a uno stesso test. In base ai progressi rilevati nel confronto tra vari campioni di verifica, per effetto dei quali, nel corso di 46 anni, il livello intellettivo medio della popolazione degli Stati Uniti si era elevato nella misura di 13,8 punti di quoziente d'intelligenza (QI), egli dedusse che il miglioramento delle condizioni socio-familiari (ad es. cambiamento favorevole delle condizioni bio-ambientali, aumento del reddito familiare e del livello di frequenza scolastica da parte dei genitori) avesse esercitato una forte influenza sugli esiti del test. 4 J. E. Roemer, Equality of opportunity, Harvard University Press, London 1998. per misurare esattamente la persistenza intergenerazionale bisognerebbe poter disporre di un campione longitudinale che segua i figli e poi i figli dei figli, in modo da osservare l’andamento dei redditi in una generazione ed in quelle precedenti. In secondo luogo sussiste un problema di distanza in termini d’età: più le persone saranno oggetto di rilevazioni tardi nel corso della vita, più avranno redditi alti e diseguali. Infine, sul livello di persistenza intergenerazionale pesano anche fattori quali il grado di altruismo delle persone, vale a dire quante risorse i genitori decidono di trasferire ai figli, ma anche quanto il mercato premia queste risorse. Ciò premesso, gli studi e le ricerche condotte sulla mobilità sociale, consentono di formulare alcune indicazioni orientative: a) innanzitutto è opportuno investire molto nella formazione prescolare, perché è quella che ha una resa più elevata sullo sviluppo delle capacità delle persone; b) in secondo luogo, occorre garantire borse di studio perché i meno abbienti riescano a scavalcare l’ostacolo rappresentato dalle limitate risorse delle loro famiglie; c) in terzo luogo, bisogna adottare politiche volte a comprimere i divari salariali. In questo senso, al fine di evitare che la condizione di una generazione si trasferisca simmetricamente in quella successiva bisogna attivare degli azzeratori nei passaggi intergenerazionali. La principale forma è rappresentata dall’opera dei Sindacati. Confrontando il tasso di sindacalizzazione dei paesi occidentali con la misura del rendimento dell’istruzione, emerge che nei Paesi dove i sindacati sono più forti il rendimento dell’istruzione è più basso. Non si tratta di una casualità perché corrisponde alla loro specifica mission volta ad indebolire la mobilità intergenerazionale; d) infine si deve ricorrere alla tassazione sull’eredità: in corrispondenza di ogni passaggio ad una generazione successiva si taglia parte della ricchezza trasferita. In sostanza, per ridurre l’incidenza della persistenza intergenerazionale, è auspicabile investire nell’istruzione, anche perché i Paesi che investono maggiormente in istruzione si contraddistinguono per livelli più elevati di meritocrazia. Un altro modo per affrontare il tema del merito, consiste nel valutare la formazione delle classi dirigenti di una Paese. Come sosteneva Pareto nella sua teoria della circolazione delle élites, è importante avere delle buone classi dirigenti perché ciò garantisce la stabilità sociale. Se l’accesso alle classi dirigenti è ostacolato alle classi inferiori, prima o poi talenti nasceranno anche tra queste rovesciando pertanto la situazione. Pareto, in sostanza, riteneva fosse auspicabile ogni tanto consentire l’accesso alle classi dirigenziali anche ad alcuni dei più capaci provenienti dalle classi inferiori in modo da garantire il ricambio sociale. Checchi, sulla base di un proprio modello economico, mostra quale sia il meccanismo di selezione operante in quattro Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna) al fine di consentire l’accesso ai gruppi occupazionali di vertice (i legislatori, imprenditori, dirigenti e le professioni intellettuali). La probabilità di diventare parte della classe dirigente risente di 3 elementi: il genere, il titolo di studio, l’età. Per quanto riguarda il primo elemento, l’esser donna costituisce una condizione svantaggiosa in tutti i Paesi. L’età avanzata rappresenta un vantaggio, specie in Italia, ove più si invecchia maggiore è la probabilità di raggiungere la classe dirigente, mentre in Gran Bretagna costituisce uno svantaggio (passati i 40 anni, infatti, diminuisce la probabilità di raggiungere posizioni di vertice). Per quanto riguarda il titolo di studio, in Italia il suo peso declina (vale a dire l’avere un titolo di studio elevato riduce le probabilità di raggiungere la classe dirigente) mente in Gran Bretagna cresce. E’ chiaro che i meccanismi di selezione delle classi dirigenti sono strettamente collegati alla tipologia di filiere formative dei diversi Paesi. In Italia ed in Germania non vi è un buon sistema in grado di incidere in modo determinante sulle carriere professionali delle persone; in Gran Bretagna ed in Francia, seppur con meccanismi diversi, i relativi sistemi universitari sono fortemente selettivi all’ingresso per cui i titoli hanno maggior valore di certificazione. Anche le fughe dei cervelli hanno un peso significativo per valutare il grado di meritocrazia di un Paese, perché se il sistema non valorizza le persone talentuose, queste si vedranno costrette ad emigrare laddove sia riconosciuto il loro valore. In questo senso, considerando, per un verso, la quota di laureati stranieri residenti in un Paese quale misura della capacità di attrarre talenti da parte di un Paese (assumendo il titolo di studio indicatore del talento) e, per altro verso, la quota di laureati di un Paese emigrati all’estero, segnale rivelatore dell’incapacità dello stesso di valorizzare i propri talenti, si deve concludere che in un Paese immeritocratico, caratterizzato da un cattivo sistema di selezione della classe dirigente, si registrerà una fuga dei cervelli (è il caso dell’Italia), mentre un Paese con un valido sistema selettivo si segnalerà per una notevole capacità di attrarre cervelli. Riassumendo, i principali benefici derivanti dall’applicazione del principio meritocratico risiedono sia nell’aumento delle possibilità di scelta che si aprono agli individui, ma anche nell’enfasi che esso pone sulla responsabilità individuale, in virtù della quale ciascuno, in quanto responsabile delle proprie sorti, è spinto ad impegnarsi per affermarsi. Di contro, da un lato, l’ambivalenza di significati che esso può assumere impedisce una sua rilevazione oggettiva, dall’altro, se si decide di percorre la strada del merito, si abbraccia un principio di tipo individualistico e non certo solidaristico, con il rischio di favorire comportamenti talmente competitivi da risultare anche conflittuali. Approccio sociologico La principale preoccupazione della sociologia quando si parla di merito sta nel cercare di capire le sue ricadute nella società, ed in particolar modo sulla mobilità sociale. Goldthorpe sottolinea come Young nel suo saggio “The rise of meritocracy”5 avesse evidenziato il rischio insito in una società meritocratica, e cioè l’emarginazione delle persone ritenute meno brillanti e, perciò, non meritevoli. Se il merito conta molto, le persone alle quali non viene riconosciuto sarebbero viste come “moralmente nude”, prive cioè di ogni valore. Le tesi di Young vennero riprese in termini positivi da un gruppo di pensatori liberali americani che, durante la Guerra Fredda, faceva capo al sociologo Daniel Bell. Quest’ultimo riprese e ripropose6 il principio meritocratico per contrastare argomentazioni eccessivamente egualitariste, favorevoli non solo ad una maggiore uguaglianza di opportunità, ma anche ad un’uguaglianza di risultati. Queste tesi, incentrate sulle disuguaglianze tra classi sociali o tra altri gruppi (come quelli etnici e razziali, ecc.) finivano per essere a detrimento di disuguaglianze che, invece, provenivano da differenze individuali non solo in termini di dotazioni naturali (fisiche), anche di carattere morale (ad es. differenze in termini di diligenza, perseveranza, spirito d’iniziativa). In questa prospettiva Bell sosteneva che se si fosse riuscito a creare una maggiore uguaglianza di opportunità, soprattutto dal punto di vista scolastico, e la selezione sociale si fosse basata principalmente sulla scuola, allora le disuguaglianze di reddito, di benessere e di posizione sociale, sarebbero state legittime, in quanto riflesso di differenze di premi appunto “meritati”. In presenza di simili condizioni per Bell si sarebbe potuta realizzare una “Education Based Meritocracy”, cioè una meritocrazia giusta, fondata sull’istruzione, nella quale solo i più bravi avrebbero potuto primeggiare, una meritocrazia non solo auspicabile, ma anche inevitabile dal punto di vista funzionale, in quanto rappresentava la fase finale verso cui tutte le società moderne post-indutriali stavano progredendo. Il dinamismo economico e tecnologico in atto in queste società impone, infatti, che tutte le risorse umane disponibili siano impiegate nel modo più efficace possibile a qualsiasi livello. In questo senso il ruolo dell’istruzione deve aumentare in quanto deve contribuire a preparare adeguatamente le persone, che con il loro apporto possono promuovere lo sviluppo e il benessere generali. In sostanza, secondo la visione di Bell, quella post-industriale è una società basata sulla meritocrazia. In anni più recenti questi concetti positivi della meritocrazia sono tornati alla ribalta facendo il percorso inverso dall’America all’Europa, diventando un elemento chiave dell’ideologia di partiti politici sia di centro-destra che di centro-sinistra. 5 Op. cit. D. Bell, On Meritocracy and Equality, The Public Interest, no. 29, 1972; id., The Coming of Post-Industrial Society, Basic Books, New York 1973. 6 Ma da un punto di vista sociologico, ci sono delle evidenze empiriche che corroborano la tesi di Bell, secondo cui le società moderne sono diventate delle meritocrazie basate sulla scuola, o quanto meno si trovano nella giusta direzione per esserlo? Considerando la Gran Bretagna, paese unanimemente considerato dall’opinione pubblica tra i più meritocratici, Goldthorpe in uno studio recente7 ha cercato di capire: 1) se si stia effettivamente raggiungendo l’obiettivo di uguali opportunità di studio per tutti, al fine di verificare se sono le capacità e i rendimenti scolastici delle persone, e non la loro provenienza sociale, a determinare il livello di istruzione raggiunto; 2) se sia aumentata l’importanza delle carriere scolastiche nel determinare il tipo di lavoro che le persone svolgeranno e, quindi, la loro posizione nella società; 3) se le qualifiche scolastiche hanno la stessa importanza nel determinare la posizione sociale degli individui provenienti dalle diverse classi sociali. Per quanto riguarda il primo punto, il sociologo inglese osserva come non vi sia alcun dubbio che in tutte le società moderne l’espansione dell’istruzione consenta a sempre più persone provenienti da diversi strati sociali di raggiungere livelli di istruzione più elevati. Ma questo dato, di per se stesso, non implica un effettivo avanzamento verso una meritocrazia. Diverse ricerche, sostiene Goldthrope, hanno evidenziato come le scelte operate dagli studenti in fasi cruciali delle loro carriera scolastica (come ad esempio rimanere a scuola o andare a lavorare o proseguire gli studi all’università o nell’istruzione tecnica superiore ecc.) non sono determinate semplicemente dalle loro performances scolastiche precedenti, ma continuano ad esser influenzate soprattutto dalla loro provenienza sociale. In Gran Bretagna, nell’arco di un venticinquennio, dal 1976 al 2001, la situazione non è sostanzialmente cambiata: anche a parità di risultati scolastici, i ragazzi provenienti da una classe sociale privilegiata hanno una maggiore probabilità di sostenere gli esami esami A– level necessari per accedere, in seguito, all’Università. Se ne deduce che ad oggi, in Gran Bretagna, le carriere scolastiche non sono configurate sulla base delle abilità accademica degli individui perché il background sociale continua a giocare un ruolo importantissimo. In merito al secondo quesito, Goldthorpe sostiene che negli ultimi 100 l’associazione tra tipo di istruzione e posizione di classe si è rafforzata. Ciononostante negli ultimi anni la situazione sta cambiando. In effetti i risultati delle indagini compiute in Gran Bretagna da Goldthorpe mostrano che l’associazione tra istruzione e posizione di classe raggiunta si è indebolita negli ultimi decenni, con la conseguenza che l’istruzione sembra incidere meno rispetto alla posizione sociale di destinazione. Riguardo all’ultimo quesito, Goldthorpe rileva come gli studi e le ricerche condotte sul rapporto tra origine sociale, livello di istruzione e classe sociale di destinazione, consentono di pervenire a due conclusioni: a) innanzitutto l’origine sociale di un individuo continua ad avere un’influenza notevole in relazione al conseguimento di una certa posizione sociale; b) in secondo luogo esiste un effetto di interazione, vale a dire più è avvantaggiata l’origine di un individuo meno importante diventa l’istruzione ai fini del raggiungimento delle classe sociale. Per illustrare questo punto, Goldthorpe, relativamente al caso britannico, mostra la probabilità stimata di un individuo di entrare nella classe dei professionisti e dei managers (classi di vertice) tra gli anni ’70 e gli anni ‘90. Nel caso degli individui in possesso di una qualifica terziaria (laurea) esiste una possibilità pari al 90% di entrare a far parte delle classe sociale dei managers, indipendentemente dalla loro origine sociale. In questa caso non esiste una sostanziale differenza tra gli anni ‘70 e gli anni ‘90, per cui si può dire che la meritocrazia sia effettivamente promossa. Nel caso degli individui con livello di istruzione piuttosto basso, però, l’origine sociale agisce in modo determinante. Gli individui provenienti da una classe sociale privilegiata, ma con bassa istruzione, hanno migliori probabilità di entrare comunque nei gruppi sociali di vertice rispetto agli altri gruppi. 7 J. Goldthorpe, Education-Based Meritocracy: the barriers to its realisation, Nuffield College, Oxford 2005. Tale differenza pare aumentare dagli anni ‘70 ai ’90. Negli anni ’90, infatti, questi individui con bassa istruzione ma con origine privilegiata hanno una possibilità del 30% di rimanere nel gruppo socialmente più alto. La spiegazione di questa situazione è piuttosto intuitiva: i ragazzi di origini privilegiate, anche in assenza di risultati scolastici brillanti, possono contare su molte altre risorse, assets, che i ragazzi di origini più umili non posseggono e che li aiutano a raggiungere, come i padri, ruoli professionali di vertice, specie in alcune posizioni nel settore dei servizi (ad es. gestori di hotel, di ristoranti o di grosse società immobiliari), dove cioè le capacità cognitive e la preparazione specialistica sono meno importanti rispetto ad es. alle capacità sociali e relazionali. Le evidenze empiriche delle ricerche di Goldthorpe, pertanto, dimostrerebbero che sia poco plausibile l’ipotesi avanzata da Bell, per la quale le società moderne post-industriali si stiano effettivamente trasformando in meritocrazie fondate sull’istruzione. Per cercare di capire cosa impedisca questa trasformazione Goldthrope si rifà al pensiero dell’economista F.v. Hayek, il quale viene considerato il principale critico della meritocrazia, sia dal punto di vista ideologico che sociologico8. La contrapposizione tra Bell ed Hayek potrebbe essere sintetizzata come segue: in Bell il progresso verso una meritocrazia basata sull’istruzione è parte intrinseca della società moderna, per Hayek, invece, la meritocrazia non è compatibile con una società liberale basata su un’economia di mercato. In questa prospettiva Hayek elabora due tesi: a) In primo luogo Hayek afferma che in una società moderna basata su di un’economia di mercato, con una struttura per classi, una disuguaglianza di condizione si opporrà sempre ad una pari opportunità completa nel settore dell’istruzione. E’ impensabile, cioè, riuscire ad impedire ad una famiglia di classe sociale elevata di trasferire i propri privilegi ai figli, in termini di maggiore investimento nell’istruzione. b) In secondo luogo per Hayek non vi sono criteri obiettivi per determinare il merito e neppure per premiare le persone, respingendo, in tal senso, l’idea che i premi possano essere calibrati sulla base del valore che la società attribuisce ad un certo tipo di occupazione. Secondo Hayek, infatti, le attività economiche, i beni ed i servizi da esse prodotte, possono avere un valore solo per gli individui e non per la società, e tali valori saranno indicizzati semplicemente sulla base dei prezzi offerti dal mercato per questi beni e servizi. In altre parole, per Hayek, in un’economia di mercato i datori di lavoro quando devono prendere decisioni importanti (come ad es assunzioni, licenziamenti, promozioni), stabiliscono che cosa sia il merito in relazione alle esigenze aziendali. In questa prospettiva, ai fini del reclutamento, le qualifiche scolastiche possono costituire uno dei criteri considerati per la selezione, ma non l’unico. In alcuni casi, infatti, potrebbero essere utilizzati quali criteri selettivi caratteristiche non strettamente legate al merito. Secondo Hayek, inoltre, è la competizione che si viene a instaurare tra le aziende, che applicano diversi criteri di selezione (in funzione delle loro esigenze produttive), a generare un maggior livello di libertà nella società e ad estendere la gamma di scelte possibili per l’individuo. Ciò che per l’economista austriaco minerebbe l’efficienza e la libertà è una situazione in cui si impone a tutta la società una scala meritocratica basata sulle qualifiche accademiche o su altri criteri. Tale situazione, infatti, sarebbe compatibile solo con un regime autocratico o con un’economia pianificata e centralizzata. Goldthorpe crede che Hayek, da questo punto di vista, intendesse riferirsi alle società comuniste dell’Europa orientale. Queste società, osserva Goldthorpe, dimostrerebbero quanto affermato da Hayek. La maggior parte dei regimi comunisti, infatti, si impegnavano per garantire a tutti pari opportunità nella scuola e al contempo il sistema scolastico veniva utilizzato come strumento principale di pianificazione e distribuzione della forza lavoro. In simili società gli individui potevano trovare un lavoro corrispondente al tipo di qualifica scolastica raggiunta. Con il crollo del blocco sovietico e la trasformazione, avvenuta almeno in parte, in società democratiche aperte al libero mercato, le stesse sono divenute un laboratorio valido per verificare le tesi di Bell e di Hayek. 8 F.v. Hayek, The Constitution of Liberty, The University of Chicago Press, Chicago 1960; id., Law, Legislation and Liberty: A New Statement of the Liberal Principles of Justice and Political Economy, Vol. II: The Mirage of Social Justice, The University of Chicago Press, Chicago 1976. Goldthorpe porta a suffragio delle tesi di Hayek i risultati di una sua ricerca, ancora in fieri, effettuata in Ungheria, nella quale ha raccolto e suddiviso in coorti i dati di 5 indagini sulla popolazione ungherese dal 1973 fino al 2005, coprendo le principali trasformazioni sociali e politiche avvenute in Ungheria. Ciò che è emerso è sintetizzabile in tre punti: 1) l’associazione tra origine sociale della persona e livello di istruzione raggiunto durante il regime comunista era debole; nel periodo del socialismo gulasch, quando furono introdotti alcuni elementi di riforma nell’economia, l’associazione è aumentata; più recentemente con l’apertura al libero mercato il trend di crescita è salito ulteriormente; 2) per quanto riguarda il rapporto tra livello di istruzione e classe sociale di destinazione, Goldthorpe mostra come l’istruzione, durante il comunismo, esercitasse un’influenza determinante sulla classe di destinazione, anche se poi è osservabile un’inversione di tendenza nel periodo delle riforme e in quello capitalista, quando l’istruzione riduce il suo impatto sulla classe di destinazione delle persone; 3) considerando, infine, la probabilità delle persone di finire nelle classi sociali di vertice (managers del settore dei servizi), si può riscontrare come, nel periodo comunista, per i possessori di una laurea, l’impatto della classe sociale d’origine fosse limitato; mentre con l’apertura al capitalismo la classe sociale d’origine è tornata ad assumere una certa importanza. Di contro, per i possessori di qualifiche più basse, la classe sociale di provenienza svolge un’influenza incisiva un po’ in tutte le coorti, anche se più marcatamente nel periodo capitalista. Le evidenze empiriche, osserva Goldthrope, dimostrano che in un periodo di grande modernizzazione, quando cioè la società ungherese si è aperta al libero mercato, raggiungendo tassi di crescita elevati, l’istruzione non ha svolto un’opera di mediazione nell’associazione tra origine sociale e la destinazione sociale, tanto che le differenze di classi e di reddito in questo periodo sono aumentate notevolmente. Il caso ungherese suggerisce, pertanto, che le società liberali di lunga tradizione non hanno imboccato, come sosteneva Bell, la strada di una meritocrazia basata sull’istruzione e sull’educazione, ma che, piuttosto, come riteneva Hayek, la meritocrazia trovi difficoltà ad affermarsi in una società moderna basata su un’economia di libero mercato. Un’eccezione, sottolinea Goldthorpe, è costituita dalle società scandinave, in cui il benessere è molto elevato. In Svezia, infatti, il merito scolastico costituisce un criterio di affermazione sociale e le differenze tra i ceti sociali, in assenza di politiche pianificatorie, sono minime. In altre parole, conclude il sociologo inglese, solo l’abbattimento progressivo delle disuguaglianze sociali, attraverso un livellamento verso l’alto e non verso il basso come avveniva nelle società sovietiche, potrà favorire l’affermarsi della selezione per merito anche in un’economia di mercato. Approccio pedagogico Le considerazioni socio-economiche sul merito su esposte hanno dunque la possibilità di affermarsi e svilupparsi se trovano il loro radicamento in un nuovo modello di educazione e di scuola. Se ne è resa conto l’attuale ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, on. Mariastella Gelmini, che è presto diventata nota ai più per un progetto di legge9 sulla promozione del merito a livello sociale, affrontato proprio a partire dalla scuola e dalla educazione. La proposta di legge individua tre aree privilegiate che concorrono a far emergere il merito: 1. finanziamenti ai singoli istituti dotati di effettiva autonomia gestionale, sulla base dei risultati conseguiti e rilevati da un organismo esterno; 2. assegnazione alle famiglie di vaucher da spendere sia nelle scuola pubbliche che in quelle private; 9 Proposta di legge d’iniziativa del deputato Gelmini “Delega al Governo per la promozione e l’attuazione del merito nella società, nell’economia e nella pubblica amministrazione e istituzione della Direzione di valutazione e monitoraggio del merito presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato” presentata alla Camera il 5 febbraio 2008. 3. eliminazione degli automatismi nelle progressioni retributive e di carriera, chiamata nominativa degli insegnanti e possibilità , per i dirigenti, di stipulare contratti con i privati. Come si vede, il merito nella scuola viene considerato prevalentemente all’interno dell’ottica socioeconomia, e cioè dal lato organizzativo–istituzionale, in rapporto alla qualità del servizio, realizzabile con il concorso dei tre fattori su nominati. Tuttavia, il merito presenta un suo profilo critico anche sotto l’aspetto pedagogico quando viene trattato con un’ottica individuale e, solo in subordine, per le sue ricadute sociali. Sul piano educativo il merito si rivela un intreccio problematico che è difficile districare e chiarire fino in fondo. Per non complicare eccessivamente la questione conviene iniziare dalla definizione di Young10, e cioè dall’identificazione del merito quale risultante di due componenti, l’impegno e il talento. Mentre sul piano socio-economico il problema principale consiste nella misurazione del merito e nel suo riconoscimento quale possibile fattore di mobilità sociale, sul piano educativo, invece, ci si confronta con una questione precedente, che riguarda l’identificazione e la promozione della componete del merito costituita dal talento. La pedagogia ha risposto indirettamente a questo problema, interrogandosi sull’apprendimento umano, quando cioè si è domandata, come ha sottolineato Reboul, su che cosa faccia dell’uomo un essere capace di apprendere11. Semplificando al massimo, le risposte sono sempre state di due tipi, quelle del razionalismo alla base della educazione tradizionale, per il quale l’uomo impara perché possiede risorse innate che non ricava dall’esperienza, come la ragione. Oppure quelle dell’empirismo, per il quale l’individuo è tabula rasa, plasticità, cera da plasmare, che si forma e si riempie attraverso le esperienze esterne, offerte dall’ambiente. Le due posizioni, fatte le debite differenze, ritornano, ad esempio nelle teorie dell’apprendimento di tipo comportamentista, per le quali l’apprendimento dipende interamente da stimoli esterni; oppure in quelle di tipo cognitivista che, senza negare il peso dell’ambiente, riconoscono anche l’incidenza delle attività rappresentative del soggetto12. In rapporto a questi due modi di ragionare la questione del talento assume un peso completamente diverso. Nelle posizioni di tipo razionalista e cognitivista il talento rappresenta una dotazione originaria che spiega le differenze individuali. Nelle pedagogie empiristiche e comportamentiste, di contro, il talento è imputabile quasi completamente all’ambiente, alle esperienze affrontate, in una parola, all’educazione ricevuta. Qui il talento si forma, là il talento si scopre. Quali sono le ricadute di questo ragionamento all’interno della scuola che abbiamo prodotto? Contrariamente a quanto si pensa, nella scuola, non è assente il merito, esso ha paradossalmente una funzione livellatrice piuttosto che differenziatrice. Il merito, infatti, valorizza le differenze se riconosce il peso del talento; livella, elimina le diversità, quando viene invocato per poter ovviare alla mancanza di talento attraverso l’impegno. Quest’ultima tesi ha avuto il suo teorico in Benjamin Bloom13. Convinto sostenitore della teoria dello psicologo Carrol, secondo il quale le attitudini ed il talento sono solo una questione di tempo, il pedagogista americano ha attribuito alla scuola una insostituibile azione di perequazione sociale. Su queste basi ha elaborato la sua teoria del mastery learning, che rappresenta uno sviluppo della pedagogia per obiettivi, previsti come tappe di apprendimento uguali per tutti, conseguibili attraverso una programmazione che ammette di variare solo il tempo di apprendimento per consentire a tutti di raggiungere gli stessi traguardi. Come è noto, Carroll fornisce anche una formula con la quale misurare l’apprendimento14 e, in qualche modo, il merito. Essa è costituita dal rapporto tra tempo reale e il tempo necessario ad apprendere. Dove: 10 Op. cit. O. Rebuol, Qu’est -ce qu’apprendre, Puf, Paris 1980. 12 A. Cegolon, Competenza. Dalla performance alla persona competente, Rubbettino, Soneria Mannelli 2008. 13 B.S. Bloom, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico (tit. orig.: Human Characteristics and School Learning, 1976), Armando, Roma 1979. 14 Cfr. C. Birzea, La pédagogie du succès, Puf, Paris 1982. 11 - il tempo reale è ottenuto da due variabili costitutive: perseveranza + chances di apprendimento; - il tempo necessario comprende attitudine per la materia (il tempo necessario ad apprendere) + qualità dell’istruzione + capacità di comprendere l’istruzione (utilizzare, cioè, le conoscenze ricevute). Quali sono state le conseguenze di questa politica scolastica e della pedagogia del mastery learning? 1) la perequazione sociale affidata alla scuola è fallita perché, come hanno sottollineato diversi studi sociologici (ad es. Bourdieu e Passeron) le differenze sociali vengono riprodotte, addirittura aumentate attraverso meccanismi di selezione interni; 2) il merito basato solo sull’impegno e con finalità perequative, anziché livellare verso l’alto, tende a livellare verso il basso; 3) su questi presupposti, il merito anziché valorizzare il capitale umano, finisce per disperderlo. Un’alternativa promettente a questo tipo di scuola può essere rappresentata da un altro modello, presente in nuce nella nostra Costituzione che, all’art. 117 distinguendo tra “istruzione”, a legislazione concorrente tra Stato e Regioni, salvo che per le “norme generali” ed i “lep” (livelli essenziali delle prestazioni) di pertinenza esclusiva dello Stato, e “istruzione e formazione professionale” a legislazione esclusiva delle Regioni salvo che per i “lep” forniti dallo Stato, intende limitare la funzione dello Stato a compiti di controllo e di valutazione di sistema, valorizzando le autonomie locali e la libera iniziativa dei cittadini. Una scuola fedele allo spirito della Costituzione repubblicana dovrebbe basarsi sull’autonomia e sulla sussidiarietà e, sotto l’aspetto didattico sulla centralità dello studente e sulla personalizzazione degli apprendimenti. In tal modo il merito, oltre che sull’impegno, potrebbe emergere dalla valorizzazione delle differenze individuali. In questo senso si esprime anche il dettato costituzionale agli artt. 3 e 34 . Nel primo si attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, in pratica creare le pari opportunità, indispensabili per favorire il merito. Nel secondo vi è l’espresso riconoscimento del merito sul piano scolastico “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Un ulteriore orientamento in tale direzione emerge oggi anche nelle ricerche che approfondiscono il tema della competenza. Via via che il “cursore della competenza”, per parafrasare Le Boterf, si sposta dal ”saper fare” “al “saper agire”15, ci si avvicina a dimensioni di apprendimento che non sono più imputabili unicamente a condizioni esteriori, in quanto fanno emergere aspetti soggettivi rivelativi di differenze individuali per le quali bisogna ammettere anche un “quid” originario. Quest’ultimo viene espresso da alcuni autori attraverso il concetto di capacità, che nel linguaggio sulle competenze non dovrebbe essere confuso con abilità, in quanto rappresenterebbe il potenziale individuale di ciascuno, sviluppabile attraverso conoscenze, esperienze in abilità e soprattutto in competenze, ove emergono creatività, intelligenza, motivazione, volontà, coerenza, eticità e valori. Proprio la controversia sorta in sede parlamentare, in occasione dell’approvazione del D.Lgs 226/05 attuativo, per il secondo ciclo scolastico della legge n. 53/2003, in relazione all’interpretazione del termine capacità16 è indicativa del sospetto con cui è recepita nel nostro Paese la questione del merito, per l’idea preconcetta che esso possa innescare un meccanismo di discriminazione sociale. In realtà le ricerche cui si è fatto riferimento sotto l’aspetto sociologico, dimostrano proprio il contrario e cioè che ove manca una politica sul merito agiscono, come nel nostro Paese, le discriminazioni sociali perché le origini sociali privilegiate finiscono per incidere più del merito, persino all’interno di un luogo, in teoria socialmente protetto come la scuola. Queste brevi riflessioni permettono di trarre alcune considerazioni conclusive. 15 G. Le Boterf, De la compétence. Essai sur un attracteur étrange, Ėditions d’Organisation, Paris 1994. G. Bertagna, Pensiero Manuale. La scommessa di un sistema educativo di istruzione e di formazione di pari dignità, Rubbettino, Soneria Mannelli 2006. 16 In primo luogo, il problema del merito sul piano sociale può essere sollevato solamente se collegato ad una politica scolastica e ad una pedagogia che si propongano di individuare e di valorizzare il talento; in caso contrario diventa veramente uno strumento di discriminazione sociale. In secondo luogo, la valorizzazione dei talenti non può essere affidata solo alla scuola, in quanto essa tende a riprodurre al suo interno la stratificazione sociale. Diventa possibile, invece, con l’azione coordinata tra pedagogia e politica, in cui ognuna deve fare il proprio lavoro muovendosi in direzioni diverse. La politica interpreta bene il proprio ruolo quando non cerca di sostituirsi alla pedagogia, impegnandosi a creare, invece, le condizioni socio-economiche per permettere alla scuola di garantire ad ogni cittadino il diritto alla educazione della propria persona. Per quanto possa apparire paradossale il coordinamento tra politica e pedagogia avviene se l’una, la politica, interviene per garantire a tutti uguali opportunità (art. 3 della Costituzione); l’altra, la pedagogia, e per essa la scuola, per valorizzare le specificità di ognuno (art. 34 Cost.). L’esempio dei paesi scandinavi, come ha sottolineato Goldthorpe, sembra confermare proprio questo felice connubio. Di contro, la tesi di Bell che illuministicamente punta solo sull’istruzione, è inficiata sul piano delle evidenze empiriche riscontrate paesi europei e non come ad es. la Gran Bretagna, gli Stati Uniti ma anche l’Italia. In terzo luogo sostenere il merito, nella duplice dimensione su precisata, non significa discriminare ma più semplicemente promuovere azioni educative coerenti con una pedagogia che pone al centro la persona dello studente e valorizza non le differenti dotazioni individuali di per sé, ma l’impegno che ognuno compie per migliorare se stesso. Andrea Cegolon Dottorato di ricerca in Scienze Pedagogiche Università degli Studi di Bergamo