1 STATO POTERE E GOVERNO Da N.BOBBIO, Stato, governo

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STATO POTERE E GOVERNO
Da
N.BOBBIO, Stato, governo, società
Frammenti di un dizionario politico
ORIGINE DEL TERMINE
Il termine stato compare nel Principe (1513) di N. Macchiavelli (1469-1527) e sostituisce i
precedenti termini/concetti di polis - civitas e res publica.
Con il termine stato si indica:
 una condizione di possesso esercitata su un determinato territorio
 una condizione di dominio/potere sugli abitanti di quel territorio
Con questo nuovo termine/concetto N. Macchiavelli indica una nuova emergente realtà: lo stato
moderno sorto dalla dissoluzione degli ordinamenti frammentati e divisi del mondo feudale che si
caratterizza per la concentrazione del potere su un territorio molto vasto e per il monopolio di
servizi essenziali al mantenimento dell'ordine interno (leggi/controllo/imposizione fiscale/moneta
…).
NASCITA DELLO STATO
Argomenti a favore della discontinuità:
La nascita dello stato avviene in un determinato periodo storico (XV-XVI sec.) con il processo che
vede sorgere i grandi stati territoriali dopo la fine delle istituzioni medioevali. Lo stato è lo STATO
MODERNO.
Argomenti a favore della continuità:
Caratteristiche statuali sono rinvenibili anche nelle istituzioni politiche che precedono lo stato
moderno (polis greca, impero romano, orrdinamenti feudali…). Lo stato pertanto nasce dalla
dissoluzione della comunità primitiva basata sui legami di parentela e dalla formazione di comunità
più ampie. La nascita dello stato determina il passaggio dall'età primitiva a quella civile.
Due tesi rilevanti e per alcuni versi simili sono quelle sostenute rispettivamente da J.J.Rousseau
(1712-1778) nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza e da K:Marx e F.Engels nella Ideologia
tedesca (1845) che individuano la nascita dello stato nell'istituto della proprietà privata (Rousseau) e
nella divisione del lavoro (Marx-Engels).
STATO E POTERE
Ogni stato si presenta/identifica con un particolare ordinamento politico. Ciò che stato e politica
hanno in comune è il riferimento al fenomeno del potere.
Il termine potere (in greco kràtos o arché) si ritrova in tutte le denominazioni che definiscono i vari
sistemi politici: democrazia, aristocrazia oligarchia, monarchia, partitocrazia … Non c'è teoria
politica che non parta direttamente o indirettamente da una definizione di potere e da una analisi del
fenomeno del potere.
TEORIE DEL POTERE
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Teoria sostanzialistica (Hobbes 1588-1679): il potere è qualcosa che si ha e che si usa come un
qualsiasi altro bene per conseguire determinati scopi (fama, gloria, dominio, controllo delle
coscienze). B. Russel (1938) individua tre tipi di potere così inteso: il potere fisico/costrittivo - il
potere psicologico/il potere mentale.
Teoria soggettivistica (Locke 1632-1704): il potere è la capacità del soggetto di ottenere certi
effetti. Diritto soggettivo: l'ordinamento giuridico consente a un soggetto (individuale o collettivo)
di poter ottenere certi effetti.
Teoria relazionale (autori contemporanei): il potere è una relazione tra due soggetti in cui ilprimo
ottiene dal secondo un comportamento che questi altrimenti non avrebbe compiuto. Robert Dahl
(1963): "l'influenza è una relazione tra attori nella quale un attore induce gli altri attori ad agire in
modo in cui altrimenti non agirebbero". Questa teoria mette in evidenza come il concetto di potere
sia strettamente connesso a quello di libertà: il potere di A implica la non libertà di B.
TEORIE DEL POTERE POLITICO
Aristotele (384-322 a.C.) nella Politica distingue tre forme di potere: paterno (padre/figlio) dispotico (padrone/schiavo) - civile (governante/governati). La tripartizione aristotelica è ripresa sia
da Hobbes che da Locke. Nella trattazione di Locke il potere paterno deriva dalla natura cioè da una
condizione non modificabile, quello dispotico dal delitto cioè da una colpa commessa e quello
civile infine da un patto ovvero dal contratto sociale che sancisce il passaggio dallo stato di natura a
quello civile.
Una più attenta e realistica definizione del carattere proprio del potere politico viene da una lunga
ed elaborata riflessione intorno al concetto di forza (la summa potestas dei filosofi medioevali). E'
in particolare a Max Weber (1864-1920) che si deve una acuta interpretazione del potere politico
inteso come uso legittimo della forza/coazione fisica. Weber definisce lo stato come il detentore del
monopolio della coazione fisica legittima. Sulla stessa linea Hans Kelsen (1881-1973) filosofo del
diritto austriaco-americano definisce lo Stato come un ordinamento che regola l'uso della forza e
monopolizza l'uso della forza.
Oltre al potere politico così inteso si devono allora distinguere almeno altre due forme di potere
sociale che fanno uso della forza. Tali forme sono rispettivamente quella del potere economico in
cui il possesso di certi beni e mezzi di produzione è finalizzato ad ottenere da coloro che non li
posseggono una certa condotta (lavoro utile) e quella del potere ideologico dove il possesso di certe
forme di sapere, conoscenza, mezzi di informazione viene usata per esercitare influenza sul
comportamento
altrui
(socializzazione,
inculturazione,
consenso).
I
tre
poteri
(politico/economico/ideologico) possono rimanere equidistanti e separati ma possono anche
confliggere o competere tra di loro creando gruppi di interesse o gruppi di pressione (lobby). Negli
Stati totalitari infine tutta la società è risolta nello Stato cioè nell'organizzazione del potere politico
che riunisce in sé il potere ideologico e il potere economico.
IL PRIMATO DELLA POLITICA
Concepito come monopolio legittimo della forza il potere politico è sempre stato teorizzato e
interpretato come la forma più alta e determinante di potere, come potere sommo. Si parla in questo
senso di primato della politica intendendo così l'organizzazione politica come il luogo nel quale si
esercita la forma più alta del potere.
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Connessa all'idea del primato della politica è la teoria della Ragion di Stato. Per Ragione di Stato si
intende l'indipendenza del giudizio politico dal giudizio morale o anche la superiorità del politico
sul morale. Ciò significa che l'azione politica deve mirare al proprio scopo che è la salute pubblica,
il bene dello stato, la salvaguardia dell'ordine senza sentirsi vincolata da remore o principi di altra
natura. Il principio dell'azione dello stato deve essere ricercato nella sua stessa necessità di esistere;
la sua esistenza, del resto, è la condizione dell'esistenza, della libertà e del benessere degli individui
che appartengono ad esso.
FONDAMENTI DEL POTERE E CRITERI DI LEGITTIMITA'
La filosofia politica classica nega che la forza possa giustificare da sola la legittimità del monopolio
del potere politico. Platone (427-347 a.C.), ad esempio, nella Repubblica, nega che la giustizia sia
l'interesse del più forte. Su questa linea la filosofia politica individua sei fondamentali principi di
legittimità che derivano rispettivamente dalla volontà, dalla natura e dalla storia.
Sul piano della volontà l'esercizio del potere può essere giustificato in nome di un' investitura diretta
da parte di Dio (potere teocratico) o dall'appello alla volontà del popolo (potere carismatico). Per
quanto riguarda il criterio della natura essa può essere intesa in primo luogo forza originaria che
distingue i forti dai deboli, i sapienti dagli insipienti (Platone - Repubblica - governo dei filosofi). In
secondo luogo la natura può invece essere interpretata come ordine razionale in cui ogni individuo,
prima di accedere allo stato civile, gode di diritti inalienabili (giusnaturalismo - contrattualismo).
Infine il richiamo alla storia può essere inteso sia come forza della tradizione (storia passata) sia
come progresso verso un ordine nuovo che deve essere realizzato (Marx - dittatura del proletariato).
Nella filosofia contemporanea è rilevante la posizione di Niklas Luhmann secondo il quale nelle
società complesse la legittimità non deriva tanto dal rispetto di alcuni valori (natura, storia …)
quanto dalla corretta applicazione delle procedure istituite per produrre decisioni vincolanti
(elezioni politiche, procedimento legislativo, procedimento giudiziario). Perché ci sia legittimità i
soggetti/cittadini devono in forme diverse partecipare al procedimento.
LIMITI DEL POTERE
Il problema dei limiti del potere riguarda il rapporto tra diritto e potere, tra diritto e stato.
Il primo limite è rappresentato dal territorio. Le norme giuridiche emanate dallo stato valgono solo
nell'ambito dei suoi confini. Altro limite è quello dato dai soggetti che vivono nel territorio dello
stato nel senso che le norme giuridiche valgono solo per i cittadini di quello stato.
Kelsen indica altri due limiti: la validità temporale (una norma vale dal momento della sua
emanazione fino al momento della sua abrogazione) -la validità materiale nel senso che vi sono
materie che sono sottratte che non possono essere sottoposte ad alcuna regolamentazione (Spinoza
1670: il sovrano non ha il potere di far si che il tavolo mangi l'erba) e nel senso che vi sono materie
sottratte al potere dello stato dai suoi stessi ordinamenti e leggi (garanzie di alcuni spazi di libertà diritti civili …).
Altro tema sui limiti del potere è quello relativo alla questione se sia migliore il governo delle leggi
o quello degli uomini. Da Platone ad Aristotele fino ai giorni nostri la filosofia politica risponde a
questa domanda indicando la superiorità del governo delle leggi (Platone: "dove la legge è padrona
e i magistrati sono i suoi servi io vedo la salvezza e ogni bene che gli dei danno agli stati").
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Il primato delle leggi sul governo degli uomini comporta tuttavia un'altra questione: da dove
provengono le leggi a cui gli stessi governanti dovrebbero obbedire? A questa domanda la risposta
chiama in causa innanzitutto l'esistenza di leggi che non dipendono dai governanti, leggi derivanti
dalla setssa natura dell'uomo oppure radicate in una tradizione che il governo ha il dovere di
rispettare. Altra risposta è quella che fa riferimento a leggi emanate all'inizio da un grande
legislatore che ha dato al popolo una costituzione cui anche i futuri governanti devono attenersi.
Sempre nell'ambito dei limiti del potere politico si iscrive i tema della divisione dei poteri
(legislativo, esecutivo, giudiziario) in modo che si realizzi tra di essi una forma di reciproco
bilanciamento e controllo. "perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il
potre" (Montesquieu).
Ultimo tema - non certo in ordine di importanza - è infine quello dei diritti fondamentali dell'uomo
come il diritto alla libertà di pensiero, di fede religiosa, di associazione, di stampa e di opinione
politica riconosciuti nelle carte e nei trattati internazionali .
FORME DI GOVERNO
Le forme di governo si definiscono sulla base della struttura del potere e dei rapporti tra i vari
organi che esercitano la funzione politica.
Nella filosofia politica si afferma la distinzione di Aristotele (Politica) tra monarchia (governo di
uno solo), aristocrazia (governo elitario costituito da poche persone) e democrazia (governo dei
molti cioè del demos/popolo). Tale distinzione che si fonda sul criterio numerico è ripresa anche da
Macchiavelli che limita la sua distinzione a due forme di governo: monarchia (principato) e
repubblica che a sua volta può essere di tipo aristocratico o democratico. Montesquieu infine
distingue anch'egli tra monarchia e repubblica ma introduce anche il concetto di dispotismo
intendendo con questo il governo di uno solo "senza freni né leggi".
In epoca contemporanea Kelsen non propone una distinzione sulla base del numero dei governanti
ma sul modo in cui la costituzione regola la produzione delle leggi. In tal senso si distingue il
governo autocratico in cui le leggi sono prodotte dall'alto e quindi non dai soggetti a cui sono
destinate, dal governo democratico dove viceversa l'ordinamento giuridico è frutto di una
partecipazione dei cittadini alla sua emanazione (leggi prodotte dal basso).
La distinzione classica tra monarchia e repubblica ha tuttavia subito nel corso dello sviluppo della
storia moderna una progressiva erosione che ha reso i due concetti difficilmente distinguibili o
attribuibili in toto a una o all'altra forma di governo. Se infatti lo stato moderno nasce come
monarchia assoluta e così viene teorizzato (Hobbes), a partire dalla II Rivoluzione inglese (1688) il
peso del potere subisce una trasformazione spostandosi sempre più dal re al parlamento per cui la
monarchia perde i suoi caratteri di assolutezza divenendo progressivamente monarchia
costituzionale e parlamentare. In questa maniera le forme di governo tendono a divenire sempre di
più forme miste in parte monarchiche e in parte repubblicane. Quando Macchiavelli scriveva che
tutti gli stati sono o principati o repubbliche faceva un'affermazione che corrispondeva alla realtà
del suo tempo e distingueva quello che era realmente diverso: la monarchia di Francia dalla
repubblica di Venezia. La stessa distinzione ripetuta oggi costringe la realtà in uno schema
inadeguato se non addirittura deformante perché distingue quello che non è facilmente distinguibile:
per esempio la monarchia inglese dalla repubblica italiana (lo stesso discorso vale per altri stati
europei come la Spagna o la Svezia e la repubblica presidenziale francese).
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Sulla base di tali trasformazioni storiche pertanto oggi più che porre l'accento sulla tipologia
monarchica o repubblicana si considera il modo con cui sono distinti e attribuiti i poteri legislativo e
governativo evidenziando il diverso rapporto tra di essi indipendentemente dal fatto che il titolare
sia un re o un presidente della repubblica eletto direttamente dal popolo o dal parlamento.
Si distingue così tra governo presidenziale e governo parlamentare. Nel governo presidenziale vige
la separazione netta tra potere di governo e potere legislativo, il presidente è eletto direttamente dal
popolo e assume funzioni di governo. Il governo parlamentare invece distingue tra capo dello stato
e capo del governo. Il capo dello stato è eletto dal parlamento (elezione indiretta) e il capo del
governo assume la responsabilità nei confronti del parlamento che esprime il suo assenso o dissenso
con il voto di fiducia.
Altro elemento che concorre fortemente a determinare le forme di governo è infine il sistema dei
partiti. Con i processi di democratizzazione (suffragio universale) e con l'avvento della società di
massa tali organismi di rappresentanza hanno assunto sempre più forza e influenza. Oggi nessuna
tipologia di governo può fare a meno di tener conto del modo in cui sono distinte e collocate le
forze politiche da cui il governo trae vita.
Da tale punto di vista si può pertanto distinguere tra bipartitismo in cui le forze politiche sono
raccolte all'interno di due grandi schieramenti che si contendono il primato della rappresentanza (es.
U.S.A.: repubblicani/democratici - Inghilterra: laburisti/conservatori), multipartitismo con la
presenza in parlamento di più forze politiche che possono coalizzarsi tra di loro per formare un
governo sulla base della maggioranza relativa raccolta da uno degli schieramenti (l'Italia è stata ed è
tuttora nonostante i processi di trasformazione che vorrebbero instaurare un sistema bipartitico un
sistema di tipo multipartitico) e monopartitismo in cui il massimo del potere è concentrato nel
comitato del partito e nel suo segretario (è il caso - ad esempio - degli ex paesi socialisti e in
particolare dell' ex Unione Sovietica). La distinzione tra democrazia e dispotismo è in questo senso
vista come una distinzione tra sistema bi o multipartitico e sistema monopartitico.
FORME DI STATO
Posta la complessità della materia si possono evidenziare due criteri di distinzione delle diverse
forme di stato. Il primo fa riferimento all'evoluzione sul piano storico delle varie forme statuali, il
secondo prende in considerazione la maggiore o minore influenza che lo stato viene ad esercitare
sulla società.
Dal punto di vista storico si suole distinguere tra Stato feudale, Stato dei ceti, Stato assoluto e Stato
rappresentativo. Lo stato feudale, tipico dell'età medioevale, ha come sua caratteristica la
frantumazione del potere centrale in piccoli aggregati politico sociali. Il concetto di Stato dei ceti è
stato elaborato da Max Weber che intende con tale termine indicare quella organizzazione politica
dove si formano organi collegiali che riuniscono individui i quali condividono l'identica posizione
sociale. Esempi storici di Stati dei ceti sono: l'Inghilterra, dove la Camera dei lords viene a
rappresentare il clero e la nobiltà, mentre la Camera dei comuni assume la rappresentanza della
classe borghese e la Francia prerivoluzionaria che configura accanto al potere reale la presenza di
tre corpi distinti rappresentanti rispettivamente la nobiltà, il clero e la borghesia. Il Compito dello
Stato dei ceti è sempre stato quello di rappresentare particolari interessi di categoria e di fungere
da contraltare al potere del principe.
La formazione dello Stato assoluto avviene, in epoca moderna, attraverso un duplice processo di
concentrazione e di accentramento del potere. Tuttavia proprio l'esistenza dello Stato dei ceti,
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presente in ogni forma di monarchia, ha fatto si che lo stato assoluto non sia mai divenuto
storicamente uno stato totale o totalitario.
Per quanto riguarda infine lo stato rappresentativo il suo avvento si ha a partire dalla seconda
rivoluzione inglese (1688) che istituisce la monarchia parlamentare. Nel resto d'Europa lo stato
rappresentativo si afferma progressivamente dopo la rivoluzione francese del 1789.
Tra stato dei ceti e stato assoluto da una parte e stato rappresentativo dall'altra c'è la scoperta e
l'affermazione dei diritti naturali dell'individuo. Tale scoperta rovescia radicalmente il rapporto tra
individuo e stato. L'individuo con i suoi imprescindibili diritti naturali viene prima dello stato. In
questo modo non è l'individuo ad esistere per lo stato ma, viceversa, lo stato per l'individuo.
Lo sviluppo storico dello stato rappresentativo ha anche comportato lo sviluppo di forme di
rappresentanza sempre più articolate e organizzate come appunto quelle dei partiti. Con l'avvento
dei partiti la rappresentanza è diventata indiretta. Mentre infatti in un sistema politico a suffragio
ristretto gli individui scelgono un loro rappresentante e successivamente, nel parlamento, vengono a
formarsi gli schieramenti; con il suffragio universale le formazioni partitiche si costituiscono fuori
dal parlamento e i cittadini sono chiamati a votare non tanto le persone ma gli schieramentipolitico
partitici cui le persone fanno riferimento.
Tale alterazione della rappresentanza (da diretta in indiretta) ha trasformato lo stato rappresentativo
in stato dei partiti: i soggetti politici rilevanti nonsono più i singoli ma i gruppi organizzati sulla
base di interessi di classe, di posizioni ideologiche, di orientamenti in campo economico, sociale e
così via.
Dal punto di vista della maggiore o minore estensione/influenza del potere dello stato sulla società
va prima di tutto chiarito il concetto di stato totale o totalitario. Con tale termine viene ad intendersi
quello stato che infatti estende al massimo il suo controllo sulla vita sociale non accettando alcuna
forma di contropotere (come la monarchia assoluta). Quindi nello stato totalitario tutta lo società è,
in ultima analisi, risolta nello stato che riunisce in se tutti i poteri e quindi, oltre a quello politico,
anche quello ideologico ed economico.
La categoria dello stato totale porta ad introdurre un nuovo concetto utile alla definizione delle
forme di stato: il concetto di non stato. Si può dire infatti che lo stato totale è quello stato che non dà
alcuno spazio al non stato.
Lo stato totalitario, in questo senso, rappresenta un concetto limite perché sempre lo stato si è
dovuto confrontare con il non stato nella duplice dimensione che esso assume sia come sfera
religiosa, sia come sfera economica.
I rapporti tra stato e non stato variano a seconda della maggiore o minore espansione del primo sul
secondo. Per quanto riguarda la sfera religiosa distingueremo allora lo stato confessionale in cui una
particolare confessione di fede è riconosciuta come religione di stato dallo stato laico che assume
una posizione di equidistanza/tolleranza nei confronti di tutte le istituzioni religiose. Nella sfera
economica invece distinguiamo lo stato astensionista dallo stato interventista a seconda della
maggiore o minore influenza che vi si esercita nei confronti del potere economico.
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