Gentilezza e altruismo non sono esclusive della nostra

evoluzione
L’evoluzione della morale
di Telmo Pievani
Gentilezza e altruismo non sono
esclusive della nostra specie, ma si
manifestano anche in altri
primati, suggerendo un’evoluzione
biologica della moralità
P
er molti studiosi, qualsiasi tentativo di ricostruire l’evoluzione biologica del senso
morale è destinato al fallimento. Essi ritengono infatti che la natura non abbia alcunché da dire rispetto a facoltà umane speciali che sono strettamente culturali, come il
giudizio morale e i valori appresi nel contesto sociale. Anzi, proprio il comportamento etico si oppone alla brutale cogenza degli istinti e ci porta definitivamente fuori,
o al di sopra, della natura.
Questo argomento per «discontinuità» ha illustri origini,
se pensiamo che fu formulato dal co-scopritore della selezione naturale Alfred Russel Wallace, convinto che i meccanismi
evolutivi non potessero sfiorare le altezze dello spirito umano. Le debolezze di questa impostazione sono speculari a quelle
dei suoi oppositori più agguerriti: gli evoluzionisti «tutto geni e
competizione». Costoro non solo sono convinti che una naturalizzazione dell’etica sia possibile, ma propongono di realizzarla
con l’applicazione di una versione ipersemplificata della teoria
evoluzionistica, in cui la storia naturale è vista come un’arena
gladiatoria di egoismi genetici e conflitti pervasivi. Il successo
popolare di questa letteratura fa dimenticare che a volte si sofferma sulle cause prossime di un comportamento, in termini di
neurofisiologia o di dosaggi ormonali, e non sulle sue cause remote, cioè quelle realmente evoluzionistiche. Le «storie proprio
così» ambientate nella savana sembrano plausibili, ma nascondono il loro carattere spesso speculativo e rischiano di confermare gli stereotipi sociali.
I culturalisti accusano gli avversari di «riduzionismo». Gli
evoluzionisti tutto geni e competizione ribattono accusando i
primi di «antiscientismo». Non sembra però una controversia
particolarmente feconda, e nemmeno aggiornata. Qui esploreremo un’ipotesi al contempo continuista e pluralista.
La soluzione pluralista darwiniana
Il primo ad abbozzarla fu Charles Darwin, con gli strumenti che l’epoca gli offriva e con l’idea che il senso morale nascesse dalla socialità. Il naturalista inglese sapeva che la selezione
naturale, per funzionare, ha bisogno di due clausole restrittive:
un processo continuativo e cieco di trasformazione delle popolazioni biologiche attraverso la sopravvivenza differenziale degli organismi; un beneficio immediato, in termini di sopravvivenza e di possibilità di riproduzione, per l’individuo portatore
di una variante favorevole. La selezione non può prevedere favori di una specie verso un’altra, né individui che rinuncino
ai loro interessi. Come spiegare, dunque, l’emergenza in natura di diffusi comportamenti prosociali, cooperativi e persino altruistici?
L’altruismo come egoismo sofisticato
Con la teoria genetica della selezione naturale, il paradosso
dell’altruismo ha assunto un aspetto più radicale, a causa del fatto
che la fitness quantificabile di un individuo sembra dover precedere qualsiasi vantaggio incidentale di specie, famiglie e «tribù». Gli
Telmo Pievani è professore associato di filosofia
della scienza all’Università di Milano-Bicocca e socio
corrispondente dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti.
Autore di numerose pubblicazioni, fra cui: La vita inaspettata
(Cortina, 2011). Direttore del portale Pikaia, è membro
dell’editorial board di «Evolution: Education & Outreach».
Abbracci tra amici. Momento di socialità per bonobo del Lola Ya
Bonobo (il paradiso dei bonobo, in lingua locale), nella Repubblica
Democratica del Congo. Comportamenti di questo tipo non sono
esclusivi della nostra specie, sono diffusi anche negli altri primati, e
permettono di studiare l’evoluzione biologica del senso morale.
unici comportamenti «prosociali» ammessi sarebbero l’accoppiamento sessuale e le cure parentali. Tuttavia vediamo chiaramente che diversi tratti neurofisiologici e processi ormonali rinforzano i comportamenti prosociali in molte specie. Quali sono le loro
cause remote?
Una prima risposta recita che l’altruismo, forse, è un’illusione.
Nel 1955 J.B.S. Haldane calcolò costi e benefici degli atti altruistici in una popolazione i cui membri siano strettamente imparentati. Se la generosità agisce in favore di parenti, la fitness genetica
dell’altruista (anche se non la sua fitness riproduttiva diretta) potrebbe crescere, perché l’individuo perde i suoi geni ma favorisce i
geni che condivide con i suoi parenti. La selezione naturale favorirà però questi comportamenti solo in piccole popolazioni di individui strettamente imparentati fra loro.
Il grande biologo evoluzionista William D. Hamilton formalizzò
questo modello nel 1962 e nel 1964, includendo una possibile soluzione per l’iniziale diffusione del «gene dell’altruismo» in popolazioni di egoisti, al fine di spiegare la socialità degli imenotteri. L’i-
In breve
Nel dibattito sulla possibilità
di ricostruire l’evoluzione biologica
del senso morale si confrontano due
schieramenti.
Da una parte i culturalisti, per i
66 Le Scienze
quali la natura non ha nulla da dire
riguardo a facoltà culturali come il
giudizio morale. Dall’altra,
evoluzionisti per i quali è possibile
una naturalizzazione dell’etica
dea centrale, poi raffinata da George Price, è che il comportamento
altruistico sia una buona strategia per l’individuo ogni volta che i
membri del gruppo attorno siano strettamente imparentati dal punto di vista genetico, indifferentemente dal loro comportamento. Se
sono sufficientemente imparentati con un altruista, avranno alleli
per l’altruismo in qualche percentuale, dunque l’altruismo del singolo avrà un «effetto inclusivo di fitness» sugli altri nel suo ambiente sociale. Come risultato, gli alleli dell’altruismo si diffonderanno. L’individuo conferisce la sua fitness ai parenti, producendo una
più grande «fitness inclusiva», che è il contributo alla parte di alleli condivisi con altri, cioè in pratica una misura della fitness dei parenti (e non semplicemente la somma della propria fitness individuale diretta e di quella dei parenti).
Si tratta della «selezione di parentela», o kin selection, secondo
la terminologia introdotta da John Maynard Smith. L’altruismo sarebbe insomma un calcolo inconscio dell’interesse genetico individuale, ottenuto attraverso il nepotismo. Tuttavia, la possibilità di
spiegarlo senza un’attenta considerazione della struttura popolazionale di una specie (per esempio la sua divisione in tante piccole popolazioni isolate, come aveva proposto Sewall Wright) rimase controversa.
L’altruismo come egoismo di gruppo
applicando una versione semplificata
della teoria dell’evoluzione, tutta geni
e competizione.
Secondo l’ipotesi pluralista,
sostenuta in questo articolo,
l’emergere di comportamenti
condivisi improntati alla moralità
deriva dalla combinazione dell’azione
di geni, ormoni, elaborazioni culturali
e responsabilità individuali.
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in dife sa del gruppo
Un altruismo
«localistico»
DLILLC/Corbis (pagine precedenti); Anup Shah/Corbis
Una parte di questi si può interpretare alla luce della selezione,
in quanto offrono vantaggi al contempo individuali e di gruppo,
come nei casi di cooperazione nella caccia e di alleanze difensive.
È invece più difficile spiegare l’origine di comportamenti sociali
all’apparenza puramente altruistici, perché producono simultaneamente uno svantaggio per l’altruista e un vantaggio indiretto per
l’egoista, che può approfittare delle azioni degli altruisti attorno a
sé senza costi per se stesso. Perché i cosiddetti free-rider non prevalgono immediatamente, interrompendo ogni esperimento di cooperazione sociale incipiente?
Il paradosso della gradualità di comparsa e della funzionalità
dell’altruismo sembra aver bisogno di una soluzione a più livelli.
In L’origine dell’uomo, pubblicato nel 1871, Darwin scrive che questa difficoltà, sebbene appaia insuperabile, «si riduce o, come credo, scompare, quando si ricordi che la selezione può applicarsi alla
famiglia, così come all’individuo». Ma come può la selezione essere applicata a famiglie o all’associazione fra individui che rinunciano ad alcune loro prerogative? La nozione centrale per Darwin
è quella di istinto sociale, che si sviluppa per selezione naturale: il
fondamento delle qualità morali e sociali risiede negli istinti sociali più raffinati, inclusi i vincoli familiari, l’«amore» e le emozioni di «simpatia». Tuttavia questi istinti non si estendono a tutti gli
individui della specie, ma solo a quelli che fanno parte della stessa comunità.
In particolare, secondo Darwin la specie umana manifesta pochi, deboli e non speciali istinti sociali (radicati nel principio più
generale di ricerca della massima felicità possibile), ma può esprimere i desideri attraverso le parole e il ragionamento, non più vincolata com’è da impulsi istintuali cogenti ma ben più influenzata
dall’approvazione o disapprovazione sociale dei propri simili.
È così che Darwin individua il potere adattativo della socialità
non già nelle relazioni fra individui soltanto, ma anche fra gruppi
e «tribù» umane. Infatti, benché «un alto livello di moralità non dia
che un leggero o nessun vantaggio a ciascun individuo e ai suoi figli», tuttavia «un aumento di numero degli uomini ben dotati e un
progresso nel livello della moralità recherà certamente un immenso vantaggio a una tribù nei riguardi di un’altra». Le tribù di altruisti sarebbero cioè più equipaggiate nella lotta per l’esistenza. Si
tratta ancora di selezione naturale, dopo tutto.
Così al termine di L’origine dell’uomo Darwin scriverà che nel
momento in cui la socialità istintuale, lasciataci dall’evoluzione,
si trasforma nella «parte più elevata della natura umana», allora
la lotta per l’esistenza e la selezione naturale perdono l’esclusività della loro efficacia per fare posto anche all’effetto dell’abitudine, alle facoltà raziocinanti, all’istruzione, alla religione. Natura e
cultura, insomma.
Nei modelli più recenti sull’evoluzione dell’altruismo il criterio selettivo è
nell’efficienza raggiunta nella lotta per la sopravvivenza fra gruppi. Sia la
kin selection sia la versione debole di selezione di gruppo assumono che
il conflitto fra gruppi sia l’espressione di specifici comportamenti aggressivi verso gli «stranieri» e i non parenti. Come ha osservato nel 2008
Samuel Bowles su «Nature», presentando i risultati di alcune simulazioni di teoria dei giochi, «il conflitto è la levatrice dell’altruismo», «la generosità e la solidarietà verso i propri simili possono essere emerse solo in
combinazione con l’ostilità verso gli esterni al gruppo».
Questa ambiguità cruciale sarebbe storicamente radicata nella socialità animale e umana. Altruismo e localismo della difesa del proprio gruppo potrebbero aver agito insieme nell’evoluzione delle specie più sociali, al livello di selezione fra gruppi che competono per le risorse, con
l’effetto di conferire una fitness riproduttiva migliore (specialmente in
periodi di stress ambientale intenso) ai gruppi dotati del più efficiente
«altruismo localistico». Come aveva anticipato Darwin, la cooperazione
all’interno del gruppo sarebbe l’altro lato della medaglia dell’aggressività fra membri di gruppi diversi, essendosi entrambe evolute per una selezione di tipo sociale.
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Una seconda risposta recita che l’altruismo, forse, è dovuto a
un compromesso tra esigenze individuali e di gruppo. Quando nel
1964 Maynard Smith respinse la versione forte dell’ipotesi della
«selezione intergruppale» – proposta l’anno prima da Vero C. Wynne-Edwards per spiegare l’evoluzione dei sistemi sociali come unità
autoregolate – un’interessante versione debole della «selezione fra
gruppi» fece il suo reingresso nel dibattito e rinfrescò la vecchia intuizione darwiniana. Secondo questa teoria, un gene vantaggioso
per il gruppo potrebbe avere successo anche se fosse svantaggioso
per l’individuo in tutti i sensi. Una popolazione di altruisti avrebbe infatti una sua fitness indipendente, cosicché la crescita interna
di sottogruppi egoisti verrebbe controbilanciata dall’espansione del
gruppo dovuta alla sua coesione cooperativa.
Secondo Maynard Smith, le strategie di aggressione ed espansione e quelle antagoniste di cooperazione e regolazione sono mescolate in ogni popolazione di generazione in generazione, in una
dinamica di equilibrio che dipende dalla frequenza relativa nella
popolazione di una strategia rispetto all’altra in un dato momento. C’è dunque una pluralità di «strategie evolutivamente stabili»,
con un intreccio di variabili che svolgono il loro ruolo nei comportamenti animali, anche se in Maynard Smith, come in Robert Trivers, si tratta di geni costantemente in conflitto fra loro che «usano»
differenti strategie dei loro portatori, scontrandosi anche all’interno
dei genomi e durante il processo di fecondazione, insinuandosi persino nelle discrepanze di interessi fra genitori e figli.
Eppure Maynard Smith notava che l’altruismo rimaneva la
grande questione da dirimere per un approccio basato sulla massimizzazione delle performance individuali. Così nei suoi modelli successivi sottolineò un tipo di selezione di parentela in cui molti gruppi di altruisti e di egoisti in competizione erano coinvolti
nell’evoluzione di forme apparenti (anche se marginali) di altruismo. Sembra dunque, come notarono Elliott Sober e David Sloan
Wilson nel libro Unto Others del 1998, che una focalizzazione sui
«gruppi» come entità indipendenti sia necessaria, anche nei modelli
di comportamento sociale basati sulla kin selection.
La competizione fra gruppi di cooperatori e di egoisti produce
una sopravvivenza differenziale (dei gruppi, e dunque degli indi-
Le Scienze 67
i l c o n c e t t o d i e x a p tat i o n
vidui che li compongono). I gruppi in cui l’altruismo è dominante sono più efficienti e coesi. Anche nei modelli ultimi di Hamilton, quando la competizione fra gruppi diminuisce, la frequenza di
alleli svantaggiosi per gli individui tende a ridursi: l’altruismo ha
quindi bisogno di un certo grado di competizione fra gruppi.
Bricolage darwiniano
La selezione naturale non plasma gli organismi a piacimento, ma a partire dal «materiale» disponibile, cercando di volta in volta compromessi con i
vincoli strutturali interni che la storia ha sedimentato. In questo gioco darwiniano di «espedienti» fra strutture e funzioni non è detto che l’utilità attuale di un tratto, e di un comportamento, coincida con la sua origine storica:
pensare che le ali si siano evolute «per» volare sarebbe un errore, tipico di
una mente come la nostra attratta da spiegazioni teleologiche.
Qualcosa di simile potrebbe essere successo nell’evoluzione dei comportamenti animali prosociali. Gli attaccamenti parentali e filiali si sarebbero
«estesi» e riadattati più volte fino a trasformarsi in più generali sentimenti
Gradi di socialità
Due indizi spiccano nelle ricerche più recenti. La capacità di
leggere nella mente dell’altro e la funzione della cooperazione come difesa di gruppo contro i predatori sono due ponti tra i comportamenti sociali osservati fra i primati attuali e i comportamenti
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sociali presenti nei gruppi di ominini nostri antenati e cugini. Più
che una storia epica di feroci predatori, la nostra vicenda evolutiva è stata infatti per lo più una sequenza di tentativi di sfuggire alla predazione da parte di felini e altri abili cacciatori. Che il senso
morale possa essere un meccanismo difensivo emerso in una specie divisa in piccoli gruppi è anche il convincimento autorevole
dell’antropologo Christopher Boehm, autore del recente Moral Origins (2012).
Si accumulano le prove di animali sociali che reagiscono alle
emozioni degli altri, non solo fra membri della stessa specie. Si co-
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Manoj Shah/Getty Images
Una strategia difensiva
Aggressione e collaborazione. Espressione aggressiva
di scimpanzè del Gombe National Park, in Tanzania. A fronte, due
scimpanzè collaborano nella caccia alle termiti.
Cyril Ruoso/Minden Pictures
Quando si cerca di spiegare la biologia della socialità in termini di cause remote emerge dunque un’inaspettata continuità teorica
fra i modelli basati sulla fitness inclusiva e quelli basati sulla selezione di gruppo, entrambi sottomessi a speciali condizioni su struttura e disposizione fisica delle popolazioni. Edward O. Wilson, allontanandosi dalle sue prime formulazioni, e il collega David Sloan
Wilson hanno proposto nel 2007 una teoria in cui la selezione agirebbe «a livelli multipli» e in differenti «unità» di evoluzione.
Ora, questi due modelli integrati si applicano solo a forme di altruismo reciproco o di reciprocità indiretta (in cui la cooperazione è premiata da una ricompensa sociale, immediata o differita)
oppure anche a forme più elaborate di altruismo, quando l’atto di
generosità è espresso in un contesto in cui non ci si può attendere una sicura gratificazione? Magari fra non parenti, o persino fra
individui di specie diverse. E poi, come si trasforma l’altruismo in
specie dotate di motivazioni e di apprendimento sociale?
Di fronte a queste domande, in una parte della letteratura compare un tipico richiamo alla «discontinuità» della socialità umana,
una sorta di gap concettuale basato sull’idea che nella specie umana, l’animale culturale per eccellenza, tutto cambi. In effetti le cautele sono d’obbligo. I primati di oggi non sono i nostri diretti antenati, ma cugini per gradi differenti, ramoscelli con milioni di anni
di evoluzione separata da noi. Chiaramente siamo una specie unica: non solo abbiamo idee astratte sull’altruismo, sulla giustizia e
sulla dignità umana – fino al punto di coltivare il sogno emancipatore di diritti universali – ma abbiamo anche la prerogativa di essere malvagi in modo gratuito e pianificato su larga scala.
Eppure, una mera rivendicazione di discontinuità non aiuta
molto nella comprensione. Meglio analizzare le casistiche e valutare quali fattori, plurali, sono in grado di rendere conto dei differenti comportamenti prosociali. Il pacchetto esplicativo costituito
da kin selection, selezione sessuale, giochi cooperativi e punizioni
per i free-rider sembra un buon punto di partenza per spiegare fenomeni come l’eusocialità negli insetti, la cooperazione opportunistica (per esempio nella caccia), il mutualismo, il parassitismo, il
commensalismo, il reciproco altruismo fra non parenti, e altri casi
di convergenza ed equilibrio fra interessi genetici diversi.
Che dire invece della gamma di fenomeni che comprende la reciprocità fortemente indiretta, i comportamenti sessuali senza funzioni riproduttive, l’altruismo fra estranei non imparentati? Qualcosa qui sembra spezzare la logica selettiva dello scambio e del
calcolo immediato di costi-benefici. E dato che le casistiche di cooperazione stanno crescendo in frequenza e a tutti i livelli del mondo biologico, come nota fra gli altri Martin A. Nowak in Supercooperatori, del 2011, per non incappare in riedizioni di argomenti
«per discontinuità» abbiamo bisogno di nuove spiegazioni evoluzionistiche soddisfacenti.
prosociali e protomorali, secondo una ricostruzione già di Darwin che sembra confermata dagli studi sul ruolo evolutivo dell’ormone ossitocina.
Un exaptation è l’effetto di qualcosa che si è evoluto per altre ragioni funzionali e che è poi convertito a nuovi usi. Non inficia l’esistenza dei normali adattamenti funzionali diretti, ma integra la tassonomia dei possibili processi che conducono a strutture (pur sempre imperfette) dotate di fitness. I
comportamenti morali potrebbero essere emersi come effetti collaterali di
vincoli adattativi più profondi (dai quali dipende il nostro approccio emotivo
ai dilemmi morali) ed essere stati poi ex-attati nel quadro di pressioni sociali
mutate e di nicchie ecologiche divenute sempre più culturali.
noscono casi, ancora dibattuti, di repulsione alle sofferenze altrui
che si spinge fino al sacrificio di sé (in particolare, al digiuno) pur
di non arrecare dolore all’altro. È documentata la possibilità di altruismo spontaneo e di assistenza incondizionata fra gli scimpanzè.
Dal 1996 si osservano situazioni in cui dopo un conflitto alcuni
membri del gruppo consolano lo sconfitto, anziché adulare il vincitore. Allo stesso modo, sappiamo che sia in alcuni cercopitechi
sia negli scimpanzè esiste la gratitudine a medio e lungo termine
per il grooming ricevuto, che implica un altruismo reciproco e una
notevole memoria relazionale. Altri studiosi hanno addirittura ipo-
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tizzato in alcuni cebi la presenza di un primordiale senso di giustizia, o quanto meno di una reazione contro l’iniquità in scambi che
non avevano un’aspettativa di ricompensa. Fiducia, reciprocità, lealtà e persino una «giustizia selvaggia»: da questa comprensione
delle intenzioni e delle finalità altrui sembrano emergere le condizioni di possibilità del senso morale. Non quindi il giudizio morale
in sé, ma la capacità di formularlo.
Siamo molto oltre l’aneddotica di altruismo eroico fra mammiferi, presente anche in L’origine dell’uomo di Darwin, e la frequenza dei casi sembra escludere il rischio di un’antropomorfizzazione
Le Scienze 69
il convegno a erice
The Evolution of Morality
del comportamento animale. Cooperazione e altruismo non sembrano essere contingenze marginali «tollerate» dalla selezione, ma
ciò detto non significa certo che diventino la norma, visto che sono altrettanto documentate – in quelle stesse specie – le capacità di violenza e di aggressività, anche organizzata, sia fra singoli sia fra gruppi.
Costruire quindi una psicologia evoluzionistica alternativa basata su accezioni edificanti di cooperazione e di altruismo sarebbe un
modo per perpetuare la fallacia naturalistica di chi cerca nell’essere
(in una sorta di «biologia della generosità») un fondamento diretto
del «dover essere». E tuttavia tra essere e dover essere, come tra natura e cultura, una contiguità deve pur permanere, se non vogliamo
rassegnarci al mistero del «rubicone umano». Né la pace né la guerra sono destini biologici necessari inscritti nei geni una volta per
tutte: sono invenzioni sociali, recenti ma rese possibili dai nostri
ambigui precursori naturali (si veda il box a p. 67).
Un’ipotesi «exattativa»
È ragionevole supporre che, in tutti i frangenti in cui si assume
che il comportamento cooperativo offra un beneficio individuale immediato (riducendo lo stress, promuovendo la fiducia sociale), ciò sia coinciso nella storia naturale con un beneficio evoluzionistico per il singolo, per i suoi figli e parenti, e poi per il gruppo.
Lo stesso vale per i comportamenti coordinati e la formazione di
alleanze nel raggiungere un obiettivo: le azioni collettive sono
comportamenti a basso costo, con ritorni individuali oltre che di
gruppo molto alti, e dunque sono «sperimentabili» all’inizio senza troppi rischi.
Se è così, però, significa che la logica stessa delle spiegazioni
evoluzionistiche deve allargarsi: non è solo materia di organismirobot che trasportano passivamente i loro pool genetici, ma anche
di economia della sopravvivenza, di benefici fisici ed emotivi immediati, di risposte alle condizioni contingenti del contesto sociale, di plasticità comportamentale, di flessibilità degli schemi di interazione e di effetti collaterali fecondi. Si tratta in sostanza di una
gerarchia a più livelli di fattori micro- e macroevolutivi, che coinvolgono sia la trasmissione del materiale genetico sia gli scambi ecologici ed economici delle popolazioni con le loro nicchie.
Abbiamo cioè bisogno di una teoria evoluzionistica pluralista, in
cui pattern diversi (per esempio kin selection e group selection) si
combinano di caso in caso.
Inoltre, come fa notare il filosofo Richard Joyce in The Evolution
of Morality (2006), un conto è sostenere che i nostri istinti animali,
o le nostre attitudini emozionali profonde, sono vestigia di un lontano passato evolutivo, inerzie passive che ci portiamo dietro; altro
conto è dire che sono adattamenti ancora attivi; altro conto ancora
70 Le Scienze
le possibilità di naturalizzazione dell’etica; Patricia Churchland sulla neurobiologia del senso morale; Liane Young su mente e moralità; Oren Harman
sulla storia del dibattito sull’altruismo in biologia; Ara Norenzayan su comportamento morale e credenze in entità sovrannaturali; Darcia Narvaez su
senso morale darwiniano ed epigenetica; Christopher Boehm sulla coscienza e il problema dei free-rider; Richard Joyce sulla moralità umana come
adattamento o «pennacchio» exattativo; Simon Blackburn su fatti e valori.
Per il programma completo: http://www.evolutionofmorality.it .
è ipotizzare invece che siano «precursori naturali» ancora influenti, per quanto inseriti in un nuovo contesto e a più riprese «cooptati» per nuovi usi in nicchie ecologiche inedite.
Con la nozione di cooptazione funzionale o exaptation (si veda il box a p. 69) possiamo interpretare le trasmutazioni evolutive come eventi reali e dirimenti, i quali però non implicano alcuna
«discontinuità». Evitiamo così di ricorrere a ipotesi in cui l’evoluzione culturale appare come qualcosa di completamente nuovo e
«disobbediente» rispetto agli interessi biologici. È un manicheismo
con nobili origini, se pensiamo che anche Thomas H. Huxley descriveva l’avvento delle «squisite facoltà» sociali e morali del ben
educato uomo vittoriano con la metafora del giardiniere che addomestica e disbosca una giungla selvaggia. Darwin contrapponeva
a questa visione la sfida di pensare insieme la stretta continuità fra
mente e natura, da una parte, e la capacità dell’evoluzione di produrre innovazioni formidabili dall’altra.
La cooperazione e l’altruismo puro nella specie umana potrebbero aver dunque trovato nella storia naturale antichi precursori in
caratteristiche come la lettura della mente altrui, il rifiuto della sofferenza palese e la reciprocità sociale, emerse da processi di selezione di gruppo e di parentela in popolazioni suddivise in gruppi (localisticamente altruistici). Questi vincoli potrebbero poi essere stati
trattenuti in varie specie di ominini come meccanismi anti-predazione, in tribù di bipedi raccoglitori e cacciatori opportunisti ancora
soggette a intensa predazione, con una forte selezione sociale contro i free-rider. Successivamente, queste attitudini radicate potrebbero essere state ex-attate in diversi frangenti: prima nella transizione verso pratiche meglio articolate di caccia in gruppo, nelle
specie più recenti del genere Homo; poi nella transizione paleolitica che porta a H. sapiens cognitivamente moderno. Nessun mitico «ambiente adattativo ancestrale», quindi, ma una successione di
transizioni in nicchie (ambientali e sociali) mutevoli.
Si tratterebbe insomma di un exaptation dell’altruismo e della
socialità umana (ma con il lascito ambiguo della conflittualità fra
gruppi) a partire da un adattamento difensivo, fino a un modello di organizzazione sociale di successo, con divisione del lavoro
e nuove forme di addomesticamento degli ecosistemi. La minaccia
della predazione, del resto, rappresenta una forte pressione selettiva a favore della cooperazione e dell’altruismo in molti mammiferi, con sanzioni sociali per il singolo che non aderisce (la nascita
della «vergogna», come ha scritto Richard Joyce).
Attraverso ripetuti exaptation in transizioni successive, questi
comportamenti mantennero le loro relazioni, contraddittorie, con
i vecchi precursori naturali: così, osservando diversi animali a noi
imparentati (il gesto di solidarietà di uno scimpanzè verso il compagno, e poi il suo brandire il bastone contro il cucciolo di un ne-
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Parenti vicini. La nostra specie e quella degli scimpanzè condividono quasi il 99 per cento del DNA, caratteristica che rende questi primati i
parenti viventi più prossimi agli esseri umani. Quindi comportamenti quali cooperazione e altruismo potrebbero avere antichi precursori naturali.
Brian Smith/Corbis
Dal 18 al 22 giugno 2012 si terrà a Erice, presso il Centro Ettore Majorana
per la cultura scientifica e la Scuola internazionale di etologia, il convegno
The Evolution of Morality. The Biology and Philosophy of Human Conscience, diretto da Frans de Waal, Stefano Parmigiani e Telmo Pievani.
Si discuterà di evoluzione del senso morale con il contributo di alcuni fra i
maggiori esperti mondiali, unendo biologia evoluzionistica, etologia, antropologia, neuroscienze, psicologia e filosofia. Tra gli interventi: Frans de Waal
sui mattoni primatologici della psicologia morale umana; Philip Kitcher sul-
mico) ci sembra di ascoltare l’eco di queste somiglianze, e rimaniamo turbati anche quando quelle che sembrano attitudini istintuali
ed emotive profonde irrompono nei comportamenti umani in contesti culturali che non hanno quasi più nulla a che vedere con la
loro storia evolutiva.
Capire l’evoluzione biologica del senso morale non significa naturalizzare in modo ingenuo i giudizi morali. È vano cercare direttamente nella natura un fondamento per le norme morali e
un consenso su ciò che è bene o male, dato che il comportamento animale ci restituisce sia una radicale ambiguità tra violenza
ed empatia, sia un’esuberante diversità di comportamenti possibili. Non vi è però alcuna discontinuità con quel mondo, dal quale nasciamo e dentro il quale siamo diventati una specie unica a
modo nostro. L’inedito intreccio fra precursori naturali ed evoluzione culturale fa sì che oggi la preferenza etica per la costruzione
di comportamenti condivisi improntati alla moralità derivi da un
combinato composto di geni, ormoni, elaborazioni culturali relative a una data società e responsabilità individuali.
Quindi il pluralismo teorico di Darwin è tutto sommato ancora un buon viatico per studiare l’unicità e la fallibilità dei comportamenti sociali e morali dell’ultimo rappresentante rimasto del genere Homo. I culturalisti non saranno soddisfatti da queste ipotesi,
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perché prevedono una stretta continuità evolutiva darwiniana
nella spiegazione dell’emergenza dei presupposti del senso morale. Non lo saranno neppure gli evoluzionisti «tutto geni e competizione», perché qui viene applicata una versione aggiornata della
teoria evoluzionistica neodarwiniana, con una pluralità di livelli e di fattori (biologici e culturali) che interagiscono fra loro. Forse
anche in questo caso la natura si rivelerà più fantasiosa delle nostre controversie.
n
per approfondire
Moral Origins: The Evolution of Virtue, Altruism, and Shame. Boehm C., Basic
Books, New York, 2012.
Neurobiologia della morale. Churchland P.S., Raffaello Cortina, Milano, 2012.
Primati e filosofi. De Waal F., Garzanti, Milano, 2008.
The Evolution of Morality. Joyce R., MIT Press, Cambridge, 2006.
Supercooperatori. Nowak M.A. (con Highfield R.), Codice Edizioni, Torino, 2012.
Born to cooperate? Altruism as exaptation and the evolution of human sociality.
Pievani T., in Origins of Cooperation and Altruism, Sussman R.W. e Cloninger C.R. (a
cura), pp. 41-61, Springer, New York, 2011.
Due eccellenti ricostruzioni dei dibattiti su altruismo e senso morale: Evolutionary
Restraints. The contentious history of group selection. Borrello M.E., The
University of Chicago Press, Chicago, 2011; The Price of Altruism. Harman O.,
Norton, New York, 2010.
Le Scienze 71