L`EREDITÀ SPIRITUALE DEL BUDDHISMO TRA INDIA, TIBET E

L'EREDITÀ SPIRITUALE DEL BUDDHISMO
TRA INDIA, TIBET E OCCIDENTE
di Michele Carmine Minutiello
Si sa che il buddhismo ha avuto un destino alquanto particolare: quasi estintosi nella sua terra di origine,
l'India (dove si parla tuttavia di un revival moderno), come religione a carattere universalistico ha potuto
diffondersi in molti paesi dell'Asia centrale e orientale, giungendo poi a registrare, soprattutto negli ultimi decenni,
interesse e adesione crescenti anche in Occidente.
Naturalmente in questo processo storico di diffusione ed espansione il buddhismo, con lo spirito di
tolleranza e l'assenza di dogmatismo che lo contraddistinguono, si è calato nelle realtà umane e culturali locali
assumendo «colorazioni» particolari che ne hanno fatto un fenomeno complesso e multiforme, tanto che
parliamo abitualmente di buddhismo cinese, giapponese, tibetano, theravada, zen, vajrayana ecc. È anche
naturale che in 2500 anni di storia il messaggio del Buddha sia stato sviluppato dai suoi seguaci, approfondito da
diversi punti di vista, applicato secondo modalità anche differenti, evolvendosi quindi in varie linee di pensiero
e di pratica. Un movimento spirituale che, in 2500 anni, fosse rimasto fermo e sempre uguale a se stesso sarebbe
divenuto lettera morta, acqua stagnante.
Non ci sono dunque tanti «buddhismi», ma diversi rami nati dal tronco unico della dottrina del Buddha, con
un'unica base e un unico scopo finale. Per usare le parole del Buddha stesso, si può dire che «proprio come il
grande Oceano è di un solo sapore, di sapore salato, così pure questa Buona Legge è di un solo sapore, del sapore
della Liberazione»'. Ne consegue che, per una vera comprensione di qualsiasi manifestazione della ricca
spiritualità buddhista, si debba necessariamente partire da una seria e corretta conoscenza del buddhismo delle
origini, vale a dire
' Ddàna, V.5. Le citazioni dal Suttapitaka sono tratte dal Canone buddhista, Discorsi brevi, a cura di P Filippani-Ronconi, UTET,
Torino 1968. «Buona Legge» (scr. saddharma) indica qui la dottrina predicata dal Buddha.
quello indiano. Dirò di più; a mio avviso non è possibile studiare e comprendere adeguatamente il
«fenomeno buddhismo» senza una seria e corretta conoscenza del più ampio contesto della religiosità indiana
in generale. Indubbiamente diversi malintesi e interpretazioni fuorvianti hanno condizionato la conoscenza che
l'Occidente ha avuto del buddhismo, divenendo luoghi comuni che si trascinano e sono duri a morire. Nella mia
relazione intendo anche prendere in esame qualche aspetto di tali malintesi, in particolare riguardo alla natura del
buddhismo come religione (e non solo filosofia), all'indubbia presenza quindi di una tensione verso l'Assoluto,
alla posizione del buddhismo tibetano come continuazione del buddhismo indiano di stampo mahàyànicotantrico1. Ovviamente gli argomenti che verrano toccati richiederebbero una trattazione ben più approfondita, che
in questa sede risulta impossibile sia
'Si distinguono nel buddhismo due correnti principali: il buddhism_ antico o del «Piccolo Veicolo» (Theravàda o Hircayàna), e quello &,
«Grande Veicolo» (Mahàyàna) sviluppatosi verso gli inizi dell'era crstiana; all'interno di questo si colloca un terzo «Veicolo», quello dei Ta,,:tra o «Veicolo di diamante» (Tantrayàna o Vajrayàna). Ognuna di ques:_ correnti ebbe propri maestri e una propria letteratura dottrinale;
ogn_na enfatizzò determinati aspetti della dottrina e della pratica, in accorc _ con i tempi e con le capacità e disposizioni dei discepoli.
L'Hinai tir.: aveva insistito particolarmente sull'analisi psicologica, la stretta osse~vanza della disciplina, la soppressione delle passioni e il
distacca p.giungere alla cessazione di nascita e morte e alla liberazione individu_~:= Il Mahayana seguì un diverso orientamento, approfondendo
1'indag:--, filosofica intorno alla Verità ultima e proponendo il modello altruisr: _ del Bodhisattva («Essere la cui essenza è Illuminazione»).
I Bodhisa:-.: situati su elevati piani di perfezione spirituale divennero oggetto di J_vozione, insieme ai Buddha delle varie epoche. Si
ritenne infatti .:-: Sàkyamuni non fosse l'unico Buddha (epiteto che significa sempli._mente «Risvegliato» o «Illuminato»), ma che altri
ve ne fossero stati :passato, così come ve ne saranno in futuro. Essi appaiono nel mondo _ epoca in epoca, quando è necessario esporre la
Dottrina e riaffermar-. principi della spiritualità.
Il Tantrayàna o Vajrayàna costituisce l'insegnamento esoterico e esclusivo del buddhismo indo-tibetano. I Tantra sono testi basati su una
concezione non-dualistica della realtà, sulla corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, e prevedono l'impiego e la sublimazione di tutte le
energie psicofisiche dell'essere umano. Sono finalizzati essenzialmente alla pratica (sàdhanà) basata sull'impiego di rituali, tecniche di yoga,
visualizzazioni di «divinità tutelari» (scr. istadevatà, tib. yi dam), formule mistiche (mantra), segni particolari (mudra), diagrammi
(mandala), con complessi significati simbolici e con funzione di supporto della meditazione realizzativa.
p er ragioni di spazio, sia per la specifica complessità di alcuni degli argomenti stessi.
In India la dottrina del Buddha non nasce dal nulla, ma trova le sue radici in un terreno spirituale già ricco di
idee, intuizioni, esperienze. Swàmi Vivekànanda (1862-1902), discepolo di SnRàmakrsna (1834-1886)3,
attribuiva all'India, tra le varie nazioni della terra, un particolare «genio della spiritualità». Giudizi analoghi
sono stati espressi anche da studiosi occidentali: «Se volessimo caratterizzare ogni singola civiltà per un
particolare compito assolto nell'ambito della cultura umana, dovremmo dire che quello assolto dalla civiltà
dell'India è fondamentalmente di natura mistica religiosa»'. «La vita dello spirito, intesa come contemplazione
sia intellettuale sia mistica, è dunque il vanto dell'India: ivi è da ricercarsi la sua vera grandezza, la sua unità
rimasta integra attraverso i secoli»5. Ancora oggi «l'India rimane un esempio impressionante contro la tesi della
morte della religione, sostenuta dalla critica della religione»'. In effetti, la ricchezza e la molteplicità di forme e
aspetti della speculazione e della religiosità indiane sono davvero sorprendenti, a volte addirittura sconcertanti
nella loro esuberanza. Non c'è via o pratica interiore che l'India non abbia tentato nel suo desiderio di esperienza diretta e di realizzazione dell'Assoluto. Le varie vie sono state paragonate a fiumi diversi che
confluiscono nell'oceano, o a sentieri diversi che portano tutti alla cima della montagna.
Induismo e buddhismo si sono sviluppati in modi autonomi e spesso in polemica tra loro, ma anche con
influenze reciproche e convergenze forse più profonde e consistenti di quanto comunemente si pensi. Nessun
dubbio sul fatto che il Buddha sia una figura di riformatore; proprio in questo sta la sua forza e la novità della
via da lui seguita
' Due delle maggiori personalità religiose dell'Induismo moderno.
° P. Filippani-Ronconi, Magia, religioni e miti dell'India, Newton Compton, Roma 1981, p. 7.
Scalabrino Borsani, La filosofia indiana, in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra, Vallardi, Milano 1976, pp. 4-5.
H.Kting et al., Cristianesimo e religioni universali, Mondadori, Milano 1986, p. 314.
s G.
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e indicata agli altri; spesso è decisamente critico nei riguardi di concezioni e pratiche affermatesi come
ortodosse. Tuttavia analoghi atteggiamenti possono riscontrarsi anche in altre correnti a lui contemporanee, e
non solo in quelle che si ponevano fuori dall'ortodossia vedico-brahmanica' (come il GiainismoR e il materialismo
dei Nàstika9), ma pure nei testi delle Upanisad10, riconosciute peraltro come autorità scritturali in seno
all'Induismo. Possiamo dedurne che «quando credenze tradizionalmente accettate divengono inadeguate o
addirittura false, a cagione del mutamento dei tempi, e l'età non riesce più a sopportarle, sopraggiunge ogni
volta l'intuizione di un nuovo maestro, un Buddha o un Mahàvít-a, un Vyàsa" o uno SankaralZ, a risvegliare gli strati
più profondi della vita spirituale. Vi sono senza dubbio dei grandi momenti nella storia del pensiero indiano,
epoche di collaudo e di visione interiore, quando all'appello del soffio dello spirito, che spira dove vuole e
viene donde nessuno sa, l'anima umana fa un nuovo balzo in avanti, e procede verso una nuova avventura»`.
Il momento storico in cui appare Siddhàrtha Gotama, il futuro Buddha (VI-V sec. a.C.), definito un «periodo
assiale» nella storia del pensiero umano, è dunque caratterizzato in India da un ricco fermento di ricerca
spirituale, motivato anche da un senso d'insoddisfazione nei riguardi della religione istituzionalizzata, che si
vuole rinnovare e rivitalizzare attraverso una più profonda e autentica interiorizzazione. Si arriva a contestare il
valore assoluto e 1'in
' L'ortodossia dominante basata sull'autorità dei più antichi testi sacri, i veda, la cui conoscenza, spiegazione e trasmissione erano affidate
alla casta sacerdotale dei brnhman, a.
$ La corrente religiosa che prese il nome dal fondatore Vardhamana, detto Mahàvua o Jina (il Vittorioso), contemporaneo del Buddha.
° Letteralmente i «negatori», in quanto escludevano l'esistenza di ogni realtà spirituale.
70
In numero simbolico di 108, costituiscono la fine o il completamento dei Veda (Vedànta) e segnano l'inizio della speculazione
filosofica in India. Le più antiche vennero probabilmente composte tra il 700 e
i1300 a.C.
" Nome di un mitico Saggio, considerato spesso dalla tradizione come il compilatore delle raccolte dei testi vedici.
'l Uno dei massimi filosofi dell'India (788-820 circa), autore di opere fondamentali per la corrente di pensiero che si ispira al Vedànta. 13 S.
Radhakrishnan, La filosofia indiana, Einaudi, Torino 1974, p. 8.
terpretazione alla lettera delle Scritture sacre, i Veda: ci interroga sulla natura degli dèi e sulla validità del culto
loro tributato; si criticano fortemente la degenerazione nel formalismo religioso e nel ritualismo sacrificale, le
pretese di esclusivismo della classe sacerdotale, le prescrizioni del sistema sociale e castale (varrcàsramadharma).
Tuttavia è stato sostenuto che «il Buddha, al suo tempo. fino entro la cerchia dei suoi discepoli, era considerato
non un innovatore che distruggeva una tradizione a lui preesistente, bensì un restauratore della medesima, secondo
esigenze di moti interiori anziché liturgici e religiosi, riferiti al mondo vedico degli dèi»". Addirittura nel Canone
pali il Buddha viene assimilato ai Veggenti vedici per i quali egli stesso ha parole di lode e apprezzamento`. Ci
viene anche detto che spesso i bràhmana si rivolgevano al Buddha per ottenere insegnamenti su quella che
doveva essere la loro pura condotta, la brahmanica disciplina (brahmacarya)i6. Sebbene egli appartenesse alla
categoria dei samcma (scr. sramcma), cioè coloro che uscivano dall'ordinamento sociale per abbracciare la vita
anacoretica. e per questo dicesse di non appartenere ad alcuna casta'-, pure fa capire di aver attinto la perfezione
della condotta brahmanica, che egli insegna e alla quale l'uomo saggio deve essere devoto18 diventando un vero
conoscitore dei Veda 19, intesi come pura conoscenza spirituale.
Con decisione il Buddha rifiuta e condanna i pregiudizi e le superstizioni riguardo alle osservanze esteriori, alla
purezza e alla superiorità attribuite al nascere o al trovarsi in un particolare statusI°. Certamente non si diventa puri
con la semplice pratica delle abluzioni nei luoghi sacri==, e
INI
14
P. Filippani-Ronconi, Canone buddhista, cit., pp. 690-69L n. 124.
~s «Gli Antichi Veggenti controllavano sé stessi, ardenti di ascesi: abbandonati gli oggetti dei cinque sensi operavano per il proprio bene.
Non v'era [allora], per il brdhmana, bestiame, oro o grano, ma essi face
vano tesoro di studio e meditazione, custodendo il miglior tesoro»: Surtanipàta, w. 284-285 (Brdhmana-dhammika sutta).
76
Cf Suttanipàta, vv. 566-567 (Sela-sutta).
" Cf Suttanipàta, v. 455 (Sundarikabhàradvàja-sutta) 'd Cf Suttanipàta, v. 717 (Nàlaka-sutta).
19
Cf Suttanipàta, vv. 946-947 (Tuvataka-sutta).
20
Cf M.C. Minutiello, Il pregiudizio nelle religioni, « Par~nità», n. 39. Roma 1991, pp. 39-42.
I' Cf Udàna, 1,9.
non si è uomini virtuosi per il solo fatto di mormorare giaculatorie e versi sacri, o di conoscere a memoria le
Scritture". D'altra parte l'impurità non deriva da qualcosa di esterno, per esempio dal cibo interdetto dalle
consuetudini religiose; ciò che causa contaminazione è bensì «l'abbattere esseri viventi, uccidere, tagliare,
legare, il furto, la menzogna, la frode e l'inganno, il leggere cose senza valore, l'andar dietro alla donna
d'altri..., collera, ebbrezza. ostinazione e fanatismo, inganno, invidia e magniloquenza. orgoglio e vanità, intimità
con gli ingiusti ...questo è essere impuri»". Infatti «non per nascita si diventa "fuori casta", non per nascita si
diventa bràhmana, è per l'azione che si diventa "fuori casta", è per l'azione che si diventa brà hmana»24.
«Non domandare a quale stirpe si appartiene, chiedi della condotta ...»II.
Le forme di una religiosità divenuta solo o prevalentemente esteriore vengono dunque reinterpretate e
collocate nella dimensione dell'interiorità. Così dice ancora il Buddha: «Non metto legna, Brahman, per i
fuochi sugli altari, solo dentro di me accendo la fiamma che brucia. Il mio fuoco brucia sempre, sempre
alimentato di sé... ed il cuore è l'altare. E su di esso la fiamma: questo è l'io domato di un uomo»".
Si è a lungo discusso sulla collocazione da dare al buddhismo: una religione o una filosofia? Spesso lo si è
voluto limitare, con intento evidentemente riduttivo, alla sola sfera della filosofia, negandogli lo status di religione.
Ho già avuto modo di dire che il buddhismo è «un fenomeno complesso e multiforme»; identificarlo tout court
con uno solo dei suoi aspetti significa, ovviamente, non riuscire a comprenderlo appieno. Questo è spesso il
difetto di chi ha di esso una conoscenza puramente «teorica« o «per sentito dire». Proprio all'inizio di un suo
libro, fondamentale
y Cf Udnna, 1,4 e Itivuttaka, 99.
~' Suttanipàta, vv. 242 e 245 (El magandha-sutta). 24 Suttanipàta, v. 136 (Vasala-sutta).
2s Suttanipàta, v. 462 (Suredarikabhàradvàja-sutta).
26
Samyutta Nikàya, I, p. 169 (tr ingi. J.B. Horner); citata da Lama A. Govinda, l fondamenti del misticismo tibetano, Ubaldini, Roma 1972,
p. 127.
per chiunque sia interessato all'argomento dell'incontro tra cristianesimo e buddhismo, padre Marcello Zago
scrive a proposito della sua esperienza diretta; «...venni a contatto con il buddhismo vissuto. Mi impressionò il fatto
che tale buddhismo era diverso da quello che avevo studiato in Europa: non mi appariva più tanto come una
filosofia, ma come un modo di vita dai molteplici risvolti religiosi... Il buddhismo mi apparve così in tutta la sua
varietà e ricchezza; accanto al buddhismo popolare conviveva quello dotto, accanto al buddhismo monastico
quello mistico»".
Parlando in generale, non è certo facile definire in modo preciso, univoco, incontrovertibile, universalmente
accettato, che cosa sia «la religione». H. Kung prende a prestito una frase di S. Agostino e dice: «Io lo sapevo fino
a quando mi hai chiesto di spiegartelo», riconoscendo che «il termine "religione" è per molti aspetti problematico»".
Come necessario punto di partenza per condurre un'esperienza dialogica, mi sembra si possa comunque accettare
una definizione generale di questo tipo: «Nella religione si ha sempre a che fare con un esperienziale
"incontro con il Sacro"... è religione la relazione, dispiegata vitalmente in una tradizione e in una comunità (nella
dottrina, nell' ethos, e per lo più anche nel rito) e realizzata in maniera social-individuale, con qualcosa che
supera e abbraccia l'uomo e il suo mondo: una suprema Realtà vera comunque concepita (l'Assoluto, Dio, il
Nirvàna). A differenza della filosofia, nella religione si ha a che fare contemporaneamente con un messaggio e un
itinerario di salvezza»".
Portando questo discorso nell'ambito della spiritualità indiana in generale, e del buddhismo in particolare, è
necessario chiarire un punto fondamentale. «Altrove filosofia e religione seguirono vie distinte e differenti... In
India invece non è sempre possibile distinguerle... In India filosofia e religione hanno battuto la stessa strada»
30
. Senza sminuire con ciò la presenza di una «indagine critica che
27
M. Zago, Buddhismo e cristianesimo in dialogo, Città Nuova, Roma 1985, pp. 5-6.
Il H. Kong et al., op.cit., p. 6.
29 Ibidem.
30
M.A. Kalam Azad, Il significato della filosofia, in Storia della filosofia orientale, a cura di S. Radhakrishnan, Feltrinelli, Milano 1981'-,
pp.14-15.
procede per mezzo del pensiero logico», di un «sapere fondato sul ragionamento», di una «ricerca razionale in sé
e per sé» 31, è giusto tuttavia sottolineare la prevalente «preoccupazione soteriologica della speculazione
india
na»'2
.
Infatti, uno degli aspetti più evidenti e caratteristici della ricerca filosofico-religiosa in India è senza dubbio il
suo scopo operativo, il suo essere finalizzata a una diretta esperienza che divenga trasformazione reale
dell'essere. Il fine che ci si propone non è solo un'accumulazione di conoscenza discorsiva, di un maggior
numero di nozioni o supposizioni intorno alla realtà relativa e ultima; certamente, la parte dialettica e
teoretica è stata sviluppata in modi profondi e raffinati dai vari sistemi filosofici, ma per lo più come necessaria
preparazione al momento realizzativo. Le due fasi appaiono strettamente interconnesse, come parti indispensabili
di un processo unico; la filosofia vuol fornire una base teorica, logica e razionale alla pratica religiosa, ma
fallisce il suo scopo se rimane pura teoria, se non si esplica in un'esperienza vissuta. D'altra parte, non è
accettabile una pratica religiosa che non trovi appoggio in una appropriata concezione filosofica. Per questo S.
Radhakrishnan parla del carattere essenzialmente spirituale della filosofia in India e del carattere razionale
della religione indiana".
È noto che l'uomo e la sua spiritualità hanno costituito il principale oggetto d'interesse del pensiero indiano,
così come il suo rapporto con la realtà esterna, avvertita ben presto come limitata e limitante; questo ha
portato a un profondo studio e a una vasta sperimentazione delle sue potenzialità interiori. Così è stata
intuita la possibilità di superare le limitazioni imposte dalle consuete modalità esistenziali; la possibilità di
spaziare in dimensioni più estese dell'essere e del conoscere; la possibilità, infine, di giungere a una completa,
totale, perfetta realizzazione della propria identità spirituale. Tale processo di realizzazione richiede naturalmente il
percorso di un sentiero interiore, attraverso il quale l'uomo deve penetrare nella più profon
" G. Scalabrino Borsani, op.cit., p. 12.
"G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Bari 1957, pp. 15 ss. 33 Cf S. Radhakrishnan, op.cit., pp. 6-8.
da realtà del suo stesso essere (là dove ha sede la Verità). In particolare, poi, il buddhismo ha «caratteristiche uniche tra
le varie religoni. Il suo centro d'interesse non è Dio, ma l'uomo nella sua esistenziale miseria e nel suo bisogno di
salvezza... In questo cammino l'esperienza interiore è privilegiata»".
Appare cosa certo singolare che proprio il Buddha possa essere stato definito solo un «filosofo». «Il suo messaggio non
vuole, infatti, classificarsi come sistema filosofico o dogmatico nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto come
indicazione di una via di liberazione (muktimàrga)» 35. Egli rigetta come inutili, spesso addirittura dannose e causa di
discordie e contese, le sterili speculazioni ~ sfocianti in punti di vista (d' rs ti) dogmatici ed esclusivistici. La critica nei
confronti di coloro che perdono tempo in dispute dottrinali, invece di applicarsi alla purificazione interiore, è spesso
acutamente ironica: «Allorché ti si chiede I.
qual è l'opinione da cui dipendi... tu giungi a esaltarti per le idee che hai abbracciato, e della pace interiore non hai la ~
minima idea cosciente ...36. Ciò che alcuni chiamano il '
Dhamma supremo, da altri viene detto "miserabile": quale y di questi, io chiedo, ha la vera dottrina? Tutti costoro,
invero, affermano di essere gli unici esperti`... Colui che segue ;
un dogma non conduce alla purezza, essendo egli stesso guidato da teorie preconcette: egli dirà che è buono ciò a')
cui si sente incline, e ivi purità egli avrà visto, ove professa che essa sia"... L'uomo che nel mondo ritiene qualcosa come
eccellente e, dato che si fonda su teorie, lo chiama "supremo" tutto ciò che è diverso chiamerà "inferiore": per- ~, tanto
non supererà mai controversie`... In base a tutto ciò,
j
considerando gli altri con disdegno, ben felice di restare sulle sue decisioni, dice dell'altro: "è uno sciocco, l'altro, e un
ignorante!" Poiché sostiene essere l'altro "uno stolto" chiama pertanto sé stesso "esperto": secondo lui, egli è quello che
annuncia ciò che è buono, disdegna invece 1'al
~° M. Zago, La spiritualità buddhista, Studium, Roma 1986, pp. 16-17. 35 G. Scalabrino Borsani, op.cit., p. 443. 3e
Suttanipàta, v. 841 (Màgandiya-sutta).
" Suttanipàta, v. 903 (Mahà-viyúha-sutta). 38 Suttanipàta, v. 910 (Maha-viyuha-sutta). 39
tro: così egli professa. Egli è tutto pieno di arroganti opinioni, è folle d'orgoglio, si ritiene perfetto, secondo lui egli è
colmo di genio, il suo punto di vista è assoluto e perfett0»ao
II Buddha non cade nell'errore (in cui evidentemente vedeva cadere altri) di voler parlare in termini
concreti dell'Assoluto, dell'Incondizionato che, per sua stessa natura, è al di là di ogni possibile definizione.
Rifiuta le teorie enunciate da altri in quanto limitate e insufficienti, ma a queste non sostituisce l'enunciazione
di alcuna teoria riguardante la Realtà ultima. Questo non significa negarla, ma appunto riconoscerne
l'ineffabilità. «Se Buddha rifiutò di definire la natura dell'Assoluto, o se egli si accontentò solo di definizioni
negative, questo indica solo che l'assoluto è al di sopra di qualsiasi determinazione»". Infatti «la suprema realtà è
il silenzio dei santi»" e «il buddhismo è la difesa senza riserve del mistero assolutamente inafferrabile
dell'essere»". Tale atteggiamento può quindi essere paragonabile a quello di una certa teologia «negativa» o apofatica, in cui l'Assoluto è sentito come «il totalmente altro» e come mistero inesprimibile. Non è difficile
trovare analogie su questo punto nelle esperienze dei mistici di ogni religione e di ogni epoca. Scriveva
Eckhart riguardo al «Dio inespresso»: «Sai tu qualcosa di lui? Egli non è una cosa qualunque, e in questo tu non sai
nulla di lui... "E allora, che cosa devo fare?" Perderai la tua identità e la dissolverai nella sua. Il tuo io diverrà la
sua fonte... il suo nulla senza nome»".
Due termini, etimologicamente implicanti un significato di negazione, sono fondamentali a questo proposito
nel lessico del buddhismo: nirvana e súnyatà. Nirvana è la suprema meta dell'ascesi buddhista, l'estinzione
dell'individualità limitata da difetti, passioni e desideri egoistici.
40
Suttanipàta, vv. 887-889 (Cú,la-viyúha-sutta); cf M.C. Minutiello, Il pregiudizio nelle religioni, cit.
Radhakrishnan, Gautama the Buddha, p. 59; citato da T.R.N. Murti, La filosofia centrale del buddhismo, Ubaldini, Roma 1983, p. 50.
Il Dal commento di Candraklrti alle Madhyamaka Kàrikd di Nagàrjuna, citato da R. Gnoli nella sua traduzione di quest'opera,
Boringhieri, Torino 19791, p. 23, n. l.
~ R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988, p. 196 °° D.T. Suzuki, Misticismo cristiano e buddhista, Ubaldini, Roma
1971, p. 43.
41 S.
Súnyatà, vacuità, indica la vera, unica natura di tutta la realtà; in particolare, la Realtà ultima è detta vuota
di qualsivoglia carattere concretamente definibile e di qualsivoglia determinazione limitante. In ultima analisi i due
termini vengono usati entrambi, e non sono gli unici, come indicazioni che alludono all'Assoluto's, cioè a quella
totalità dell'Essere attingibile attraverso il percorso del sentiero spirituale e l'annullamento dell'essere circoscritto
nella propria particolarità. Il Buddha ha infatti spiegato: «Monaci, vi è un non-nato, un non-divenuto, un nonfatto, un non-composto. Se non ci fosse, o monaci, questo non-nato, non-divenuto, non-fatto, non-composto, non
ci sarebbe modo di sfuggire da ciò che è nato, divenuto, fatto, composto»". In modo positivo viene anche detto che il
nirvana «è la suprema felicità»".
Può forse essere utile ricordare che proprio a questo termine si ricorre pure in un'opera fondamentale
dell'Induismo, la Bhagavad Gità48, nella quale trova espressione un forte sentimento religioso di fede e
devozione verso D i o (bhakti). In tale contesto teistico, la meta dell'ascesi è naturalmente l'unione con Dio
stesso, che è la Suprema Realtà, il Brahman, lo Spirito onnipervadente. A rigor di logica (ma è ancora
applicabile la nostra logica alle realizzazioni più alte dell'esperienza mistica?) dovremmo suppore che si tratti in
questo caso di un diverso nirvana, dato che il Buddha non parlò mai di Dio. Commentando la strofa cui abbiamo
fatto riferimento, il MahaZmà Gandhi ebbe a dire con molta chiarezza: «Non c'è ragione di supporre che esista
una differenza tra il nirvana menzionato dal Signore Buddha e il nirvàna della Gità. La descrizione del
°s Cf R. Panikkar, op.cit., p. 179; si veda anche la nota n. 52 di questo articolo.
' Itivuttaka, 43.
°' Dhammapkda, v. 204.
°" Vedi cap. Il v. 72; il termine è usato anche in strofe seguenti, come nel cap. V, vv. 24-26 o nel cap. VI, v. 15. Secondo S. Radhakrishnan, il
nu
cleo essenziale del testo può aver avuto una sua prima redazione intorno al V sec. a.C., pur con successive elaborazioni e sempre tenendo
pre
sente la generale incertezza delle datazioni relative ai testi indiani. La Gita è, in ogni caso, una splendida e imperitura opera che «dà
espressio
ne alle aspirazioni dei pellegrini di tutte le confessioni religiose, che cerchino di percorrere il cammino interiore che mena alla città di Dio»;
cf
Bhagavad Gita, a cura di S. Radhakrishnan, Ubaldini, Roma 1964, p. 29.
nirvana fatta da Buddha e quest'altra descrizione del nirvàna si riferiscono al medesimo stato. Un certo numero
di persone erudite ha dimostrato che Buddha non insegnò mai una dottrina che negasse l'esistenza di Dio. Ma
queste sono controversie inutili. Cosa possiamo dire di una condizione che è così differente da qualsiasi cosa
conosciuta nella nostra vita e che non possiamo descrivere neppure dopo che l'abbiamo raggiunta?»
In seguito il Mahatma espresse ancora la sua «umile opinione», così la definiva, a proposito dell'ateismo
del Buddha (e del buddhismo); riporto un brano che mi sembra interessante e significativo: «La confusione è
sorta riguardo al suo rifiuto, un giusto rifiuto, di tutto ciò che di spregevole veniva fatto circolare nella sua
generazione sotto il nome di Dio. Egli indubbiamente rifiutò l'idea che un essere chiamato Dio potesse essere
spinto da malanimo, potesse pentirsi delle sue azioni e, come i re della terra, potesse in qualche modo essere
soggetto a lusinghe e allettamenti e avere dei favoriti. Tutto il suo essere si levò in una forte indignazione contro la
convinzione che un essere chiamato Dio richiedesse per sua soddisfazione il sangue vitale di animali, allo scopo di
poter essere compiaciuto - animali che erano sua propria creazione. Egli, quindi, reintegrò Dio nella giusta
posizione e detronizzò l'usurpatore che al momento sembrava occupare quel Puro Trono. Mise in evidenza e
riaffermò l'eterna e inalterabile esistenza del dominio etico di questo universo. Fermamente disse che la
Legge era Dio stesso. Le leggi di Dio sono eterne e inalterabili e non separabili da Dio stesso. È una
condizione necessaria della Sua assoluta perfezione. E di qui la grande confusione sul fatto che il Buddha non
credesse in Dio e semplicemente credesse nella legge morale; e a causa di questa confusione riguardo a Dio stesso,
sorse la confusione riguardo all'appropriata comprensione del famoso termine nirvana. Nirvana senza
dubbio non è estinzione assoluta. Per quello che sono stato capace di capire del fatto centrale della vita del
Buddha, nirvana è completa estinzione di tutto ciò che in noi è meschino, di tutto ciò che in noi è immorale, di
tutto ciò che in noi è cor
49
°y M.K. Gandhi,
Gandhi commenta la Bhagavad Gita, Ed. Mediterranee, Roma 1988, p. 80.
rotto e corruttibile. Nirvana non è come la buia, morta pace della tomba, ma una pace viva, la viva gioia di uno
spirito consapevole di se stesso e consapevole di aver trovato la sua propria dimora nel cuore dell'Eterno»so
La Legge alla quale Gandhi si riferisce sopra è, nel buddhismo, il Dharma. In effetti in Asia i buddhisti
per lo più si definiscono non i «seguaci del Buddha» bensì i «seguaci del Dharma»5'; il termine presenta
diverse 51
accezioni, di cui ricordiamo quelle utili al nostro discorso. Anch'esso, in primo luogo, designa la Realtà
ultima che sta dietro ogni cosa e costituisce la Legge e l'Ordine di tutto ciò che esiste, in qualche modo
trascendente e immanente al tempo stesso. In secondo luogo Dharma indica la dottrina del Buddha, vale a dire
ciò che egli ha insegnato e spiegato in base alla propria esperienza diretta di tale Realtà e di tale Legge. In terzo
luogo il Dharma, come riflesso dei due significati precedenti, è il modo in cui il praticante conforma la propria
esistenza a quella Verità ultima e a quella dottrina, seguendo i principi spirituali che sono alla base della virtù e
della rettitudine.
Cito a tale proposito le parole di un illustre monaco thailandese, il ven. Buddhad~sa, una delle personalità
del buddhismo contemporaneo più impegnate nel dialogo con il cristianesimo: «...è il Dharma, l'Unica e
l'Assoluta Verità
`° M.K. Gandhi, My religion, Navajivan Publishing House, Ahmedabad 1955, pp. 26-27. Secondo K.N. Upadhyaya «si può dire che la
critica buddhista su Dio non cada con piena forza su una raffinata concezione d i D i o quale si trova in alcune delle Ilpanisad, nella Gita e
nell'Advaita Vedànta. Le critiche dei Buddha sono dirette principalmente contro il teismo popolare, e quindi l'idea di Dio, nel senso di una
ineffabile e indefinibile suprema Realtà, può essere compatibile con il pensiero buddhista»; God, the self and the Burtdha's silence, in
Sramana Vidyà, Studies in buddhism, Central Institute of Higher Tibetan Studies, Sàrnàth (Varànasi) 1987, p. 135.
s' Su1 termine Dhnrma si veda E. Conze, Il buddhismo, in Civiltà dell'Oriente, a cura di G. Tucci, G. Casini, Roma 1958, vol. III, pp. 759-760.
` Nel Mahdyàna si possono trovare diversi termini che alludono alla Realtà ultima: «quidditas, vacuità, limite della Realtà, il senza segno,
il sommamente vero o l'oggetto supremo, l'elemento Dharma, non dualità, regno della non discriminazione, non produzione, vera natura
del Dharma, l'inesprimibile, l'incondizionato, il senza ostacoli, la verità, ciò che è realmente, la realtà vera, il nirvana, la cessazione, la
Buddhità, la sapienza, l'illuminazione, la conoscenza che si deve attuare in sé, il corp o d i Dharma, il Buddha ecc.»; cf E. Conze, Il pensiero
del buddhismo indiano, Ed. Mediterranee, Roma 1988, pp. 226-227.
Prima e Ultima, Universale Vera Natura Originale di tutto... qualunque sia la verità dei Nomi dati all'ordine
dell'Ultimo, secondo la diversità delle religioni o delle vie spirituali`... La nostra tradizione ha sempre rifiutato di
rappresentarsi come un personaggio divino individualizzato, questo Ultimo non nato`... Per noi l'Ordine
dell'Ultimo è esente da ogni "forma", da ogni caratteristica... Ultimo, Legge di Natura, Dharma sono
indicazioni non antropomorfiche... Evidentemente, si tratta ancora solo di linguaggio, e non della verità considerata
in sé stessa`. Ogni Via di Salvezza suppone una certa concezione dell'Ultimo, in funzione del quale è
considerata la Salvezza. La vera Salvezza può essere solo dell'ordine dell'Ultimo... Buddha non ha inventato
l'Ultima Verità di Dharma, e tanto meno la Via della Salvezza. Divenuto capace d'essere illuminato dell'Ultima
Verità... egli ha potuto discernere la Salvezza come conformità dell'atteggiamento interiore, dell'intenzionalità
del vissuto, a questa stessa Ultima Verità, Legge di Natura Universale totale, Dharma. La realizzazione ultima di
questa conformità è chiamata Nirvàna»s'.
Buddhadàsa afferma esplicitamente che Dharma ha nel buddhismo la stessa posizione che Dio ha nella
concezione cristiana. «Questo "Principio di Dharma" governa tutte le cose nel loro venire all'essere, cessare di
essere, sussistere, progredire, pervenire all'Ultimos'... Questo Dharma è stato l'oggetto di riconoscimento e di
omaggi del Signore Buddha... Buddha si dice lui stesso puramente servo del
l'Ultimo Dharma» .
Tengo a ricordare ancora una volta che il buddhismo è «un fenomeno complesso e multiforme», che spesso
sfugge alle definizioni restrittive. Si è detto che esso si serve di termini impersonali per alludere all'Assoluto. È
stato anche affermato, tuttavia, che «il concetto di Dharmakàya (Corpo del Dharma) implica la nozione di
personalità (per quanto strano possa apparire in un primo momento)... La
58
Il
Ven. Buddhadàsa, Un buddhista parla del cristianesimo ai buddhisti, Paoline, Milano 1990, p. 31.
• Ivi, p. 43. ' Ivi, p. 55.
• I v i , p . 62. Ivi, p. 63.
• Ivi, p. 57.
57
realtà superiore non è mera astrazione, essa è in somr^lgrado viva con sensi, consapevolezza, intelligenza e.
~oprattutto, con l'amore purgato di ogni infermità e contaminazione umana»".
In un interessante articolo che ella stessa definisce «provocatorio in quanto tenta di modificare alcune ben stabilite concezioni sulla natura della religione buddhista»"', la buddhologa e tibetologa E.K. Dargyay sostiene la necessità di «rivedere la nostra attuale conoscenza di "Dio" nel contesto del buddhismo»61. Molto giustamente la
studiosa evidenzia anzitutto la non univocità, ma anzi la pluralità di aspetti e d'interpretazioni del termine «Dio
creatore», cosa che vale, d'altra parte, per molti termini del linguaggio filosofico-religioso. In molte tradizioni si
può trovare l'idea di un essere sovrumano che, all'origine dei tempi, crea e modella il mondo e gli esseri viventi,
idea espressa con le immagini del racconto mitico. «I pensatori buddhisti continuarono attraverso la storia a far
notare l'incompatibilità della visione di un "mitico divino artigiano" che fabbrica il mondo con l'affermazione
filosofica che Dio è il totalmente altro che, oltre le limitazioni di spazio e tempo, è sorgente e origine assoluta
in rapporto all'universo, ma non suo cominciamento causale»62.Tale atteggiamento avrebbe portato a far
concludere in modo superficiale che «i buddhisti negano Dio in generale»63
Viene quindi preso in esame un testo incluso nel Canone tibetano, il Kun byed rgyal po'i mdob'. La concezione
filosofica che ne sta alla base è ispirata alla scuola Yogacàra o Vijnanàvàdaó , che ebbe una forte influenza su tutta
la
5
59
D.T. Suzuki, The essence of buddhism, p. 41; cit. da A. Govinda. / fondamenti del misticismo tibetano, Ubaldini, Roma 1972, p. 223.
• E.K. Dargyay, The concept of a «Creator God» in tantric buddhism. «The Journal of the International Association of Buddhist Studies»,
vol. 8 n. 1, Madison (USA), 1985, p. 31.
b Ivi, p. 45.
6z I v i , p . 32.
• Ibidem.
• Il titolo completo dei testo, inserito in tutte le edizioni del Kanjur, è Chos thams cad rdzogs pa chen po byang chub kyi sems kun byed rgyal po.
Il Molto probabilmente fondata da Asanga nel IV secolo, sostiene una dottrina di «idealismo oggettivo», secondo cui la realtà è mente, coscienza, pensiero nei suoi diversi aspetti (illusorio, relativo, assoluto), e nulla altro (cittamàtra); cf A. Pezzali, L'idealismo buddhista di Asanga,
EMI, Bologna 1984.
1
corrente tantrica. Qui Bodhicitta` viene definito «il Re che tutto crea» e in questo modo «simbolizza il
fondamento ontologico di ogni cosa visibile e invisibile... la creazione è un efflusso dal fondamento primordiale;
essa appare distinta dalla sua origine, sebbene essenzialmente non differente»6'. Tale fondamento infatti «è
immanente e trascendente al tempo stesso. Sebbene l'Unico originario sia riflesso nel mondo fenomenico, esso
trascende il mondo della percezione. La sua universale purezza non è mai affetta dalle categorie etiche»68. Per
sostenere questo, il testo addirittura mette da parte la dottrina della causalità e della produzione condizionata,
considerata uno degli elementi basilari del buddhismo: «A coloro che sostengono un sistema di causalità, lo non
rivelo l'insegnamento secondo cui io sono l'Uno che tutto crea... essi sottoporrebbero Me, il totalmente puro, a
lode e biasimo e per lungo tempo sarebbero incapaci di trovare Me, il totalmente puro»".
La vera particolarità di questo testo sta comunque nel fatto di definire la «Mente di Pura Perfezione», che è la
natura stessa della Realtà ultima, attraverso un'immagine personale, metaforicamente antropomorfica: «esso
proietta il concetto filosofico nell'immagine simbolica di un
~ Bodhicitta, tib. byang chub sems, è un termine fondamentale nel lessico del Mahàyàna, traducibile come «mente o pensiero» (citta)
del Risveglio o dell'Illuminazione (bodhi). Viene distinto in due tipi: l'atteggiamento illuminato relativamente vero, che «è il voto di liberare
tutti gli esseri senzienti dal samsàra per compassione, mentre l'atteggiamento illuminato vero in senso assoluto sgorga dalla natura essenziale
di tutte le cose...» Quest'ultimo «è al di là di questo mondo, non si può formulare con concetti o discorsi, è estremamente irradiante,
l'immagine dell'Assoluto, immacolato, incrollabile, e molto chiaro come lo stabile splendore di una lampada in una notte calma»; cf sGam po
pa, Il prezioso ornamento di liberazione, Ubaldini, Roma 1978, p. 127. II termine tibetano sems, che traduce il sanscrito citta, ha
un'estensione di significato più vasta del termine «mente, pensiero» come abitualmente l'intendiamo. Secondo Tucci il buddhismo del Tibet,
sviluppando principi già presenti implicitamente nel Mahayana indiano, gli attribuisce il significato di «spirito», la cui natura è «la luce, dalla
quale tutto deriva e che è presente in noi stessi»; cf G. Tucci, Le religioni del Tibet, Oscar Mondadori, Milano 1987, pp. 94-99. Si veda anche la
nota n. 79 di questo articolo. Ricordo solo per inciso la presenza parallela nelle grandi religioni di una «metafisica della luce», come espressione
simbolica della Realtà divina.
67
EX. Dargyay, op. cit., pp. 40-41.
~ Ivi, p. 42.
69
Ibidem.
`creatore', usando così un modello teistico per comunicare l'esperienza mistica»"'.
«Allora Bodhicitta, il Re che tutto crea, proclamò: "Io sono il Creatore di tutti i fenomeni del passato, o
Mahàsattva, presta attenzione al tuo orecchio, rifletti su ciò che ascolterai ora: Io sono il Re che tutto crea. Io
sono la Mente di Pura Perfezione (byang chub sems). Se io non fossi preesistente, i fenomeni non avrebbero un
punto da cui la loro esistenza potrebbe iniziare. Se io non fossi preesistente, non ci sarebbe nessun Re che crea
tutti i fenomeni. Se io non fossi preesistente, non ci sarebbe mai nessun Buddha. Se io non fossi
preesistente, non ci sarebbe mai nessuna Dottrina..."»".
Abbiamo visto che il Buddha si presentò non come un teorizzatore ma quasi come un medico (il paragone è
ricorrente nella letteratura buddhista)'1, che indicava una terapia per condurre alla guarigione gli esseri intossicati
dalla sofferenza e dalla confusione. Per una breve esposizione di quello che è il concreto itinerario spirituale
elaborato dal buddhismo, prenderemo come base un'opera dell'insigne maestro tibetano sGam po pa, discepolo
e successore dell'ancor più famoso Mi la ras pa.
A questo punto si rende però utile una digressione riguardo alla continuità fra la tradizione indiana e la
tradizione tibetana.
La tradizione buddhista mahàyànica e tantrica, prima di estinguersi in India tra l'XI e il XII secolo (anche
per effetto della cosiddetta «rinascita induistica» e delle devastanti invasioni musulmane), venne preservata
attraverso la trasmissione diretta dai maestri indiani ai maestri tibetani, con la formazione di scuole e lignaggi
iniziatici che hanno mantenuto una viva continuità nella dottrina e nella pratica. In effetti, la tradizione tibetana
ha avuto un ruolo estremamente importante nella conservazione di tanta parte del patrimonio di idee e di testi
del buddhismo indiano, che altrimenti sarebbe andata irrimediabilmente perduta nella terra d'origine.
'° Ivi, p. 45.
" Ivi, pp. 44-45.
" Si veda al proposito R. Birnbaum, Il Buddha della guarigione , Ubaldini, Roma 1981.
Una prima introduzione degli insegnamenti buddhisti in Tibet si era avuta nella cosiddetta fase della «prima
diffusione», culminante nell'VIII secolo con la presenza di maestri indiani quali Sàntaraksita,
Kamalasila, Padmasambhava. Si provvide alla traduzione dei principali testi, venne fondato il primo monastero
di bSam yas e si celebrarono le prime ordinazioni; ma la dottrina buddhista, oltre al contrasto tra la corrente
indiana e quella cinese, dovette sopportare forti opposizioni che sfociarono in un periodo di aperta persecuzione
e di conseguente degenerazione. Solo con la «seconda diffusione», iniziatasi verso il X secolo, il buddhismo di
origine indiana si affermò pienamente penetrando in profondità nella cultura tibetana. I contatti con l'India
divennero più intensi; maestri indiani e nepalesi si recarono in Tibet, così come monaci e studiosi tibetani
visitarono l'India per istruirsi, riportandone insegnamenti orali, testi e commentari. Si ebbe una nuova fase
di traduzioni, ad opera di maestri-traduttori (lotsàva) come Rin chen bzang po e Mar pa.
Si affermò quindi decisamente il criterio di autorità della tradizione dottrinale indiana; già nel concilio di
bS am yas (792-794) era stata stabilita la sua ortodossia rispetto alle correnti cinesi. La validità di ogni particolare
insegnamento veniva dunque provata dalla fedeltà alle fonti indiane e dall'appartenenza a una linea di
trasmissione autentica., Il profondo rispetto per l'India come terra sacra di origine del buddhismo e come sede del
puro insegnamento del Buddha stesso, dei grandi santi e maestri, non è mai venuto meno nei Tibetani,
accompagnato da una speciale considerazione per l'alto livello della cultura sanscrita. Questo atteggiamento
trova una perfetta espressione nelle parole dell'attuale XIV Dalai Lama: «Ogni Tibetano spera di poter
andare un giorno in pellegrinaggio in India. Per noi è sempre stata la terra santa. Fu il luogo di nascita del
fondatore della cultura buddhista, e la fonte della saggezza portata fino alle nostre montagne centinaia di anni fa
dai santi e veggenti Indiani. Le religioni e le società del Tibet e dell'India si sono sviluppate su linee differenti, ma il
Tibet fu tuttavia figlio della civiltà indiana»".
" T. Gyatso, My land and
my people, Weidenfeld and Nicolson, Londra 1962, p. 124.
Su queste basi, ancora oggi, i Tibetani tengono a evidenziare la completa legittimità delle proprie scuole e la
purezza della tradizione buddhista tibetana, nonostante questa sia stata talora presentata in Occidente come un
bizzarro miscuglio di riti magici, di superstizioni e di depravate pratiche segrete, in cui la dottrina del Buddha
c'entrasse poco o nulla. A questo proposito, sempre il Dalai Lama ha scritto: «Alcune persone credono che la
religione del Tibet sia quella dei "lama", che hanno inventato un sistema detto "lamaismo". Dicono inoltre che
questo sistema è molto lontano dai veri insegnamenti del Signore Buddha. Tali opinioni sono inesatte, dal
momento che non esiste alcun "ismo" distinto dei lama a prescindere dagli insegnamenti del Signore Buddha... Gli
studiosi tibetani, affrontando molti e svariati sacrifici sulle strade per il Nepal e l'India, le percorsero più volte per
ottenere i manoscritti e le tradizioni corretti... Studiarono e praticarono il Dharma sotto la guida dei grandi e dotti
maestri la cui scienza era indiscutibile... A parte questo Dharma autentico non
esiste alcun insegnamento arbitrario iniziato in Tibet dai la
ma...
»'S.
Questo, naturalmente, non significa che non ci siano stati inevitabili adattamenti alle concezioni e alle
condizioni culturali e materiali completamente differenti da quelle
indiane. Anche le preesistenti credenze religiose, le pratiche e i simboli continuarono ad avere una propria
influenza venendo in qualche modo assimilati alla nuova fede, soprattutto a livello popolare.
Una delle quattro scuole principali del buddhismo tibetano è quella dei bKah rgyud pa, il cui lignaggio viene
fatto tradizionalmente risalire al fondatore mistico, Buddha vajradhara'6. La successione dei maestri inizia in
India
' Il termine «lamaismo», che oggi gli studiosi tendono ad evitare, è stato coniato dagli Occidentali e non aveva equivalenti in Tibet.
75
T. Gyatso, L'apertura dell'occhio della saggezza, Ubaldini, Roma 1982, pp. 18-19.
76
Le quattro scuole sono quelle dei rNying ma pa, dei Sa skya pa, dei bKah rgyud pa e dei dGe lugs pa. Vajradhara (Detentore del Vajra)
è il Buddha primevo (Adi Buddha), personificazione dell'essenza stessa della buddhità. Vajra, tib. rdo rje, è un termine importante nel
simbolismo del buddhismo tantrico, chiamato per l'appunto Vajraydna. Viene gene-
con Tilopa (988-1069), Nàropa (1016-1100) e continua con i maestri tibetani Mar pa (1012-1097?), Mi la ras
pa (1040-1123) e sGam po pa (1079-1153), l'autore de Il prezioso ornamento di liberazione. Potremmo quasi vedere
questo testo, al quale rimando per ogni eventuale approfondimento, come un segno tangibile della
continuità della dottrina del buddhismo tra India, Tibet e Occidente. Esso è infatti da diversi anni facilmente
accessibile in traduzione anche in Occidente dove, per di più, sono stati fondati diversi centri di studio e
meditazione che continuano il tradizionale insegnamento della scuola. Ma riprenderemo in seguito questo
discorso.
Il traduttore e curatore, H.V. Guenther, afferma che quest'opera è «indirizzata a tutti coloro che sono,
e potrebbero diventare, propensi alla spiritualità», dato che essa guida «lo studente dalle dottrine elementari del
buddhismo alla più profonda realizzazione della Buddhità»". Il Sentiero graduale (tib. lam rim) verso il
Risveglio o Perfezione spirituale, vale a dire lo stato del Buddha, trova il suo inizio e la sua base in una presa di
consapevolezza da parte dell'individuo intorno alla vera natura delle cose, dell'esistenza, di se stesso e dello
scopo della vita umana. Il samara è la condizione inconsapevole e nevrotica dell'essere fuorviato dalla
mancanza di conoscenza e discernimento spirituali, da cui ha origine ogni male. Significa trovarsi smarriti nella
confusione e nell'insensatezza della ciclicità dell'esistenza fenomenica, fintantoché si continua ad alimentare
idee e atteggiamenti erronei e illusori, che
ralmente tradotto come «diamante», ad indicare la natura della Realtà ultima: pura, cristallina, inalterabile, che non può essere scalfita.
Nella tradizione vedica il Vajra era il «fulmine», lo scettro di potere del dio In
dra. Questo simbolo fu dunque mantenuto nell'ambito del buddhismo, come si può vedere in molte raffigurazioni dell'arte gandhàrica, in cui il
Buddha è costantemente accompagnato da Vajrapàni, che regge un vaj
ra nella forma stilizzata di una mazza, simbolizzante il potere magico e spirituale del Buddha stesso. Nella pratica tantrica il vajra è uno
degli strumenti rituali più importanti: ha la forma di un piccolo scettro di me
tallo, viene tenuto nella mano destra e usato insieme alla campana (ghan, ,tà), tenuta nella sinistra. Diverse valenze di significato sono
attribuite ad entrambi; ad esempio, rappresentano rispettivamente l'abilità
nei metodi spirituali (o la compassione) e la saggezza trascendente. Per una descrizione dettagliata cf A. Govinda, op. cit., pp. 57-61.
" Dalla prefazione a sGam po pa, op. cit., p. 9.
impediscono la comprensione e l'attuazione della finalità e dell'autenticità del proprio essere". Questa diventa
naturalmente una situazione di insufficienza, di «mancanza», di sofferenza. Prendere coscienza di ciò è essenziale
e la visione buddhista è al proposito di grande ottimismo: l'attuale smarrimento potrà trasformarsi nella
«saggezza superiore» e nella santità del Risveglio spirituale. Questo è possibile perché tutti gli esseri, senza
eccezione, sono dotati di questa potenzialità, portano in sé il «seme della Buddhità» (scr.
tathàgatagarbha)79. Ci sono diversi tipi di uomini: «alcuni operano certamente solo il male; altri difettano di
qualità positive; ma perfino coloro che possiedono tali caratteristiche... non sono persone che saranno sempre
incapaci di raggiungere l'Illuminazione»".
L'ideale di santità nel Mahàyana è incarnato dal Bodhisattva, che si applica nel cammino religioso avendo
come scopo non solo la propria salvezza, ma anche quella degli altri esseri. «Gentile e non insolente, senza
inganno né frode, pieno d'amore per tutti gli esseri. Così è un bodhisattva... Applicarsi fin dall'inizio alla propria
opera con compassione, interesse devoto e resistenza paziente, e operare il bene - queste virtù sono note come i
segni distintivi di questa famiglia»". Infatti «colui che seriamente vuol disperdere tutte le sofferenze altrui,
perché... ha compreso la natura della sofferenza è l'uomo eccellente»".
'$ Quattro sono le «concezioni errate» (viparycua): «sotto il loro influsso si ricerca il permanente nell'impermanente, la gioia nel dolore, il
sé in ciò che non è il sé e il bello nel ripugnante»; E. Conze, Il pensiero
del buddhismo indiano, cit., p. 37. La stessa definizione viene data negli Yogasútra di Patanjali (cap. II, v. 5). Il vero difetto di base sta comunque
nell'abituale desiderio di gratificazione egotistica; infatti, come dice il
mistico Sàntideva (VII-VIII sec.), «tutte le catastrofi, tutti i dolori, tutti i pericoli del mondo, derivano dall'attaccamento all'io»; cf A. Pezzali,
Sàntideva e il bodhicaryàvatàra, EMI, Bologna 1982, p. 169.
79 «Questo tathàgatagarbha è la gemma nascosta nelle scorie... Esso è poi il bodhicitta, "il pensiero dell'Illuminazione", che non solo è punto di
arrivo dell'Illuminazione, della reintegrazione totale, ma è anche punto
di partenza: è la nostra interiore realtà, un lògos spermatikòs che a tutto soggiace e che noi dobbiamo ritrovare luminoso e splendente in mezzo
alla tenebra in cui siamo decaduti»; G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, Ubaldini, Roma 1969, p. 29.
`~ sGam po pa, op.cit., p. 23.
87
Ivi, pp. 27-28.
Ivi, p. 37.
12
Il percorso del sentiero interiore richiede la presenza e l'aiuto di guide adeguate, di «amici spirituali». Ogni
religione ha sottolineato, in modi diversi e specialmente nell'ambito dell'esperienza mistica, l'assoluta necessità
di un maestro spirituale pienamente qualificato che possa agire nei confronti del discepolo come «una guida
quando viaggiamo in un territorio sconosciuto, una scorta quando attraversiamo regioni pericolose, e un
traghettatore quando oltrepassiamo un grande fiume»"'.
L'insegnamento di base, come abbiamo già accennato, parte da una realistica analisi della condizione
dell'uomo nel mondo. La sofferenza umana non è priva di cause, «essa è sorta dalle azioni (karma) impure»" Le
radici di ogni male stanno nel comportamento negativo degli individui e nelle attitudini che lo causano:
cupidigia o desiderio (raga), malevolenza o odio (dvesa), illusione o ottenebramento (moha). La retta
condotta (sila), imprescindibile fondamento di tutta la pratica buddhista, trova il suo principio nell'abbandono
delle dieci azioni negative, causa di sofferenza per sé e per gli altri: tre del corpo (uccidere, rubare, avere condotta
sessuale scorretta); quattro della parola (mentire, calunniare, parlare aspramente, parlare a vanvera); tre
dell'animo (nutrire avidità, desiderare il male di altri, sostenere idee false o erronee). Il karma, l'azione
compiuta, dà origine secondo una concezione panindiana a un processo di «giustizia retributiva», che condiziona
inevitabilmente le sorti di ogni individuo nel corso delle sue molteplici esistenze. Questi diventa così
l'unico responsabile di ogni cosa, positiva o negativa, che gli accada.
ei Ivi, p. 44. Nell'ambito della tradizione ascetica del cristianesimo orientale, ricordiamo queste parole di Callisto e Ignazio di Xantopulos
(XIV secolo): «Non risparmiarti fatica nel cercare un maestro e una gui
da che non possa ingannarti... Dovrà essere un uomo animato dallo Spirito e dalla vita coerente con le parole che dice... Se uno viaggia senza
una guida facilmente smarrisce il sentiero e si perde...» Tra le virtù ne
cessarie nel monaco si indica dunque: «prima di tutto la fede: una fede pura e sincera nel maestro, fino a considerarlo e obbedirgli come se fosse lo stesso Cristo»; cf La Filocalia, a cura di G. Vannucci, Libreria Edi
trice Fiorentina, Firenze 1963z-1981, voi. Il, pp. 149-150. Sull'argomento si può vedere M.C. Minutiello, La devozione al maestro spirituale nella
tradizione religiosa dell'India e del Tibet, «Studi e ricerche sull'Oriente cristiano», anno XIV, fasc. 2, Roma 1991, pp. 267-281.
" sGam po pa, op.cit., p. 86.
«Col bene si ottiene il bene; dal male ha origine la sofferenza. Così è stato definito il risultato del buono o
cattivo karma... Da semi piccanti nascono frutti piccanti; da semi dolci frutti dolci. Con questo esempio il saggio
dovrebbe conoscere l'amaro risultato di azioni malvagie e il dolce risultato di buone azioni»".
Il Mahàyàna pone poi al centro della sua riflessione, e della sua pratica, l'essenzialità di un illimitato
sentimento di amicizia e amorevolezza nei confronti di tutti gli esseri viventi, che debbono essi stessi venir
guidati verso il bene e verso la felicità ultima. Il Bodhisattva deve giungere a nutrire nei confronti degli altri esseri
un sentimento analogo a quello di un figlio verso la propria madre. «Con gran benevolenza dall'intimo del suo
cuore sempre desidera procurar loro gioia»`. Conseguente è quindi la virtù cardinale della compassione, cioè «il
desiderio di liberare gli esseri dalla sofferenza e dalla sua causa»`. In questo modo si genera l'aspirazione a
realizzare la suprema Illuminazione, la condizione di Buddha, che permette di essere veramente guida e rifugio
per gli altri nel cammino di liberazione. La pratica da seguire a questo punto si articola nell'accumulazione di
meriti (punyasambhàra) e nell'accumulazione di consapevolezza spirituale (jnànasambhàra), attraverso
l'esercizio delle virtù definite «Perfezioni»
(pàramità).
La perfezione della generosità (dana) «è donare senza attaccamento»$g, senza volere nulla in cambio. Naturalmente l'eccellenza della generosità sta nel «fare dono del Dharma con una mente pura e libera dalle
considerazioni materiali»".
La perfezione dell'etica o moralità (Pila) è, come abbiamo già notato, il fondamento di tutta la pratica. « È
stato
•
Ivi, p.
99.
• Ivi, p. 106.
• Ivi, p. 109. Un ruolo centrale viene assegnato in tutta la pratica buddhista all'esercizio delle quattro attitudini «illimitate», dette anche
«dimore di Brahrnd o divine» (brahmavihàra): benevolenza (maitri), compassione (karu,nà), gioia altruistica (muditd), equanimità (upeksd).
Tali sentimenti sono generalmente prescritti nella pratica dello yoga, come si può vedere negli Yogasútra di Patafijali (cap. I, v. 33).
• sGam po pa, op.cit., p. 166.
89
I v i , p.170
detto che l'etica, proprio come la terra su cui risiedono il mobile e l'immobile, è la base di tutte le virtù»".
La perfezione della pazienza o sopportazione (ksànti) è di grande importanza come antidoto ai gravi danni della collera.
«L'ira, infatti, distrugge la base del bene che è stato accumulato in centinaia di milioni di coni."... Non c'è cosa peggiore
del malanimo, come non c'è austerità maggiore della pazienza»`.
La perfezione del vigore, dell'energia (virya) comporta la perseveranza entusiastica nel seguire il Sentiero e nel praticare
la virtù. «Se siamo vigorosi tutte le qualità positive accrescono il loro splendore''... L'essenza del vigore è sforzarsi per il
bene... E il rimedio contro la pigrizia. E dirigere la propria mente verso il bene» y'.
La perfezione della meditazione introspettiva (dhyàna) è anch'essa essenziale nell'ascesi del buddhismo, che ne ha
analizzato e coltivato con profondità unica le diverse modalità e i successivi stadi di progressione. La pratica della
meditazione agisce come rimedio all'abituale agitazione e all'instabilità emotiva della mente umana, rendendo possibile
il ritorno al profondo silenzio dell'interiorità, fondamentale per un autentico discernimento della realtà delle cose e di se
stessi e per il sorgere della conoscenza superiore. «Chi non pratica la meditazione, nonostante sia generoso e possegga
tutte le altre qualità, diventa vittima dell'inquietudine e la sua mente è dilaniata dalle emozioni... Quando non si realizza
la tranquillità non sorge la cognizione soprasensibile; chi è senza questo potere non può lavorare per gli esseri
senzienti"... L'essenza della concentrazione è la tranquillità dell'unione della mente in sé con il bene»`.
In questo modo si può dunque giungere alla perfezione dalla saggezza superiore (prajnà), frutto di conoscenza intuitiva
che sperimenta direttamente la Realtà ultima al di là del sapere discorsivo. La dottrina relativa alla prajnà
~' Ivi, p. 177. y' Ivi, p. 186.
`~ ]vi, p. 187. y' Ivi, p. 195.
ya ]vi, p. 196.
y' Ivi, p. 201. °~ Ivi, p. 203.
pàramità è divenuta centrale nel Mahàyàna, dando origine a una letteratura specifica a essa dedicata. Un
certo componimento così si esprime: «La prajnàpàramità, il vero dharma, è esente da critica, esso allontana
pensiero, nozione, visione, e annienta gli elementi del discorso... Immacolata come lo spazio, libera dalla
discorsività e dalla designazione, chi vede così la prajnà allora vede il Buddha. A vederli secondo la norma, il
Buddha, la prajnà e il nirvàna, queste tre cose sono identiche, fra esse non vi è differenza alcuna. La prajnà è la
madre dei buddha e dei bodhisattva, essa li mette al mondo e li nutre. La prajnà è un dharma unico al quale il
Buddha applica ogni sorta di nomi, a seconda della capacità degli esseri egli usa vocaboli differenti. Per colui che
ha intuito la prajnà discorsi e pensieri si vanificano, come, al levar del sole, in un momento, evapora la rugiada
mattutina»".
Anche le azioni di un essere illuminato da tale conoscenza superiore, un Buddha, spontaneamente dirette al
beneficio degli innumerevoli esseri ancora coinvolti nel samsàra, superano ogni immaginazione.
Le sempre maggiori possibilità di relazione tra culture e religioni diverse hanno portato l'Occidente,
soprattutto negli ultimi decenni, a incontrare in modo consistente il buddhismo e a cercare di comprendere
l'importanza e la grandezza spirituale del suo messaggio. «La storia della scoperta del buddhismo non è per noi la
scoperta di un fatto puramente profano... Essa è una delle linee - una delle molte altre, certamente - che segnano il
volto di questa Europa in cui viviamo; una delle componenti che, spiegate. contribuiscono a spiegare noi a noi
stessi. Lungi dall'essere compiuta, tale scoperta entra, a nostro giudizio, nella sua fase più importante e impone
all'intelligenza cristiana una riflessione che non potrebbe essere tralasciata senza danno»".
°' Attribuito a Ràhulabhadra e riportato in A. Pezzali. Storia del buddhismo, EMI, Bologna 1983, pp. 244-245.
°" H. de Lubac, Buddhismo e Occidente, Jaca Book. Milano 1987. p. 13. Si veda anche sull'argomento M.C. Minutiello. B ud d h is mo e Oc c i
dente, «Religione & Scuola», anno XIX n. 4-5, Brescia 1990-1. pp. 51-56.
Troppo spazio occorrerebbe per tracciare la storia dei rapporti tra buddhismo e Occidente, per la quale
rimando all'opera di H. de Lubac da cui è tratta la citazione sopra riportata. Si può comunque ricordare qui che
i contatti divennero più intensi a seguito dei viaggi di esplorazione e di commercio in Asia e, soprattutto, dell'attività
di evangelizzazione dei missionari cristiani. E chiaro che i primi rapporti furono condizionati in modo negativo
dalla mancanza di una preparazione di studio e di un'adeguata conoscenza preliminare, che inevitabilmente
portava confusione e fraintendimenti negli osservatori occidentali. Tale atteggiamento cominciò a cambiare,
soprattutto a partire dal XVII secolo, quando i missionari avvertirono l'esigenza di intraprendere un serio dialogo
interculturale, con lo studio delle lingue e dei testi sacri. In epoca coloniale le discipline orientalistiche divennero
oggetto di interesse scientifico, con le prime traduzioni e le opere pionieristiche degli specialisti e dei filologi.
A partire dagli inizi del nostro secolo, l'interesse per il buddhismo ha cominciato a coinvolgere anche quegli
Occidentali che si ponevano alla ricerca di nuove risposte alle proprie esigenze spirituali. Nei decenni
seguenti si è avuta quindi una certa espansione di questo interesse, fino a giungere col tempo alla creazione di
centri e comunità con lo scopo di approfondire la conoscenza e la pratica della dottrina buddhista, sotto la
guida di qualificati maestri che trasmettono l'insegnamento tradizionale. Si avverte tuttavia anche l'esigenza di
trovare una via che porti alla formazione di un «buddhismo occidentale». Nel 1975 è stata fondata a Parigi
l'Unione Buddhista Europea (UBE), alla quale aderiscono le varie istituzioni sorte nei paesi europei; una
delegazione di tale organismo è stata ricevuta nel 1989 in Vaticano per un primo incontro ufficiale con il Consiglio
pontificio per il dialogo interreligioso. In connessione con l'Unione europea è stata fondata nel 1985 anche
l'Unione Buddhista Italiana (UBI), che raggruppa quasi una trentina di centri ed è già stata riconosciuta
quale ente morale a fini di culto.
È evidente che la figura del Buddha e il suo messaggio esercitano un forte fascino anche sugli Occidentali. Non è
certo un caso che un teologo cattolico come Romano Guardini, molti anni prima dell'apertura al dialogo
sancita dal Concilio Vaticano II, scrivesse: «C'è una sola perso
na che potrebbe far sorgere l'idea di collocarla accanto a Gesù: Buddha. Quest'uomo costituisce un grande mistero. Egli
se ne sta in una libertà terribile, quasi sovrumana. e nel contempo possiede una bontà, possente come una forza cosmica.
Forse Buddha, sarà l'ultimo con cui il cristianesimo deve confrontarsi. Che cosa egli rappresenti dal punto di vista
cristiano, non lo ha ancora detto nessuno»'.
Alcuni dei motivi dell'interesse suscitato da questa personalità e dal suo insegnamento possono, a mio avviso, emergere
facilmente da quanto si è finora esposto: l'universalità di una dottrina diretta a tutti gli uomini in quanto tali, senza
distinzione di nascita, condizione sociale o capacità personali; la dignità, dunque, assegnata all'essere umano nella
ricerca della Verità e della salvezza, con la possibilità di prendere in mano il proprio destino; la totale assenza di
dogmatismo e il superamento di ogni pregiudizio e di ogni superstizione, con il rifiuto di un pedissequo ossequio alla
tradizione religiosa irrigiditasi nel formalismo; l'esaltazione della purezza e della sincerità dei valori etici e del rispetto
nei riguardi di tutto ciò che ha vita; la riscoperta di una dimensione introspettiva per la conoscenza della natura più
profonda di sé, base effettiva di ogni ulteriore realizzazione spirituale; una visione totale della realtà che spesso si
avvicina in modo sorprendente alle concezioni e alle scoperte della scienza e della mentalità moderne'°°.
Il Così nella sua opera Der Herr del 1937; il passo è riportato da H. Kiing, op.cit., p. 370; M. Zago, Buddhismo e
cristianesimo in dialogo, cit., p. 5, menziona lo stesso brano dall'edizione francese del 1947, Le Sei
gneur; in nota fa presente che questo fu soppresso nell'edizione italiana del 1949. È chiaro che l'accostamento proposto
non intende in nessun modo ignorare o sminuire l'irriducibile diversità tra le due figure. «R.
Otto, in un famoso passo de Il sacro, non può a un certo punto non esclamare: "Cristo è più che un profeta, è il Figlio"...
La divinità di Cristo non ha riscontri nella storia delle religioni. Anche dal punto di vista pu
ramente storico occorre riconoscere che l'attribuzione che Cristo si dà oltrepassa tutto il mondo precedente e non trova
confronti immediati. In Cristo si dà qualcosa di "eccedente", che esce da ogni paradigma conosciuto»; A. N. Terrin,
Introduzione allo studio comparato delle religioni,
Morcelliana, Brescia 1991, p. 112.
'l Come scrive lo scienziato americano E Capra, «dalla fisica moderna sta iniziando a emergere una visione coerente del
mondo che si trova in armonia con la saggezza dell'antico Oriente... L'influenza della fisica moderna va al di là della
tecnologia; si estende all'ambito del pensiero e
È chiaro che un aspetto importantissimo dell'incontro dell'Occidente con il buddhismo è dato dai
rapporti di questo con il cristianesimo. In generale, credo si possa affermare che tali rapporti - avviati ormai da
decenni e approfonditi attraverso incontri tra le rispettive autorità religiose, confronti e studi dottrinali, esperienze
di dialogo inter-monastico - siano molto promettenti e senza dubbio porteranno frutti positivi per la
comprensione e l'arricchimento reciproci.
Ma, oltre al dialogo interreligioso, credo che frutti ancora più generosi, se pur meno appariscenti, saranno
raccolti da chi in questo ambito vive dentro di sé la dimensione del dialogo intrareligioso, come stupendamente lo
ha definito R. Panikkar. Questo richiede «un atteggiamento di ricerca profonda, una convinzione che stiamo
camminando su un suolo sacro ...101 diventa esso stesso un itinerario religioso... Si effettua nel cuore della
persona umana alla ricerca del proprio sentiero... La ricerca diventa una preghiera, una preghiera aperta verso
tutte le direzioni... Il dialogo intrareligioso non fa rumore. Esso si svolge nell'intimo della
persona»102.
Anche questo è un itinerario verso quella Luce che ha illuminato tutti gli uomini che l'hanno cercata con
dedizione e sincerità complete, e che si è fatta trovare con doni diversi, in modi diversi, in tempi diversi, con parole
diverse, perché la Sua ricchezza è infinita e al di sopra di ogni nostra comprensione.
della cultura, dove ha determinato una profonda revisione della concezione che l'uomo ha dell'universo e del proprio rapporto con esso», con
«profondi cambiamenti in concetti quali spazio, tempo, materia, oggetto,
2
causa ed effetto ecc...»; Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1989 , pp. 12, 18, 63. Particolarmente attuali appaiono certi principi sottolineati
dalla dottrina buddhista, quali l'interdipendenza di tutti i fenomeni e di tutto
ciò che esiste, la natura d'incessante dinamismo dell'universo, l'unione degli opposti e di ciò che appare separato in una superiore realtà
unificatrice.
101
R. Panikkar, op.cit., p.11. Ivi, pp. 16-17.
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