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36 Cultura
Domenica 12 Dicembre 2010 Corriere della Sera
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I luoghi
Come raccende il gusto il mutar esca / così mi par che la mia istoria, quanto /
or qua or là più variata sia, / meno a chi l’udirà noiosa fia (Ludovico Ariosto)
Le ville
Umbria
CITTÀ
DI CASTELLO
Dipingere come
insegnava Vasari
«Tenendo innanzi frutte
naturali per ritrarle dal
vivo» consigliava Giorgio
Vasari ai pittori che nel
Cinquecento dipingevano
nell’Alta Valle del Tevere. E
gli artisti andavano a
cercare i loro modelli
nell’orto. Così fece
Cristofano Gherardi di
Sansepolcro detto il
Doceno, che lavorò sia alla
Palazzina Vitelli sia a
Palazzo Bufalini, oggi
riaperte al pubblico dopo
un lungo restauro.
Gherardi incornicia le
scene mitologiche con
festoni di frutta e verdura.
Un podere con 400 varietà
di alberi antichi, restituiti
da Livio e Isabella Dalla
Ragione al gusto e alla vista.
Poco prima dell’estinzione
Mele rotolone e pere briache:
qui salviamo la frutta del ’500
Tutte le piante sono «adottate» da amici e sostenitori, ma non dalle istituzioni
di LAURETTA COLONNELLI
G
érard Depardieu ha adottato a distanza la pera briaca,
dalla polpa succosa, zuccherina e rossa come se fosse
imbevuta di vino. La pianta
che la produce vive nell’«archivio di archeologia arborea», un fazzoletto di terra
a due passi da Città di Castello, che una volta apparteneva alla parrocchia del paesello di Lerchi e oggi
viene coltivato a frutteto da Isabella Dalla Ragione. Il
podere di San Lorenzo, che include anche una casa
colonica e una chiesetta risalente al XII secolo, ospita, insieme alla pera briaca, circa quattrocento piante antiche da frutta. Tutte salvate dall’estinzione un
attimo prima che le esigenze dell’agricoltura intensiva, basata sulla monocultura, facessero tagliare le alberate e sparire una gran varietà di frutti selezionati
da generazioni di contadini. «Nei testi latini di agricoltura, come quelli di Columella, Varrone e Plinio
— ricorda Isabella, che si è laureata in Agraria e lavora per la Regione abruzzese — troviamo una folta varietà di fichi, mandorli, peri, meli, nespoli, sorbi, di
cui non si ha più traccia alcuna. Ma non occorre andare così lontano nel tempo; nei trattati di frutticultura dell’Ottocento si contavano un centinaio di varietà
di melo, mentre all’inizio del Novecento si era scesi a
cinquanta, per arrivare alla produzione odierna basata per l’ottanta per cento su tre sole varietà».
Nel campo terrazzato del podere di San Lorenzo,
che guarda verso il monte di Santa Maria Tiberina,
convivono circa settanta specie, i cui nomi sono stati
dimenticati: la pera volpina e la mela rotolona, il fico
permaloso e la pesca sanguinella, la susina scosciamonaca e l’uva passerina. Frutti identici a quelli dipinti nel Cinquecento sulle volte della Palazzina Vitelli a Città di Castello e di Palazzo Bufalini nella vicina
San Giustino da artisti come Cristofano Gherardi detto il Doceno, citato abbondantemente nelle sue Vite
dal Vasari, di cui fu collaboratore in varie imprese
pittoriche al di fuori della Toscana. Le due dimore
nobiliari, recentemente restaurate, si possono visitare su appuntamento. Isabella ha raccolto in un libro
(Tenendo innanzi frutta, Petruzzi editore) le foto degli affreschi e quelle del suo frutteto: le varietà sono
le stesse. Scavando negli archivi di Palazzo Bufalini
ha ritrovato anche le antiche denominazioni: le pere
moscatelle e garofine, le mele muse e rosone, l’uva
cornetta e la nespola, la cotogna e la zucca del pellegrino.
La diversità genetica insita nelle varie specie permetteva la coltivazione, nello stesso campo, di piante resistenti alle diverse malattie, in grado di sopportare alcune il freddo altre la siccità, sì da mantenere
il rendimento medio di anno in anno. Inoltre, maturando ogni varietà in un momento diverso della stagione, veniva assicurata la disponibilità costante di
frutta in epoche in cui non esistevano frigoriferi per
la conservazione. Si cominciava la raccolta a maggio
Nella foto grande: Isabella Dalla
Ragione con la frutta raccolta. Sopra,
dall’alto: le pere affrescate nel ’500 e
l’uva sui filari. Sotto: il nome della
pianta e quello della signora che l’ha
adottata. A destra: meloni affrescati
e coltivati a confronto (servizio
fotografico di Benvegnù-Guaitoli)
con le diverse varietà di ciliegie e si continuava fino
ai primi di novembre, con le mele e le pere che, riposte nel fruttaio, duravano fino alla primavera successiva. Isabella conserva le sue nella vecchia chiesetta,
in grandi cesti di paglia distribuiti sulla lunga tavola
di fronte all’altare. L’uva per il vinsanto la fa invece
appassire appesa, fino a febbraio, alle travi della cucina, creando un firmamento di grappoli il cui profumo invade tutta la casa.
Il suo archivio è conosciuto in tutto il mondo. «Ma
a nessuna istituzione è venuto in mente di dare un
sostegno a questa piccola iniziativa» dice. L’unico aiuto le arriva dai privati. Le sue quattrocento piante sono state tutte adottate da altrettanti soci di «Archeologia arborea» (www.archeologiaarborea.org), con un
piccolo contributo in denaro e l’impegno a visitare il
«proprio» albero almeno una volta all’anno, portando in regalo un sacchetto di letame naturale. Il raccolto è del socio che però, secondo un’antica tradizione
locale, deve lasciare tre frutti: uno per
il sole, uno per la terra e uno per la
pianta, che ha lavorato duramente e si
merita un premio. Se il socio non si
presenta, i frutti vengono lasciati sull’albero e regalati agli animali del bosco: caprioli e scoiattoli soprattutto.
Passeggiando per il frutteto, in questa
stagione alle soglie dell’inverno, si vede ancora risplendere tra i rami spogli
il colore dorato di qualche mela intirizzita. Una piccola melagrana rosseggia
sopra il grande sasso di tufo ai piedi di
una quercia. Lì, protette da una croce
fatta con due rami di acero, riposano
le ceneri di Livio Dalla Ragione, padre
di Isabella. Sulla lapide sono scolpiti il nome, la data
di nascita e quella della morte, avvenuta tre anni fa. A
fianco, un’altra iscrizione, più piccola e su una targa
di ferro, segnala che lì giace un certo Romeo. «L’oco
del babbo» racconta Isabella. «È vissuto per ventiquattro anni, età veneranda per un pennuto. Sono invecchiati insieme. Negli ultimi tempi il babbo aveva
una gamba malata e l’oco si era rovinato una zampa.
Prendevano lo stesso antibiotico. Passavano le giornate uno accanto all’altro. "Non farmi lo scherzo di morire prima di me" gli ripeteva il babbo. Romeo ha ubbidito. Se n’è andato tre giorni dopo».
È stata di Livio l’idea di salvare le piante a rischio
I protagonisti
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L’idea di salvare le piante fu di Livio,
un artista amico di Corrado Cagli
e di altri pittori informali, che negli anni
60 scoprì una passione per l’antropologia
L’archivio
Agronoma e
ricercatrice, Isabella
Dalla Ragione
ha cominciato 25
anni fa a custodire
la biodiversità
coltivando nel podere
di San Lorenzo
antiche varietà
di frutta. Nel libro
«Tenendo innanzi
frutta» (editore
Petruzzi) ha messo
a confronto mele,
pere, fichi e pesche
del suo archivio
di «archeologia
arborea» con i frutti
dipinti nel ’500 negli
affreschi della
Palazzina Vitelli a
Città di Castello e di
Palazzo Bufalini nella
vicina San Giustino.
Ora è in libreria
«Frutti ritrovati. 100
varietà antiche e rare
da scoprire» (edizioni
Mondadori Arte),
in cui Isabella
ricostruisce la storia
di pomari e frutteti
che fin dall’antichità
appaiono accanto alle
case coloniche o nei
giardini principeschi.
La collezione
di «Archeologia
arborea»
si può visitare
su prenotazione
da aprile a ottobre,
tel. 335/61.28.439
di estinzione. Artista, amico di Corrado Cagli e di altri pittori informali, all’inizio degli anni Sessanta si
scoprì una passione per l’antropologia, abbandonò
Roma, comprò il podere di San Lorenzo e cominciò
a girare per le campagne alla ricerca delle storie dei
vecchi contadini. «A furia di camminare per i campi
— racconta Isabella — si ricordò di quando ragazzino andava a rubare la pera briaca o la mela fiorentina
dagli alberi dei poderi vicini o di quando mangiava
per merenda pane e fichi o pane e ciliegie. Sulla scia
degli odori e dei sapori del passato ha cominciato a
ritrovare le piante dei ricordi. Anch’io, appena adolescente, lo seguivo nella ricerca. Non solo setacciando
il territorio dell’alta valle del Tevere e interrogando
contadini vecchissimi, ma visitando archivi e biblioteche dove potevamo trovare libri e manuali delle antiche scuole ambulanti di agricoltura, per rintracciare le vecchie varietà e il loro utilizzo, i modi di coltivarle e di innestarle». Ma soprattutto, Livio e Isabella
sono corsi a salvarle. Armati di macchina fotografica
per documentare tutto quello che era possibile, di
forbici potatoie per prendere le marze per gli innesti
e di bottiglie piene d’acqua per conservarle fino all’estate, il momento più adatto per la propagazione.
«Le difficoltà sono state molte. Le vecchie piante madri si trovavano in posti impervi e spesso erano talmente rinsecchite
che non avevano i rami vivi per l’innesto. Allora toccava potarle e tornare qualche mese
dopo a prendere le marze, con il rischio di
non trovare più la pianta che nel frattempo
era stata tagliata. E bisognava tornare ancora per vederne i frutti e riuscire a identificare la varietà». Ogni pianta conservata a San
Lorenzo ha una storia. La mela del castagno
fu rinvenuta a Casalini, luogo sperduto tra
le colline sopra Morra, nel podere di un contadino novantenne, Angelo. «Si ricordava
che suo nonno aveva trovato un piccolo melo nato spontaneamente dentro un tronco
cavo di castagno. Credendo che fosse selvatico, decise di innestarlo per farne un albero
da frutto vero. Ma l’innesto fallì e il nonno
di Angelo pensò: "Vuol dire che non lo vuole". E rivolto al melo: "Allora fa’ come ti pare!". Lo lasciò crescere dentro il tronco del
castagno finché questo alberino cominciò a
produrre mele tutt’altro che selvatiche: grandi e saporite, di polpa bianca e croccante, la
buccia di un bel verde con qualche striatura vinosa.
Ma soprattutto, raccolte con la luna calante di ottobre, si conservavano in fruttaio fino a Pasqua». La
ricerca non è finita. «Dove sarà il fico rondinino di
cui abbiamo letto e sentito parlare, ma di cui si sono
perse le tracce? E la tanto decantata pera carovella,
coltivata in tutti i giardini dei signori al tempo del
Rinascimento?».
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Il vocabolario
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Sono centinaia le specie dai nomi
dimenticati: la pera volpina, il fico
permaloso, la susina scosciamonaca,
l’uva passerina, la pesca sanguinella...