La “co-scienza” di Gaia Lo tsunami in Giappone di Cesare Corselli Negli anni trascorsi, seconda metà del 20° secolo, prese corpo una “nuova” visione del pianeta Terra (“Oceano” per i più attenti). Si cominciò a parlare di un pianeta “vivente”, che mostrava le sue diverse anime in tempi e modi diversi, ma che in ogni caso seguiva un ritmico pulsare nella sua esistenza. In quella poetica immagine, nata dall’osservazione di una delle creature che appartenevano a una delle “sfere” da cui Gaia è formata (atmosfera, idrosfera, litosfera e biosfera), si è cercato di dare una rappresentazione “umana” di quella che è, per quanto si riesca a conoscere, la realtà del cosmo. Una realtà che mostra il pianeta sul quale viviamo come un piccolo corpo celeste, privo di luce propria, relegato ai margini di una delle innumerevoli galassie che formano l’universo (si potrebbe anche aggiungere l’aggettivo “conosciuto” alla parola universo, non si apprezzerebbe la differenza). Se dovessimo, in una unità di misura familiare alla nostra specie, che si è auto-proclamata “Homo sapiens”, classificare questo piccolo corpo celeste, incontreremmo qualche problema nel definire il numero di zero che dovrebbero seguire la virgola nel definire, statisticamente, la sua posizione: probabilmente al limite opposto di “infinito”, parola che di per sé rappresenta già l’inadeguatezza dei nostri sistemi di misurazione. Questa concezione di un pianeta “vivente” si è molto radicata nell’immaginario di una parte, definiamola più sensibile, della popolazione umana. La science-fiction, in trasposizione cinematografica, ne ha appena fornito un ulteriore esempio nella pellicola “Avatar”. Ma in questa, come nelle altre rappresentazioni di Gaia, vi è un errore di fondo. Pandora, un nome profetico, non è il “migliore dei mondi possibili”. Bisogna accettarne le regole, non modificabili, per potervi vivere in armonia. Per accettare bisogna però conoscere a fondo le regole stesse. I paradigmi e i ritmi temporali alla base di queste regole sono conosciuti solo nelle loro grandi linee, a volte solo intuiti. Si può far finta che tali regole non esistano o meglio si può sperare che statisticamente non possa accadere di subire o assistere al materiale compiersi di una di queste regole, ma in tutti i casi il risultato non cambia. L’Oceano Pacifico, come gli altri oceani del pianeta, è in fase di espansione, un giovane oceano a fronte di un ben più vecchio pianeta. Gli oceani del passato, quelli geologicamente più vecchi, oggi sono, ma solo in parte, le attuali catene montuose; la loro parte maggiore si è consumata nel corso dei tempi geologici nel fenomeno di subduzione: un “lento” scivolare della crosta oceanica al di sotto della crosta continentale. I modi e i tempi di questa subduzione possono sembrare quelli della famosa tartaruga in gara con il prestante Achille: pochi centimetri percorsi nell’arco di un anno a fronte del “bestiario alato” dei discendenti dell’eroe omerico, che in una piccola frazione dello stesso periodo temporale percorre più volte il tragitto tra una sponda e l’altra dello stesso oceano. Ma i pochi centimetri di un anno diventano metri o decine di metri nell’arco della vita di Achille e lo scorrere della crosta oceanica al di sotto della crosta continentale non è cosa facile. Non vi è lubrificante e l’attrito impedisce il moto regolare fino a quando l’attrito non è superato e allora lo spazio che la tartaruga doveva percorrere in 10-20 o più anni viene divorato in una frazione di tempo e il vaso, Pandora, rilascia tutti i suoi doni: terremoti devastanti. Spesso, lo scatto in avanti della crosta oceanica scuote la massa liquida sovrastante e un muro d’acqua si avventa sulle coste della “zattera” continentale. L’ Homo sapiens ha coscienza di tutto questo, è quasi un ricordo “genetico”: il Diluvio Universale, la scomparsa di Atlantide. A volte è testimonianza storica presente anche in aree lontane dall’Oceano Pacifico (il maremoto di Reggio Calabria e Messina, 1908, Lisbona, 1755); a volte è cronaca di mesi, anni da poco passati (lo tsunami del Cile del 2010, Sumatra, 2004, ). Questa coscienza di cosa sia realmente Gaia viene troppo facilmente sepolta a fronte dell’illusione che quest’anno il vaso di Pandora non si aprirà. Così si decide che è non produttivo investire troppo denaro nelle Cassandre di Gaia, anche se il costo della ricerca scientifica necessaria si rivelerà, al compiersi di un evento catastrofico, come l’attuale crisi sismica che interessa il Giappone, ben inferiore ai danni prodotti dalla crisi stessa. Meglio investire il duttile e malleabile metallo giallo nel campo di Pinocchio, nei fondi spazzatura, nel produrre nuovi gadget elettronici e sopra ogni cosa nel far sognare l’Homo sapiens e i suoi figli, nel convincerlo che la realtà vera è quella dei sogni, dell’Isola che non c’è e che l’onda assassina appartiene al mondo degli incubi notturni, è solo una fiction cinematografica da vivere in 3D circondati dal surround di un multisala, dove si può chiudere anche gli occhi e attendere che l’onda sia passata. In tutto questo “sogno” ci si illude di conoscere bene il funzionamento del sistema e se qualcosa di dubbio rimane, sarà la statistica a dare una mano: confortando i “bambini” che giocano nel pagliaio con la scatola dei fiammiferi, sottratta agli dei, e assicurando loro che il bastoncino fiammeggiante potrà sempre essere spento con un semplice soffio delle labbra. E’, infatti, dimostrato statisticamente che la fiamma è sempre stata spenta in quel modo. Ma se mancherà, al momento giusto, il fiato, spezzato dal bruciore della fiamma sulle piccole dita?. Non ci sono problemi: penserà a tutto l’assicurazione. Insomma su 440 centrali nucleari distribuite nel mondo una che ha qualche “problema” cosa rappresenta: solo poco più dello 0,22 per cento e, infine, quello 0,22 % deve riferirsi proprio alla centrale vicino casa ? Non è vero che su Gaia è l’erba del vicino quella sempre più verde! Ma tra una riflessione e l’altra è comparsa la pubblicità di quel nuovo mostro che lascerà gli altri fermi al semaforo, diventato verde, come tartarughe, a vederci scomparire lontano, quali novelli Achille, sull’onda di una vecchia canzone di Bob Dylan: A Hard Rain’s A-Gonna Fall.