Parla padre Bartolomeo Sorge, intervenuto a Piacenza per la Settimana Sociale: “Non perdiamo il
coraggio”
“Siamo minoranza, ma niente paura”
Il gesuita: i cristiani tornino in politica. Ed è bene essere in più schieramenti, De Gasperi sarebbe
d’accordo
Qual è il ruolo dei cristiani nella società odierna? Lo chiediamo al gesuita padre Bartolomeo Sorge,
direttore di “Aggiornamenti sociali”, che è stato testimone e protagonista delle battaglie sociali della
Chiesa negli ultimi quarant’anni, indicando nel cristiano, come lui stesso dice, “il costruttore della
casa di tutti”.
Padre Sorge è intervenuto nei giorni scorsi a Piacenza alla Settimana Sociale per parlare della crisi
della democrazia. Il suo intervento si è svolto in un momento particolare per i cattolici, impegnati a
difendere, senza più il collante del partito unico di ispirazione cattolica, alcuni valori fondamentali
di ispirazione cristiana in una società laica e pluralista.
Cristiani e politica
— Padre Sorge, come deve comportarsi il cristiano in politica?
Il Papa alla Settimana Sociale di Bologna ha affermato che i cattolici sono invitati non soltanto a
rendere viva la società civile, per esempio attraverso le attività di volontariato, ma anche a
riconsiderare il loro impegno nei luoghi pubblici. Non è il momento di abbandonare la politica,
magari per paura di perdere la nostra identità.
Non ci vergogniamo di essere cristiani: dobbiamo testimoniarlo pubblicamente con la nostra parola,
con la nostra testimonianza. Non basta ribadirlo in modo teorico, facendo la solita litania sui valori
cristiani, ma è necessario conferire uno stile cristiano al fare politico, nel rispetto dei valori della
laicità e del pluralismo; impegnarsi personalmente senza paura di compromettere la propria
coscienza.
Siamo uomini dell’assoluto, ma l’equidistanza non vuol dire neutralità rispetto alle filosofie
politiche che ispirano le scelte politiche.
— Ma che rapporto deve esserci fra religione e politica?
La fede non ha mai pensato di imbrigliare in rigidi schemi i contenuti sociali e politici. Occorre
distinguere fra i principi etici, che sono assoluti e immutabili, e l’azione politica, che non consiste
nella realizzazione immediata dei principi assoluti, ma nella loro realizzazione possibile in un
determinato contesto.
Vorrei citare il cardinale Martini, che nei suoi scritti ha superato la tesi del male minore: il cristiano
non deve scegliere in politica il male minore, ma fare il maggior bene possibile. Siamo minoranza
ma non abbiamo paura a testimoniare e annunciare il vangelo accettando le regole democratiche.
In più partiti
— Oggi però i cristiani sono politicamente divisi. Cosa ne pensa?
Ci sono sempre state due anime nel movimento cattolico. Ricordo che Sturzo definiva la
democrazia cristiana non un partito, ma un coacervo di partiti, di culture politiche diverse.
Andreotti, a dieci anni dalla morte di De Gasperi, ha pubblicato il diario dell’amico Bonomelli.
Ebbene, c’era scritto che il 18 aprile 1948, quando la DC conquistò la maggioranza assoluta dei
voti, De Gasperi era felice, perché era bene che i cattolici fossero rimasti uniti contro il pericolo del
comunismo, ma auspicava che venisse il giorno in cui i cattolici si sarebbero potuti dividere fra
conservatori e progressisti.
— Ha un fondamento l’uguaglianza fra cristiano e moderato?
Ancora Sturzo diceva di non sapere cosa farne dei cattolici moderati, perché sono dei fossili, e si
appellava a quegli spiriti “liberi e forti” che non hanno paura del cambiamento. Bisogna capire che
il vangelo è un’ispirazione coraggiosa. Noi cattolici non siamo la gamba moderata del sistema. Io
sono cristiano e sono per il cambiamento. Trovatemi un cristiano moderato da san Francesco in poi.
Il grande coraggio
dei nuovi martiri
— Lei ha lavorato con gli spiriti “liberi e forti”. Ci racconta?
Giovanni Paolo I mi ha mandato come esperto a Puebla. Mi hanno assegnato alla commissione che
doveva studiare la teologia della liberazione, insieme con Helder Camara e Oscar Romero. Quello
che mi ha colpito è l’umiltà di questi personaggi, la remissività. Non erano affatto teste calde,
fanatici. Romero non era un politicante, era un santo.
La confidenza che mi fece riguarda la sua morte. Mi disse che avevano appena ucciso il quarto
sacerdote della sua diocesi, ed era sicuro che avrebbero ucciso presto anche lui. Un anno dopo è
successo. Ma era sereno, niente affatto preoccupato. Allora io dissi che quello era il volto dei
martiri dei nuovi tempi.
— Chi sono i veri martiri dei nostri tempi?
Sostengo la tesi che il martire in passato veniva ucciso “in odium fidei”, in odio della fede, ma
questi ultimi martiri sono stati uccisi “in odium amoris”. E’ un amore che certamente si radica nella
fede, ma, per fare un esempio, Massimiliano Kolbe non è stato ucciso perché era prete, bensì perché
si è offerto al posto di quel padre di famiglia.
Così don Puglisi non è stato ucciso perché era prete, ma perché amava i ragazzi e li strappava alla
mafia. Allo stesso modo Romero non è stato ucciso perché stava recitando il Credo, ma perché
amava i campesinos. Oggi ci uccidono non tanto perché crediamo, ma perché amiamo. Ti uccidono
quando ami i poveri e prendi la loro parte.
Il lavoro a Palermo
— Don Puglisi ha partecipato alla sua stessa lotta contro la mafia. Cosa è avvenuto in quegli anni a
Palermo?
A Palermo c’era un clima depresso. Quando io sono arrivato avevano ucciso da poco il generale
Dalla Chiesa. Il nostro compito è stato quello di rianimare la speranza. Nelle scuole, nelle piazze
abbiamo detto di non rassegnarsi ad essere sconfitti.
Bisognava restituire la legalità a Palermo, anche contro le indicazioni romane, che volevano al
potere gli stessi partiti compromessi con la mafia. Non eravamo un partito, ma un movimento. E’
questo che ha dato il valore aggiunto necessario a vincere le elezioni. L’errore è stato di rendere
questo movimento un partito.
La Chiesa non si faccia strumentalizzare
— Ma questo impegno non porta al pericolo di una religione civile, che supplisce a compiti di
coesione sociale?
L’articolo 52 della Costituzione europea, per la prima volta dal Rinascimento ad oggi, riconosce la
validità sociale della religione. Finora veniva considerata un fatto privato che ciascuno poteva
coltivare senza disturbare la costruzione della città dell’uomo. Invece il terzo comma di
quell’articolo riconosce per la prima volta l’importanza di un dialogo continuo fra chiese e
costituzioni.
D’altra parte il secondo comma prevede lo stesso trattamento per le società umanitarie. Le Chiese
sono riconosciute utili allo Stato come qualsiasi società umanitaria, senza riconoscere la natura
essenziale della dimensione religiosa dell’uomo. Lo Stato riconosce l’utilità della religione quando
lo aiuta a raggiungere le sue finalità civili, e per questo dà anche i soldi agli oratori perché tolgono i
ragazzi dalla strada. Ma nello stesso tempo toglie i crocifissi dalle scuole e impedisce ai bambini di
intonare canti religiosi.
Qui sta l’inganno della religione civile, che si verifica quando lo Stato e la Chiesa si condizionano a
vicenda, riproponendo vecchie alleanze tra trono e altare. Così la Chiesa viene strumentalizzata e
perde la sua vocazione profetica.
I dubbi di Spadolini
— Quale sarà il futuro di questo cristianesimo di minoranza, che sembra sempre più
marginalizzato?
La religione cristiana è il divino nell’umano, quindi non verrà mai meno. Non si riuscirà mai
uccidere la religione cristiana. Certo si può perdere in incidenza pastorale, si possono fare tanti
errori. Ricordo quello che mi diceva Spadolini. Non capiva come fosse possibile che, mentre
tramontano gli imperi e crollano le ideologie, la Chiesa ogni secolo ritorna giovane.
Caro senatore, ho risposto, lei può vedere la Chiesa col metro sociologico o col metro economico.
Sono aspetti reali, perché la Chiesa è una istituzione. Ma se dimentica di mettere la “x” non torna
più l’equazione. E la “x” è il divino nell’umano. Se non ci fosse veramente qualche cosa di
superiore, in duemila anni di storia la Chiesa sarebbe già finita.
Enrico Garlaschelli