IL FONDAMENTALISMO EBRAICO Alberto Foresi LA PECULIARITÀ DEL FONDAMENTALISMO EBRAICO Rispetto alle espressioni del fondamentalismo religioso presenti nelle varie religioni, il fondamentalismo ebraico presenta una propria peculiarità: aggiunge una dimensione etnica ed un messianismo salvifico, legato ad una determinata realtà territoriale, alle caratteristiche comuni agli altri fondamentalismi – la centralità del Libro Sacro, la sua interpretazione astorica e letterale, il primato della legge divina su quella secolare… In epoca moderna, ai fini della presa di coscienza, sul finire del XIX secolo, di un’identità fondamentalista all’interno della comunità ebraica contribuì in modo determinante il confronto con il movimento sionista, portatore di un’ideologia di matrice secolarista e nazionalista, che proprio in quel periodo stava prendendo forma. Confronto che divenne più serrato e al contempo più proficuo al termine del Secondo Conflitto Mondiale allorché si procedette alla faticosa ricostituzione di uno stato ebraico dopo quasi duemila anni di diaspora, iniziata con la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera del romano Tito (70 d.C.), e la devastante esperienza dell’Olocausto. I MOVIMENTI ULTRAORTODOSSI E IL SIONISMO Gli ultraortodossi – detti anche, da un versetto biblico di Isaia, haredim, ovvero coloro che tremano davanti alla parola di Dio – sono gli Ebrei che ritengono fondamentale l’osservanza rigorosa di tutti i comandamenti divini derivanti dall’esegesi della Torah e del Talmud. Comandamenti che non si limitano a definire i rapporti tra uomo e Dio ma che si estendono ai rapporti sociali intercorrenti tra tutti i membri della comunità e che possono essere osservati solamente all’interno di un quadro comunitario collettivo in cui ogni fedele è corresponsabile di ogni azione compiuta dagli altri membri. Nemici di ogni ideologia modernista, gli haredim sono stati a lungo ostili al sionismo che, ritenuto una forma di manifestazione di una volontà di potenza di natura antropocentrica, era considerato come idolatria. Il sionismo, volto alla ricostituzione di un nuovo Israele, veniva a ledere, agli occhi degli ultraortodossi, il cosiddetto Mito dei Tre Giuramenti, secondo il quale Dio aveva fatto promettere al popolo ebraico di non usare la forza per tornare nella terra d’origine, di non ribellarsi alle nazioni che lo opprimevano confidando nella manifestazione terrena della giustizia divina, di non anticipare la fine dei tempi e di non fare alcunché che potesse accelerare la Redenzione. In questa prospettiva la pretesa sionista di riunire tutti gli Ebrei esiliati in una nuova Sion prima dell’avvento del tempo messianico veniva interpretata come un’inaudita e intollerabile sfida umana alla volontà e alla potenza di Dio. Il sionismo, inoltre, si configurava come un movimento più politico che religioso e scarso peso era dato al fatto che i suoi militanti fossero più o meno rigorosi osservanti delle prescrizioni divine: per tale motivo gli haredim, che non ritenevano possibile l’inserimento degli ebrei in un quadro politico e istituzionale retto da norme diverse da quelle della legge divina, consideravano i sionisti quali atei e peccatori, prendendo recisamente le distanze dal movimento. Questo rifiuto di tornare alla Terra di Israele – Eretz Israel – aveva trasformato il concetto stesso di Eretz Israel, che divenne una sorta di Mito dell’assenza: per gli haredim la Terra di Israele era stata espulsa dalla Storia e il ritorno nei luoghi d’origine sarebbe avvenuto solo per effetto esclusivo dell’irruzione della Trascendenza nella Storia stessa, cioè, con la fine stessa della Storia e in pratica del mondo. Conseguenza di tale concezione è il fatto che gli haredim avessero come unici punti di riferimento il Passato – la Genesi – e il Futuro – l’Apocalisse – mentre nessuna importanza era data al Presente – la Storia. Nelle comunità ultraortodosse, diffuse soprattutto nell’Europa orientale, la Terra d’Israele si tramuta da luogo reale in un complesso mitico e simbolico, perdendo così la sua dimensione geo- religiosa a vantaggio di una concezione deterritoriale che in sostanza la porta a coincidere con lo stesso territorio in cui vivevano, osservando la Torah, le stesse comunità haredim e i loro capi spirituali, i rebbe. Per opporsi al sionismo, le comunità haredim europee, superando le proprie tradizionali divisioni, giungeranno a dar vita, nel 1912, all’Agudat Israel – Consiglio d’Israele – che era una sorta di partito mondiale antisionista. Questa opposizione non sarà sempre costante nel tempo e, riaffacciandosi le divisioni interne, muterà da comunità a comunità. Ad esempio il rebbe della comunità polacca dei Gur, Abraham Morderai Alter (1866-1948), che pure era stato uno dei fondatori dell’Agudat, non si opporrà alla volontà di numerosi suoi seguaci di insediarsi in Palestina al termine della Prima Guerra Mondiale ed egli stesso vi si trasferirà nel 1940. Solo dopo la Shoah, con la quasi totale distruzione della presenza ebraica in Europa ad opera del Nazismo, cambierà l’atteggiamento di buona parte delle comunità ultraortodosse superstiti nei confronti del sionismo, spingendole alla migrazione verso la Palestina ove diedero vita allo stato d’Israele dopo aver preso atto dell’impossibilità di continuare a vivere in un’Europa che era stata il teatro di una così radicale manifestazione del Male nei loro confronti. La scelta americana GLI USA TERRA PROMESSA? Non tutte le comunità haredim, tuttavia, rimanendo fedeli al Mito dei Tre Giuramenti, sceglieranno di emigrare verso Israele. La comunità dei Lubavitch, ad esempio, sceglierà di emigrare negli Stati Uniti, ove nel 1940 si era già rifugiato il proprio rabbe, Josef Yithzak Schneerson (1880-1950), giunto a New York per sfuggire alla persecuzione nazista. Scelta simile fece la comunità di origine ungherese di Satmar, insediatasi a partire dal 1946 a Williamsburg dove, sotto la guida del rebbe Yoel Teitelbaum (1888-1979), cercherà di riprodurre, in una sorta di autosegregazione, le condizioni di vita dei villaggi chiusi dell’Europa orientale. Caratteristica della comunità di Satmar è il rifiuto di riconoscere lo Stato d’Israele, considerato empio in quanto compromesso con il mondo moderno e non osservante la Legge divina. Tale caratteristica contraddistinguerà anche i Satmar emigrati successivamente nello stesso Israele, dove daranno vita ad un movimento radicale – i Neturei Karta (i Guardiani della Città) – che evita ogni contatto con la realtà moderna che li circonda. Fra le manifestazioni più eclatanti di questo gruppo c’è il bersagliare con i sassi – quasi una lapidazione simbolica della modernità – le autovetture che transitano durante lo Shabbat, il sabato, nella via Bar Ilan a Gerusalemme, via che costeggia il quartiere ultraortodosso di Mea Sharim. Le automobili e i loro conducenti vengono colpiti – in una sorta di lapidazione simbolica della modernità – in quanto, interrompendo palesemente il riposo assoluto del sabato, divengono emblema dell’empietà moderna. Colpendoli con le pietre, inoltre, questi peccatori, che ai loro occhi osano definirsi ebrei pur senza rispettare le festività comandate, vengono tenuti lontani dalla comunità degli autentici credenti, in modo tale da non contaminarli con i loro peccati. Anche altre comunità ortodosse emigrate in Israele manterranno il loro rifiuto verso uno Stato non retto integralmente dalla Torah. Esse tuttavia riconosceranno alle istituzioni secolari israeliane una sorta di legittimazione funzionale in quanto, sebbene laico, Israele è lo stato in cui, dialogando con le istituzioni, tali comunità possono maggiormente condurre un’esistenza conforme ai propri principi e garantirsi la propria sopravvivenza futura. GLI ULTRAORTODOSSI E LA POLITICA Sebbene ostili ad ogni concessione modernista o laicista, i gruppi haredim ultraortodossi, spinti dalla necessità di negoziare con l’autorità costituita la propria separazione dallo Stato secolare, si trovarono ben presto inseriti in un processo di integrazione non riguardante i contenuti della propria fede e i rituali in cui si esplica, bensì l’accettazione di una prassi dialettica con il potere costituito. In questo modo gli haredim, detti gli “uomini in nero” per l’abito che usualmente indossano, organizzarono partiti con i quali entrarono a far parte del sistema politico nazionale e fondarono strutture religiose ed educative che beneficiavano dei contributi pubblici erogati dallo stesso Stato che, per altri versi, osteggiavano. Pervenuti così ad un compromesso con lo Stato, gli haredim perseguirono una politica volta alla delaicizzazione dello Stato, secondo il principio che la comunità politica non può sottrarsi all’autorità della legge religiosa. Subito dopo la proclamazione nel 1948 dello Stato di Israele, i leader delle comunità haredim stipularono con i dirigenti sionisti della risorta nazione un accordo che divenne uno degli elementi portanti della costituzione materiale di Israele: con questo accordo ottennero dai leader sionisti la costituzione di tribunali rabbinici competenti in maniera esclusiva in materia di matrimonio e di divorzio, che devono avvenire conformemente alla Torah; il riconoscimento ufficiale dello shabbat e delle altre festività ebraiche; l’applicazione in ambito pubblico delle leggi religiose riguardanti la purezza alimentare – kasher; l’autonomia del sistema di educazione religioso. Se già con questi riconoscimenti veniva di fatto incorporato il diritto religioso nel diritto statuale, ancor più significativo è il fatto che essi ottennero che lo Stato di Israele non si dotasse di una costituzione scritta di ispirazione laica in quanto la costituzione era già presente nella Torah, la legge religiosa ritenuta superiore ad ogni altra legge umana. Poco dopo, nel 1950, in occasione della promulgazione della cosiddetta “legge del ritorno” – la legge che consente agli ebrei di qualsiasi nazione di ritornare in Israele – nuovamente gli haredim tentarono di influenzare la formulazione della legge. Ciò non tanto nella facoltà concessa a tutti gli ebrei, condivisa da tutti gli schieramenti politici, bensì nella determinazione di chi poteva essere definito ebreo e avere pertanto diritto di insediarsi nella nazione. Secondo gli haredim era da ritenersi ebreo solo chi era nato da madre ebrea o si era convertito secondo l’Halakah – la legge religiosa. Condizione questa che mirava ad escludere coloro che si erano convertiti all’Ebraismo conservatore o riformato dominante nella diaspora, soprattutto negli Stati Uniti, tentando di trasformare lo Stato di Israele, pensato dai Sionisti quale Stato degli Ebrei, in un vero e proprio Stato ebraico confessionale. Il progressivo coinvolgimento dei movimenti ultraortodossi all’interno della politica sionista subisce un’accelerazione in occasione della “guerra dei sei giorni”, con il problema di cosa fare dei territori occupati nel conflitto. Gruppi rilevanti haredim - fra cui i Lubavitch e i Gur – sostennero la necessità di annettere immediatamente allo Stato d’Israele i territori occupati. Questo non per ragioni strettamente politiche ma piuttosto di natura religiosa. Per questi gruppi è proibito cedere qualsiasi parte della Terra d’Israele in quanto si verrebbe a violare il principio fondamentale della “salvaguardia della vita” - pikuah nefesh. La cessione dei territori ai Palestinesi, ostili ad Israele, significherebbe mettere a repentaglio la vita stessa degli Ebrei presenti nei territori, fatto questo proibito dalla legge religiosa che nella protezione di ciascun membro del popolo ebraico vede il presupposto della salvezza. A questa visione si opposero, pur con le stesse motivazioni, altre correnti haredim minoritarie, contrari all’annessione in quanto una posizione rigida sulla questione della Terra d’Israele, innescando continue reazioni da parte palestinese, non avrebbe fatto altro che esporre a continuo pericolo la vita degli ebrei non solo nei territori occupati ma anche nel resto di Israele. È comunque paradossale il fatto che le correnti ultraortodosse, originariamente ostili alla politica sionista e alla stessa costituzione dello Stato israeliano, negando a tale stato alcun significato religioso, abbiano progressivamente non solo abbracciato l’ideologia sionista ma attribuito funzione salvifica allo Stato, passando così da un radicalismo puramente religioso ad un radicalismo di natura religiosa sempre più proiettato verso una dimensione politica. IL SIONISMO RELIGIOSO La questione della Terra assume una dimensione centrale nel Sionismo religioso, la corrente ortodossa che tenta di fondere insieme la Torah e il nazionalismo. Fondata nel 1893 dal rabbino lituano Yitzhak Ya’akov Reines, essa si costituirà in organizzazione politica nel 1902, con la nascita del Mizhrahi – Centro Spirituale – il primo partito sionista religioso. Secondo il Mizhrahi il ritorno degli Ebrei in Palestina risponde alla necessità di osservare i precetti religiosi legati alla Terra. Il ritorno a Sion è considerato l’elemento decisivo per l’avvento della Redenzione in quanto la rinascita dello Stato ebraico permette di ricomporre il popolo di Israele – Am Israel – sotto la legge di Israele – Torat Israel – nella Terra di Israele – Eretz Israel, ricomposizione essenziale per l’avvento messianico. La collaborazione tra sionisti secolari e sionisti ortodossi sarà resa possibile grazie alla sistematizzazione teologica operata dal rabbino capo ashkenazita Rav Abraham Yitzhak Kook (1865-1935), giunto in Palestina nel 1904, ove nel 1922 fonderà, a Gerusalemme, l’istituto di studi religiosi di Merkaz Ha Rav, presso il quale formulerà in maniera organica i fondamenti di un nuovo messianismo tale da consentire una collaborazione attiva tra le componenti ortodosse e il sionismo. Per Kook il sionismo, nonostante il suo secolarismo, non è né empio né antireligioso. Non può essere empio poiché, in quanto fenomeno ebraico, cioè manifestazione del popolo eletto da Dio. Il patto tra Dio e l’Assemblea d’Israele – Knesset Israel – impedisce costitutivamente ogni possibile empietà: lo Spirito di Dio e quello di Israele sono lo stesso. Dietro al desiderio di molti ebrei di tornare nella Terra promessa vi è la “luce del pentimento”, come indica anche il fatto che il ritorno alla Terra è espresso dal termine ebraico teshuvah, che significa anche “pentimento”. Il sionismo è posto da Kook come inconscio portatore di santità: del resto la rifondazione di uno stato ebraico dopo 2000 anni di diaspora e la riuscita di tale progetto dimostrano intrinsecamente il favore di Dio. La comparsa del sionismo sul piano mondano non indica tanto il manifestarsi di un fenomeno secolare quanto l’inizio di un processo che ha origine nella trascendenza, segnando l’inizio dell’era della Redenzione, cioè, nella teorizzazione di Kook, dell’avvento del Messia figlio di Giuseppe, colui che nella tradizione religiosa comparirà quando sarà necessario ricostituire la nazione ebraica. Conclusa questa fase giungerà il Messia figlio di David, il cui avvento segnerà il compimento della Redenzione. Polemizzando con gli haredim, Kook affermava che nella fase iniziale del tempo messianico i sionisti erano molto più necessari all’Ebraismo degli ultraortodossi, chiusi in un esilio volontario e dediti solo allo studio della Legge, in quanto impegnati attivamente nella nascita e nella crescita della nazione, che è il vero bene collettivo di tutto il popolo ebraico. Secolari e religiosi, uniti nel nuovo “Giudaismo della Salvezza”, hanno dunque il compito di far coincidere l’esperienza storica con l’essenza spirituale del popolo, agendo insieme per realizzare pienamente il piano divino. IL SIONISMO DOPO LA COSTITUZIONE DELLO STATO DI ISRAELE La dottrina elaborata da Kook parve avverarsi nel 1948 con la nascita dello Stato di Israele. Tuttavia la dimensione territoriale dello Stato, privo di parti della Terra biblica, lasciò insoddisfatta la corrente radicale del sionismo religioso, in disaccordo con la posizione moderata dello stesso Mizrahi. Corrente che, sotto la guida del figlio di Kook, Tzvi Yehuda, si formò aggregando al suo interno sia i circoli rabbinici facenti capo all’istituto religioso di Gerusalemme fondato dal padre, sia i membri del gruppo del Gahelet – “Le ceneri ardenti – giovani sionisti religiosi attratti dal nazionalismo kookista, sia membri dissidenti dell’organizzazione giovanile del Mafdal – Partito Nazionale Religioso – nome assunto dal Mizrahi dopo il 1956. Secondo la corrente radicale nazional-religiosa era indispensabile perseguire una politica mirante ad ottenere la piena sovranità sulla biblica Terra d’Israele in quanto sarebbe stato impossibile l’avvento della Redenzione sino a quando parte di Gerusalemme, la Giudea e la Samaria, con le città sante di Hebron, Nablus e Safed sarebbero rimaste nelle mani dei Gentili. Territori che saranno effettivamente conquistati con la guerra dei sei giorni – 1967 – non a caso definita da Kook figlio “guerra della Redenzione”. Nonostante Kook avesse chiesto, con motivazioni di ordine religioso, l’immediata annessione dei territori occupati, il governo laburista allora in carica perseguì una diversa linea politica, volta a negoziare la restituzione dei territori in cambio della stipula di trattati di pace con le nazioni arabe della regione tali da assicurare garanzie di sicurezza per Israele. Politica che tuttavia non darà i frutti sperati a causa dell’inserimento della contesa nel più ampio contesto della guerra fredda e del suo equilibrio bipolare. L’ala radicale nazional-religiosa si opporrà duramente alla politica laburista, sostenendo che il mancato possesso della Terra d’Israele avrebbe causato l’arresto del processo messianico. Contrariamente agli ultraortodossi, i nazional-religiosi ritenevano che la piena realizzazione di uno stato guidato dalla Legge religiosa sarebbe stato possibile solo quando gli ebrei avrebbero ricostituito la Terra d’Israele nella sua interezza. È lo stare nella Terra, il cui suolo è intriso di santità, che consente il ritorno a Dio di tutto il popolo ebraico e la rigorosa osservanza della Legge. Spinti da tali idee, i nazional-religiosi inizieranno un lungo confronto con il governo riguardo al possesso dei nuovi territori conquistati al termine del conflitto, facendosi spesso promotori di occupazioni coloniche in aperto contrasto con l’autorità costituita. Dopo il Kippur LA QUESTIONE DEI TERRITORI OCCUPATI Sarà la guerra dello Yom Kippur – 1973 – le cui sorti Israele riuscì a rovesciare solo in extremis, dopo l’attacco a sorpresa congiunto di Egitto e Siria, a dare impulso alla strategia della colonizzazione religiosa. Il movimento nazional-religioso interpretò la guerra come un monito divino ad Israele affinché proseguisse nell’affermazione della sovranità ebraica su tutta la Terra d’Israele. Per realizzare questo obiettivo il movimento nazional-religioso diede vita ad una nuova entità politica, il Gush Emunim – Blocco dei Fedeli – aperta anche ai nazionalisti laici ma guidata da una leadership nazional-religiosa. Si tentò così la colonizzazione religiosa della Giudea e della Samaria, iniziative osteggiate dal governo laburista. La situazione cambiò con la vittoria alle elezioni del 1977della destra nazionalista del Likud, guidato da Begin, favorevole all’espansione di Israele nei Territori occupati. Grazie all’appoggio del nuovo governo, il Gush Eminum comincerà a dar vita, fra il 1977 e il 1992, a centinaia di insediamenti colonici religiosi in Giudea e in Samaria. Colonie dove si darà vita a modelli di controsocietà fondate sull’osservanza rigorosa della Torah e sull’instaurarsi di relazioni sociali improntate all’ascetismo e all’etica del sacrificio, aventi come obiettivo la “redenzione della Terra”. Questa politica annessionista terminerà nel 1992 con il ritorno al potere del partito laburista, guidato da Rabin, che inizierà le trattative con l’Olp di Arafat per la restituzione di parti dei Territori occupati. Politica questa fortemente avversata dalle ali più estremistiche dei coloni religiosi, i quali non esiteranno a ricorrere anche alla violenza nel tentativo di opporsi alla restituzione dei Territori. Nel febbraio del 1994 Baruch Goldstein, colono dell’insediamento di Kyriat Arba ed esponente del movimento religioso Kach riuscì ad uccidere, prima di essere abbattuto, 29 musulmani e a ferirne un centinaio frai fedeli raccolti in preghiera, durante il Ramadan, presso la Tomba dei Patriarchi, a Hebron. Obiettivo, fortunatamente fallito, del colono era provocare, in risposta alla strage, una sollevazione palestinese nei Territori occupati e forse una reazione delle altre nazioni arabe tali da bloccare per sempre ogni possibile negoziato fra Israeliani, Palestinesi e il resto del mondo arabo. Dopo la firma di Rabin e Arafat del protocolli di Oslo, che sancivano il progressivo ritiro ebraico dai Territori, Israele fu scosso da un ulteriore e inaudito atto terroristico interno. Per cercare di far saltare gli accordi presi, un giovane israeliano di origine yemenita, Ygal Amir uccise a Tel Aviv il premier Rabin durante una manifestazione che aveva lo scopo di sostenere la politica governativa di trattativa con l’Olp. La nuova ascesa del Likud, sotto la guida di Netanyau prima e Sharon dopo ha effettivamente rallentato il processo di restituzione dei Territori occupati, questo almeno fino alla decisione presa da Sharon di attuare, anche con la forza, lo sgombero dei coloni e la restituzione dei Territori. Tuttavia la morte politica del leader e l’esito incerto delle ultime elezioni sembrano aver rimesso almeno parzialmente in discussione le scelte politiche tanto faticosamente prese.