TIPOLOGIA DELLO STRANIERO E IMMAGINE DELL’IMMIGRATO Nel corso dei secoli la tipologia dello straniero ha attirato l’attenzione degli studiosi, che hanno analizzato il suo comportamento con modalità diverse. Il termine deriva dal latino extra, da cui proviene estraneo come antitesi a quello interno e sicuro della città, ma rivela un significato negativo per indicare colui che appartiene ad uno spazio politico opposto. Nel latino arcaico lo straniero è indicato con hostis, che lo designa in un’accezione ambivalente sia come nemico sia come ospite. In entrambi i casi era inquadrato in una precisa categoria sulla base di un ben definito rapporto diritti/obblighi, cioè di una convenzione che permetteva di considerarlo l’uno o l’altro a seconda un suo modello di comportamento. Se lo straniero rispettava la convenzione era ospite, altrimenti era considerato un nemico. Con la trasformazione delle condizioni economiche e il sorgere del centralismo politico, la coppia nemico-ospite fu sostituita da quella di cittadino-straniero. La sua distinzione cominciò ad assumere connotati diversi ed assunse una valenza manichea, quasi a considerare lo straniero come nemico interno ovvero come «capro espiatorio» cui attribuire responsabilità per ritrovare ordine e identità1. Agli albori della sociologia, la figura dello straniero riflette quella struttura ambivalente di ogni relazione sociale, cui si riferisce Georg Simmel nel suo testo sull’analisi dei rapporti che lo legano alla società ospite2. Nella visione dello straniero il sociologo tedesco delinea una tipologia dicotomica, la quale appare ad un tempo inclusiva ed esclusiva di comportamenti e di atteggiamenti destinati a chiudere un definito spazio politico oppure ad aprirlo ad elementi esterni ed estranei alla propria identità culturale. Questo modello sociologico, pur assumendo caratteristiche storiche diverse, ci permette di stabilire come un determinato gruppo sociale manifesta contemporaneamente il bisogno di escludere lo straniero e di includerlo al proprio interno. Questo carattere, sottolineato da Simmel ed utilizzato nello studio dei fenomeni migratori, assume un significato rilevante, perché le varie accezioni per definire l’emigrante (straniero o cittadino, regolare o irregolare) denotano un’operazione di delimitazione della differenziazione e della distanza sociale oppure una predisposizione all’accoglienza e all’integrazione. Ne emergono due tendenze dirette a configurare la tipologia dello straniero in termini positivi o negativi: nella prima sono poste in rilievo le differenze etniche o razziali per affermare la propria identità, mentre nella seconda sono evidenziate le affinità o le convinzioni etiche o religiose per aprirsi all’innovazione e al cambiamento sociale. In effetti, nonostante che la formulazione di giudizi negativi nei confronti degli stranieri possa verificarsi a prescindere dal contatto diretto e continuativo, è in una situazione di convivenza sul medesimo territorio che essi si traducono in atteggiamenti discriminatori e si riflettono sullo status sociale delle comunità straniere. Un esito quasi inevitabile del loro insediamento è il formarsi di minoranze etniche che «competono, partendo da una situazione di iniziale svantaggio, per l’accesso alle risorse e alle opportunità sociali e sollecitano la società a fornire risposte ai loro bisogni specifici»3. L’insieme dei pregiudizi può essere dettato da alcuni aspetti etnici come il colore della pelle, la diversità della lingua, l’abbigliamento; ma riceve anche un notevole impulso dall’isolamento fisico, dalla minaccia avvertita per il benessere economico, l’ordine pubblico e l’identità nazionale. Così nasce l’immagine dell’immigrato straniero, ovvero dell’altro sulla base di un rapporto volto a distinguere ciò che è intrinseco nella società di accoglienza e ciò che è estraneo. La specificità dell’altro, che si affaccia alle frontiere della civiltà, si specifica nella diversità materiale e culturale per le strane abitudini di vita, per i comportamenti minacciosi e spesso misteriosi. Il contatto e la convivenza fra etnie diverse favoriscono lo sviluppo di un’immagine distorta dell’altro su attributi fisici/culturali, che si tramutano in un indice di valori e sfociano nella xenofobia. Ma sulla base di quella che che per alcuni V. la voce di R. Escobar, Straniero, in R. Esposito e C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 699-700. 2 Il testo di G. Simmel, Exkurs uber den Fremden, è tradotto, in S. Tabboni, Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, FrancoAngeli, Milano 1986, pp. 147-154. 3 L. Zanfrina, Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 13. 1 1 sarebbe meglio definire eterofobia, cioè «paura dell’altro da sé»4 – vi è un atteggiamento etnocentrico inteso come caratteristica peculiare della propria cultura 5. La sua trasformazione in un modello di superiorità, al confine con il razzismo e con la tendenza ad «inferiorizzare» l’altro, implica un atteggiamento valutativo e asimmetrico verso le culture (costumi, lingua, norme, religione, valori) e i gruppi diversi dal proprio. L’atteggiamento autoreferenziale, connesso alla chiusura nei confronti degli altri, si trasforma in avversione verso lo straniero, additato come un essere minaccioso alla propria collettività. La xenofobia (letteralmente «paura dello straniero», che si dirige di volta in volta verso gli stranieri a seconda delle situazioni storiche e sociali, è alimentata da un insieme di pregiudizi e di stereotipi nei confronti dell’altro, la cui immagine negativa ha la caratteristica di resistere ad ogni contatto, a ogni evidenza ed esperienza6. Le scaturigini dei fenomeni xenofobi o razzisti sono determinati da una «costruzione della differenza naturalizzata» e da caratteri peculiari di gruppi umani percepiti come superiori7. Se dal piano antropologico e sociologico ci si sposta a quello storico si evince che la tipologia dello straniero rientra in certi schemi elaborati da una classe dirigente in determinati momenti storici, con effetti deleteri sul comportamento collettivo. Le ricerche contenute in un volume collettaneo sulla storia del razzismo sono emblematiche per comprendere il formarsi di questa tipologia e la connessione alla nascita e al consolidamento dell’immagine dell’immigrato8. Nel periodo tra l’unificazione e la fine del secondo conflitto mondiale, la storia d’Italia annovera ideologie e pratiche razziste nei confronti dei nemici interni ed esterni, via via rappresentati dall’ostilità dei settentrionali verso i meridionali, da quella degli italiani verso i tedeschi, gli slavi, i libici, gli abissini, gli ebrei. Il mito indoeuropeo – scrive giustamente A. Burgio – circola sin dagli anni Sessanta del XIX secolo «in funzione antisemita e antimeridionale (i “sudici” non sono “arii”, ma “afri”. La contrapposizione tra “razze storiche” e popoli “senza storia” si diffonde» negli anni Settanta e Ottanta «contro la minaccia di “invasioni mongoliche” – contro gli slavi “barbari”, privi di “ricordi” e “istituzioni” – e contro africani e meridionali (dove il Mezzogiorno è senza mezzi termini “Affrica”, anzi i suoi “caffoni” appaiono meno civili dei “beduini”, e l’Africa è a sua volta ridotta a una icona identica» al Mezzogiorno d’Italia9. Le critiche agli ebrei circolano sulla stampa italiana nel corso dell’Ottocento, si trasformano in accuse e confluiscono tra le argomentazioni invocate dal regime fascista a sostegno della legislazione antiebraica. Assunto il genocidio ebraico compiuto dai nazisti come esempio, il fascismo dà vita a un virulento antisemitismo «come un episodio minore, sino a ridurlo a un fenomeno di opportunismo o di mimesi subalterna»10. Da questa ottica il caso italiano assume un valore cruciale, perché a differenza della Francia o dell’Inghilterra, il nostro Paese conosceva il fenomeno strutturale dell’emigrazione con una storia di dolore, sofferenza e discriminazione, trasformandosi in anni recenti da Paese di emigranti in Paese d’immigrati. Il che dimostra – secondo un altro autore – «un leggero interesse esoterico per l’alterità che viene tuttavia subito sopravanzato dall’ironia, dall’ignoranza, dall’abitudine a pensare che si tratti in fondo di poca cosa»11. L’assenza di comunicazione, caratteristica nel primo impatto tra autoctono e straniero, si traduce in un’immagine visuale, la quale diminuisce con la comprensione dell’altro e del suo codice culturale. La diversità dei costumi, delle abitudini alimentari, delle usanze e persino della credenza religiosa rientra in un codice comportamentale, che favorisce la formazione dell’immagine, stabilisce i rapporti con lo straniero e determina la tendenza al rifiuto oppure quella opposta all’accoglienza. Nel primo caso la fissazione dei comportamenti si traduce in una varietà di situazioni A. Memmi, Il razzismo, Costa & Nolan, Genova 1989, pp. 85-87. Fra le numerose opere sull’etnocentrismo cfr. R. Bastide, Noi e gli altri: i luoghi di incontro e di separazione culturali e razziali, Jaca Book, Milano 1971; T. Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino 1991 (ed. orig. 1989); F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990. 6 Su questi aspetti si rinvia alle acute osservazioni di A. Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003, pp. 21-26. 7 R. Miles, Racism after «race relations», Routledge, London-New York 1993, p. 102; C. Guillaumin, Sexe, Race et Pratique du pouvoir. L’idée de Nature, Còté-femmes, Paris 1992, p. 171. 8 A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino 2000 (I° ed. 1999). 9 A. Burgio, Per la storia del razzismo italiano, Ibid. cit., p. 11. 10 Ivi, pp. 12-13. Sul pregiudizio razziale verso gli ebrei, in epoca recente, cfr. R. Balbi, Ebrei, razzismo e antisemitismo, Theoria, Roma-Napoli 1993. 11 F. Nierenstein, Il razzista democratico, Mondadori, Milano 1992, p. 130. 4 5 2 emotive come la paura, l’odio e la repulsione, mentre nel secondo caso si concretizza in un eccesso di simpatia o di pietà. Sull’immagine dello straniero immigrato sono state date numerose definizioni, tra le quali la più interessante sembra essere quella di Alman Rushdie, che rispecchia in essa l’immagine più contraddittoria del XX secolo12. Il distacco dal luogo nativo, il contatto con la lingua straniera e la diversità di nuove norme sociali sono le caratteristiche più importanti ch’egl i individua nella situazione in cui verrebbe a trovarsi l’immigrato. Al di là delle cause che lo spingono ad emigrare e a sfuggire a uno stato d’indigenza o alle persecuzioni di regimi dispotici, l’immigrato – come è stato con esagerazione sottolineato in un recente volume – «si ritrova mal tollerato se non apertamente osteggiato da larga parte della popolazione ospite»13. Questa visione fortemente pessimista è invece contraddetta dalle analisi più recenti, che colgono nell’atteggiamento dell’opinione pubblica italiana sull’immigrazione una dinamica sociale più articolata e «una costellazione più complessa»14. L’immagine dell’immigrato, quale emerge dai sondaggi d’opinione, è condizionata dalle esperienze personali, dal credo religioso e dalle convinzioni politiche. Essa può dipendere anche dalle relazioni politiche, culturali ed economiche, che si sono sedimentate sul piano storico tra il paese d’origine e quello di destinazione. Il caso più emblematico può essere rilevato dal diverso atteggiamento che gli italiani hanno nei confronti degli immigrati africani o americani, peraltro entrambi «extracomunitari». Le questioni degli immigrati stranieri, comunque, sollevano interrogativi sul pregiudizio, alimentano comportamenti di «razzismo» ed investono le società di destinazione e i processi di cambiamento. I pregiudizi si scontrano con i valori positivi che, seppure presenti nella società contemporanea, non sempre riescono a contrastare l’immagine negativa dello straniero, demonizzato e presentato come una presenza minacciosa e nociva15. Da parte di alcuni intellettuali si romanticizza la società plurietnica e si invoca un reciproco riconoscimento e scambio tra le culture di tutti popoli. Nel caso italiano, come in altre esperienze dell’Europa occidentale, le forme di comunicazione e di pluralismo culturale convivono con situazioni di intolleranza e atti veri e propri di «razzismo»16. Questi ultimi, non sempre consapevoli e riconosciuti come tali, si sovrappongono e si mescolano al «sentito dire» in un’immagine di proiezione tra ciò che si teme e ciò che succede nella realtà. Così gli atti di «razzismo» entrano nel vissuto quotidiano e diventano parte del tessuto dei rapporti sociali. Alcuni studiosi denunciano una debole reattività a questi atti che, traducibili in forme precise di discriminazione, possono assumere gradi diversi come la segregazione o l’eliminazione fisica, mentre altri pongono l’accento su una legislazione più severa come reazione alla minaccia dell’ordine pubblico e della sicurezza da parte dello straniero. La conclusione è, da una parte, la richiesta di un controllo e di una repressione del fenomeno migratorio con la distinzione fra diritti dei «nazionali» e i diritti degli stranieri; dall’altra riguarda invece l’assenza di una loro integrazione e dell’estensione dei diritti di cittadinanza con forme discriminatorie e l’applicazione nei loro confronti di misure di polizia e pratiche di internamento17. La sua immagine si colloca, dunque, in un ventaglio di posizioni, che vanno da un drastico rifiuto a un’accoglienza caritatevole, entrambi deleteri per l’approdo l’uno a un’esagerata xenofobia e l’altra ad una tendenza diretta a giustificare aspetti gravi che minano la pacifica convivenza sociale. Un ruolo particolare va comunque attribuito alla politica di ogni singola nazione verso gli immigrati, perché non solo delimita le opportunità degli stranieri, ma concorre a definirli simbolicamente. In quasi tutti i Paesi la distinzione tra stranieri «buoni» e «cattivi» è dettata dal grado di «assimilabilità» e dalla percezione che l’opinione pubblica si forma su un determinato gruppo etnico. S. Rushdie, Patrie immaginarie, Mondadori, Milano 1991, p. 302. E. Vitale, Jus migrandi. Figure di erranti al di qua della cosmopoli, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 8. 14 G. Sciortino-A. Colombo, Introduzione a Ead. (a cura di ), Stranieri in Italia. Un’immigrazione normale, il Mulino, Bologna 2003, p. 10. 15 P.-André Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, La Decouverte, Paris 1989, pp. 24-25. Di questo volume si ha una traduzione italiana: La forza del pregiudizio. (Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, il Mulino, Bologna 1994. Ma su questi temi cfr. M. Wieviorka, Lo spazio del razzismo, Est, Milano 1996. 16 Su un inventario dell’intolleranza e di atti di razzismo cfr. P. Andrisani, in A. Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia cit., pp. 91-157. 17 Ivi, pp. 8-10. 12 13 3 Negli Stati Uniti d’America l’immagine dell’immigrato specificamente legata a «certi tipi di criminalità»18 condizionò il Johnson Act (1911) con la fissazione di quote diverse per i vari gruppi nazionali con una spiccata preferenza per i Paesi dell’Europa del Nord. In Australia le lobby dei potentati locali, quando volevano emarginare gruppi di immigrati neri, richiamarono la tradizionale superiorità dei bianchi per giustificare queste forme di discriminazione19. In Italia, nell’ultimo scorcio degli anni ’80 e ancor più all’inizio degli anni ’90, l’arrivo di 20.000 profughi albanesi innescò un’ondata di allarme. Gli esodi spettacolari del 1991 e le successive ondate d’immigrazione clandestina suscitarono l’interesse dei mass media italiani, che denunciarono con una certa frequenza casi di furti, rapine, sfruttamento della prostituzione, omicidi etc., provocando un allarme sociale e fornendo un’immagine negativa degli stranieri albanesi. L’impatto traumatico delle immagini televisive inquietò gli italiani, che si trovarono sotto una raffica di sensazioni e di sentimenti diversi, perché – come è stato sottolineato – «la maggioranza di essi non si erano posti i problemi connessi con la presenza di immigrati nella loro società»20. Ma ben presto l’immagine degli albanesi venne unita alla denuncia della disoccupazione, della concorrenza per il posto di lavoro e ad altri aspetti negativi dell’immigrazione, mentre la loro presenza fu denunciata come una minaccia all’ordine pubblico e all’integrazione europea. Uno studio pubblicato verso la metà degli anni ’90 segnalò che la presenza straniera albanese era diventata fonte di razzismo, riducendo lo stereotipo diffuso nell’immaginario collettivo al «timore dell’altro, del diverso»21. L’aumento della presenza straniera determinò una crescita di ostilità nei confronti degli stranieri in vari strati della società, ma furono tendenze largamente diffuse in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale22. In Gran Bretagna la politica migratoria, attuata negli anni Cinquanta e Sessanta, rivela aspetti discriminatori nei confronti dei «non bianchi»23. In Germania l’inclusione degli stranieri proprio per la concezione etnoculturale, risulta contraddittoria. L’abbandono del termine Fremdarbeiter (lavoratore straniero), avvenuto nei primi anni ’60 per il richiamo a un’evocazione spettrale del nazismo, fu seguito dall’eufemistica espressione di Gastarbeiter (lavoratore ospite), diretta a sottolineare l’estraneità dell’immigrato e utilizzata anche in Paesi come Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svizzera24. Nel decennio successivo l’idea di estraneità venne utilizzata persino dai circoli cristiani, liberali e socialisti che, seppure meno ostili agli immigrati, l’affiancavano a quella di Auslandische Mitburger (concittadini stranieri). I limiti di un approccio fortemente dirigista al reclutamento di lavoratori stranieri apparvero evidenti rispetto alla Francia. Le questioni più gravi riguardarono non tanto la programmazione degli ingressi, ma la durata della permanenza. La Bundesrepublik considerava lo straniero immigrato come una risorsa momentanea, manifestando una precisa avversione alla cosiddetta immigrazione di popolamento. Il termine Gastarbeiter rispondeva a un bisogno impellente di operai stranieri, ma non ad un’apertura a nuovi membri. Questo modello migratorio, basato sull’esclusione di un insediamento stabile, fu respinto dagli imprenditori, che mossero aspre critiche alla politica governativa per la rotazione degli effettivi. In un’economia fortemente dinamica gli industriali erano interessati a rafforzare i vincoli di fedeltà degli stranieri e la loro identificazione con la gestione dell’impresa. Il Gastarbeitermodel fu messo in crisi tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando venne in parte superato e la nozione fu sostituita con quella vaga di Auslander (straniero) per indicare una situazione occupazionale a tempo indeterminato, ma difficilmente da regolarizzare sotto il profilo della La notizia è riportata in L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni cit., p. 17. Ma per un quadro dei flussi migratori verso gli Stati Uniti cfr. E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1979, pp. 293-336. 19 V. il volume collettaneo Italo australiani. La popolazione di orgine italiana in Australia, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1992. 20 L. Balbo - L. Manconi, I razzismi possibili, Feltrinelli, Milano 1990, p. 33. 21 A. Vehbiu e R. Devole, La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass media, Paoline ditoriale, Milano 1996, p. 13. Sulle cause storiche e sociali dell’emigrazione albanese mi permetto di rinviare al mio libro N. Dell’Erba, Storia dell’Albania, Newton Compton, Roma 1997, pp. 61-68. 22 G. Campani, Immigration and Racism in Southern Europe: The Italian Case, in Ethnic and Racial Studies, 1993, n. 16, pp. 507-535; V. Maher, Immigration and Social, in D. R. Forgacs e V. Maher Lumley (a cura di), Italian Cultural Studies, Oxford University Press, Oxford 1996. 23 E. Cashmore-B. Troyna, Introduction to Race Relations, The Falmer Press, Basingstoke 1990. 24 Secondo una studiosa dei fenomeni migratori l’espressione Gastarbeiter indica una «figura idealtipica» di quel flusso migratorio verso l’Europa settentrionale in cui la permanenza era considerata provvisoria e il rientro dell’immigrato nella terra d’origine era visto come un epilogo certo e conclusivo; cfr. L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni cit. p. 19. 18 4 cittadinanza tedesca25. In Francia la politica verso gli stranieri rivolse la propria attenzione alla regolarizzazione degli ingressi, ma non si riuscì a governare il fenomeno migratorio a causa di una forte espansione. La sua ampia dimensione creò gravi problemi di inserimento abitativo e di integrazione sociale (ben 25.000 stranieri vivevano in bidonvilles nel 1970), destinati ad avere ripercussioni politiche negli anni anni Ottanta con l’ascesa del Front National. Sintomi in questa direzione si ebbero già nell’estate 1973 con le aggressioni a sfondo razzista e gli scontri verificatisi in diverse città francesi. Ma, sia in Francia che in Germania, il massiccio insediamento di lavoratori stranieri generò molteplici problemi di carattere religioso, scolastico e sociale. Un esempio emblematico, in Italia, riguarda i cosidetti «Centri di permanenza temporanea e assistenza», istituiti dalla L. N. 40 del 1998, dove gli stranieri non regolari sono «trattenuti» come «ospiti» in attesa di espulsione26. Quella locuzione - secondo alcuni studiosi del fenomeno migratorio – è un modo esemplare per manipolare il linguaggio al servizio di norme e pratiche palesemente discriminatorie, alle quali il legislatore ricorse per non indicare implicitamente quei centri come luoghi di «detenzione per stranieri non comunitari»27. Un secondo esempio di manipolazione linguistica dello straniero o dell’estraneo come nemico riguarda il termine «clandestino», entrato in voga dopo il 1990 e considerato come «l’espressione della forma più polemica e aggressiva di esclusione simbolica dell’immigrato»28. L’immagine dell’immigrato presenta, dunque, una varietà d’espressioni, accomunate da manifestazioni enfatiche sulla nazionalità degli stranieri e sul carattere temporaneo della loro presenza. La scelta dei termini, con i quali è comunemente definito l’immigrato straniero, si riflette sull’opinione pubblica e può contribuire ad alimentare forme di discriminazione sociale e ritardare il processo d’integrazione. Nei vari Paesi europei gli immigrati stranieri sono stati definiti con termini dispregiativi: in Svizzera gli italiani erano chiamati «tschingg» per il gioco della morra in uso nelle loro comunità alla fine dell’Ottocento; in Francia erano qualificati con l’appellativo di «ritals» per l’incapacità di pronunciare correttamente la «r» francese, mentre in Belgio l’appellativo ironico «macaroni» era ancora molto diffuso negli anni Sessanta29. In Italia era diffuso l’uso del termine «vu-cumprà», che indicava una certa componente dell’immigrazione africana, addetta al commercio ambulante nelle strade e nelle spiagge, quasi ad indicare con uno stereotipo generalizzato che gli africani in Italia fossero dediti solo a quel tipo di commercio30. Altri casi possono riguardare il termine «filippina» come sinonimo di collaboratrice domestica oppure quello più recente di «badante» per indicare una straniera addetta alle pulizie e al riassetto della casa31. Lo stereotipo dello straniero islamico come «terrorista» ha condizionato la politica migratoria in Italia, dove sul tavolo della discussione c’è generalmente posto solo per il tema delle quote degli immigrati in arrivo e della loro gestione sotto la pressione dell’emergenza. E’ una situazione che fatalmente condiziona l’opinione pubblica e la stampa con una crescita di paura e di rigurgiti xenofobi32. La gerarchia di ostilità muta in relazione all’orientamento dei mass media, all’atteggiamento delle istituzioni politiche, al clima sociale e politico e a seguito di eventi nazionali e internazionali. Eventi come la Guerra del Golfo, l’offensiva dell’integralismo islamico in Algeria, la guerra nei Balcani, la crisi politica albanese, gli attentati dell’11 settembre hanno accentuato la paura dello straniero, ma hanno prodotto un mutamento nella scala di ostilità di volta in volta verso gli arabi, i musulmani, i bosniaci, gli albanesi, gli islamici. Ivi, p. 19. Sulle «pratiche di internamento» v. il volume collettaneo Stranieri. I centri di permanenza temporanea in Italia, Manni, Manduria 2004. 27 A. Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia cit., p. 13. 28 M. Mansoudi, Noi, stranieri d’Italia. Immigrazione e mass-media, Fazzi, Lucca 1990, p. 52. 29 Su questa tematica v. le interessanti osservazioni di M. Clementi, Parole migranti, in Strumenti Cres, maggio 2001, n. 28, pp. 26-28. 30 A. Lonni-E. Franzina - M. Tognetti, Macaroni e Vu’ cumpra. L’Italia degli emigrati e l’Italia degli immigrati, in Calendario del Popolo, 1994, n. 50. 31 Sulla problematica sociale cfr. C. Mariti, Donna migrante. Il tempo della solitudine e dell’attesa, Franco Angeli, Milano 2003. 32 Per il dibattito italiano sull’immigrazione islamica cfr. R. Guolo, Xenofobi e xenofili. Gli Italiani e l’Islam, Laterza, Roma-Bari 2003. 25 26 5 Questa ostilità sembra non scomparire di fronte ai «matrimoni misti»33 e soprattutto di fronte all’integrazione degli stranieri nell’economia e nella società di destinazione. Ma la natura complessa delle migrazioni contemporanee non sempre è percepita in un significato di potenziale risorsa globale e stenta a tradursi in indirizzi politici coerenti. Nelle società di destinazione è ancora diffusa un’immagine distorta dello straniero immigrato, che è considerato solo come soggetto di manodopera oppure come minaccia all’ordine pubblico, all’occupazione o all’identità nazionale. Nunzio Dell’Erba Ricercatore di Storia contemporanea Facoltà di Scienze politiche di Torino Per il caso di Torino ed estensibile a tutto il territorio nazionale cfr. . Grazia Ratto-M. Gabriella Peirone, Indovina chi viene a cena: matrimoni misti a Torino, Grandi editore, Torino 2003. 33 6