rischio cardiovascolare - Azienda sanitaria locale Lanciano Vasto

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AZIENDA SANITARIA LOCALE LANCIANO – VASTO - CHIETI
CORSO DI AGGIORNAMENTO AZIENDALE PER
MEDICI DI MEDICINA GENERALE
ANNO 2013
RISCHIO CARDIOVASCOLARE
A cura di
Docente MMG: dr.ssa Stefania Plessi
Docente Cardiologo: prof. Marco Bucci
1
INDICE
1. RAZIONALE E OBIETTIVI
3
2. PREMESSA
4
3. RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE
3.1
Come calcolare il rischio cardiovascolare
3.2
Carte e punteggio Italiani del rischio cardiovascolare
3.3
Carte Europee del rischio cardiovascolare SCORE
3.4
Linee guida ESC 2012 sulla prevenzione cardiovascolare
7
8
9
11
13
4. SESSO FEMMINILE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
15
5. IPERTENSIONE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
5.1
Misurazione dei valori della pressione arteriosa
5.2
Strategie terapeutiche
20
21
23
6. DISLIPIDEMIE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
6.1
Le dislipidemie genetiche
6.2
Diagnosi
6.3
Scelta del trattamento
6.4
Follow-up
6.5
Cosa cambia nella gestione della riduzione del rischio CV nella pratica
clinica?
6.6
Aferesi delle LDL
26
27
30
31
34
La storia della nota 13
35
38
39
7. INSUFFICIENZA RENALE CRONICA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
41
8. MALATTIE AUTOIMMUNI E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
8.1
Psoriasi
8.2
Artrite Reumatoide
8.3
Lupus Eritematoso
47
47
47
47
9. ALTRI FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI
9.1
Uricemia
9.2
Lp(a)
9.3
Omocisteina
9.4
Vit. D
48
48
50
52
53
10. ATTIVITA’ FISICA: COSA CI DICONO LE LINEE GUIDA
10.1 Individui sani
10.2 Pazienti con malattia CV nota
54
54
56
11. FUMO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
59
12. DIETA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
60
2
1. RAZIONALE E OBIETTIVI
Le malattie cardiovascolari (CV) sono tuttora nei Paesi sviluppati, come gli Europei e l’Italia, la
maggior causa di morte prematura: secondo le European Guidelines on cardiovascular disease
prevention in clinical practice – versione aprile 2012, sono responsabili del 42% di tutte le morti al
di sotto dei 75 anni di età nelle donne e del 38% negli uomini. Inoltre chi sopravvive ad un attacco
CV diventa un malato cronico con modifica della qualità della vita e notevoli costi economici per la
società. Pertanto uno dei compiti più importanti della Medicina Generale (MG) è la prevenzione
delle patologie CV. Essa si deve attuare durante l’attività quotidiana del Medico di Assistenza
Primaria, mediante la valutazione del rischio CV sui propri assistiti esenti da malattia con metodo
“opportunistico”e utilizzando strumenti come le carte del rischio che permettano una classificazione
di livello di rischio, utile anche a definire la rimborsabilità di eventuali terapie farmacologiche.
Occorre inoltre che il Medico di Assistenza Primaria individui e illustri al paziente i suoi fattori di
rischio CV: non modificabili come sesso, età e familiarità per la patologia e soprattutto i
modificabili come fumo, iperlipidemia, sedentarietà, diabete mellito, ipertensione arteriosa,
sovrappeso-obesità e adiposità addominale. La correzione dei fattori di rischio modificabili e il
cambiamento dello stile di vita sono gli unici mezzi efficaci per la prevenzione delle malattie CV e
lo sono tanto più quanto più precocemente vengono adottati. Il Medico di Assistenza Primaria deve
inoltre conoscere gli altri fattori di rischio emergenti: l’aumento della lipoproteina (a),
dell’omocisteina e dell’uricemia e la carenza di vitamina D.
OBIETTIVO GENERALE DEL CORSO
•
il Medico di Assistenza Primaria deve implementare durante l’attività quotidiana la
valutazione del rischio CV
OBIETTIVI SPECIFICI DEL CORSO
Il Medico di Assistenza Primaria deve:
•
saper individuare e illustrare ai propri assistiti i loro fattori di rischio CV
•
saper utilizzare le carte del rischio
•
conoscere gli altri fattori di rischio emergenti e le raccomandazioni delle ultime Linee-guida
sul rischio CV
3
2. PREMESSA
A livello Nazionale, Regionale ed Aziendale la valutazione del rischio individuale di malattia CV è,
come già in passato, un obiettivo prioritario nel governo clinico della Medicina Generale.
Nel Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2010-2012 si spiega che tradizionalmente la
prevenzione, cioè l'insieme di interventi finalizzati ad impedire o ridurre il rischio ossia la
probabilità che si verifichino eventi non desiderati ovvero ad abbatterne o attutirne gli effetti in
termini di morbosità, disabilità e mortalità, è stata suddivisa nelle seguenti componenti :
− prevenzione primaria, che si rivolge a tutta la popolazione ed ha come obiettivo il controllo dei
determinanti di malattia;
− medicina predittiva, che tendenzialmente si rivolge a tutta la popolazione ed ha come obiettivo
la valutazione del rischio di insorgenza di una patologia;
− prevenzione secondaria, che si rivolge alla sola popolazione a rischio ed ha come obiettivo la
massima anticipazione diagnostica di una patologia;
− prevenzione terziaria, che si rivolge alla sola popolazione malata ed ha come obiettivo la
riduzione dell'impatto negativo di una patologia, ripristinando le funzioni, riducendo le
complicazioni e le probabilità di recidive
La classificazione degli interventi di prevenzione appena posta, si è rivelata, alla luce della
evoluzione scientifica, non più adeguata, perché da una parte pone l'accento sull'offerta e non sulla
domanda, dall'altra suddivide artificiosamente la persona, come se le fasi si susseguissero l'una con
l'altra, in momenti distinti e separati. Invece l’attuale PNP vuole porre la persona e la comunità, di
cui è parte, al centro del progetto di salute, valorizzando gli esiti più che i processi e considerare la
prevenzione rivolta a problemi e, conseguentemente, a obiettivi :
− prevenzione come promozione della salute: rientrano in essa gli interventi che potenziano i
determinanti positivi e che controllano i determinanti negativi sia individuali che ambientali;
− prevenzione come individuazione del rischio: screening di popolazione e medicina predittiva,
cioè medicina di preavviso, nel senso che, a fronte di un difetto o di una fragilità, consente di
scegliere uno stile di vita adeguato, di sottoporsi periodicamente a test di diagnosi precoce e di
adottare sin dall'inizio le necessarie misure terapeutiche. Si rivolge agli individui sani, nei quali
cerca la fragilità o il difetto che conferiscono loro una certa predisposizione a sviluppare una
malattia ed è una medicina di preavviso nel senso che consente di scegliere uno stile di vita
adeguato e di adottare sin dall'inizio le necessarie misure terapeutiche.
Nel capitolo del PSN 2010-2012 dedicato alle malattie CV, si puntualizza che il contributo
metodologico persegue i seguenti obiettivi:
− definire strumenti per la rilevazione epidemiologica del rischio cardio-cerebrovascolare (carta
del rischio, ma anche rilevazione di indicatori indiretti come il consumo di farmaci specifici)
− individuare screening di popolazione per l'identificazione precoce di ipertensione,
ipercolesterolemia, secondo criteri e caratteristiche di appropriatezza (secondo l'indagine
multiscopo ISTAT più del 50% della popolazione adulta controlla annualmente pressione
arteriosa e parametri biochimici, senza tuttavia una standardizzazione)
− predisporre protocolli terapeutici per il controllo dei principali fattori di rischio, secondo criteri
di evidenza di efficacia e analisi costi-benefici dei diversi principi attivi …
Il Piano Regionale di Prevenzione Sanitaria (PRP) 2010-2012 dell’Abruzzo analizza, su una
popolazione residente al 1° gennaio 2009 di 1.334.675 abitanti (Italia 60.045.000), di cui 648.680
maschi (48.6%) e 685.995 femmine (51.4%), i tassi standardizzati di mortalità per malattie CV che
coincidono con i dati nazionali, che costituiscono con il 25% per le malattie del sistema
cardiocircolatorio il tasso più alto di mortalità generale e con il 10-12% per gli accidenti
cerebrovascolari la terza causa di decesso (dopo le malattie cardiocircolatorie ed i tumori). La
4
struttura demografica della popolazione, associata al progressivo invecchiamento, porta a ritenere
probabile anche per l’Abruzzo la previsione (ritenuta affidabile a livello mondiale) del raddoppio
dei decessi entro l’anno 2020.
Dai rilevamenti ISTAT del 2008 emergono per l’Abruzzo dati ancora più preoccupanti su due
rilevanti fattori di rischio per malattie CV:
− l’ipertensione è al 16.2% rispetto al 15.8% nazionale in crescita progressiva con l’età (nelle
interviste PASSI 2007 nel gruppo 50-69 anni era al 48% ed era associata alla condizione
sovrappeso-obeso)
− il diabete è al 5% rispetto al 4.8% nazionale.
Nel pool di AUSL partecipanti al sistema di sorveglianza regionale PASSI, in riferimento al periodo
2007-2009, circa 5.6 persone ogni 100 hanno dichiarato di avere il diabete.
Nel PRP Abruzzese sono inoltre analizzate altre priorità emergenti:
− senilizzazione, più accentuata nelle aree interne con alto numero di famiglie con anziani o
composte da sole donne ultrasessantenni (62%);
− sedentarietà con dati PASSI 2007 del 33% (Italia 28%) e tendenza all’aumento, in crescita
con l’età, maggiore nel sesso femminile e in persone con molte difficoltà economiche e
basso livello di istruzione. Inoltre il 19% delle persone sedentarie percepisce il proprio
livello di attività fisica come sufficiente;
− eccesso ponderale che secondo PASSI 2007 è presente:
o nel 48% degli adulti (37% sovrappeso e 11% obesità) rispetto al 43% in Italia, in
crescita con l’età, con prevalenza negli uomini, soprattutto in persone con difficoltà
economiche e basso livello di istruzione e sottostima del rischio per la propria salute
con autopercezione al 48% per il sovrappeso (Italia 50%)
o nel 35% dei bambini (25% sovrappeso e 10% obesità) da stili alimentari errati e con
rischio di persistenza di eccesso ponderale in età adulta;
− fumo con rilevazioni del sistema PASSI all’anno 2009 del 16% di ex-fumatori e del 31% di
fumatori adulti sotto i 70 anni (15 sigarette die in media) a fronte del nazionale 29%, con
incremento dal 2007 (26%), in particolare in età giovanile (il 64% del totale tra i 25 e i 49
anni), come nel resto d’Italia uomini (41% contro 21% donne) e persone con difficoltà
economiche e basso livello di istruzione. Soltanto il il 36%, fra coloro che sono stati dal
medico nell’ultimo anno, sono stati intervistati sul fumo da un operatore sanitario e il 60%
dei fumatori ha ricevuto da parte dell’operatore sanitario un invito a smettere di fumare o a
ridurre il numero giornaliero di sigarette fumate;
− ipercolesterolemia con dati PASSI 2007 di un 24% di diagnosi su un 74% di intervistati,
unico dato in linea con il rilevamento nazionale del 25%.
In base alle criticità evidenziate, il PRP Abruzzese fissa la prevenzione su programmi e
progetti con il coinvolgimento e la consapevolezza della collettività (empowerment) e
l’azione integrata degli operatori sanitari, soprattutto Medici di Medicina Generale (MMG),
prevedendo, tra i vari macroambiti, come intervento di medicina predittiva, la valutazione
del rischio individuale di malattia tramite il progetto “Gioca la carta del cuore:
aumentare la conoscenza del rischio cardiovascolare estendendo l’utilizzo della carta
del rischio”. Questo progetto amplia a tutto il territorio regionale la positiva esperienza
pilota della ASL di Pescara, iniziata nel 2006 con il sostegno formativo ed elaborativo del
Reparto di Epidemiologia delle malattie cerebro e cardiovascolari del Centro Nazionale di
Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della salute (CNESPS) dell’Istituto Superiore di
Sanità (ISS), che dal 1998 promuove il Progetto Cuore su tutto il territorio nazionale. I
destinatari sono i soggetti di età compresa tra 35 e 69 anni di entrambi i sessi (al 1° gennaio
2010 633.343), esenti da un precedente evento cardiovascolare e a cui misurare la
probabilità di sviluppare infarto o ictus cerebrale nei successivi 10 anni. I MMG sono i
5
destinatari intermedi, cioè i soggetti coinvolti attivamente nel progetto, che devono
effettuare un cambiamento nella loro pratica professionale, adottando metodologie
standardizzate come la carta del rischio CV (categorico) o il calcolo del punteggio di
rischio CV del programma cuore.exe (puntuale) per fornire agli assistiti informazioni
corrette sugli stili di vita a rischio cardiovascolare e raccomandazioni condivise sul
trattamento farmacologico. L’obiettivo specifico del progetto è portare il calcolo del
punteggio del rischio CV al 20% della popolazione abruzzese tra 35 e 69 anni. Si possono
considerare come risultati attesi intermedi, propedeutici all’obiettivo specifico:
− il calcolo del punteggio al 50% dei propri assistiti da parte del 40% dei MMG
− la predisposizione di una campagna di informazione collettiva sul rischio CV
− una campagna di comunicazione che produca da parte della popolazione target un
aumento di circa il 30% della richiesta del calcolo del punteggio di rischio CV al
proprio MMG.
Le attività previste per ottenere il risultato atteso sono:
− incontri di formazione relativa al calcolo del punteggio e al counselling al 70% dei
MMG
− varare una norma contrattuale regionale ad hoc che disciplini l’attività svolta dal
MMG nel calcolare il punteggio di rischio CV.
Nel Decreto di Giunta Regionale (DGR) Abruzzo n°369 del 20 maggio 2013 è deliberata la
proroga all’anno 2013 del PRP 2010-2012 con la riconferma degli stessi progetti e quindi anche,
come intervento di medicina predittiva, la valutazione del rischio individuale di malattia tramite il
progetto “Gioca la carta del cuore: aumentare la conoscenza del rischio cardiovascolare
estendendo l’utilizzo della carta del rischio”, mantenendo gli stessi obiettivi, attività e con
indicatori di risultato attesi di un 30% di MMG attivati sul totale e un 10% di popolazione
sottoposta al calcolo rispetto alla popolazione generale tra 35 e 69 anni
Il Decreto n°50 del 5 luglio 2013 del Presidente della Regione Abruzzo in qualità di Commissario
ad acta decreta nel “Piano delle attività per il Governo Clinico dei Medici di Assistenza
Primaria – anno 2013” di stabilire prioritario, oltre alla “appropriatezza prescrittiva dei farmaci” e
alla “vaccinazione antinfluenzale degli ultrasessantacinquenni”, anche il “calcolo del rischio CV”
tramite il progetto “Gioca la carta del cuore …” come previsto dal DGR 369/2013 e con invio dei
dati all’ISS. Per ogni assistito eleggibile la valutazione può essere ripetuta, sempre in prevenzione
primaria, con le modalità fissate dal programma. Inoltre tale decreto fissa la “norma contrattuale
regionale ad hoc” per la remunerazione dei MMG come previsto dal PRP: destina a questa attività
la somma di € 625.000, presa dal fondo per l’Assistenza Primaria per attività finalizzate al Governo
Clinico di € 3.08 annui/assistito come da art. 59, lett. B, commi 15 e 16 dell’ACN consolidato del
27 luglio 2009 e incarica la ASL di appartenenza del MMG di effettuare: l’acquisizione preventiva
dell’adesione, la quantificazione per ogni MMG partecipante del budget in proporzione al numero
di assistiti in carico e l’erogazione del compenso in base alle prestazioni effettuate.
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA
1. Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2010-2012
2. Piano Regionale di Prevenzione Sanitaria (PRP) 2010-2012 dell’Abruzzo
3. Decreto di Giunta Regionale Abruzzo n°369 del 20 maggio 2013
4. Decreto n°50 5 luglio 2013 del Presidente Regione Abruzzo in qualità di Commissario ad acta
5. Art. 59, lett. B, commi 15 e 16 dell’ACN consolidato del 27 luglio 2009
6. www.cuore.iss.it
6
3. IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE
Introduzione
Nonostante i progressi indiscussi nella conoscenza delle basi fisiopatologiche, l’amplificazione dei
mezzi diagnostici e le numerose opzioni terapeutiche disponibili, le malattie cardiovascolari
rappresentano la principale causa di mortalità e disabilità
disabilità nei paesi occidentali (tabella 1).
Le ragioni di questa persistenza vanno ricercate sia nell’aumentata
tata incidenza di patologie quali
l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, le dislipidemia, sia nell dilagare di uno stile di vita
sedentario, con abitudini dietetiche scorrette e l’ancora
l
dilagante diffusione dell’abitudine tabagica,
sia nello scarso controllo (farmacologico e non) di tali fattori di rischio (FR) cardiovascolari.
Numerose evidenze hanno ormai acclarato come le lesioni aterosclerotiche si sviluppino
progressivamente e insidiosamente nel tempo, manifestandosi spesso solo nelle fasi più avanzate
a
con eventi clinici drammaticamente evidenti (ictus cerebri, infarto miocardico, …). Tali acuzie
possono esitare nell’exitus o in disabilità che condizionano pesantemente la qualità di vita dei
pazienti e dei loro care-giver,, con ricadute psicologiche,
psicologiche, sociali ed economiche di non poco conto1.
Tabella 1
Figura 1: Disability Adjusted Life
7
Emerge, pertanto, la necessità di
di una seria prevenzione cardiovascolare da attuare mediante
interventi terapeutici (farmacologici e non) e di educazione della popolazione generale.
Tali interventi non possono prescindere da un approccio globale e integrato del rischio
cardiovascolare di ogni singolo individuo, che dovrebbe essere inquadrato nel suo complesso e
nella sua unicità.
Definizione
Il concetto di rischio cardiovascolare globale (RCG) risponde proprio alla necessità di trattare
l’individuo
iduo e non la singola patologia. Negli ultimi decenni si è passati progressivamente da un
approccio tradizionale,
dizionale, basato sul trattamento dei singoli FR,, a un approccio basato sul trattamento
integrato e multifattoriale del profilo di rischio cardiovascolare globale del singolo individuo2.
Si tratta di un passaggio naturale, che deriva dai seguenti aspetti:
• “Multifattorialità” fisiopatogenetica delle patologie cardiovascolari
• Coesistenza negli stessi pazienti di più FR cardiovascolare
• Azione sinergica di tali FR nel determinismo del danno d’organo
Figura 2: Rischio cardiovascolare tradizionale vs rischio cardiovascolare
ca
globale
3.1
Come calcolare il rischio
ischio cardiovascolare
Sono attualmente disponibili diversi algoritmi di calcolo del rischio cardiovascolare3, elaborati dalle
diverse società scientifiche internazionali sulla base degli studi epidemiologici.
Framingham Risk Score
Il più noto e meglio conosciuto resta il Framingham Risk Score4, 5, di cui sono state prodotte nel
tempo diverse versioni e su cui si basano diverse carte del rischio e tavole incluse in Linee Guida
8
nazionali e internazionali. Tale algoritmo calcola la probabilità che si verifichi un evento
cardiovascolare in un lasso di tempo di 5-10 anni, in pazienti di età compresa fra 35 e 70 anni,
basandosi su 7 FR (età, sesso, fumo, pressione arteriosa sistolica, rapporto colesterolo/HDL,
diabete mellito, ipertrofia ventricolare sinistra). Il rischio cardiovascolare così calcolato6 è
sovrastimato nelle popolazioni mediterranee rispetto a quelle nordamericane.
3.2
Carte e punteggio Italiani del rischio cardiovascolare
Proprio al fine di superare tale divario, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in collaborazione con
l’Osservatorio Epidemiologico Italiano, ha elaborato le carte del Rischio Cardiovascolare7 su studi
epidemiologici condotti su coorti italiane. Le classi di rischio globale assoluto sono calcolate per
categorie di 6 fattori di rischio (età, sesso, diabete, fumo, pressione sistolica e colesterolemia
totale). Tale strumento è stato utilizzato fino al 2011 sia per la stima del RCV che per valutare la
rimborsabilità del trattamento con statine secondo le precedenti versioni della nota 13 (2004 e
2007).
Tabella 2
Calcolo del rischio CV categorico tramite la carta del Progetto Cuore: 6 items, 40-69 anni:
Scelta la carta, in base al sesso e alla presenza o no del diabete:
1.
posizionarsi nella zona fumatore / non fumatore
2.
identificare il decennio di età
3.
collocarsi sul livello corrispondente a pressione arteriosa sistolica e colesterolemia
totale
4.
identificato il colore, leggere nella legenda a fianco il livello di rischio
Ripetere il calcolo almeno:
ogni sei mesi per persone a elevato rischio CV, cioè superiore o uguale al 20%
ogni anno per persone a rischio da tenere sotto controllo attraverso l'adozione di uno stile di
vita sano, cioè superiore o uguale al 5% e inferiore al 20%
ogni 5 anni per persone a basso rischio CV, cioè inferiore al 5%
Punteggio individuale puntuale con cuore.exe del Progetto Cuore: 8 items, 35-69aa:
A parte il sesso e l’età espressa in anni, occorre inserire:
1.
la media di 2 misure eseguita a distanza di alcuni minuti della pressione arteriosa
sistolica; biffare o no la casella “in trattamento con antipertensivi”
2.
il valore del colesterolo totale e HDL
3.
sì o no rispettivamente a seconda della presenza o meno di diabete
4.
sì o no rispettivamente a seconda della presenza o meno di fumo.
Con questi dati, il software ti dà, con possibilità di stampa e consegna al paziente:
la percentuale di rischio di malattia CV a 10 anni e la spiegazione del suo significato
i consigli da dare al paziente riguardo fumo, alimentazione (frutta e verdura, grassi
animali, sale, alcool), attività fisica e peso
la possibilità di confrontare il rischio con quello di una persona esaminata con tutti i fattori
di rischio modificabili a livelli “desiderabili: non fumatore, non diabetico, non in terapia
antipertensiva, pressione arteriosa sistolica uguale o inferiore a 120 mmHg, e
colesterolemia inferiore a 200 mg/dl
la possibilità di valutare, nel caso in cui la persona sia un fumatore, di quanto si
abbasserebbe il rischio se smettesse di fumare per almeno un anno a parità di tutti gli altri
fattori di rischio.
Ripetere il calcolo almeno:
•
ogni sei mesi per persone a elevato rischio CV, cioè superiore o uguale al 20%
•
ogni anno per persone a rischio da tenere sotto controllo attraverso l'adozione di uno stile di
vita sano, cioè superiore o uguale al 3% e inferiore al 20%
•
ogni 5 anni per persone a basso rischio CV, cioè inferiore al 3%
9
Tabella 3
Con entrambe le metodiche occorrono misure standardizzate dei fattori di rischio:
−
pressione arteriosa sistolica: va misurata con sfigmomanometro a mercurio al braccio
destro posizionato all’altezza del cuore a 45° rispetto al tronco, dopo che il paziente si è
riposato per 4 minuti in posizione seduta
−
colesterolo totale e HDL con prelievo venoso, a digiuno da almeno 12 ore ed eseguito
negli ultimi 90 giorni
−
diabete, definizione: glicemia con prelievo venoso, a digiuno da almeno 12 ore, ripetuta
una 2° volta in una settimana, uguale o superiore a 126, o terapia con ipoglicemizzanti
orali o insulina oppure storia clinica personale di diabete
−
fumo, definizione di fumatore: chi fuma ogni giorno anche una sola sigaretta o ha smesso
da meno di 12 mesi, non-fumatore: chi non ha mai fumato o ha smesso da più di 12 mesi.
Entrambe le metodiche non sono utilizzabili:
−
in gravidanza
−
per valori estremi dei fattori di rischio:
• pressione arteriosa sistolica superiore a 200 mmHg o inferiore a 90 mmHg
• colesterolemia totale superiore a 320 mg/dl o inferiore a 130 mg/dl
solo per il punteggio, HDL-colesterolemia inferiore a 20 mg/dl o superiore a 100 mg/dl.
Anche le Carte Italiane, tuttavia, hanno alcuni “difetti”:
- il rischio – come nelle carte del Framingham – è sottostimato nei pazienti più giovani (si
parla infatti di rischio “assoluto”, in cui l’età ha il “peso” più importante);
- le donne appaiono a “basso rischio” – e dunque non meritevoli di un adeguato intervento
preventivo – praticamente fino all’età avanzata.
Inoltre, tutte le carte hanno il limite di “categorizzare” il livello di rischio, piuttosto che
personalizzarlo: una persona che avrà un rischio del 19,5% ricadrà in una casella giallo-arancio, e se
dopo un certo periodo di trattamento dovesse scendere al 10,5% ricadrebbe sempre in una casella
dello stesso colore, rendendo praticamente invisibile il progresso fatto (che nell’esempio
equivarrebbe quasi a un dimezzamento!).
Per tale motivo, già dal 2008 lo stesso ISS ha promosso e raccomandato l’uso del Calcolatore del
Rischio Individuale, che poteva essere compilato on line sullo stesso sito dell’ISS, alle pagine del
Progetto CUORE (cuore.exe). Tale calcolatore restituisce un valore (“punteggio puntuale”) che
permette di valutare le modifiche (sia in senso migliorativo che peggiorativo) nel tempo e quindi di
proseguire o rafforzare gli interventi preventivi messi in atto, poiché considera valori continui per
alcuni fattori di rischio, cioè per l’età, la colesterolemia totale, l’HDL e la pressione sistolica
(ovviamente non per sesso, diabete e fumo). Inoltre include nella stima la terapia antipertensiva, sia
perché il valore di pressione sistolica registrato non è naturale ma dovuto anche al trattamento
specifico, sia perché la terapia antipertensiva è anche un indicatore di ipertensione arteriosa di
vecchia data. Al tempo stesso, la compilazione on line permette all’ISS di acquisire nuovi dati
epidemiologici utili a un eventuale futuro aggiornamento delle Carte del Rischio.
Inoltre, e purtroppo, le Carte del rischio sono state sempre utilizzate più per la stima del rischio
assoluto (che comunque è la loro prima indicazione) che non per la stima del rischio relativo, vale a
dire per fare un confronto tra il profilo di rischio di chi è esposto a certi fattori e di chi (a parità di
sesso ed età) non lo è. In tal modo si sarebbe potuto tentare un approccio diverso dal punto di vista
comunicativo, e forse si sarebbe potuto raggiungere un diverso livello motivazionale.
10
Figura 3:: Carte del Rischio Cardiovascolare italiane
Con l’uscita della nota 13 versione 15 luglio 2011 queste carte,, pur rimanendo ancora valide – in
quei tempi – per la stima del profilo di rischio non erano
no più richieste per la valutazione della
rimborsabilità
orsabilità o meno delle statine. Tuttavia, restano ancora oggi in piedi sul territorio progetti di
Governo clinico finanziati per spingere la loro implementazione anche attraverso l’utilizzo del
Calcolatore, cui si accennava poco sopra.
3.3
c
SCORE
Carte Europee del rischio cardiovascolare
Recentemente, dopo la pubblicazione
pubblic
delle nuove linee guida Europee
uropee per la gestione delle
Dislipidemie8, 9, lee ultime edizioni della nota 13 AIFA (28 Novembre 2012 e 09 Aprile 2013) hanno
ha
adottato per il calcolo del RCV l’algoritmo derivato dallo studio SCORE (Systematic COronary
Risk Evaluation),, differenziato per le popolazioni dell’Europa del Nord e del Sud con due diverse
carte del rischio. L’Italia va annoverata tra i Paesi a Basso Rischio Cardiovascolare.
Entrambi gli strumenti (Carte Italiane e Carte
Carte Europee) sono derivati da algoritmi di calcolo
applicabili esclusivamente in prevenzione primaria:
primaria: i pazienti in prevenzione secondaria vengono
considerati a rischio cardiovascolare elevato. Ma la differenza fondamentale è che le Carte Italiane
considerano ad alto rischio un paziente che ha
h una probabilità > 20% di sviluppare un evento fatale
o non fatale nei successivi 10 anni, le Carte Europee considerano invece ad alto rischio un paziente
che ha una probabilità > 5% di sviluppare un evento fatale (nonn considerano cioè il rischio di
eventi totali, ma solo il rischio di morte cardiovascolare). Da ciò si comprende il valore numerico
più basso, ma questo aspetto deve essere adeguatamente sottolineato in quanto l’abitudine a
consultare le carte italiane e a considerare il livello 20% come “alto rischio” potrebbe portare a
pericolose sottovalutazioni del profilo di rischio (in questo caso è meglio far riferimento alla scala
11
cromatica, uguale nelle due carte: rosso = alto rischio!).
rischio Le variabili considerate sono:
s
sesso, età,
pressione arteriosa sistolica (PAS) e colesterolo totale.
totale Le carte sono due, una per i paesi europei
a maggior rischio CV ed una per quelli a minor rischio,
rischio tra i quali l’Italia: questa soluzione ha
l’intento di ridurre la sovrastima del rischio nelle popolazioni del Sud Europa, come già accadeva
per le precedenti carte europee del 2003.
2003 Come allora, non è presente la distinzione tra soggetti
diabetici (tipo 2) e non diabetici, essendo i primi considerati automaticamente ad “alto rischio”,
rischio”
mentre per i diabetici di tipo 1 l’alto rischio è presente solo in caso di microalbuminuria.
I livelli superiori di colesterolo totale inseribili nella carta sono 320 mg/dl; in caso di valori > 320
mg/dl il paziente è considerato automaticamente ad “alto rischio”. Come nelle precedenti LG, non
viene considerata indispensabile la determinazione del colesterolo HDL, che, secondo gli autori,
non modificherebbe sostanzialmente la capacità predittiva offerta dal solo colesterolo totale.
A differenza delle carte italiane, che considerano solo 3 fasce di età (40-49;
49; 50-59;
50
60-69), le carte
europee suddividono la popolazione in 5 fasce (40-49;
(40
50-54; 55-59; 60-64;
64; 65-69)
65
allo scopo di
meglio inquadrare il soggetto in esame (confermando in tal modo il peso decisivo attribuibile
all’età).
Figura 4: Carte dello SCORE per i Paesi a basso RCG
12
3.4
Linee guida ESC 2012 sulla prevenzione cardiovascolare
Le nuove linee guida del 2012 della European Society of Cardiology (ESC), che si basano
appunto sulle carte SCORE per la stima del rischio CV, hanno un nuovo approccio nella
comunicazione: la correlazione rischio-età (risk-age), necessaria per rendere il paziente
maggiormente consapevole del suo rischio CV. Molti trentenni sono attualmente considerati a basso
rischio proprio in virtù della loro età; se invece lo stesso trentenne fosse un fumatore gli si dovrebbe
comunicare che il suo rischio di avere un infarto è lo stesso di un paziente di 65 anni non fumatore,
con maggior impatto sulla sua consapevolezza di malattia e sulla sua critica sui fattori di rischio.
Importante è la raccomandazione di valutare il rischio CV di un individuo almeno una volta nella
sua vita; per gli uomini dovrebbe essere fatto dopo i 40 anni mentre per le donne dopo i 50. Questa
valutazione dovrebbe essere fatta dai medici o da infermieri, ma anche nelle farmacie.
Alla fine di ogni sezione delle linee guida sono elencate le raccomandazioni, categorizzate in base
al livello di evidenza che le supporta da strong (cioè forte, come ad esempio la riabilitazione
cardiologica dopo ischemia miocardica), a weak (cioè debole, come la valutazione dello score
coronarico di calcio nei pazienti asintomatici).
Il livello di evidenza riflette un sistema di punteggio denominato GRADE, una misura basata su
diversi fattori tra cui il grado di incertezza riguardo l’equilibrio tra rischi e benefici dell’intervento,
e se l’intervento rappresenti un uso corretto delle risorse allocate. Infatti, il tradizionale approccio
per stabilire il grado di evidenza vede predominare gli studi clinici di controllo randomizzati; questi
rappresentano sì un’eccellente risorsa, ma comportano grosse limitazioni come l’esclusione della
valutazione degli stili di vita; è infatti semplice realizzare questi trials per il colesterolo o per la
pressione sanguigna, ma non lo è di certo per la valutazione della cessazione del fumo o di altri
cambiamenti dello stile di vita. Serve dunque una maggior enfasi non tanto sulla terapia, quanto
sulla prevenzione e sulla modificazione dei fattori di rischio.
Oltre all’aggiunta della categorizzazione in base al livello di evidenza, queste linee guida
presentano, alla fine di ciascun argomento trattato, una sezione denominata “what is new”, che
rimarca le novità apportate in quello specifico ambito; sono inoltre evidenziati i campi specifici che
necessiterebbero ulteriori studi di approfondimento: ad esempio nella sezione sul BMI il “what is
new” è che l’essere sottopeso porta con ogni probabilità ad un maggiore rischio di mortalità e
morbidità cardiovascolare e viene specificata la necessità di nuovi studi per determinare se la
misurazione dell’adiposità regionale aggiunge al BMI valore predittivo nell’identificare i pazienti a
rischio di malattie CV. Il comitato, inoltre, sottolinea come sia ora di avere ricerche che dimostrino
in maniera definitiva il beneficio relativo alla dieta, all’esercizio fisico e alle modificazioni del
comportamento nei pazienti obesi.
La terapia antiaggregante piastrinica, in particolare l’aspirina a basse dosi, deve essere prescritta
in tutti i pazienti ipertesi con pregressi eventi cardiovascolari. Può altresì essere presa in
considerazione in pazienti ipertesi senza storia di MCV, con disfunzione renale o ad elevato rischio
cardiovascolare. Nei pazienti che assumono aspirina deve sempre essere posta particolare
attenzione al rischio di complicanze emorragiche, in particolare del tratto gastrointestinale.
L’età vascolare: un nuovo concetto di rischio cardiovascolare
Nel 200810 è stato introdotto, sempre nell’ambito delle successive versioni del Framingham Risk
Score, il concetto di “Età Vascolare”, ovvero l’età dell’apparato cardiovascolare del paziente
calcolata tenendo conto della presenza di eventuali fattori di rischio cardiovascolare.
La “rivisitazione delle Carte” alla luce di questi nuovi concetti è stata resa possibile grazie
all’introduzione sul mercato e alla progressiva diffusione (in realtà ancora abbastanza limitata) di
strumenti in grado di misurare alcuni parametri della rigidità delle arterie centrali (arterial stiffness,
Pulse Wave Velocity, Augmentation Index,...). In tal modo è stato possibile acquisire nuovi dati che
possono andare a modificare il valore numerico attribuibile ai classici fattori di rischio fino ad oggi
considerati dalle varie carte.
13
Mentre il calcolo del rischio CV consente di categorizzare i pazienti in differenti classi,
considerando l’età anagrafica proprio come FR, introducendo il concetto di “età vascolare” la
suddivisione potrà essere fatta in categorie diverse, che in sostanza assimilano un soggetto con
fattori di rischio presenti ad uno che, senza quei fattori, ha un rischio paragonabile in funzione della
sola età anagrafica11. In pratica, è come dire che un soggetto di 40 anni, che fuma e ha pressione e
colesterolo alti, ha un rischio pari a quello di un 60enne che non ha quei fattori di rischio ma ha 20
anni di più (“età anagrafica” confrontata con l’”età biologica”): in tal modo, l’impatto comunicativo
cambia sostanzialmente!
Si tratta di un concetto non alternativo, ma solo additivo al calcolo del rischio cardiovascolare
globale, facilmente comprensibile.
Proprio il grande impatto comunicativo sulla popolazione e la possibilità di un miglioramento del
parametro, conseguente all’aderenza alla terapia, potrebbe costituire un valido mezzo per potenziare
la compliance del paziente nei confronti del trattamento non farmacologico e farmacologico dei
diversi fattori di rischio.
Figura 5: SCORE ed età vascolare
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:
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2. Cooney MT et al., J Am Coll Cardiol 2009;54:1209–27
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10. D’Agostino et al., Circulation. 2008;117:743-753
11. Cuende JL et al., Eur Heart J. 2010 Oct;31(19):2351-8
14
4. SESSO FEMMINILE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Epidemiologia e dati scientifici
Le donne sono affette da patologie dell’apparato CV con intensità e gravità talora superiori
all’uomo. In Europa le malattie CV, considerando ictus e cardiopatia ischemica, rappresentano la
prima causa di morte nelle donne con una percentuale significativamente superiore a quella
raggiunta nella popolazione maschile e cioè nel 45% verso il 38% secondo l’European
Cardiovascular Disease Statistics 2008 (1) (figure 1 e 2). In Italia, con percentuali inferiori, la
situazione è sovrapponibile.
Fig 1. Mortalità femminile(dati European Cardiovascular Disease Statistics 2008)
Fig 2. Mortalità maschile (idem)
Nel 2005 secondo il Registro nazionale italiano degli eventi coronarici maggiori del Gruppo di
Ricerca del Progetto Registro per gli Eventi Coronarici e Cerebrovascolari, tale percentuale è
significativamente superiore a quella dovuta ai tumori, che è pari al 24% (2).
L’andamento della mortalità per cardiopatia ischemica (CI) risulta in ascesa fino alla metà degli
anni ’70, immodificata fra il 1976 e il 1978 e successivamente in lenta e graduale discesa con tassi
di mortalità più elevati nella Italia Settentrionale e più bassi nell’Italia Centrale e Meridionale con
una differenza molto elevata all’inizio degli anni ’70 che si riduce gradualmente negli ultimi anni in
ragione di una progressiva “omogeneizzazione” verso stili di vita più uniformi. Diversi sono i
fattori riconducibili alla riduzione della mortalità per la CI, fra questi: il miglioramento delle terapie
in fase acuta dell’infarto del miocardio (IMA), il miglior controllo farmacologico della pressione
arteriosa e della colesterolemia e la diffusione nella popolazione di stili di vita più salutari.
Il trend di mortalità degli eventi cerebrovascolari dal 1970 al 2002 mostra nelle donne un graduale
decremento con la sola eccezione delle regioni del Sud; non è evidente un gradiente Nord-Sud,
mentre è possibile identificare nel meridione alcune aree in cui il fenomeno si manifesta con
maggiore intensità. Alla base della riduzione della mortalità vi è, verosimilmente, l’introduzione e
progressivo affermarsi nella popolazione di una efficace terapia antipertensiva.
I dati del 2004 del Registro Nazionale degli Eventi Coronarici e Cerebrovascolari
dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare Italiano (3) mostrano che il tasso di eventi
coronarici totali (fatali e non) risulta superiore negli uomini rispetto alle donne, coerentemente con
quanto riportato in altri Paesi, dove il genere femminile risulta avere un “vantaggio” in termini di
incidenza inferiore di eventi coronarici, specie in età premenopausale, con un “ritardo” di
circa 10 anni rispetto all’incidenza maschile. Tale vantaggio pare annullarsi dopo i 75 anni,
secondo il Women’s Health Study pubblicato ugualmente nel 2004 (4).
Ulteriori dati sulle malattie CV in generale nella donna derivano nel 2010 dall’Osservatorio
epidemiologico cardiovascolare/Health examination survey (Oec/Hes) (5): il 5.8% delle donne (età
45-74 anni) è risultato affetto da angina pectoris, il 3% da claudicatio intermittens, l’1.5% da
15
ipertrofia ventricolare sinistra, l’1.3% da fibrillazione atriale, l’1.2% da ictus, l’1.2% da TIA e lo
0.8% da infarto.
Nella donna in età post-menopausale la cardiopatia ischemica (CAD) è la prima causa di morte e di
ospedalizzazione con tasso pari al 39% dei decessi nel sesso femminile contro il 32% dei decessi
nel sesso maschile negli Stati Uniti e, in Italia, con un tasso di mortalità del 46.8% contro il 37.5%
(6). La minore incidenza di eventi CV nelle donne in età fertile è associata agli effetti protettivi
esercitati dagli estrogeni, caratterizzati da:
− azione antiossidante
− inibizione della proliferazione cellulare
− miglioramento della funzione endoteliale e dell’equilibrio emostatico
− modulazione favorevole del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAA)
− riduzione dei livelli di LDL, LP (a), APO A1 - APO B e aumento HDL.
Per lungo tempo è stata opinione comune che le malattie CV fossero un problema tipicamente
maschile o comunque che interessassero le donne nelle stesse modalità e fossero quindi da curare
come negli uomini. Tutto ciò ha assunto particolare rilievo sul piano epidemiologico, diagnostico e
di programmazione sanitaria, in quanto l’aspettativa di vita media nella donna è comunque
maggiore, ma il rapporto costo/benefici degli atti medici è inferiore a quello dell’uomo e vi è stata
dispersione di risorse nel tentativo di adattare alla donna quello che è efficace nell’uomo, dal punto
di vista sia diagnostico che terapeutico. Finora le donne sono state sottostudiate (figura 3),
sottodiagnosticate e sottotrattate, anche se finalmente adesso le società scientifiche internazionali
stanno dimostrando nei confronti di questo campo della medicina un interesse sempre maggiore.
Oggi sappiamo che sono necessari studi dedicati per comprendere meglio le specificità delle
malattie CV femminili e trattamenti più mirati dei fattori di rischio delle donne per migliorarne
l’assistenza.
Figura 3
Fattori di rischio
Si possono suddividere in: tradizionali, emergenti e correlati al genere.
I fattori di rischio CV tradizionali e cioè età, storia familiare, diabete, ipertensione arteriosa,
tabagismo, dislipidemia, obesità ed inattività fisica sono comuni ad entrambe i sessi, ma presentano
peculiarità quali-quantitative tipiche delle donne: è maggiore il rischio relativo di sviluppare
diabete, ipertrigliceridemia e bassi valori di colesterolo HDL ed è maggiore anche il rischio di
sviluppare patologie CV ad essi correlato a parità di fattori di rischio.
Per quanto riguarda il diabete, la mortalità per CAD è 3-5 volte maggiore nella donna diabetica (7)
rispetto alla non diabetica, mentre negli uomini l’incremento del rischio è di 2-3 volte.
16
Attualmente la prevalenza dell’ipertensione arteriosa (8) aumenta con l’età: 22% sotto i 45 anni,
40% tra 50 e 60 anni, oltre il 50% sopra i 60 anni (il 18% è in condizione borderline) e nella donna
vi è maggior associazione tra ipertensione e CAD (aumento del rischio 3.5 volte rispetto ai maschi).
Anche l’obesità (definita come BMI>29 kg/m2), riscontrabile nel 30-40%delle donne in
menopausa, determina nella donna un rischio tre volte maggiore di CAD rispetto all’uomo. Si
associa attualmente ad insulino-resistenza, aumento delle LDL, del catabolismo delle HDL e del
colesterolo totale (superiore a 200) presenti e/o corretti nel 72% della donne in menopausa (5) e ad
inattività fisica, riscontrabile nel 48% di esse (9).
Il tabagismo è in crescita, soprattutto nelle donne sotto i 35 anni (10), contribuisce ad una
menopausa precoce e agisce sinergicamente con l’uso dei contraccettivi orali.
Recentemente si sono presentati marcatori rappresentanti fattori di rischio CV emergenti. Di essi
la proteina C reattiva ad alta sensibilità (PCR-hs), è un fattore indipendente predittivo di CI come
dimostrato nelle donne del Women’s Health Study (4). Le donne con livelli di PCR nel quartile più
alto, hanno mostrato nei 3 anni di follow-up un rischio di malattie CV da 5 a 7 volte più elevato
rispetto ai quartili inferiori.
Altri markers infiammatori con possibili ricadute sul sistema CV sono la interleuchina 6 (IL-6) ed
il fibrinogeno. Il valore predittivo dei diversi markers infiammatori nella donna potrebbe essere
indicativo di una possibile differenza nella fisiopatologia dell’aterosclerosi legata al genere. Inoltre
le donne sono con maggiore frequenza (da 2 a 50 volte di più) affette da patologie infiammatorie
su base autoimmune (artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico, tiroiditi, sindromi di
Raynaud e Takayasu) rispetto agli uomini (11).
Un’alterata vasodilatazione endotelio-mediata, indice di disfunzione endoteliale, può essere
assimilata a un fattore di rischio di nuova identificazione o alternativamente ad una misura
surrogata di malattia aterosclerotica subclinica in donne a rischio come quelle in menopausa, ancora
asintomatiche. In particolare, la misura della vasodilatazione endotelio-dipendente, calcolata come
“vasodilatazione flusso-mediata” sull’arteria brachiale con metodi diagnostici non invasivi,
specificatamente l’ultrasonografia, si è rivelata un indice importante per la valutazione della
cosiddetta “panarterial vulnerability” cioè la vulnerabilità dell’apparato vascolare, che permette una
maggiore incidenza di eventi cardiaci acuti in presenza di placche aterosclerotiche. Tra l’altro,
questo parametro è risultato buon predittore di rischio CV in numerosi studi (12).
Un’altra condizione tipicamente femminile, l’ipovitaminosi D, è associata ad un aumento del
rischio cardiovascolare per aumento dei valori pressori, formazione di calcificazioni vascolari e
cardiopatia ischemica (13).
La sindrome metabolica (SM) esercita un peso più rilevante come fattore di rischio specialmente
nella menopausa, periodo in cui le diverse componenti della sindrome metabolica si presentano più
spesso in associazione (14). Nella popolazione italiana, il 22.9% delle donne è risultato affetto da
sindrome metabolica.
Infine è rilevante ricordare l’impatto dello status psico-sociale sulle malattie CV e sulla CI in
particolare. Tale impatto appare superiore nelle donne rispetto agli uomini per vari fattori
contingenti: le donne vivono più spesso in condizioni economiche inferiori agli uomini di pari età,
un maggior numero di donne sopravvive ai propri partner, vivendo quindi in solitudine e fattori
comportamentali quali tabagismo, obesità, scarso esercizio fisico e depressione sono più frequenti
nelle donne, specialmente dopo la menopausa.
Alcuni fattori di rischio CV sono correlati al genere e, quindi, propri della donna: ipertensione
gestazionale, pre-eclampsia/eclampsia, ovaio policistico, ipoestrogenismo di natura ipotalamica e
naturalmente la menopausa.
Linee Guida per la prevenzione delle malattie CV nelle donne
La prevenzione CV può essere articolata su due livelli di intervento: un intervento di popolazione,
con l’obiettivo di promuovere stili di vita adeguati a diminuire il livello medio dei fattori di rischio
principali nella popolazione generale, ed un intervento individuale, basato sulla conoscenza del
17
singolo paziente e sulla correzione/controllo dei suoi specifici fattori di rischio attraverso lo stile di
vita e quando necessario attraverso il trattamento farmacologico. In entrambe i casi le Linee Guida
sono uno degli strumenti attraverso i quali possiamo cercare di raggiungere i nostri obiettivi.
Nelle Linee Guida della European Society of Cardiology (ESC) “per la prevenzione
cardiovascolare nella pratica clinica” del maggio 2012 (15) lo spazio dedicato alle donne è
notevolmente limitato e ridotto rispetto alla versione precedente: la prevenzione delle malattie CV
nella popolazione femminile è collocata, insieme a quella della popolazione anziana, nel breve
paragrafo “Age and gender” in cui si raccomanda solo di includere le donne (come le persone
anziane) nella valutazione del rischio CV nella stessa modalità di altri gruppi al fine di determinare
la necessità di specifici trattamenti. Il tutto pur essendo chiaramente riportato che le malattie CV
sono la prima causa di morte nella popolazione femminile in tutte le nazioni dell’Europa per le
donne sotto i 75anni (42%) in misura superiore a quella degli uomini (38%). I minori tassi di
decesso per coronaropatia (ma non per stroke) possono essere interpretati come un effetto protettivo
degli estrogeni endogeni, anche se esistono tra le nazioni differenze che possono essere meglio
spiegate da differenze tra i due sessi nell’assunzione di grassi saturi con la dieta (piuttosto che da un
eccesso di fumo nell’uomo). La mortalità CV non incrementa nelle donne in seguito alla
menopausa, suggerendo quindi che le donne possono differire il loro rischio piuttosto che evitarlo
completamente. Le linee guida ESC consigliano le donne di adeguarsi ai suggerimenti di un
aggiornamento del 2010 delle linee guida della l’American Heart Association AHA per la
prevenzione della malattie CV nelle donne (16), in particolare modo all’uso del Framingham
score. Si definisce una categoria di “salute cardiovascolare ideale”, cioè con assenza di fattori di
rischio aggiunti, BMI < 25kg/m², regolare attività fisica da moderata a vigorosa e dieta salutare.
Come esempio, le linee guida ESC citano lo studio Women’s Health Initiative, in cui solo il 4%
delle donne delle donne fu compreso in questo stato ideale e un ulteriore 13% non ebbe fattori di
rischio ma trascurò di seguire uno stile di vita salutare: ci fu una differenza del 18% di maggiori
eventi di malattie CV in favore dell’ideale stile di vita verso il gruppo senza fattori di rischio e cioè
rispettivamente 2.2% e 2.6% nell’arco di 10 anni.
Nel 2011 l’AHA ha emanato una nuova versione delle Linee Guida per la prevenzione CV nelle
donne (17). Si conferma la stratificazione delle donne in 3 gruppi: “ad alto rischio”, “a rischio”, “a
rischio ottimale/ideale”. La categoria a “rischio ottimale”, che corrisponde alla assenza di fattori di
rischio, è stata introdotta per motivare le donne ad adottare o mantenere gli stili di vita più salutari,
capaci di minimizzare il rischio modificabile. Seguendo la flow-chart si identifica la classe di
rischio nella quale si colloca la donna ed attraverso step successivi si definiscono le azioni da
intraprendere: interventi sullo stile di vita, interventi sui maggiori fattori di rischio, interventi
farmacologici ad azione preventiva ed a dimostrata efficacia. Gli interventi farmacologici, indicati
con il rispettivo livello di evidenza, comprendono: terapia della ipertensione arteriosa, terapia della
ipercolesterolemia, impiego di betabloccanti, ACE-inibitori/sartani, farmaci antialdosteronici, acido
acetilsalicilico (ASA), warfarin e dabigatran. A parte sono invece segnalati gli interventi non
efficaci o addirittura dannosi: terapia ormonale sostitutiva, supplementi a base di antiossidanti,
acido folico e ASA nella donna di età inferiore a 65 anni.
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the United States (from the Women’s Health Study). Am J Cardiol 2004; 93: 1238-1242
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19. Ferrero A, Spinnler M.T. Fattori di rischio cardiovascolare nella popolazione femminile. MD anno XIX n. 3 – 20
marzo 2012: 36-38
^^^^^
Nei successivi capitoli, esamineremo in dettaglio alcuni fattori che accrescono il rischio CV.
Eviteremo volutamente a scopo di brevità il diabete mellito – oggetto quest’anno di un altro corso
di aggiornamento e comunque più volte richiamato in questo testo nei vari studi citati – e altre
patologie associate ad aumentato rischio di eventi CV, con meccanismi patogenetici ancora
oggetto di studio, come la disfunzione erettile, l’apnea ostruttiva nel sonno, gli stati influenzali, la
periodontite, la vasculopatia da radiazioni e la vasculopatia da trapianto.
Valuteremo poi alcuni comportamenti che invece riducono o aumentano il rischio CV stesso.
19
5. IPERTENSIONE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Introduzione
Nonostante molte risorse siano investite nella diagnosi e cura dell’ipertensione arteriosa, questa
patologia rimane in tutto il mondo una delle principali cause di morbilità e mortalità1.
Si tratta di una patologia cronica, dotata di elevata prevalenza nella popolazione adulta e costituisce
un “pesante” fattore rischio cardiovascolare, gravato da un’elevata mortalità e complicanze
inabilitanti.
1
Figura 1: Mortalità cardiovascolare e fattori di rischio
Le Linee Guida
Molte sono le linee guida riguardanti l’ipertensione oggi presenti nella letteratura scientifica: tra le
più accreditate sono quelle preparate e redatte in collaborazione con la terza Task Force sulla
prevenzione delle malattie CV organizzata dalla European Society of Cardiology (ESC) e dalla
European Society of Hypertension (ESH)2, recentemente pubblicate il (giugno 2013).
2013)
In esse sono stati riconsiderati due parametri di rischio, il sovrappeso e il target di indice di massa
corporea. Particolare attenzione è stata data anche all’ipertensione della popolazione giovane e di
quella anziana.
Approccio basato sul rischio CV globale
Come nella precedente edizione del 2007, viene rienfatizzata
zata la necessità di un approccio
diagnostico basato sul rischio CV globale del paziente con necessità di integrare i valori pressori, i
fattori di rischio cardiovascolari, il danno d’organo asintomatico e le complicazioni cliniche in
modo da giungere ad una valutazione complessiva. La revisione ha incluso anche il significato
prognostico del danno d’organo asintomatico relativo a numerosi distretti: cuore, vasi, rene, occhio,
SNC (Fig. 2).
20
Figura 2: Categorizzazione del RCV in relazione ai valori di PA
5.1 Misurazione dei valori della pressione arteriosa
Un’ulteriore differenza rispetto alle precedenti Linee Guida riguarda la misurazione
misurazi
della pressione
arteriosa e in particolare dell'auto-misurazione
dell'auto
domiciliare.
Le due metodiche di rilevazione dei livelli pressori presentano alcune differenze, forniscono
informazioni diverse e devono essere considerate complementari.
Automisurazione pressoria domiciliare
Se la misurazione nello studio medico resta ancora fondamentale per porre una diagnosi di
ipertensione, le linee guida 2013 sono le prime a considerare i dati del monitoraggio out-of-office
nel modello di stratificazione del rischio.
La misurazione della pressione arteriosa a domicilio può fornire informazioni sui valori pressori in
giorni diversi e rilevati in una condizione il più vicino possibile alla vita di tutti i giorni.
Devono essere raccomandati alcuni accorgimenti:
− consigliare solo l’impiego di strumenti validati e di facile utilizzo (es. strumenti di
misurazione semiautomatici, con rilevatori pressori da braccio)
− istruire i pazienti ad eseguire 2-3
2 3 misurazioni in posizione seduta, dopo alcuni minuti di
riposo, e chiedergli di riportare su un diario
diario i valori medi ricavati. I valori vanno
preferibilmente misurati al mattino a digiuno e prima di assumere la terapia; eventualmente
potrebbero essere utili misurazioni al pomeriggio e alla sera;
− informare i pazienti che i valori possono essere diversi
diversi tra le varie misurazioni,
misurazioni in ragione
delle oscillazioni spontanee della pressione;
− evitare di ottenere un eccessivo numero di misurazioni e assicurarsi che alcune di esse siano
eseguite prima di assumere la terapia,
terapia per ottenere informazioni sulla durata del trattamento;
− considerare anche che i valori di pressione rilevati a domicilio sono ridotti rispetto a quelli
misurati in ambulatorio.
Rispettando tali condizioni, e riuscendo a mantenere un diario per alcune settimane (almeno una
settimana prima dellaa visita medica programmata),, l’automisurazione può avere importanti
vantaggi:
− è metodica economica
− fornisce maggiori informazioni su cui basare la decisione
decisione terapeutica del medico
− migliora la compliance del paziente alla terapia.
Viceversa, l’automisurazione
one pressoria domiciliare dovrebbe essere scoraggiata quando:
− rischia di causare ansietà nel paziente
− può indurre automodifiche dello schema terapeutico.
21
Monitoraggio Ambulatorio della pressione Arteriosa
Il monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa offre numerose informazioni, in particolar
modo sulla variabilità del profilo pressorio nell’arco delle 24 ore e durante le ore di riposo notturno,
consentendo anche una valutazione della distribuzione temporale dell’efficacia terapeutica. Molti
studi hanno dimostrato che questo tipo di monitoraggio è maggiormente predittivo di danno
d'organo ed eventi CV rispetto alla misurazione ambulatoriale.
Presenta una maggiore riproducibilità, in assenza di un effetto placebo e dell’errore dell’osservatore
(es. arrotondamento dei valori di PA).
I limiti sono soprattutto legati a una possibile inaccuratezza delle misurazioni automatiche della PA,
in particolare durante la deambulazione, a interferenze con le attività quotidiane del paziente e con
la qualità del sonno.
E’ indicato nei seguenti casi:
− sospetta ipertensione da camice bianco, o viceversa di ipertensione arteriosa mascherata
− sospetta ipertensione notturna
− ipertensione resistente
− paziente anziano
− come guida al trattamento antipertensivo
− diabete
− ipertensione durante la gravidanza
− valutazione dell’ipotensione o disautonomia
Target pressori
Figura 3: Target pressori
Rispetto alla precedente edizione delle Linee Guida del 2007, le
nuove Linee Guida hanno abbandonato il concetto di obiettivo
flessibile in funzione delle caratteristiche del paziente (dove ad
un profilo di rischio più elevato corrispondeva un trattamento più
aggressivo) in favore di una maggiore uniformità dei target
terapeutici, con una minore severità dei valori di PA da
raggiungere in alcune categorie di pazienti.
Come schematizzato nella Figura 3, il goal di PA sistolica da
raggiungere in tutti i pazienti (sia a rischio cardiovascolare
basso e moderato, così come in quelli ad elevato rischio come
diabetici, soggetti in prevenzione secondaria e/o con comorbidità)
è 140 mmHg. Una diversificazione dei target viene conservata
per la PA diastolica: viene, infatti, raccomandato un target di 90
mmHg della popolazione generale e di 85 mmHg nei pazienti
diabetici.
Anche nei pazienti anziani viene consigliata una “minore
severità” di trattamento, con una raccomandazione a considerare
le capacità fisiche e mentali di tale classe di pazienti.
Il paziente iperteso anziano (≥ 80 anni) va trattato quando abbia
valori di PAS ≥160 mmHg, con un target terapeutico compreso
tra 150 e 140 mmHg; nell’anziano < 80 anni la terapia può essere
considerata in caso di valori compresi tra 140-159 mmHg, purchè
si sia certi che il soggetto tolleri bene i farmaci.
22
Ricerca del danno d’organo
Considerando l’importanza del danno d’organo asintomatico come stadio intermedio nel continuum
della malattia CV e come determinante del rischio cardiovascolare globale, la presenza di segni e
sintomi deve essere accuratamente vagliata con le tecniche più appropriate (ECG,
(ECG Doppler, frazione
di filtrazione renale, microalbuminuria, spessore intima-media,
intima
stiffnes arteriosa, indice cavigliacaviglia
braccio, fondoscopia). L’osservazione che ognuno dei 4 principali marker di danno d’organo
(microalbuminuria, aumento della pulse wave velocity, ipertrofia ventricolare sinistra e placche
carotidee) è in grado di prediree la mortalità CV, indipendentemente dalla stratificazione SCORE, è
un importante argomento in favore dell’uso di questo strumento di valutazione nella pratica clinica
quotidiana.
5.2 Strategie terapeutiche
Diversamente da quanto affermato nel 2007, non viene raccomandato alcun trattamento per i
pazienti con una PA normale--alta e in quei soggetti giovani nei quali sia stato rilevato un
innalzamento isolato della PAS; tutti questi, però, devono essere monitorati nel tempo per
verificarne l’aderenza ai cambiamenti di stili di vita.
Infatti, come mostrato in Figura 4, per i pazienti che presentano un rischio basso o moderato, le
Linee Guida suggeriscono di correggere le abitudini alimentari e lo stile di vita per alcuni mesi, per
poter valutare l'impatto che questi cambiamenti possono avere sui livelli pressori.
In particolare, è raccomandata una riduzione del consumo giornaliero di sale a 5-6 g al giorno
(rispetto alla classica restrizione a 9-12
9 12 grammi al giorno): tale strategia è in grado di diminuire la
l
PA sistolica di 1-22 mmHg in individui normotesi e fino a 4-5
4 5 mmHg nei pazienti ipertesi.
Figura 4:: Strategie terapeutiche in base al RCV.
Le Linee Guida raccomandano inoltre di mantenere un indice di massa corporea inferiore a
25kg/m² e il girovita inferiore a 102 cm negli uomini e a 88 cm nelle donne.
donne. Perdere 5 Kg di peso
corporeo può ridurre la pressione arteriosa fino a 4 mmHg, mentre un allenamento aerobico di
resistenza può contribuire a ridurre la PA sistolica nei pazienti ipertesi fino a 7 mmHg.
mm
23
Per i pazienti con un rischio più elevato (diabete, malattia renale o cardiovascolare) è necessario
applicare una strategia di intervento più aggressiva anche con una ipertensione di grado 1,
iniziando una terapia farmacologica, anche di associazione, fin dalle prime fasi, nel caso in cui
qualche settimana di restrizione dietetica e esercizio fisico si siano mostrati inefficaci .
Inoltre, un tempestivo inizio della terapia è raccomandato nei pazienti con ipertensione di grado 2 e
3 con ogni livello di rischio CV, contestualmente o poche settimane dopo l’introduzione delle
modificazioni dello stile di vita (Fig. 4).
Terapia farmacologica
I principali benefici del trattamento antipertensivo sono derivati dalla riduzione dei valori pressori
di per sé e spesso indipendenti dal tipo di farmaco impiegato. Le principali classi che questa nuova
edizione riconferma nella loro validità sono i diuretici (inclusi tiazidici, clortalidone, indapamide), i
betabloccanti, i calcioantagonisti, gli ACE-inibitori e gli antagonisti recettoriali
dell’angiotensina II (vedi tabella), che possono essere impiegati in monoterapia o in associazione
(figura 5). È però fondamentale che la scelta sia effettuata considerando le specifiche caratteristiche
del singolo paziente piuttosto che indirizzarsi a un “paziente teorico medio”: in altre parole devono
essere le singole situazioni a guidare la scelta del farmaco più opportuno e ciò che per un
determinato paziente può a buona ragione considerarsi di prima scelta (per esempio un
betabloccante in pazienti con storia di cardiopatia ischemica) non lo è in un altro paziente (per
esempio un iperteso con diabete).
24
Figura 5: Terapia di associazione
Un aspetto interessante delle nuove Linee Guida riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa
resistente mediante la tecnica della denervazione delle arterie renali,, una procedura invasiva
effettuata per via percutanea.
Si tratta di una terapia promettente con dati preliminari di buona efficacia, che è attualmente
riservata a casi particolari e soggetta a ulteriori sperimentazioni cliniche su ampie popolazioni.
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA
1.
2.
3.
4.
WHO. Geneva 2011
Omboni S et al. Ipertensione e prevenzione cardiovascolare 2008
ESH ESC Guidelines, Eur Heart J 2013;34(28
2013;
June 14), 2159–2219
M.D. Medicinae Doctor - Anno XX numero 10 - 30 settembre 2013: 24-26
Per saperne di più:
− Parati G et al. Linee guida della SIIA sulla misurazione convenzionale ed automatica della PA,
nello studio medico, a domicilio e nelle 24 ore. Ipertens Prev Cardiovasc giugno 2008;63-115
2008;63
− ESH ESC Guidelines, Eur Heart J 2013;34(28 June 14), 2159–2219
2159
25
6. DISLIPIDEMIE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Introduzione
Le dislipidemie costituiscono uno dei fattori di rischio modificabili per eventi cardiovascolari e
pertanto una loro corretta gestione costituisce una parte integrante nell’ambito della prevenzione
cardiovascolare.
Si tratta, in alcuni casi di patologie che insorgono anche in età giovanile, se non addirittura infantile,
e appaiono meritevoli di un’attenta valutazione diagnostica, volta a identificare quelle forme
genetiche, in realtà non così rare nella popolazione generale, che conferiscono un rischio
notevolmente aumentato di eventi CV precoci.
Una corretta diagnosi, basata su criteri clinici e ove possibile molecolari, consente infatti sia di
identificare “a cascata” eventuali componenti di una stessa famiglia affetti da dislipidemie
genetiche, sia di impostare un trattamento adeguato, volto a raggiungere il target di colesterolo LDL
previsto a seconda della classe di rischio CV cui il paziente appartiene.
Classificazione delle dislipidemie
La ben nota – ma ormai obsoleta – classificazione di Frederickson consente di operare una
distinzione “fenotipica” delle dislipidemie (Tabella 1), sulla base della classe di lipidi prevalente e
conseguentemente delle lipoproteine aumentate nel sangue.
Tabella 1: Classificazione sec. Frederickson
FENOTIPO
LIPIDI
LIPOPROTEINE
I
Trigliceridi
Chilomicroni
II a
Colesterolo
LDL
II b
Colesterolo e Trigliceridi (rapporto >1)
LDL e VLDL
III
Colesterolo e Trigliceridi (rapporto 0.3-1)
Chilomicroni e IDL
IV
Colesterolo e Trigliceridi (rapporto 0.2-1)
VLDL
V
Trigliceridi
Chilomicroni e VLDL
Da un punto di vista fisiopatologico, le dislipidemie possono, invece, essere distinte in forme
primitive e secondarie.
Le dislipidemie primitive sono dovute ad alterazioni a carico di un solo gene (forme monogeniche)
o di più geni (forme poligeniche).
Le dislipidemie secondarie possono, invece, essere associate a patologie che non riguardano
strettamente il metabolismo lipidico o essere conseguenti all’assunzione di alcune terapie
farmacologiche. (Tabella 2)
Tabella 2: Dislipidemie secondarie
IPERLIPIDEMIA
MALATTIA
O CONDIZIONE
CARATTERISTICHE
colestasi
Ipercolesterolemia anche molto marcata
HDL elevate o ridotte
Presenza di LP-X e LP-Y
Ipercolesterolemia
anoressia nervosa
ipotiroidismo
26
colelitiasi
Spesso coesistono alterazioni metaboliche plurime
(sindrome metabolica)
diabete mellito
La dislipidemia può configurare una
iperchilomicronemia, in particolare nei casi di
scompenso metabolico del diabete di tipo I
obesità
IRC
Ipertrigliceridemia
emodialisi
etilismo
paraproteinemie
malattie autoimmuni
pancreatite
Ipertrigliceridemia in un quinto dei pazienti (elevate
VLDL e chilomicroni)
terapia con ß-bloccanti,
diuretici, estrogeni
Iperlipidemie
combinate
epatiti acute
6.1 Le dislipidemie genetiche1
Ipercolesterolemia autosomica dominante (ADH)
Si tratta di una patologia trasmessa con carattere autosomico dominante, caratterizzata da elevati
livelli di colesterolo LDL conseguente a un ridotto catabolismo di queste lipoproteine che, non
adeguatamente captate dal fegato, si accumulano in circolo.
È una delle malattia monogeniche più frequenti nella popolazione. Si stima che la forma omozigote
di questa malattia (gravissima, e caratterizzata da un’elevata mortalità già in età pediatrica) abbia
una prevalenza di 1 caso su 1.000.000 di soggetti, e che la forma eterozigote abbia un’incidenza di
1 caso su 500 soggetti.
Secondo le conoscenze attuali può essere dovuta a mutazioni geniche a carico di:
1) gene del recettore delle lipoproteine a bassa densità (LDL-R), che causano un ridotto legame e
catabolismo delle LDL plasmatiche (ADH-1);
2) gene dell’apolipoproteina B-100 (apoB) con conseguente produzione di una
apoB-100 difettiva che ha una ridotta affinità di legame per il LDL-R (ADH-2);
3) gene di PCSK9 con alterazione della normale funzione dell’enzima proteolitico PCSK9 (ADH-3)
Benché la diagnosi di certezza di possa ottenere solo con metodiche di analisi genica e molecolare,
nella pratica clinica può essere diagnosticata con ragionevole certezza in presenza di:
- valori di CT o LDLc superiori al 95° percentile per sesso e età:
- valori di CT superiori a 260 mg/dL (in età < 16 anni) o a 290 mg/dL (in età > 16 anni)
- opp. valori di LDLc > 190 mg/dL;
- presenza di xantomi tendinei (per lo più al dorso delle mani o al tendine di Achille) o ad arco
corneale (in età inferiore a 45 anni) nello stesso paziente o nei parenti di I o II grado.
- anamnesi familiare positiva per eventi cardiovascolari in età precoce (< 55 anni nei maschi e <
60 anni nelle femmine) e/o reperto dei valori di colesterolo prima ricordati in parenti di I o di II
grado del probando (anche in assenza di lesioni cutanee).
27
2
Tabella 3: Criteri di Simon Broome (unità di misura in mg/dL anziché in mmol/L (1 mmol/L = 38,5 mg/dL)
CRITERIO
DESCRIZIONE
La diagnosi è DEFINITA se sono presenti entrambi i seguenti criteri:
A
Alterati valori di colesterolo totale e LDL-colesterolo (CT >290 mg/dL
negli adulti o >260 mg/dL in soggetti <16 anni, ovvero LDL-C >190
mg/dL negli adulti o >160 mg/dL in soggetti <16 anni) e xantomi tendinei
nel probando o parenti di I grado
B
Analisi molecolare di una mutazione nel gene LDLR o APOB
La diagnosi è PROBABILE se è presente il criterio A e almeno uno dei seguenti:
C
Storia familiare d’infarto del miocardio prima dei 50 anni in parente di II
grado, ovvero prima dei 60 in un parente di I grado
D
Storia familiare di livelli del CT >290 mg/dL in parenti di I o II grado
Tali caratteristiche sono quelle riportate tra i criteri del Simon Broome Register Group, che
consentono di fare una diagnosi di ADH certa o probabile.
Si ricordano le formule di conversione:
- colesterolo:
1 mmol/L = 38,5 mg/dL;
1 mg/dL = 0,026 mmol/L
- trigliceridi:
1 mmo/L =87,5 mg/dL
1 mg/dl = 0,011 mmol/L
- HDL-Col:
1 mmo/L = 39 mg/dL
1 mg/dl = 0,03 mmol/L
Il criterio diagnostico del Dutch Lipid Clinic Network (Tabella 4) attribuisce invece un punteggio
compreso tra 1 e 8 a ciascun parametro di rilievo clinico per la patologia.
3-4
Tabella 4: Dutch Lipid Score (tradotto dalle Linee Guida Europee sulle dislipidemie EAS/ESC 2011)
CRITERIO
Parente di primo grado con infarto prematuro (<55 anni maschi, <60 femmine) o
con affezioni vascolari o con valori di LDL-C sopra il 95° percentile
PUNTI
1
Parente di primo grado con xantomi tendinei o arco corneale o con valori di LDL-C
sopra il 95°percentile in soggetti inferiori ai 18 anni
2
Probando con malattia coronaria prematura (<55 anni maschi, <60 femmine)
2
Probando con vasculopatia cerebrale o periferica prematura (<55 anni maschi, <60
femmine)
2
Probando con xantomi tendinei
6
Probando con arcus cornealis prima dei 45 anni
4
Livelli di LDL-C
> 8.4 mmol/L (> 325 mg/dL)
“ “ 6.5 – 8.4 (250-325 mg/dL)
“ “ 5.0 – 6.4 (190-250 mg/dL)
“ “ 4.0 – 4.9 (155-190 mg/dL)
8
5
3
1
Accertamento molecolare di una mutazione funzionale nel gene LDLR
8
Diagnosi “Definita” se la somma dei punti è superiore ad 8
“Probabile” se la somma dei punti è compresa tra 6 e 8
“Possibile” se la somma dei punti è compresa tra 3 e 5
28
La diagnosi genetico-molecolare viene attualmente eseguita solo in alcuni Centri Specialistici, con
una limitazione dovuta sia alla complessità delle metodiche, sia agli intuibili costi economici.
Tuttavia, in alcuni casi selezionati e anche in relazione al fiorente sviluppo di nuovi farmaci
ipolipidemizzanti che hanno come target proprio i geni più frequentemente coinvolti nella genesi
dell’ADH, l’indagine genetica andrebbe consigliata.
L’espressione fenotipica della malattia è estremamente variabile in termini di livelli di LDL-C,
presenza di xantomatosi tendinea ed età di insorgenza clinica della cardiopatia ischemica (CAD).
Tale variabilità dipende da numerosi fattori, soprattutto presenza di fattori ambientali negativi (in
particolare l’abitudine al fumo), bassa concentrazione plasmatica di HDL (talora geneticamente
indotta), associazione con varianti di altri geni che possono giocare un ruolo negativo o positivo,
associazione con l’insulino-resistenza o con il diabete mellito tipo 2.
Iperlipidemia familiare combinata (CFHL)
E’ una condizione comune (1:100), caratterizzata da un aumentato rischio di aterosclerosi
prematura.
E’ caratterizzata da un incremento della colesterolemia e/o della trigliceridemia in soggetti
appartenenti alla stessa famiglia. E’ probabilmente causata da un’aumentata sintesi (o da un ridotto
catabolismo) dell’apoB, i cui livelli plasmatici sono infatti aumentati. In essa, tali alterazioni
genetiche si combinano a fattori ambientali determinando una significativa e caratteristica
variabilità fenotipica inter- ed intra-individuale.
La diagnosi è prevalentemente clinica e una particolare attenzione deve essere posta alla diagnosi
differenziale con la sindrome metabolica, con cui condivide alcune caratteristiche.
I criteri diagnostici attualmente suggeriti sono i seguenti:
− Colesterolo totale > 250 < 300 mg/dl
− Trigliceridi > 180 mg/dl
− ApoB > 125 mg/dl (secondo le ultime linee guida EAS 2011 > 120 mg/dL)
− Valutazione della variabilità fenotipica:
− Documentazione della variabilità fenotipica intrafamiliare, escluse le famiglie in cui
diversi soggetti hanno solo il fenotipo IIa o solo il fenotipo IV o
− Documentazione della variabilità fenotipica intraindividuale in un intervallo di tempo.
(va ricordato che la variabilità fenotipica può anche portare, per periodi di tempo limitati,
ad un pattern normolipidemico).
− Esclusione delle iperlipidemie secondarie (in particolare la suddetta sindrome metabolica)
− Documentazione di CHD prematura e/o di complicanze gravi dell’aterosclerosi: in pazienti
con il fenotipo IIb e senza dati sulla famiglia, il rilievo nel probando di ateromasia precoce o
di una delle sue complicanze cliniche in qualsiasi distretto vascolare, costituisce un criterio
addizionale.
Ipertrigliceridemia familiare
E’ un’anomalia trasmessa come tratto autosomico dominante, caratterizzata da un aumento delle
VLDL plasmatiche.
Si manifesta generalmente in età adulta; i soggetti affetti presentano un aumento della
trigliceridemia con valori di circa 200-600 mg/dl; solitamente il colesterolo HDL è ridotto, mentre
le LDL plasmatiche sono normali o solo leggermente aumentate.
In caso di concomitanti alterazioni metaboliche (obesità, ridotta tolleranza al glucosio,
iperinsulinemia, ipertensione e iperuricemia) va valutata la diagnosi differenziale con la sindrome
metabolica.
29
La diagnosi si basa sui seguenti criteri:
- Confermare la presenza di altri casi di ipertrigliceridemia (TG > 400 mg/dl) in familiari di
1° grado,
- Escludere forme secondarie (diabete mellito scompensato, farmaci concomitanti…)
- Ricercare eventuali segni clinici (xantelasmi)
- Incubare il sangue per 12 ore a +4°C e osservare le caratteristiche del surnatante.
Forme poligeniche
L’esordio è dopo i 30 anni. Nelle famiglie colpite circa 1/5 degli individui è affetto dalla patologia
(deve comunque essere presente un altro ascendente o discendente diretto, con analoghe
caratteristiche).
Sono, in genere, caratterizzate da valori di colesterolo totale compresi tra 250 e 300 mg/dl con
valori di colesterolo LDL stabilmente superiori a 160 mg/dl. I livelli plasmatici di apoB sono
usualmente elevati, mentre trigliceridemia e colesterolo HDL sono in genere nella norma.
6.2 Diagnosi
La valutazione preliminare di un paziente affetto da dislipidemia deve comprendere un’attenta
anamnesi patologica e familiare, un esame obiettivo e l’esecuzione di esami laboratoristici al fine di
un corretto inquadramento diagnostico.
Anamnesi
L’anamnesi patologica è importante per valutare la presenza di patologie o terapie farmacologiche
concomitanti che possano influenzare il profilo lipidico.
Va anche attentamente indagata la presenza di eventuali e concomitanti fattori di rischio
cardiovascolare (fumo, ipertensione arteriosa, diabete mellito) o di pregressi eventi cardiovascolari
che porrebbero il paziente in una fase di prevenzione secondaria.
E’ inoltre utile acquisire informazioni in merito all’anamnesi familiare, che andrebbe, se possibile,
documentata: in particolar modo è importante la ricerca di notizie inerenti alla presenza in familiari
di I grado di iperlipoproteinemia (ipercolesterolemia e/o ipertrigliceridemia) e di eventi
cardiovascolari insorti in età precoce (< 65 anni nelle donne, < 55 anni negli uomini), anche al fine
di effettuare la cosiddetta “diagnosi a cascata”.
Esame obiettivo
L’esame obiettivo è spesso silente. Solo in alcuni pazienti si rilevano segni clinici, espressione di
dislipidemia. Nell’ipercolesterolemia familiare, in particolare nella forma omozigote, possono
essere rilevati: xantomi cutanei piani (a localizzazione palmare, cubitale o poplitea) o tuberosi
(localizzati prevalentemente alla superficie estensoria di gomiti e ginocchia), xantomi tendinei (in
particolare a livello dei tendini dei muscoli estensori delle dita delle mani e, più frequentemente, del
tendine di Achille), arco corneale (area di aumentata densità ai margini della cornea, che sia
evidente già prima dei 45 anni in quanto in età anziana è di comune riscontro, detto gerontoxon).
Gli xantelasmi sono xantomi piani, che si localizzano per lo più a carico delle palpebre superiori e
all’angolo nasale; possono essere associati a ipertrigliceridemia, ma si tratta di segni aspecifici, che
possono essere presenti anche in assenza di alterazioni lipidiche.
L’esame obiettivo può rivelarsi utile nell’individuare segni e sintomi patognomonici di eventuali
patologie concomitanti, indirizzando la diagnosi verso forme di dislipidemia secondaria (segni
clinici di ipotiroidismo, sindrome nefrosica,…).
Dovrebbe sempre essere effettuata una valutazione clinica volta a identificare l’eventuale danno
d’organo subclinico (iposfigmia dei polsi periferici e ABI < 0.9; presenza di soffi all’auscultazione
dei vasi del collo).
30
Esami laboratoristici
Già la semplice osservazione del siero, dopo incubazione di 12 ore a 4°C può fornire informazioni
utili alla diagnosi: un siero cremoso con infranatante limpido è indicativo di un aumento della quota
di chilomicroni; un siero omogeneamente torbido è invece tipico delle ipertrigliceridemie.
Purtroppo questo vecchio tipo di osservazione, al pari dell’elettroforesi lipoproteica, non è più in
uso nella maggior parte dei laboratori analisi.
Una valutazione laboratoristica iniziale del paziente dislipidemico dovrebbe includere, oltre
all’ovvia valutazione del profilo lipidico completo, anche il dosaggio di indici per lo screening di
eventuali forme di dislipidemia secondaria. Tra questi vanno ricordati: glicemia (e HbA1c, se il
paziente ha già una diagnosi di diabete mellito); transaminasi e indici di colestasi (gammaGT,
fosfatasi alcalina, bilirubina totale e frazionata); creatinina; TSH (e, in caso di alterazioni
significative, dovrà essere effettuato un dosaggio anche delle frazioni tiroidee).
Infine, poiché tra i più comuni effetti collaterali del trattamento ipolipidemizzante vi può essere un
aumento degli enzimi muscolari, sarebbe utile conoscere i valori delle CPK prima di iniziare il
trattamento. In particolare, si dovrebbe raccomandare al paziente di non effettuare il prelievo dopo
sforzo fisico intenso, eventi traumatici, iniezioni intramuscolo: tali condizioni possono, infatti, di
per sé determinare un’elevazione dei valori di CPK.
6.3 Scelta del trattamento
La scelta del trattamento deve essere fatta attraverso una serie di passaggi:
1. diagnosi (vedi sopra)
2. definizione del profilo di rischio
3. identificazione del target terapeutico
4. valutazione della distanza dal target
5. scelta del trattamento (statina appropriata in funzione della potenza relativa delle varie
molecole)
2. Definizione del profilo di rischio
Secondo le attuali linee guida delle maggiori Società Scientifiche internazionali, una volta fatta la
diagnosi di dislipidemia, il paziente dovrà essere valutato per ciò che riguarda la presenza di altri
fattori di rischio e inquadrato sulla base del cosiddetto “Rischio Cardiovascolare Globale” (RCG).
Le ultime linee guida europee, come del resto quelle americane, hanno mantenuto l'impianto
tradizionale basato sulla presenza di malattia CV, anche asintomatica purché documentata
strumentalmente, o sul RCG stimato mediante un algoritmo basato su età, sesso, fumo, pressione
arteriosa, colesterolo totale e talvolta HDL (algoritmo elettronico SCORE, oppure cuore.exe).
La classificazione del rischio prevede quattro classi (vedi tabella 1):
− Rischio molto elevato: precedente infarto miocardico, sindrome coronarica acuta,
rivascolarizzazione coronarica o di altri distretti arteriosi, ictus ischemico, arteriopatia periferica,
malattia cardiovascolare documentata da test invasivi e non invasivi, diabete di tipo 2 o diabete
di tipo 1 con danno d'organo (ad es. la microalbuminuria), insufficienza renale cronica grave
(cioè velocità del filtrato glomerulare, VFG, 15-29 ml/min/1.73m²) e rischio globale calcolato
con l'algoritmo SCORE ≥ 10%;
− Rischio alto: anche un singolo fattore di rischio purché grave, come dislipidemia familiare o
ipertensione severa, oppure il diabete senza fattori di rischio CV e senza danno d’organo, oppure
l’insufficienza renale cronica moderata (VFG = 30-59 ml/min/1.73m²) e rischio globale ≥ 5% e
<10%;
− Rischio moderato: rischio globale a 10 anni ≥1% < 5%; tuttavia, se presenti altri fattori, quali
storia familiare positiva per cardiopatia ischemica precoce, obesità addominale, inattività fisica,
alti livelli di trigliceridi, proteina C reattiva ad alta sensibilità, Lp(a), fibrinogeno, omocisteina, la
classe di rischio può essere superiore;
− Rischio basso: rischio globale a 10 anni <1%.
31
Com’è noto, su tale classificazione si basano
basa anche le più recenti versioni della nota 13 AIFA (2012
e 2013) che regolamenta l’utilizzo dei farmaci ipolipidemizzanti in regime di rimborsabilità da parte
del SSN. In realtà, nella
la nota è presente anche una quinta classe di rischio (che
(che non esiste nelle linee
guida europee EAS/ESC) che si pone tra il “rischio basso”
basso” e il “rischio moderato” e scorpora da
quest’ultima categoria una quota di pazienti,
pazienti definiti a “rischio medio”, che hanno un punteggio
SCORE compreso tra 2 e 3. Inoltre, nella nota tale suddivisione è fatta in maniera non del tutto
corretta: la scala cromatica
omatica delle carte usa colori differenti (2; 3-4;
4; 5) per classi che la nota
accomuna in modo diverso.. Infine, ci sono delle incongruenze tra tabella e commento.
commento
3. Identificazione del target
L’identificazione della classe di rischio CV consente di definire anche il target di colesterolo LDL
da raggiungere e quindi guida la scelta terapeutica,
terapeutica, come schematizzato in Figura
Fig
1 e in Tabella 1.
Figura 1:: strategie di intervento in funzione del RCG e dei livelli di LDL-Colesterolo
3,5
3
Tabella 1: target per l’LDL-Colesterolo
Colesterolo nelle varie categorie di pazienti (modificato da )
Livello di rischio
− Risk SCORE ≥10%,
− malattia coronarica/BPAC
coronarica/
− stroke ischemico
molto alto − arteriopatie periferiche
− pregresso infarto
− DMT2 con ≥ 1 FR CV e/o markers di danno d’organo (MAU)
− IRC grave (VFG 15-29
15
ml/min/1.73m2)
− Risk SCORE ≥5% e < 10%
− dislipidemie familiari
− ipertensione severa
alto
− DMT2 senza fattori di rischio CV e senza danno d'organo
− IRC moderata (VFG 30-59
30
ml/min/1.73m2)
moderato − Risk SCORE ≥1 % e < 5%
− Risk SCORE < 1 %
basso
Target LDL- Col
< 70mmHg
<100 mmHg
<115 mmHg
<130 mmHg
32
4. Valutazione della distanza dal target
Un concetto fondamentale da tenere sempre presente quando si imposta una terapia
ipolipidemizzante è la distanza dal target, vale a dire quanto bisogna ridurre i livelli di LDLcolesterolo per raggiungere il target terapeutico appropriato per ciascun paziente. E’ come dire che
non esistono livelli di LDL-Colesterolo che potremmo definire “normali” uguali per tutti, ma
ciascun paziente, in funzione del suo profilo di rischio, avrà un LDL-Colesterolo “desiderabile”.
5. Scelta del trattamento
Attualmente, il trattamento farmacologico ipolipidemizzante si basa in particolar modo
sull’utilizzo degli inibitori dell’Idrossi-Metil-Glutaril-Coenzima-A (HMGCoA) reduttasi, o statine,
che agiscono inibendo la sintesi epatica del cosiddetto “colesterolo endogeno”, vale a dire quella
quota di colesterolo che il nostro organismo comunque sintetizza autonomamente in quanto
necessario a tutta una serie di nostri processi biologici vitali.
Come vediamo dalla figura 2, fin dall’inizio va attentamente scelta una statina che ci porti alla
necessaria riduzione percentuale del colesterolo LDL, tenendo conto che un semplice raddoppio del
dosaggio lo riduce solo del 6%.
6
Figura 2: potenziale riduzione del LDL-Colesterolo attesa in base alle diverse molecole e ai diversi dosaggi
Un’altra possibilità terapeutica è costituita dall’ezetimibe, una molecola che inibisce l’assorbimento
del colesterolo intestinale (sia quello alimentare che quello del circolo entero-epatico). Quando
usata singolarmente, questa molecola ha un’efficacia moderata (≤18-20%): il suo utilizzo in
associazione con le statine permette di sfruttare il vantaggio della “doppia inibizione” del
metabolismo del colesterolo (sintesi epatica e assorbimento intestinale).
Infine, nei pazienti con valori di HDL bassi e/o trigliceridi alti possono essere utilizzati i fibrati (in
particolare il fenofibrato, che può essere somministrato anche in associazione con le statine),
33
rimborsati dal SSN in caso di ipercolesterolemie familiari combinate. Utili anche gli omega-3 in
caso di ipertrigliceridemie familiari o in caso di ipertrigliceridemie in corso di insufficienza renale.
Tutti questi farmaci sono prescrivibili in forma rimborsabile secondo quanto previsto dalla nota 13
AIFA 2013.
6.4 Follow-up
Una volta effettuato un attento inquadramento diagnostico e impostato un adeguato trattamento
(farmacologico o non), il paziente dislipidemico deve essere seguito nel tempo mediante visite
mediche e controlli laboratoristici periodici, volti a valutare l’efficacia e la tollerabilità della
strategia terapeutica messa in atto.
In un paziente a basso RCG la prima scelta può essere senz’altro un trattamento non farmacologico,
e una prima rivalutazione dei parametri lipidici può essere effettuata anche a distanza di tempo (fino
a 12 mesi). In caso di mancato raggiungimento del relativo target terapeutico, si renderà necessaria
l’introduzione del trattamento farmacologico.
L’introduzione della terapia ipolipidemizzante farmacologica richiede invece
laboratoristici periodici, inizialmente più ravvicinati, secondo il seguente schema:
- a 6 settimane dall’inizio della terapia;
- a 12 settimane (3 mesi);
- a 6 mesi;
- poi, almeno ogni 6 mesi (2 volte l’anno).
controlli
Qualora il target terapeutico non sia stato raggiunto, la terapia dovrà essere modificata,
aumentandone la posologia o scegliendo un'altra molecola o introducendo un trattamento di
associazione. In quest’ultimo caso il paziente dovrà essere monitorato mediante esami
ematochimici seriati e più ravvicinati nel tempo fino al raggiungimento del target terapeutico e
quindi alla stabilizzazione del dosaggio del trattamento.
Gli effetti collaterali principali delle statine sono rappresentati dall’alterazione degli indici di
necrosi epatocitaria (sGOT/ALT e sGPT/AST) e dall’aumento degli enzimi muscolari (CPK).
A tal proposito sarebbe buona norma conoscere i loro valori basali prima di introdurre il trattamento
farmacologico: un’epatopatia attiva costituisce, ad esempio, una controindicazione alla prescrizione
delle statine; la presenza di ipotiroidismo aumenta il rischio di miopatia.
Una volta introdotto il trattamento ipolipidemizzante, se non si rende necessaria una modifica
terapeutica per scarsa efficacia e non si osservano significativi cambiamenti nel primo anno di
trattamento, in assenza di sintomatologia sarà sufficiente valutare gli indici di tollerabilità
(transaminasi e CPK) una volta l’anno. Si ricorda, infatti, che tali effetti si osservano più
comunemente all’inizio del trattamento o quando si aumenti la dose del farmaco o si cambi la
molecola.
Se invece si dovesse osservare un’alterazione dei parametri di tollerabilità, bisogna innanzitutto
valutare l’entità di tali alterazioni: valori di transaminasemia aumentati fino a 3 volte i valori
normali e di CPK fino a 4 volte non dovrebbero allarmare e in molti casi permettono di proseguire
il trattamento. In questi casi, il paziente andrà comunque seguito più attentamente e con controlli
più ravvicinati (7-10 giorni), considerando eventuali concause che possano giustificare tali rialzi
(per le CPK: traumi o sforzi muscolari, terapia intramuscolo…). Se tali alterazioni dovessero
persistere o in caso di sintomatologia che limiti lo svolgimento delle attività quotidiane, potrà essere
valutata l’opportunità di modificare il trattamento (scelta di una molecola a diverso metabolismo,
riduzione della posologia, …), sempre monitorando strettamente i parametri di tollerabilità.
Viceversa, in assenza di fattori confondenti e/o se i valori si stabilizzassero o rientrassero nei range
di normalità, la terapia potrà essere ovviamente proseguita con relativa sicurezza fino a valori di
CPK 10 volte superiori ai valori normali (= miopatia). Una definizione completa delle varie
problematiche che possono presentarsi a livello muscolare è riportata in tabella 2.
34
E’ ovvio però che in tali casi la compliance del paziente (e anche la “tranquillità” del medico…!)
potrebbe venir meno prima di raggiungere tali livelli, per cui si raccomanda di inviare il paziente ad
un centro specialistico per una più approfondita valutazione.
Tabella 2: terminologia
Mialgia
dolore muscolare aspecifico, in assenza di altre alterazioni biochimicocliniche
Miopatia
nome generico dato alle affezioni dell’apparato muscolare, associate ad un
rialzo degli enzimi muscolari (CPK) di > 10 volte i valori normali
Miosite
infiammazione del tessuto muscolare
Rabdomiolisi
distruzione del muscolo striato. Può essere causata da un’infezione o da
un’intossicazione ed è associata a contratture dolorose delle masse
muscolari interessate, a mioglobinuria e ad un aumento dei tassi ematici
degli enzimi muscolari (CPK, ma anche aldolasi e LDH, utili in caso di
conferma diagnostica)
6.5 Cosa cambia nella gestione della riduzione del rischio CV nella pratica
clinica?5
Le ultime linee guida sulle dislipidemie 20113 (frutto di uno sforzo congiunto tra i cardiologi della
Società Europea di Cardiologia (ESC) e i lipidologi della Società Europea per l’Aterosclerosi
(EAS), segnano un importante momento di aggiornamento per la pratica clinica relativamente alla
gestione del rischio CV in prevenzione primaria e secondaria, introducendo molte novità che qui di
seguito riassumiamo.
La valutazione del rischio cardiovascolare globale
Per la stima del rischio CV, che resta il momento fondamentale nell’inquadramento del paziente e
nella successiva gestione (vedi sopra), si raccomanda di fare riferimento alle carte del progetto
SCORE che, a differenza del Framingham, prendono in considerazione solo gli eventi fatali di
natura cardiovascolare. Secondo il modello SCORE, si definiscono a rischio elevato i soggetti che
hanno una probabilità di eventi fatali >0,5% per anno nei successivi 10 anni (= 5%).
Approssimativamente, il fattore di conversione tra punteggio SCORE e probabilità di eventi fatali e
non fatali è 3, per cui un punteggio SCORE di 0,5% corrisponde alla probabilità di avere 1,5% di
eventi CV non fatali per anno (= 15% a 10 anni, che nelle Carte del Rischio CUORE configura però
un paziente a rischio moderato). Inoltre, in queste ultime linee guida viene aggiunta, alle 3 (basso,
moderato, alto) che esistevano nelle precedenti linee guida, riprese anche dalla carte italiane, una
quarta categoria, quella dei soggetti a rischio molto elevato.
Ma la vera novità di queste linee guida è la raccomandazione, per la prima volta nella carte europee,
di inserire nel calcolo del rischio anche i valori di HDL-colesterolo (finora considerati solo negli
algoritmi dei calcolatori del rischio individuale, cfr. calcolatore del punteggio individuale del
software cuore.exe) che, a parità di punteggio SCORE, possono modificare significativamente la
condizione di rischio. Tuttavia, la correzione per l’HDL-colesterolo non è immediata utilizzando le
carte dello SCORE (che peraltro riportano i valori in mmol/L anziché in mg/dL) e può essere
agevolmente effettuata solo collegandosi al sito www.escardio.org/guidelines.
Altrettanto rilevante è la novità relativa al calcolo del rischio nei giovani e negli anziani. Nei
giovani, infatti, il rischio globale risulta molto spesso basso, proprio a causa della giovane età,
anche in coloro cha abbiano fattori di rischio molto elevati.
In questo caso, come dimostrato dalla figura 3, la valutazione del rischio relativo (ovvero il
rapporto tra rischio stimato e rischio di soggetti della stessa età ma senza fattori di rischio) può
indicare un rischio comunque di molto superiore a quello atteso e, dunque, consigliare
35
l’implementazione di stili di vita che, nell’arco dei decenni
decenni successivi, possano ridurre la probabilità
di eventi tenendo sotto maggiore controllo i fattori di rischio. Allo stesso modo, nei soggetti
anziani,, proprio per il peso dell’età, il rischio assoluto risulta generalmente elevato e, dunque,
l’aggressività
tà degli interventi dovrebbe tenere conto di questo aspetto e contestualizzarlo caso per
caso con le caratteristiche del paziente anziano.
Figura 3: calcolo del rischio relativo nei soggetti giovani (tradotto e modificato da
3; 5
)
La valutazione dei parametri lipidici
Secondo le nuove raccomandazioni, tutti gli uomini dopo i 40 anni e le donne dopo i 50 dovrebbero
effettuare uno screening lipidico, che dovrebbe essere anticipato per gli individui con storia
familiare di malattie CV ischemiche precoci in presenza di altri fattori di rischio quali ipertensione,
diabete, obesità, dislipidemie familiari, malattie autoimmuni o insufficienza renale cronica. Lo
screening lipidico dovrebbe comprendere i seguenti parametri: colesterolo totale, trigliceridi,
HDL
L e LDL secondo la formula di Friedewald (se i trigliceridi sono <400mg/dl). Solo in casi
particolari andrebbe effettuato il dosaggio delle ApoB o della lipoproteina(a).. Il dosaggio dovrebbe
essere effettuato, solo per i trigliceridi, dopo almeno 12 ore di digiuno mentre non è influenzato dal
pasto per gli altri parametri. Tali raccomandazioni tengono conto delle evidenze relative alla
indiscussa relazione continua tra riduzione di LDL e riduzione di mortalità e morbilità CV,
evidenze che viceversa mancano per qualunque altro indicatore lipidico.
Tuttavia, nei pazienti dismetabolici (diabetici, sindrome metabolica…) i trigliceridi spesso elevati
(> 300 mg/dL) possono influenzare il risultato portando paradossalmente ad un valore soddisfacente
di LDL. In tali casi, può essere utile calcolare il non-HDL colesterolo (= colesterolo totale – HDL)
– che peraltroo non risente del digiuno – e monitorarne le fluttuazioni nel tempo, considerando che il
suo target è di 30 mg/dl superiore a quello per l’LDL-colesterolo
l’LDL
(es. < 130 mg/dl laddove il target
LDL sarebbe < 100 mg/dl).
I target terapeutici
Questa è certamente la sezione più importante delle Linee Guida per le immediate ripercussioni
pratiche. Le LDL rimangono il target terapeutico da considerare e i livelli dovrebbero essere
modulati in relazione al rischio di partenza. Il riferimento principale è l’ultima metanalisi della
Cholesterol Treatment Trialists’ Collaboration (CTT) che, in oltre 170.000 pazienti arruolati in
studi clinici, conferma la riduzione di eventi
e
con la stessa efficacia (1 mmol
mol di riduzione di LDL
riduce gli eventi di circa il 22%) anche per valori di LDL <70 mg/dl (concetto del “the lower, the
better”). Di conseguenza, un’indicazione innovativa di queste linee guida è che tutti i soggetti con
36
malattia CV documentata, diabete, insufficienza renale cronica o SCORE >10%
>1
(ovvero la
categoria del rischio molto elevato) devono raggiungere il target <70 mg/dl. Nelle
Ne altre categorie di
rischio i target sono rispettivamente 100, 115
1 e 130 mg/dl per i soggetti a rischio alto, moderato e
basso.
Come ottenere unaa riduzione dei livelli di LDL:
LDL terapia non
n farmacologica e nutraceutici
Le linee guida hanno evidenziato
to il ruolo modesto dell’attività fisica e della riduzione del peso
(riduzione di circa 8 mg/dl per ogni 10 kg di peso persi) sui livelli di LDL (mentre è di notevole
rilevanza il ruolo favorevole sui livelli di HDL, trigliceridi e sulla insulino-sensibilità
sensibilità).
Ma la vera novità del documento riguarda l’esame dei cosiddetti “nutraceutici
“nutraceutici”, ovvero principi
naturali contenuti in cibi o in prodotti commerciali che possono essere usati in aggiunta ai farmaci
che riducono il colesterolo, o isolatamente in alcune categorie
categorie di soggetti. In particolare, una
documentata riduzione delle LDL nell’ordine del 7-10%
7 10% è ottenibile con l’assunzione di 2 gr/die di
fitosteroli (sitosterolo, campesterolo, stigmasterolo) che sono presenti naturalmente negli oli
vegetali, nei vegetali,
ali, frutta fresca, noci e legumi o aggiunti a yogurt o altri cibi. Altrettanto utile per
la riduzione del colesterolo è la somministrazione, in dosi di 5-15
15 gr/die, di fibre vegetali
idrosolubili di cui sono arricchiti attualmente una serie di cibi.
A completamento di quanto riportato sulle linee guida, anche
a
la berberina,, un alcaloide naturale
ricavato da erbe cinesi, al dosaggio di 1 g/die, e il riso rosso fermentato, che contiene monacolina K
(“lovastatina vegetale”),, a dosaggi di 10 mg/die, hanno dimostrato di ridurre l’LDL
l
colesterolo fino
al 20% circa. Risultati simili, ma ancora da confermare, sono stati ottenuti anche con i policosanoli.
Un limite di questo approccio è che mancano dati a lungo termine relativi al profilo di sicurezza di
questi prodotti che comunque, ed è questa una novità, possono essere consigliati nei casi in cui il
livello di rischio non giustifichi l’assunzione di farmaci.
farm . La tabella 4 riassume una serie di consigli
dietetici per il controllo dei valori di colesterolemia.
Tabella 4: consigli per il controllo non farmacologico della colesterolemia (modificato da
3; 5
)
Trattamento farmacologico
Viene ribadito il ruolo centrale ed insostituibile delle statine.
statine I benefici clinici appaiono
indipendenti dal tipo di statina e, dunque, la scelta di quest’ultima deve essere effettuata in relazione
37
alla entità della riduzione necessaria (“distanza dal target”) nel singolo paziente ed alla efficacia e
tollerabilità della molecola.
Nell’Addendum II on line delle Linee Guida è possibile trovare un breve vademecum operativo.
Solo quando la massima dose tollerata della statina più efficace non riesce a raggiungere il target
desiderato, si possono considerare strategie alternative o di combinazione. A tale riguardo le statine
possono essere associate a vari altri farmaci che riducono il colesterolo, anche se la combinazione
con ezetimibe appare certamente quella da favorire in prima scelta per il profilo di tollerabilità ed
efficacia. Altre combinazioni possono essere prese in considerazione in relazione al profilo lipidico
del paziente, compresa quella con acidi grassi omega-3, fibrati (evitando il gemfibrozil per gli
aumentati rischi di miopatia) e fitosteroli.
Popolazioni speciali
Nei bambini, tranne casi particolari, il trattamento farmacologico dovrebbe essere differito fino ai
18 anni, mentre nelle donne e negli anziani, sia pure poco rappresentati nei grandi studi, non
esistono motivi di differenziazione rispetto agli uomini sia in prevenzione primaria che secondaria.
In particolare, si raccomanda la terapia ad alti dosaggi di statine da iniziare tra 1 e 4 giorni da un
evento coronarico così come raccomandato dalle Linee Guida attuali sulle Sindromi Coronariche
Acute, anche se si sottolinea cautela nei pazienti anziani o con insufficienza renale o epatica. La
vera novità sta però nella raccomandazione di rivalutare dopo 4-6 settimane i livelli di LDL ed
eventualmente aggiustare i dosaggi in relazione al target da mantenere in cronico.
6.6 Aferesi delle LDL
Quei rari pazienti che presentano un quadro di grave ipercolesterolemia, in particolare:
- ipercolesterolemia familiare omozigote,
- ipercolesterolemia familiare in doppia eterozigosi,
- ipercolesterolemia familiare con valori di LDL minacciosamente alti nonostante la terapia
medica ipolipidemizzante al massimo dosaggio tollerato,
e che come tali hanno notevoli difficoltà di trattamento con i farmaci attualmente disponibili,
devono essere indirizzati a visita specialistica per valutare l’opportunità del trattamento con LDLaferesi. Si tratta di una tecnica impegnativa e costosa ma altrettanto efficace, che consiste nel
depurare il sangue in circolazione extracorporea dalle LDL in eccesso, a intervalli che di volta in
volta saranno valutati in base alla risposta del paziente (le linee guida consigliano 1 o 2 volte a
settimana, ma diversi protocolli hanno dato soddisfacenti risultati anche con intervalli di tempo di
10-15 giorni).
La LDL-aferesi deve essere associata al trattamento con farmaci ipolipemizzanti per mantenere i
livelli di LDL-colesterolo a valori accettabili anche negli intervalli di tempo tra una procedura e la
successiva; il vantaggio è quello di poter ridurre la posologia di tali farmaci a dosaggi meglio
tollerati rispetto a quelli che altrimenti sarebbero stati necessari nelle suddette situazioni.
Dati i costi e la scarsa disponibilità di accesso alle poche strutture in grado di gestire tale metodica,
la sua indicazione e prescrizione resta comunque a carico dei Centri specialistici di riferimento.
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Soutar AK et al. Nat Clin Pract Cardiovasc Med 2007; 4(4): 214-225.
Simon Broome Register http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK53810/
ESC/EAS guidelines for the management of dyslipidaemias. Eur Heart J 2011;32:1769–1818
Dutch Lipid Score http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK53817/
http://www.cardiolink.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6103%3Ale-nuove-linee-guida-esceasper-il-trattamento-delle-dislipidemie&catid=1046%3A3-2011&Itemid=1
Nota 13 AIFA 2013; Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.83 del 9-4-2013
Per saperne di più
Linee guida cliniche per la prevenzione della cardiopatia ischemica nella ipercolesterolemia familiare.
Giorn Ital Aterosc 2013.
38
La storia della nota 13
Le note AIFA furono introdotte a partire da inizio anni 2000 per sostituire le vecchie note CUF. Lo scopo
restava comunque quello di regolamentare la rimborsabilità dei farmaci in determinate categorie di
pazienti. La nota 13 è quella che stabilisce in quali circostanze siano rimborsabili o meno i farmaci
ipolipidemizzanti, in particolare le statine, che si stavano affermando già da 5-10 anni come farmaci di
sicura efficacia ma, purtroppo, gravate da un costo significativamente alto e che perciò imponeva delle
scelte strategiche riguardo le categorie a cui destinare in primo luogo tale trattamento.
Fin dalle prime versioni (2001), la nota 13 faceva riferimento non al solo livello di colesterolo totale ma al
rischio cardiovascolare globale (RCG), che all’epoca era stato introdotto dalle carte del rischio europee
mutuate sui dati del Framingham Heart Study e del Framingham Risk Score. La nota 13 stabiliva che la
rimborsabilità dovesse essere garantita a tutti i pazienti in prevenzione secondaria e – in prevenzione
primaria – a quelli con forme familiari o con un RCG > 20%.
Le carte del Framingham avevano però il limite di sovrastimare il rischio nelle popolazioni mediterranee –
e quella italiana in particolare – che, relativamente alla popolazione americana, sono gravate da un rischio
più basso. Per tali motivi nacquero le carte italiane del progetto CUORE dell’Istituto Superiore di Sanità
(ISS) che valutavano il rischio di eventi cardiovascolari totali (fatali e non); su quelle carte si basò la
successiva versione della nota 13 (2004), ribadendo la rimborsabilità a tutti i pazienti in prevenzione
secondaria e, per quelli in prevenzione primaria, solo se affetti da forme familiari o con un RCG > 20%
(considerato alto). In tal modo si mantenevano i cordoni della borsa (per così dire) ancora abbastanza
stretti e, in particolare nelle donne, era assai difficile riuscire a prescrivere un trattamento “preventivo” – e
per sia natura “cronico” – in regime di rimborsabilità.
Nel 2006 la simvastatina (e di lì a poco anche la pravastatina) perse il brevetto, e di conseguenza il prezzo
delle statine cominciò a scendere. La versione 2007 della nota, pur basandosi ancora sulle carte italiane
ISS, cominciò quindi ad adottare criteri un po’ meno restrittivi e a concedere la rimborsabilità anche a quei
pazienti con forme iatrogene o ai pazienti con insufficienza renale (forme cliniche per le quali, nel
frattempo, erano state prodotte sufficienti prove di efficacia).
Ma è negli ultimi due anni che si è assistito ad un vero stravolgimento della filosofia di trattamento e dei
criteri adottati per la rimborsabilità. Nel luglio 2011 fu pubblicata una versione della nota che, in virtù
della – allora prossima – scadenza del brevetto anche di atorvastatina, e quindi di un atteso generale calo
dei costi di trattamento, non richiedeva più l’uso delle carte del rischio per valutare la rimborsabilità, che
invece veniva concessa (oltre che ai pazienti con forme familiari o in prevenzione secondaria, considerati
sempre ad alto rischio) anche a tutti i pazienti in prevenzione primaria con un RCG moderato (definito,
quindi, non più in base alle carte ma sulla base della copresenza di 2 o più fattori di rischio): in tal modo
era assai più semplice avviare ad un trattamento con statine anche i pazienti di sesso femminile, i giovani
(prima non valutabili con le carte, fino ai 40 anni) e gli anziani (che prima, oltre i 69 anni, non potevano
essere inquadrati dalle carte). Inoltre, furono introdotte delle tabelle (farmaci di I o di II livello) che
avevano lo scopo di aiutare nella scelta del trattamento: infatti, con la nota era fornito anche un grafico che
riassumeva i diversi gradi di potenza (= di efficacia) delle diverse statine e dei loro diversi dosaggi (cioè la
percentuale di riduzione dell’LDL-colesterolo attesa per ciascuna molecola e ciascun dosaggio) in modo
da facilitare la scelta del trattamento in funzione della distanza dal target per l’LDL- colesterolo previsto
per ciascun paziente.
Questa versione ebbe vita breve in quanto, nel novembre 2012, una nuova versione stabilì che era
indispensabile riavvicinarsi alle linee guida europee (varate nel 2011) e quindi era necessario tornare a
usare le carte del rischio. Questa volta, però, si fece riferimento alle carte europee del progetto SCORE,
che definiscono solo il rischio di eventi fatali e per tale motivo hanno valori confrontabili con le carte
italiane in un rapporto circa 1:4. Pertanto, le carte europee considerano ad alto rischio il soggetto che ha
una probabilità di avere un evento > 5% nei 10 anni successivi. Questo aspetto va sottolineato perché
altrimenti si rischia di male interpretare un risultato del calcolo del RCG fatto con le carte europee (e non
più con quelle italiane) e di considerare a basso rischio chi è invece ad alto RCG (es. 5% con le carte
italiane piuttosto che con le carte europee).
La versione del 2012 conteneva ancora alcuni “refusi” e piccole imperfezioni che sono state “sanate” nella
ultima versione dell’aprile del 2013. La rosuvastatina è stata ammessa a rimborsabilità nei pazienti con
una forma di ipercolesterolemia familiare (distanza dal target > 50%; potenza della rosuvastatina 20 mg >
50%) Per il resto, tale versione è rimasta sostanzialmente immodificata.
39
Riassumendo: possiamo dire che le diverse versioni della nota 13 si sono rese necessarie per mantenere
un difficile equilibrio farmaco-economico tra situazioni che ne allargavano le indicazioni, come il
progredire delle conoscenze (quindi delle evidenze a vantaggio del trattamento) e le variazioni di prezzo
(via via che i farmaci perdevano il brevetto) da una parte, e le esigenze dei bilanci della sanità pubblica –
che invece tendevano a regolamentarne l’utilizzo in un’ottica di contenimento delle risorse economiche.
Per la sua complessità e per le continue modifiche che ha subito, la nota 13 è stata spesso criticata ma le
ultime versioni, che hanno inserito delle tabelle con i farmaci consigliati nelle varie forme di
dislipidemia (a cominciare dai farmaci per il trattamento di I livello e poi, progressivamente, a salire
verso i trattamenti più “intensivi”), se ben utilizzate, possono fornire sufficienti garanzie di
appropriatezza.
^^^^^
N.B. per la versione integrale della ultima versione della nota 13 si rimanda alla:
- Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.83 del 9-4-2013
40
7. INSUFFICIENZA RENALE CRONICA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
L’insufficienza renale cronica (IRC) è dovuta al lento, insidioso e progressivo decadimento
irreversibile delle funzioni renali sia escretoria che endocrina fino all’uremia terminale che
richiede la dialisi o il trapianto, a differenza della forma acuta in cui la riduzione funzionale
identificabile si verifica nell'arco di giorni ed è spesso reversibile.
Patogenesi e stadiazione
E’ solo parzialmente nota. E’ in ogni caso multifattoriale e probabilmente dovuta alla ritenzione
contemporanea di sostanze di vario tipo (azotemia, creatinina, uricemia, “medie molecole”…) che
svolgono un ruolo patogeno con effetti sinergici, ad alterazioni idroelettrolitiche e dell'equilibrio
acido base (acidosi), ad un aumento inappropriato dell’'increzione di ormoni (PTH, fattori
natriuretici atriale e ipotalamico) ed è causata comunque da una vasta gamma di nefropatie e
concause (iatrogena, pressoria, tossica, alimentare).
Per mantenere normale l'equilibrio idro-elettrolitico ed acido-base, è necessario che il rene riceva
una normale quantità di substrato (flusso ematico normale), abbia filtrato glomerulare (VFG) e
funzione tubulare normali per formare l'urina ed abbia una via escretrice normale. L'insufficienza
renale può quindi essere grossolanamente classificata come pre-renale (in cui il rene non riceve un
flusso ematico adeguato), renale (in cui i componenti del rene di per sé non funzionano
normalmente) e post-renale (in cui è alterata la normale escrezione dell'urina dopo che questa è
stata prodotta).
L'entità dell'insufficienza è quantificabile con lo studio del volume del filtrato glomerulare
(VFG), stimato con buona approssimazione dalla clearance della creatinina,
clearance della creatinina = Concentrazione urinaria creatinina x Volume urinario
Concentrazione plasmatica creatinina
La creatinina è eliminata quasi completamente dalla filtrazione glomerulare e quindi indicatore
ideale della funzione renale, meglio dell’azotemia che è il prodotto terminale del metabolismo
proteico ed è dipendente sia dall’apporto dietetico di proteine che dalla velocità del loro
catabolismo e, pur essendo escreta anch’essa per filtrazione glomerulare, è riassorbita in quantità
significativa lungo il tubulo (in particolare negli stati di avidità del sodio, come la deplezione di
volume) per cui il rapporto azotemia/creatininemia è 10 a 1.
Il VFG può essere stimato ancora più esattamente (poiché la clearance della creatinina, venendo in
piccola parte escreta, lo sovrastima un po’ e farmaci che inibiscono la secrezione tubulare di
creatinina come cimetidina trimetoprim triamterene spironolattone e amiloride lo sottostimano)
dalle formule di Cockroft e Gault
1° formula
(140-età in anni) x peso in Kg
creatinina s. in mg/dl x 72
nel sesso femminile moltiplicare il valore finale x 0.85
2° formula
K x (140-età in anni) x peso in Kg
creatinina s.in mg/dl x 8,86
K = 1,25 per l’uomo e 1,05 per la donna.
In tabella 1 è riportata la classificazione dell’IRC in stadi proposta nel 2002 dalla National Kidney
Foundation (NKF) (1) ed espressa nelle linee guida della Kidney Disease Outcome Quality
41
Initiative (K-DOQI) in base al VFG. La relativa stadiazione prende in considerazione due fattori: il
"danno renale" e la riduzione della funzione renale, intesa come velocità di filtrazione glomerulare
“VFG”. Il primo è diagnosticato a partire da reperti di laboratorio (presenza di albumina, proteine o
tracce di sangue di origine renale nelle urine), strumentali (alterazioni patologiche individuabili con
l'ecografia renale) o istologiche (biopsia renale), persistenti da almeno tre mesi. La presenza di tali
segni consente di porre diagnosi di malattia renale cronica anche quando la velocità di filtrazione
glomerulare è ancora normale o aumentata (stadio 1) o solo lievemente ridotta (stadio 2).
Tale classificazione è stata modificata nel 2004 dalla Kidney Disease Improving Global Outcomes
(KDIGO) (2), aggiungendo un riferimento all'eventuale terapia sostitutiva in corso con l'aggiunta di
una lettera T per trapianto, D per dialisi.
Compromissione anatomofunzionale nell’IRC
Interessa numerosi organi ed apparati:
− anemia ipoproliferativa, normocromica e normocitica da deficit di eritropoietina;
− alterazioni dell’immunità umorale ma soprattutto cellulare con aumento della suscettibilità
ad infezioni batteriche, virali e micotiche;
− alterazioni dell'omeostasi del calcio e del fosforo con secondaria iperattivazione
paratiroidea;
− alterazioni neurologiche centrali fino all’encefalopatia uremica da alluminio o su base
aterosclerotica e periferiche come la restless leg syndrome;
− gastrite uremica da ipergastrinemia;
− compromissione polmonare interstiziale a tipo "polmone uremico" o "da acqua";
− alterazioni del metabolismo lipidico con aumento dei trigliceridi in VLDL e LDL,
diminuzione del colesterolo HDL, aumento del colesterolo VLDL, riduzione della ApoA,
aumento della ApoB e iperomocisteinemia;
− compromissione della funzione endocrina con riduzione dell'idrossilazione da parte del rene
del 25(0H)-colecalciferolo (calcifediolo) prodotto dal fegato in 1.25(OH)2 colecalciferolo (o
calcitriolo), con un deficit di produzione di eritropoietina e l'iperproduzione di renina. E'
incerto il ruolo della ridotta produzione a livello renale di sostanze ad azione vasodilatatrice,
quali alcune prostaglandine.
Alterazioni dell'apparato CV nell’IRC
Degne di nota sono le alterazioni dell'apparato CV, specie dei pazienti in dialisi (30-50% dei
decessi da patologia CV), ma che in maniera subdola possono essere presenti o prepararsi anche
negli altri stadi (3).
In era predialitica erano molto frequenti gli episodi di pericardite, spesso mortali. Il trattamento
dialitico precoce ha ridotto la frequenza e la gravità di questa complicazione, più rara in dialisi
peritoneale che in emodialisi, pur non annullandola. I fattori eziopatogenetici della pericardite
uremica sono numerosi: in alcuni casi è responsabile uno stato di uremia non ben corretto dal
trattamento sostitutivo; altre volte questa complicazione interviene in soggetti apparentemente non
sottodializzati: in queste condizioni è stato prospettato un possibile ruolo dell'ipertensione arteriosa,
dell'iperparatiroidismo secondario, di meccanismi immunologici da immunocomplessi circolanti,
42
l'uso cronico di eparina, gli stress chirurgici. L'eziologia può essere inoltre infettiva, batterica o
virale.
Aritmie cardiache (extrasistoli, tachicardie sopraventricolari, bradiaritmie) sono presenti dal 17% al
90% a seconda delle casistiche e possono essere scatenate da vari fattori: rapide variazioni, intra o
interdialitiche, delle concentrazioni elettrolitiche sieriche, in particolare di potassio e calcio;
modificazioni dell'equilibrio acido-base o della ripartizione ionica intra-extracellulare.
Da tempo è stato prospettato un possibile effetto miocardiolesivo dell'uremia, tanto che si parla di
cardiomiopatia uremica come forma a sé stante: anche indipendentemente dall'ipertensione
arteriosa, si ha un aumento del volume cardiaco, con allargamento delle cavità sinistre, un'ipertrofia
ventricolare sinistra e/o del setto interventricolare. A livello microscopico si osservano una fibrosi
miocardica, talora grave, fenomeni degenerativi delle cellule miocardiche e deposizioni di calcio
focali o, in caso di iperparatiroidismo, massive.
L'arteriosclerosi coronarica è particolarmente frequente anche nei giovani e può causare stenosi
coronariche e fenomeni ischemici gravi che non di rado sono asintomatici anche in soggetti non
diabetici. Quando non correggibile, la cardiopatia ischemica può costituire una controindicazione al
trapianto di rene.
Terapia delle alterazioni dell’apparato CV
Nella terapia è fondamentale la correzione dei fattori rimovibili eventualmente implicati; la terapia
farmacologica digitalica trova indicazioni nelle tachicardie sopraventricolari, nella fibrillazione
atriale o nello scompenso cardiaco, in assenza di un sovraccarico idrico o di ipertensione grave.
L'insufficienza renale riduce la maneggevolezza della digossina, che non è dializzabile,
aumentandone la tossicità. Si raccomanda in genere una dose iniziale di 0,25 mg/die per 2-3 giorni;
la dose di mantenimento è in genere 0,125 a giorni alterni. L'obiettivo è di mantenere valori di
digossinemia intorno a 1 ng/ml. E' necessaria una regolare monitorizzazione del farmaco. Altri
Autori preferiscono la digitossina in relazione al suo metabolismo prevalentemente epatico.
I vasodilatatori arteriolari (idralazina e minoxidil) possono migliorare la gittata cardiaca riducendo
l'impedenza al deflusso; quelli venosi (nitroglicerina ed isosorbide dinitrato) agiscono aumentando
la capacità del comparto venoso. Gli ACE inibitori, che inducono una favorevole ridistribuzione
della gittata, possono essere usati in condizioni di scompenso, ma con attenta monitorizazione della
potassiemia. I nitroderivati sono sicuri, ma possono causare ipotensioni. Tra i betabloccanti sono
più usati il carvedilolo, il propranololo ed il metoprololo, che hanno un metabolismo epatico.
Nel trattamento delle coronaropatie, le indicazioni all'angioplastica e agli interventi a cuore
aperto sono simili a quelli nei pazienti non uremici, pur con rischi più elevati.
L'ipertensione arteriosa nell'insufficienza renale cronica evolve da una fase iniziale con gettata
cardiaca aumentata e resistenze periferiche normali, ad una fase caratterizzata da un aumento delle
resistenze periferiche. L'aumento della gettata cardiaca consegue all'espansione di volume
extracellulare e all'anemia; l'aumento delle resistenze periferiche riconosce una genesi polifattoriale
(espansione extracellulare, alterazioni del trasporto cellulare del sodio, attivazione del sistema
renina-angiotensina e del sistema nervoso autonomo e, forse, riduzione delle sostanze ad azione
vasodilatatrice di produzione renale).
Sul piano pratico peraltro, il controllo dell'ipertensione arteriosa nel paziente in dialisi, è
considerato tutt’ora di grande importanza per la riduzione della mortalità cardiovascolare, ma non è
sempre agevole; i trattamenti ultra brevi diffusi in questi ultimi anni (dialisi di circa 3 ore) e
l'impiego dell'eritropoietina, per il suo effetto ipertensivante, possono renderlo più difficile; la
regolarizzazione dei valori pressori di questi pazienti non è sempre soddisfacente.
Per il controllo dell'ipertensione sono fondamentali innanzitutto la restrizione dietetica dell'apporto
di sodio e di acqua, un'adeguata disidratazione in corso di dialisi e variazioni mirate del tenore di
sodio della soluzione dializzante.
Nella scelta degli antiipertensivi si preferiscono betabloccanti, ACE-inibitori, calcioantagonisti ed
inibitori del recettore dell’ Angiotensina II. Tra i betabloccanti, teoricamente indicati nei pazienti
con coronaropatia ischemica o con aritmie, sono da preferire quelli a metabolizzazione epatica, per
il minor rischio di accumulo e di bradicardia. Gli ACE inibitori potrebbero avere un'indicazione
43
elettiva nei casi con elevata attività reninica o con insufficienza cardiaca, ma, specialmente nelle
prime settimane, è possibile la comparsa di iperpotassiemia; nello studio REIN il ramipril ha però
dato risultati eccezionali nella riduzione della frazione di filtrazione glomerulare e del rischio di
insufficienza renale nella nefropatia non diabetica con proteinuria. I calcioantagonisti hanno una
buona efficacia, ma, dilatando l’arteriola afferente glomerulare, possono incrementare la
proteinuria. I sartani sono stati studiati nella nefropatia diabetica: lo studio RENAAL (losartan),
gli studi IRMA 2 e IDNT (irbesartan) e lo studio ROADMAP (olmesartan) hanno dimostrato la
loro capacità di ridurre la progressione della IRC, per il loro effetto antiproteinurico legato, più che
alla riduzione della pressione arteriosa, al blocco dell’iperfiltrazione glomerulare da riduzione della
pressione idrostatica conseguente alla dilatazione dell’arteriola efferente. I farmaci ad azione
centrale (clonidina, alfametildopa) possono causare secchezza della fauci, stipsi, sedazione ed
ipotensione ortostatica; sono possibili rebound ipertensivi in caso di sospensione della clonidina; la
dialisi rimuove significativamente l'alfametildopa, per cui può esserne richiesta una dose
supplementare a fine seduta.
Rischio CV e IRC
Come detto sopra, i pazienti con IRC presentano spesso ipertensione, dislipidemia o diabete
mellito, tutte patologie che costituiscono fattori di rischio maggiori per lo sviluppo e la progressione
di disfunzione endoteliale ed aterosclerosi e che contribuiscono anche alla progressione
dell’insufficienza renale. Ancora oggi questa categoria di pazienti tende a ricevere trattamenti meno
intensivi rispetto ai pazienti con normale funzionalità renale (4). Nell’IRC i mediatori di
infiammazione ed i promotori della calcificazione risultano aumentati, mentre gli inibitori della
calcificazione risultano ridotti, favorendo così la comparsa di calcificazioni vascolari e danno
vascolare (5). La presenza di microalbuminuria è associata ad un rischio cardiovascolare 2-4 volte
più elevato.
Ridotti valori di VFG sono indicativi di aumentato rischio per malattie CV e mortalità per tutte le
cause. In un ampio studio di coorte l’anemia, un ridotto VFG e la microalbuminuria sono risultati
associati in modo indipendente a malattie CV e, se presenti simultaneamente, determinavano più
frequentemente la comparsa di malattie CV ed un peggioramento della sopravvivenza (6).
Il rischio CV è correlato all’entità di riduzione del VFG: i pazienti con disfunzione renale
moderata (stadio 3, VFG 30-59 ml/min/1.73 m²) mostrano un rischio CV 2-4 volte maggiore
rispetto ai pazienti senza IRC. Il rischio diventa 4-10 volte più elevato nell’IRC in stadio 4 (VFG
15-29 ml/min/1.73 m²) e 10-50 volte più elevato nell’IRC in stadio 5 (insufficienza renale
terminale) (VFG <15 ml/min/1.73 m² o dialisi) (5).
La terapia ipolipemizzante, come dimostra lo studio SHARP, sembra avere effetti favorevoli in
un’ampia gamma di pazienti con IRC avanzata senza storia pregressa di infarto miocardico o
rivascolarizzazione coronarica: una diminuzione di 0.85 mmol/l (33 mg/dl) del colesterolo legato
alle lipoproteine a bassa densità (LDL) mediante terapia d’associazione con simvastatina 20 mg/die
ed ezetimibe 10 mg/die è risultata determinare una riduzione dell’incidenza di eventi CV maggiori
(infarto miocardico non fatale, morte, ictus non emorragico e necessità di rivascolarizzazione
arteriosa) (7).
Dislipidemia nell’IRC e linee guida
Secondo le linee guida ESC sulla prevenzione CV del maggio 2012 (8) la malattia renale cronica
è caratterizzata da una dislipidemia mista (alti trigliceridi e colesterolo LDL e basso colesterolo
HDL). La microalbuminuria è un fattore di rischio per malattia CV, che aumenta progressivamente
da un normale VFG allo stadio finale. E’ noto che la malattia renale cronica dallo stadio 2 al 5 (ad
esempio anche un VFG 90 ml/min/1.73 m²) è equivalente come rischio CV ad una coronaropatia e
gli obiettivi terapeutici per il colesterolo LDL in questi pazienti devono essere adattati al grado di
insufficienza renale.
La dose di statina dovrebbe essere modificata secondo il VFG. La terapia con statine ha effetti
positivi sugli esiti CV negli stadi 2 e 3 e rallenta la velocità di progressione del danno renale.
44
Tabella 2: target terapeutici per l’LDL-Colesterolo a seconda del grado di IRC
Livello di rischio
molto alto − IRC grave (VFG 15-29 ml/min/1.73m2)
− IRC moderata (VFG 30-59 ml/min/1.73m2)
alto
Target LDL- Col
< 70mmHg
<100 mmHg
Secondo le linee guida ESC EAS sulla gestione delle dislipidemie del giugno 2011 (9), la
riduzione del VFG è associata con malattie CV indipendentemente dagli altri fattori di rischio.
Il profilo dei lipidi nell’insufficienza renale mostra anormalità quali-quantitative che peggiorano
con il declino della funzionalità renale. Si ha un basso colesterolo HDL e l’elevazione dei
trigliceridi è causata da aumentata produzione e ridotta eliminazione per modifiche degli enzimi
regolatori e proteine. Conseguentemente i livelli del colesterolo non-HDL e dell’apoB sono
aumentati e le sottoclassi di LDL vanno verso un eccesso di LDL piccole e dense ed un catabolismo
marcatamente rallentato delle LDL con elevazione di esso e del colesterolo totale. Si ha inoltre un
aumento dei livelli plasmatici di Lp(a).
Numerosi studi clinici e post-hoc analisi evidenziano gli effetti benefici di una terapia con statine in
pazienti con insufficienza renale cronica in stadio 2 e 3.
Il Pravastatin Pooling Project (PPP) incluse 19.737 soggetti con un follow-up medio di 64 mesi
ed evidenziò benefici notevoli nei soggetti con insufficienza renale e diabete con una significativa
riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause (rischio relativo 0.81 95% CI 0.73-0.89).
Nell’ Heart Protection Study (HPS) la riduzione del rischio assoluto fu 11% in un sottogruppo di
soggetti con lieve insufficienza renale comparato con 5.4% della coorte totale.
I risultati dei pazienti con malattia cronica renale avanzata (stadio 4-5) ed in dialisi erano meno
chiari: solo due studi osservazionali hanno riportato benefici dall’uso di statine in soggetti in
emodialisi. Comunque nello studio Die Deutsche Diabetes Dialyse studie (4D) in un gruppo di
1200 di tali pazienti l’atorvastatina ebbe un non positivo effetto sugli esiti delle malattie CV.
I risultati di A study to evaluate the Use of Rosuvastatin in subjects On Regular haemodialysis:
an Assessment of survival and cardiovascular events (AURORA), che arruolò 2776 pazienti in
emodialisi, mostrarono che la rosuvastatina riduceva il colesterolo LDL come atteso, ma non aveva
effetti significativi sugli esiti CV compositi. Questi risultati negativi mettono in dubbio i benefici
delle statine nei pazienti ad alto rischio.
Il già citato Study of Heart and Renal Protection (SHARP) riporta i risultati del trattamento con
ezetimibe più sinvastatina in paragone con placebo in 9500 soggetti ad alto rischio con malattia
cronica renale: i maggiori eventi aterosclerotici furono ridotti del 17% (P = 0.0022) ed i maggiori
eventi vascolari del 15.3 % (P = 0.0012). Eterogeneità importanti ma non significative esistono tra i
non dializzati ed i dializzati riguardo al placebo.
Riguardo alla scelta terapeutica, il target è stabilito dal VFG come nelle altre linee guida.
Debbono essere preferiti farmaci ad eliminazione principalmente epatica (fluvastatina,
atorvastatina, pitavastatina ed ezetimibe). Statine metabolizzate via citocromo CYP3A4 possono
dare interazioni e occorre speciale cautela.
Nell’insufficienza renale allo stadio 5, il VFG è <15 mL/min/1.73m² e l’uso di statine con limitata
escrezione renale è obbligatorio a basse dosi, mentre un opzione per ridurre i trigliceridi è l’uso di
omega 3.
Riguardo alla sicurezza nella gestione del trattamento delle dislipidemie nei pazienti con malattia
cronica renale, le statine sono generalmente ben tollerate ad un dosaggio moderato nella
insufficienza renale cronica stadio 1-2, mentre negli stadi 3-5 occorrono riduzioni di dosaggio e si
rischiano eventi avversi. Dovrebbero essere preferite le statine con minima escrezione renale
(atorvastatina, fluvastatina e pitavastatina).
Evidenze crescenti segnalano che i fibrati aumentano la creatinina e l’omocisteina, entrambi fattori
di rischio CV e alterano la stima del VFG. Gli effetti del fenofibrato sono più pronunciati di quelli
45
del gemfibrozil. Il fenofibrato è anche non dializzabile e non dovrebbe essere usato in pazienti con
VFG < di 50 ml/min/1.73m². Invece si raccomanda di ridurre a 600 mg/die la dose di gemfibrozil se
il VFG è < di 60 ml/min/1.73m² e di evitarlo se il VFG è < di 15 ml/min/1.73m².
Recentemente gli omega 3 forniscono un’opzione per ridurre i trigliceridi in pazienti con
dislipidemia mista.
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46
8. MALATTIE AUTOIMMUNI E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
8.1 PSORIASI
La psoriasi sembra essere un fattore di rischio indipendente per infarto miocardico. La sua
fisiopatologia è caratterizzata da iperespressione antigenica, attivazione delle cellule T e
proliferazione di citochine prodotte dai linfociti T-helper di tipo 1, con conseguente formazione di
spesse placche rosse squamose e, in alcuni casi, comparsa di artrite. La psoriasi è anche associata ad
alcuni marker di infiammazione sistemica, come l’elevazione della PCR. Il rischio di infarto
miocardico è maggiore nei pazienti giovani affetti da psoriasi severa e si riduce leggermente con
l’avanzare dell’età, ma rimane comunque elevato anche dopo aggiustamento per i classici fattori di
rischio CV. Le forme severe della malattia sono associate ad un rischio più elevato di infarto
miocardico rispetto alle forme lievi, rafforzando l’ipotesi che l’alterata risposta del sistema
immunitario che caratterizza la psoriasi è correlata ad un rischio più elevato di infarto miocardico e
mortalità CV 1, 2.
8.2 ARTRITE REUMATOIDE
I pazienti affetti da artrite reumatoide hanno una probabilità doppia di sviluppare un infarto
miocardico rispetto alla popolazione generale. Tale patologia è associata a tassi di mortalità più
elevati nel post-infarto, che tuttavia rendono ragione solo parzialmente della ridotta aspettativa di
vita (di 5-10 anni inferiore a quella dei soggetti non affetti). Il rischio CV risulta aumentato già
nella primissima fase della malattia e l’eccesso di rischio, in aggiunta ai classici parametri di
rischio, è probabilmente correlato al processo infiammatorio sistemico e ad uno stato
protrombotico.
La correzione dei classici fattori di rischio mediante modificazioni dello stile di vita, inclusi
l’adozione di un’alimentazione sana, la cessazione del fumo e l’incremento dell’attività fisica
quotidiana, unitamente alla prescrizione di un’appropriata terapia farmacologica possono rivelarsi
particolarmente importanti ai fini della riduzione del rischio nei pazienti con psoriasi o artrite
reumatoide. Alcuni studi osservazionali non randomizzati hanno riportato una riduzione
dell’incidenza di eventi CV e della mortalità CV nei pazienti affetti sia da artrite reumatoide che da
psoriasi trattati con methotrexate ad un dosaggio compreso tra 10 e 20 mg/settimana 3, 4.
8.3 LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO (LES)
Il LES è associato a disfunzione endoteliale e ad aumentato rischio di cardiopatia ischemica (CI),
che tuttavia non è interamente imputabile ai classici fattori di rischio per CI. L’infiammazione
sistemica cronica alla base del lupus eritematoso sistemico determina disfunzione del microcircolo
coronarico con alterazioni del flusso miocardico assoluto e della riserva coronarica. La disfunzione
del microcircolo coronarico è un marker precoce di aterosclerosi accelerata e può contribuire
all’aumentata morbosità e mortalità CV in questa categoria di pazienti 5.
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47
9. ALTRI
LTRI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE
9.1 IPERURICEMIA
Introduzione
E’ noto da tempo che l’acido urico è un potente agente anti-ossidante
anti ossidante in grado di fungere da
“scavenger” intra-cellulare
cellulare dell’eccesso di radicali liberi dell’ossigeno, presenti in condizioni di
aumentato stress ossidativo.
Tuttavia, numerosi studi clinici hanno mostrato come un incremento dei livelli plasmatici di acido
urico al di sopra dei limiti fisiologici (6 mg/dl) +sia
sia in grado di esplicare azioni pro-ossidanti,
pro
inducendo un’aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno
dell
o ed una serie di altre alterazioni
altera
che risultano potenzialmente dannose per la parete vascolare ed altri tessuti. 1--2
Iperuricemia e Rischio Cardiovascolare
Molteplici sono gli studi clinici che hanno documentato l’associazione tra l’iperuricemia
l’iperuricemi e i
principali fattori di rischio cardiovascolare: proprio le strette e complesse interazioni che
l’iperuricemia intesse con i classici fattori di rischio CV rendono peraltro difficile chiarire il ruolo
causale dell’iperuricemia nella patogenesi della malattia
ma
CV.3-4
Sebbene recenti evidenze
sperimentali suggeriscano che
l’iperuricemia esercita azioni
di tipo ossidativo e proinfiammatorio, non sono del
tutto noti i meccanismi
fisiopatologici tramite cui si
esplica il danno a carico
dell’apparato cardiovascolare
(Figura 1)
Figura 1: Possibili meccanismi di danno cardiovascolare mediato dell’iperuricemia
D’altro canto, nonostante alcuni trials clinici, che hanno utilizzato “end-points”
“end points” surrogati di rischio
CV,, suggeriscano che il trattamento farmacologico dell’iperuricemia possa esercitare un possibile
effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, le evidenze in tal senso sono ancora poche e talora
contrastanti.5
Conclusioni
Non è ancora chiaro se l’iperuricemia rappresenti un fattore di rischio o sia semplicemente un
marker di malattia CV:: sono necessari ulteriori studi clinici e sperimentali al fine di chiarire
meglio il ruolo dell’acido urico nella patogenesi e nella progressione della malattia CV.
Sebbene alcuni piccoli trials clinici suggeriscano che la riduzione farmacologica dell’iperuricemia
eserciti un effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, attualmente non esistono in letteratura
dati sufficienti per raccomandare il trattamento farmacologico dell’iperuricemia asintomatica
asintomatic per la
prevenzione primaria e secondaria della malattia CV.
48
N.B. Restano invariate le indicazioni al trattamento dell’iperuricemia nei pazienti con evidenza
clinica di gotta o artrite gottosa: le linee guida identificano come trattamenti di prima linea gli
inibitori della xantino-ossidasi (allopurinolo), tuttavia la nota AIFA 91 stabilisce che nei soggetti
nei quali l’allopurinolo sia controindicato (ipersensibilità nota) o non tollerato, e in caso di
inadeguata riduzione dei valori di uricemia, può essere utilizzato il febuxostat. Invece, il trattamento
con febuxostat non è raccomandato nei pazienti con cardiopatia ischemica o con scompenso
cardiaco congestizio.
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49
7.2 LIPOPROTEINA (a)
La lipoproteina (a), nota con la sigla Lp(a), è un fattore di rischio per malattia cardiovascolare ben
noto già nella letteratura di quasi 20 anni fa, anche se in tempi più recenti è stata riportata alla
ribalta del grande pubblico da parte dei mass media come “il nuovo colesterolo cattivo” e oggi il
suo ruolo nella stima del rischio cardiovascolare continua ad essere oggetto di dibattito.
La Lp(a) è una particella simile alle LDL (definibile come una LDL aberrante) sintetizzata dal
fegato che consiste in un’apolipoproteina B100 (il nucleo proteico della LDL) legata con legame
covalente ad una coda glicoproteica di lunghezza variabile di struttura simile al plasminogeno e
detta apolipoproteina (a). A differenza delle altre lipoproteine, che hanno una funzione biologica
chiara come molecole di trasporto dei lipidi nel plasma, la funzione della Lp(a) è praticamente
sconosciuta ma, per le somiglianze strutturali di cui si è appena detto, essa compete col
plasminogeno per il legame con la fibrina inibendo, di conseguenza, la fibrinolisi.
In vitro, è stato osservato che è in grado di oltrepassare l'intima arteriosa umana e, negli studi
compiuti su animali, è stata riportata la capacità di Lp(a) di promuovere trombosi, infiammazione e
formazione di cellule schiumose, effetti questi che interessano i momenti salienti dell'aterosclerosi:
genesi, progressione ed evento clinico finale.
L’aggressività vascolare della Lp(a) consiste quindi nel fatto di comportarsi da un lato come una
LDL difficilmente modificabile con la terapia medica standard e dall’altro di avere un’azione protrombotica per antagonismo funzionale col plasminogeno vero.
Un’altra causa di pericolosità legata alla Lp(a) è il fatto di simulare ipercolesterolemie non statinosensibili che portano il paziente (e spesso anche il suo Medico) ad interrompere la terapia per
riscontro di una mancata efficacia nella riduzione della colesterolemia LDL (specie se calcolata con
la formula di Friedewald e non dosata con metodo diretto).
I livelli di Lp(a) nel sangue sono estremamente variabili (da valori molto bassi, quasi indosabili
(<0,2 mg/dL) a livelli molto elevati (>200 mg/dL), cioè 1.000 volte di più) e sono prevalentemente
determinati da fattori genetici, in particolare dalle isoforme dell'apo(a) che si differenziano tra loro
per la dimensione della molecola: più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione
plasmatica di Lp(a) è elevata.
Le principali cause note di aumento secondario dei livelli di Lp(a) sono l’invecchiamento,
l’ipofunzione tiroidea, la sindrome nefrosica, alcune patologie autoimmunitarie sistemiche ed il
crollo della stimolazione estrogenica nel post-menopausa, situazioni di per sé associate ad un
aumentato rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare.
Il rischio cardiovascolare associato ad alti livelli di Lp(a) è tipicamente di tipo esponenziale; per
questo, a livelli intermedio-alti di Lp(a), il rischio non aumenta di molto rispetto a valori bassi,
mentre per valori alti impenna drasticamente. Mancherebbe, cioè, una relazione continua tra livello
di Lp(a) e rischio e questo, insieme a problemi di standardizzazione della metodica di misura,
potrebbe spiegare i risultati spesso contrastanti degli studi epidemiologici.
Una recente metanalisi di 36 studi prospettici che hanno coinvolto 126.634 soggetti in prevenzione
primaria ha chiaramente quantificato il rischio cardiovascolare associato ad alti livelli di Lp(a)
(Figura 1). Valori particolarmente elevati di Lp(a) sono associati ad un aumento del rischio relativo
di 1.13 (95% CI, 1.09-1.18) per quanto riguarda la patologia coronarica e di 1.10 (95% CI, 1.021.18) per quanto riguarda lo stroke ischemico. Inoltre, i livelli elevati di Lp(a) sono anche
maggiormente associati ad altre patologie vascolari maggiori come l’arteriopatia obliterante
periferica e l’aneurisma dell’aorta addominale, oltre che alla cardiopatia ischemica ed allo stroke e
nei pazienti affetti da una di queste patologie come l’arteriopatia obliterante periferica, si osserva
che coloro che presentano Lp(a) elevata (>30 mg/dL) hanno mortalità totale significativamente più
elevata rispetto ai pazienti con valori di Lp(a) inferiori e questa differenza si accentua ancor più
confrontando pazienti diabetici e non. Infine, alti livelli di Lp(a) si associano ad un ulteriore e più
rapido declino della funzione renale in pazienti già affetti da IRC.
La Lp(a) si conferma quindi come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli
tradizionali quali colesterolo totale, colesterolo LDL, apolipoproteina B, ipertensione, diabete,
obesità e fumo, ma il suo peso prognostico è rilevante solo quando i suoi livelli sono molto elevati.
50
Figura 1: Livelli di Lp(a) e RCV
Alla luce di tutti i dati sopra riportati, la Società Europea dell’Aterosclerosi (EAS) – che aveva
richiamato l’attenzione dei colleghi coinvolti nell’inquadramento e nella gestione del rischio
cardiovascolare dei pazienti, suggerendo di dosare sistematicamente la Lp(a)
(a) – ha recentemente
rivisto le sue linee guida: per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, risulterebbe
infatti inutile la misura della Lp(a) nella popolazione generale.
generale. Viceversa, come da tempo suggerito
in diversi documenti firmati dalla Società
Soc
Italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi (SISA), la
determinazione della Lp(a) andrebbe fatta solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o
con una forte familiarità per malattie aterosclerotiche precoci.
Rimane però il problema di cosa fare
f
in quei soggetti che hanno un rischio cardiovascolare alto e
aumentato ancor più a causa dell'alta concentrazione di Lp(a). Infatti, la Lp(a) è tipicamente dietoresistente ed è solo leggermente ridotta da un’attività fisica adeguata. Solo l'acido nicotinico aveva
dimostrato una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più
disponibile. Solo nelle donne in post-menopausa
post
si osserva una risposta “farmacologica” alla
terapia ormonale sostitutiva. Non rimane altro
altro che intervenire con più energia sugli altri fattori di
rischio modificabili: infatti nell’ultima versione 2013 della nota AIFA 13 i pazienti con livelli
elevati (> di 50 mg/dl) di Lp(a) sono considerati in “particolari categorie” a rischio.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:
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related markers and cardiovascular disease prediction. JAMA 2012;
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Hansen A, Nordestgaard BG. Extreme lipoprotein(a) levels and improved cardiovascular
risk prediction. J Am Coll Cardiol 2013;61:1146-56
51
9.3 OMOCISTEINA
L’omocisteina è un aminoacido solforato che deriva dal metabolismo della metionina, un
aminoacido essenziale che viene assunto con la dieta: è contenuto negli alimenti di origine
animale, come carne, uova, formaggi. Il metabolismo dell’omocisteina può seguire due vie: la via
della rimetilazione a metionina (utilizza gli enzimi metionina-sintasi, metilene-tetra-idro-folatoreduttasi [MTHFR] in presenza del cofattore acido folico, e l’enzima betaina-sintetasi); la via della
transulfurazione (che utilizza l’enzima cistationina-sintetasi, coadiuvata dal coenzima vit. B6).
Iperomocisteinemia
Si definisce Iperomocisteinemia la condizione caratterizzata da un’aumento dei valori di
omocisteina ematica, (valori normali: <13 micromoli/litro negli uomini); <10.1 micromoli/litro
nelle donne); <11.3 micromoli/litro fino a 14 anni). La concentrazione plasmatica di omocisteina è
il risultato di una stretta relazione tra le abitudini dietetiche e fattori genetici predisponenti.
L’iperomocisteinemia può, infatti, essere presente in caso di una dieta ricca di carni, formaggi (che
contengono metionina) e povera di acido folico e vitamine del gruppo B; può essere conseguente a
uno scorretto stile di vita (tabagismo, eccessivo consumo di caffè e bevande alcoliche) oppure a
patologie concomitanti (es. malassorbimento). Valori molto elevati di omocisteinemia possono,
infine, essere conseguenti a mutazioni genetiche a carico degli enzimi coinvolti nel suo
metabolismo (es. Deficit di MTHFR, CBS, metionin-sintetasi).
Iperomocisteinemia e Rischio cardiovascolare
L’ipotesi di una correlazione tra valori elevati di omocisteina ed arteriosclerosi risale al 1969,
quando Mc Cully teorizzò il suo effetto sulle cellule endoteliali delle arterie, sostenendo che livelli
moderatamente elevati di omocisteina erano correlati alla patologia cardiovascolare. I primi dati
disponibili indicavano che un aumento di 5 µmol/L del livello di omocisteina rispetto ai valori
normali, è associato ad un aumento del 20% del rischio di eventi coronarici, indipendentemente
dagli altri fattori di rischio.
Gli studi osservazionali che si sono svolti nei vent’anni successivi avevano, di fatto, validato tale
ipotesi identificando l’omocisteina come un fattore indipendente di rischio cardiovascolare.
Numerosi studi sono stati poi condotti sia per definire le basi fisiopatologiche di tale correlazione
che per valutare gli effetti della supplementazione di acido folico, con o senza vitamina B12, sui
livelli di omocisteina e, conseguentemente, sul rischio cardiovascolare.
Tuttavia, i lavori al momento disponibili in letteratura non sono concordi nel definire in maniera
netta che la supplementazione di acido folico – sebbene sia ben tollerata – possa apportare un
beneficio in termini di prevenzione di eventi cardiovascolari e di riduzione della mortalità
cardiovascolare.
Pertanto, il dosaggio dell’omocisteina al fine di valutare il rischio cardiovascolare (anche se –
ovviamente – valutato in associazione ad altri parametri quali il profilo lipidico e la glicemia)
rimane controverso. Peraltro, anche l’interpretazione del risultato ai fini della determinazione del
rischio non è ancora standardizzata.
Le attuali indicazioni al dosaggio dell’omocisteina sono limitate alla valutazione di un eventuale
deficit di vitamina B12 e folati, tipicamente presente in: pazienti malnutriti; negli anziani, in cui si
può osservare un ridotto assorbimento intestinale; negli alcolisti e in soggetti che fanno uso di
droghe.
In conclusione: le raccomandazioni dell’American Heart Association sostengono che il nesso
causale tra livelli elevati di omocisteina e sviluppo di arteriosclerosi non è ancora stato
stabilito e raccomandano una dieta bilanciata, ricca di frutta e verdura, limitando l’utilizzo dei
supplementi vitaminici ai casi in cui non sia possibile beneficiarsi di una dieta adeguata.
52
9.4 VITAMINA D
Negli ultimi anni numerosi studi
hanno valutato il coinvolgimento
della vitamina D in alcune patologie
croniche e, in particolar modo, nelle
malattie cardiovascolari.
E’ stato, infatti, osservato come vi
sia
un’associazione
altamente
significativa
tra
le
basse
concentrazioni di vitamina D e la
presenza di fattori di rischio
cardiovascolari, in particolar modo
l’ipertensione arteriosa e il diabete
mellito.1
In uno studio che ha analizzato un
database clinico relativo a 41497
pazienti di medicina generale
erale è
emerso, inoltre, che nei pazienti con carenza di vitamina D era possibile evidenziare una maggiore
prevalenza di malattia coronarica, infarto miocardico, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca,
vascolopatia periferica, ictus, TIA e tachicardia
tachicard
ventricolare1,2. Inoltre, nei pazienti con
ipovitaminosi D è più facile rilevare scarsa tolleranza alle statine ed insorgenza di mialgie, che
tuttavia possono essere corrette con la semplice supplementazione di vitamina3.
E’ noto che il recettore della vitamina D (VDR) e alcuni enzimi coinvolti nel suo metabolismo sono
presenti nella parete vascolare e a livello cardiaco: nel modello murino knock-out
knock
per VDR è stata
rilevata una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari e di ipertrofia cardiaca. Tuttavia
Tutt
l’esatto
4
meccanismo fisiopatologico alla base di tali osservazioni rimane ancora oscuro .
D’altro canto se è vero che la supplementazione
suppleme tazione di vitamina D è economica e di facile applicazione,
gli studi finora disponibili hanno finora solo parzialmente mostrato un beneficio sulla mortalità per
cause cardiovascolari5.
Al momento,
omento, le evidenze disponibili non sono sufficienti per raccomandare la supplementazione
suppleme
di
vitamina D, con la finalità di prevenzione cardiovascolare. Ulteriori studi mirati a verificare
verific
i
benefici dell’integrazione con vitamina D in prevenzione cardiovascolare sono necessari.
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:
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5. Bjelakovic G. et Al. Cochrane Database Syst Rev.
Rev 2011 Jul 6;(7)
53
10. ATTIVITA’ FISICA: COSA CI DICONO LE LINEE GUIDA 1
Introduzione
L’attività fisica regolare e l’allenamento aerobico sono correlati con una riduzione del rischio di
eventi coronarici fatali e non fatali in soggetti sani 2 o con fattori di rischio coronarico 3 e in pazienti
con cardiopatie 4,5. Uno stile di vita sedentario rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio per lo
sviluppo di malattia CV e, pertanto, l’attività fisica ed aerobica viene raccomandata dalle linee
guida quale valido strumento non farmacologico per la prevenzione primaria e secondaria delle
malattie CV. Ciononostante, nell’ambito dei paesi dell’UE, meno del 50% dei cittadini pratica
un’attività fisica regolare ricreativa e/o professionale e l’osservato aumento della prevalenza di
obesità è associato ad uno stile di vita sedentario.
Razionale biologico
Un’attività aerobica regolare determina un miglioramento delle prestazioni fisiche, in quanto
aumenta la capacità di utilizzare l’ossigeno da parte dell’organismo per produrre l’energia
necessaria a svolgere l’esercizio. Questi effetti si esplicitano praticando una regolare attività fisica
aerobica ad intensità comprese tra il 40% e l’85% del VO2 [volume massimo (V) di ossigeno (O2)
in ml] o della riserva di frequenza cardiaca, in cui l’intensità dell’allenamento è tanto più elevata
quanto maggiore è il livello di forma fisica iniziale e viceversa. L’esercizio aerobico si associa
anche – a parità di carico di lavoro – ad un risparmio del consumo miocardico di ossigeno, come
dimostrato dalla riduzione del doppio prodotto (frequenza cardiaca x PAS), diminuendo così la
probabilità di ischemia miocardica.
Inoltre, l’attività fisica aerobica può esitare anche in un miglioramento della perfusione miocardica,
accompagnato da un aumento del diametro dei rami coronarici principali, da effetti positivi sul
microcircolo e da un miglioramento della funzione endoteliale.
L’attività fisica esercita molteplici effetti positivi anche su numerosi fattori di rischio CV, in quanto
previene o ritarda la comparsa di ipertensione nei soggetti normotesi o riduce i valori pressori in
quelli ipertesi, aumenta i livelli di colesterolo HDL, contribuisce a tenere sotto controllo il peso
corporeo e diminuisce il rischio di sviluppare diabete mellito non insulino-dipendente. Inoltre,
l’allenamento fisico è risultato in grado di indurre pre-condizionamento ischemico, processo
attraverso il quale l’ischemia miocardica transitoria durante sforzo incrementa la tolleranza del
tessuto miocardico a successivi e prolungati episodi ischemici, con conseguente riduzione del
rischio di danno cellulare e di tachiaritmie potenzialmente fatali.
L’attività fisica va intesa come un “farmaco”: deve essere prescritta – sia negli schemi di
trattamento in prevenzione primaria che secondaria – seguendo precise indicazioni e posologia. La
tabella 1 riporta le raccomandazioni delle linee guida europee 1 relative all’attività fisica:
indicazioni nelle varie fasce di età, negli individui sani o con patologia CV; modalità di
“somministrazione”
Individui sani
Negli individui sani, livelli crescenti sia di attività fisica che di efficienza cardiorespiratoria si
associano ad una significativa riduzione (~20-30%) del rischio di mortalità da ogni causa e CV con
una relazione dose-risposta2. Le evidenze disponibili indicano che il rischio di morte in un
determinato arco temporale decresce all’aumentare dei livelli di attività fisica e di efficienza
cardiorespiratoria, tanto nelle donne quanto negli uomini e per tutte le fasce di età dall’infanzia alla
senilità. Occorre tenere presente che queste conclusioni derivano da risultati di studi osservazionali
e non è quindi possibile escludere un bias (distorsione statistica) di selezione legato, da una parte,
alla presenza di malattia subclinica non diagnosticata, che può aver indotto alcuni soggetti a ridurre
il loro livello di attività fisica prima dell’inizio dello studio, e dall’altra alla tendenza a mettere in
relazione abitudini più salutari (es. non fumare e osservare una sana alimentazione) con gli
individui fisicamente attivi. Tuttavia, anche dopo aggiustamento per questi fattori confondenti,
diversi studi hanno confermato l’esistenza di una relazione inversa tra il livello di attività fisica o di
efficienza cardiorespiratoria e la mortalità da ogni causa e CV
54
Tabella 1
Buona parte di tali effetti favorevoli sulla mortalità sembrano derivare da una riduzione della
mortalità CV e per cardiopatia ischemica (CI), mentre la diminuzione del rischio coronarico
attribuibile ad un’attività fisica regolare di tipo aerobico è simile a quella prodotta dalla
modificazione di altri fattori dello stile di vita, come ad esempio smettere di fumare.
Valutazione del rischio
È tuttora controverso quali metodi debbano essere utilizzati per la valutazione dei soggetti sani che
desiderano intraprendere una regolare attività fisica/allenamento aerobico. In generale, negli
individui apparentemente sani il rischio di eventi CV maggiori correlato all’esercizio fisico è
estremamente basso, nell’ordine da 1 su 500 000 a 1 su 2 600 000 ore di esercizio/paziente. Sulla
base di quanto recentemente suggerito per le attività sportive amatoriali in soggetti di età media o
avanzata, una valutazione accurata del rischio deve prevedere l’analisi del profilo di rischio
coronarico e del livello di attività fisica abituale e che si intende raggiungere, riservando
eventualmente uno screening più intensivo (con test da sforzo) per i soggetti sedentari e/o con
fattori di rischio CV e/o desiderosi di svolgere un’attività fisica ad intensità vigorosa. Gli individui
che praticano attività fisica saltuariamente sembrano essere a rischio più elevato di eventi coronarici
acuti e morte improvvisa, sia durante che post-esercizio.
In linea generale, nei soggetti sedentari e in quelli con fattori di rischio CV si raccomanda di
iniziare con un’attività fisica di bassa intensità.
Intensità e quantità dell’attività fisica
La quantità di attività fisica o di allenamento aerobico di moderata intensità in grado di determinare
una riduzione della mortalità da ogni causa e CV è di 2.5-5h/settimana 2,3; in ogni caso, maggiore è
la durata totale dell’attività fisica/allenamento aerobico nella settimana, maggiori sono i benefici
osservati. Da sottolineare che analoghi risultati possono essere conseguiti praticando 11.5h/settimana di attività fisica/allenamento aerobico di intensità vigorosa o una combinazione
55
equivalente di esercizio fisico di intensità moderata e vigorosa. Inoltre, le evidenze disponibili
indicano che la quantità totale settimanale di attività fisica può essere raggiunta sommando le
diverse sedute di allenamento giornaliere, ciascuna della durata di almeno 10 min, e che l’attività
fisica/allenamento aerobico deve essere distribuita su più giorni della settimana.
I tipi di attività fisica/allenamento aerobico comprendono non solo le attività sportive, come marcia,
corsa o jogging, pattinaggio, ciclismo, canottaggio, nuoto, sci di fondo e lezioni di ginnastica
aerobica, ma anche le normali attività quotidiane come camminare a passo sostenuto, salire le scale,
svolgere i lavori domestici, fare giardinaggio e dedicarsi ad attività ricreative di natura attiva.
Un’attività fisica moderata è definita in termini relativi come un’attività svolta tra il 40% e il 59%
del VO2 max o della riserva di frequenza cardiaca o ad un livello di percezione della fatica pari a 56 secondo la scala di Borg CR10, che corrisponde ad un dispendio energetico assoluto pari a ~4.87.1 equivalenti metabolici (METs) nei soggetti giovani, 4.0-5.9 METs in quelli di età media, 3.2-4.7
METs in quelli di età avanzata e 2.0-2.9 METs negli anziani. In maniera analoga, un’attività fisica
vigorosa è definita come un’attività svolta tra il 60% e l’85% del VO2 o della riserva di frequenza
cardiaca o ad un livello di sforzo percepito pari a 7-8 nella scala di Borg CR10, che corrisponde ad
un dispendio energetico assoluto pari a ~7.2-10.1 METs nei soggetti giovani, 6.0-8.4 METs in
quelli di età media, 4.8-6.7 METs in quelli di età avanzata e 3.0-4.2 METs negli anziani.
La tabella 2 riporta uno schema che riassume le caratteristiche delle attività fisiche consigliate in
un paziente con ipertensione (es. di fattore di rischio CV).
Tabella 2: Caratteristiche dell’attività fisica consigliata nei pazienti ipertesi (*)
Pazienti con malattia cardiovascolare nota 4,5
Nei pazienti con malattia CV nota un’attività fisica aerobica è generalmente parte integrante di un
programma di riabilitazione CV e, di conseguenza, i dati disponibili fanno riferimento quasi
esclusivamente alle misure relative allo stato di efficienza cardiaca e non alla valutazione del livello
di attività fisica abituale. Questo nasce dalla necessità di una valutazione formale sia della capacità
di esercizio che del rischio correlato all’esercizio nei pazienti con cardiopatia accertata. In questo
contesto, può essere più difficile riconoscere gli effetti della sola attività fisica sul rischio
cardiovascolare. Ciononostante, in una metanalisi che ha incluso prevalentemente uomini di età
media, la maggior parte dei quali con pregresso infarto miocardico ed i restanti con pregresso
BPAC o angioplastica coronarica o affetti da angina stabile, è stata evidenziata una riduzione di
circa il 30% della mortalità CV totale nei pazienti sottoposti ad un programma di allenamento
aerobico della durata di almeno 3 mesi, percentuale che saliva a ~35% se veniva considerata la sola
mortalità per CI. I dati disponibili erano insufficienti per determinare l’impatto dell’attività fisica
56
aerobica sui tassi di rivascolarizzazione; inoltre, l’allenamento aerobico non ha mostrato alcun
effetto sull’incidenza di infarto miocardico non fatale. Oggigiorno, l’uso crescente delle tecniche di
rivascolarizzazione e delle terapie farmacologiche ha portato ad una popolazione di pazienti
coronaropatici relativamente a basso rischio, in cui è meno probabile che si assista ad un
miglioramento significativo della sopravvivenza in ragione degli effetti di ciascun intervento
aggiuntivo. Dati recenti hanno comunque confermato l’esistenza di una relazione dose-risposta
inversa tra efficienza CV (valutata mediante test da sforzo al tappeto rotante ed espressa in METs) e
mortalità per tutte le cause in ampie popolazioni di pazienti coronaropatici di entrambi i sessi [storia
di CI documentata all’angiografia, infarto miocardico, BPAC, angioplastica coronarica (PCI),
scompenso cardiaco cronico, vasculopatia periferica o segni o sintomi suggestivi di CI al test da
sforzo]. Infine, in pazienti a basso rischio l’allenamento aerobico si è dimostrato altrettanto efficace
di una strategia invasiva come la PCI nel migliorare lo stato clinico e la perfusione miocardica, ma
associato ad una minore incidenza di eventi CV.
In una metanalisi che ha valutato gli effetti dell’attività fisica aerobica sulla mortalità CV nei
pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico, è stato evidenziato che, complessivamente, un
allenamento aerobico di intensità moderata-vigorosa determina una riduzione della mortalità nei
pazienti con scompenso cronico da disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e prolunga
significativamente il tempo di riospedalizzazione. Come per un qualsiasi trattamento
farmacologico, anche qui l’aderenza all’allenamento aerobico prescritto si è rivelata un fattore
fondamentale nel determinare gli effetti benefici sulla prognosi.
Valutazione del rischio clinico
Nei pazienti con malattia CV, la prescrizione dell’attività fisica è fortemente condizionata dal
rischio correlato all’esercizio. Gli attuali algoritmi per la stratificazione del rischio aiutano ad
identificare i pazienti ad aumentato rischio di eventi CV correlati all’esercizio che verosimilmente
necessitano di un monitoraggio cardiaco più intensivo, e la sicurezza dei programmi di attività fisica
supervisionata che si attengono alle indicazioni per la stratificazione del rischio associato
all’esercizio è ampiamente riconosciuta. L’occorrenza di eventi CV maggiori durante attività
aerobica supervisionata nell’ambito di un programma riabilitativo è rara, nell’ordine da 1 su 50 000
a 1 su 120 000 ore di esercizio/paziente, con una letalità compresa tra 1 su 340 000 e 1 su 750 000
ore di esercizio/paziente. Lo stesso vale per i pazienti con scompenso cardiaco cronico e ridotta
frazione di eiezione ventricolare sinistra, in classe NYHA II-IV e trattati con terapia ottimale di
back-ground per lo scompenso cardiaco secondo quanto indicato nelle linee guida.
Intensità e quantità dell’attività fisica
A differenza dei soggetti sani, nei pazienti con malattia CV i dati disponibili non consentono di
definire in maniera altrettanto precisa una quantità di allenamento aerobico da svolgere
settimanalmente 4,5 e, pertanto, la prescrizione dell’attività fisica deve necessariamente essere
personalizzata sulla base del profilo clinico di ciascun paziente.
I pazienti con rischio clinico basso, pregresso infarto miocardico acuto, BPAC, PCI o affetti da
angina stabile o scompenso cardiaco cronico possono praticare un’attività aerobica di intensità
moderata-vigorosa con 3-5 sedute alla settimana di 30 min ciascuna, ma in ogni caso la frequenza,
la durata e la supervisione delle sedute di allenamento devono essere adattate alle loro
caratteristiche cliniche.
Nei pazienti con rischio clinico moderato-alto la prescrizione dell’attività fisica deve essere
individualizzata in maniera ancora più rigorosa sulla base del carico metabolico suscettibile di
indurre segni o sintomi anomali. Tuttavia, anche nei pazienti più compromessi, limitate quantità di
attività fisica adeguatamente supervisionata esercitano comunque un effetto positivo, in quanto
consentono di condurre una vita più autonoma e di contrastare la depressione correlata alla malattia.
Sono disponibili dati sulla prescrizione di un allenamento aerobico basata sulle evidenze in
determinate categorie di pazienti coronaropatici.
In conclusione: La pratica di una regolare attività fisica e/o di un allenamento aerobico è associata
ad una riduzione della mortalità cardiovascolare.
57
Tuttavia, esistono ancora delle lacune nelle evidenze scientifiche disponibili e resta da definire se:
- Gli effetti favorevoli sugli esiti possano essere conseguiti mediante attività fisica di minore
durata ed intensità in categorie di pazienti che sono impossibilitati a seguire le raccomandazioni
(anziani, con decondizionamento o scompenso cardiaco avanzato).
- La relazione dose-risposta tra efficienza cardiorespiratoria e riduzione del rischio CV osservata
in prevenzione primaria si applichi anche nel contesto della prevenzione secondaria.
- Una regolare attività fisica produca un miglioramento degli esiti a lungo termine nei pazienti
con scompenso cardiaco cronico.
- Un allenamento ad intervalli ad alta intensità sia superiore ad un allenamento continuo di
intensità moderata nel migliorare la capacità funzionale e nell’indurre il rimodellamento
positivo del ventricolo sinistro nei pazienti con scompenso cardiaco cronico.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
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al. Quinta Task Force congiunta della Società Europea di Cardiologia e di altre Società sulla Prevenzione delle
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Per saperne di più:
Buono P et al. Attività fisica per la salute: cap.9:153-74. Idelshon-Gnocchi Ed. Napoli 2009
58
11. FUMO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
È ormai accertato che l’abitudine al fumo costituisce un fattore predisponente allo sviluppo
dell’aterosclerosi e dei conseguenti fenomeni trombotici, anche se restano da definire chiaramente i
meccanismi esatti mediante i quali il fumo determina un aumento del rischio di malattia
aterosclerotica. Tali meccanismi sono stati documentati in studi osservazionali di coorte, in indagini
sperimentali e in studi di laboratorio nell’uomo e nell’animale, dai quali emerge come il fumo abbia
delle ripercussioni sulla funzione endoteliale, sui processi ossidativi, sulla funzione piastrinica, sulla
fibrinolisi, sull’infiammazione, sulle alterazioni del metabolismo lipidico e sui disturbi vasomotori.
Le specie reattive dell’ossigeno – i radicali liberi – presenti nel fumo aspirato provocano
l’ossidazione delle LDL plasmatiche; le LDL ossidate a loro volta innescano il processo
infiammatorio nell’intima delle arterie attraverso la stimolazione dell’adesione dei monociti alla
parete vasale, con susseguente aggravamento dell’aterosclerosi.
Ricordiamo in tabella 1 le “5 A” per una strategia di cessazione del fumo nella pratica di routine.
Tabella 1
1.
2.
3.
4.
ASK
ADVISE
ASSESS
ASSIST
5. ARRANGE
Identificare in modo sistematico i fumatori in ogni occasione.
Raccomandare con forza a tutti i fumatori di smettere.
Stabilire il livello di dipendenza del fumatore e quanto è pronto a smettere
Concordare una strategia per cessazione (data, counseling comport.e
farmaci
Predisporre un programma di follow-up
Nella figura l riportiamo l’algoritmo modificato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) per la cessazione dell’abitudine al fumo.
Figura 1
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:
1.
Perk J, De Backer G, Gohlke G et al. European Guidelines ESC on cardiovascular disease prevention in
clinical practice (version 2012). Eur Heart J, 2012: 352(11): 1138-45
59
12. DIETA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
I nutrienti di rilevanza per le malattie CV sono rappresentati dagli acidi grassi (che incidono
prevalentemente sui livelli delle lipoproteine), dai minerali (che influenzano prevalentemente la
pressione arteriosa), dalle vitamine e dalle fibre.
Acidi grassi
Nella prevenzione delle malattie CV mediante modifiche dell’alimentazione la quantità di grassi e
la composizione in acidi grassi della dieta sono stati al centro dell’attenzione fin dagli anni ’50.
Ai fini della prevenzione, la composizione in acidi grassi riveste maggiore importanza rispetto alla
quantità totale di grassi. Le nostre conoscenze sugli effetti delle diverse classi di acidi grassi (saturi,
monoinsaturi e polinsaturi) e degli specifici acidi grassi di ciascuna di queste classi (es. omega-3 e
acidi grassi trans) sulle differenti frazioni lipoproteiche plasmatiche sono notevolmente progredite 1.
Acidi grassi saturi
Nel 1965, Keys et al. hanno documentato come la sostituzione nella dieta dei grassi saturi con gli
acidi grassi insaturi si accompagni ad una riduzione della colesterolemia totale. Tenuto conto degli
effetti sui livelli sierici di colesterolo, è plausibile che questo possa influire sullo sviluppo di
malattie CV. Ciononostante, dopo oltre 40 anni di ricerca, l’impatto dell’apporto di acidi grassi
saturi sull’insorgenza di malattie CV resta tutt’oggi motivo di dibattito. In una recente metanalisi di
studi di coorte, un elevato introito di grassi saturi non è risultato associato ad un aumento del rischio
relativo di CI o malattie CV, anche se diversi aspetti metodologici possono rendere ragione di
questo risultato nullo. In una serie di studi, l’effetto degli acidi grassi saturi sugli eventi
cardiovascolari è stato aggiustato per i livelli di colesterolo – un esempio di aggiustamento
inappropriato.
Un altro importante aspetto riguarda il particolare nutriente che sostituisce gli acidi grassi saturi.
Infatti, studi epidemiologici, clinici e fisiologici hanno mostrato in maniera univoca che il rischio di
CI diminuisce del 2-3% quando l’1% dell’introito energetico di acidi grassi saturi viene sostituito
con gli acidi grassi polinsaturi. Analoghe riduzioni non sono state osservate quando l’apporto di
acidi grassi saturi sia stato sostituito con carboidrati o acidi grassi monoinsaturi. Pertanto, ridurre
l’introito di acidi grassi saturi a meno del 10% dell’apporto energetico mediante sostituzione con
acidi grassi polinsaturi rimane un fattore dietetico rilevante per la prevenzione delle malattie CV.
Acidi grassi insaturi
Gli acidi grassi monoinsaturi esercitano effetti positivi sui livelli di colesterolo HDL quando
introdotti nella dieta in sostituzione degli acidi grassi saturi o dei carboidrati.
Gli acidi grassi polinsaturi riducono il colesterolo LDL e, in misura minore, il colesterolo HDL
quando consumati in sostituzione degli acidi grassi saturi. Gli acidi grassi polinsaturi possono
essere genericamente divisi in due gruppi, nello specifico gli acidi grassi omega-6,
prevalentemente di origine vegetale, e gli acidi grassi omega-3, prevalentemente derivati dall’olio
e grasso di pesce. L’acido eicosapentaenoico e l’acido docosaesaenoico, entrambi appartenenti
alla famiglia degli omega-3, giocano un ruolo importante. Per quanto non abbiano effetti sulla
colesterolemia, si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità per CI e, in misura minore, la
mortalità per ictus. In diversi studi, basse dosi di acido eicosapentaenoico e docosaesaenoico sono
risultate associate ad un rischio più basso di CI fatale ma non di CI non fatale, e l’ipotesi di una loro
capacità di prevenire le aritmie cardiache fatali è stata avanzata a spiegazione di tale differente
effetto, anche se ultimamente smentita dallo studio Rischio e Prevenzione del Mario Negri Sud 2.
La categoria di acidi grassi insaturi con una cosiddetta “configurazione trans”, noti come acidi
grassi trans, è risultata determinare un aumento del colesterolo totale ed una diminuzione del
colesterolo HDL. Questi acidi grassi, contenuti nella margarina e nei prodotti da forno, sono stati
solo parzialmente eliminati dai prodotti delle industrie alimentari, ma ancora maggiori sarebbero i
vantaggi derivanti da una loro ulteriore rimozione. Infatti, piccole quantità di grassi trans sono
comunque presenti nella dieta, potendosi trovare nella carne dei ruminanti e nei latticini. La
sostituzione dell’1% dell’apporto energetico di acidi grassi trans con acidi grassi saturi,
monoinsaturi o polinsaturi determina una riduzione del rapporto colesterolo totale/HDL pari a,
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rispettivamente, 0.31, 0.54 e 0.67283. Una metanalisi di studi prospettici di coorte ha evidenziato
che, mediamente, un introito di acidi grassi trans superiore al 2% dell’apporto energetico comporta
un aumento del rischio di CI del 23%. È raccomandato quindi di limitare l’introduzione di acidi
grassi trans a non oltre l’1% dell’apporto energetico totale, tenendo conto che minore è l’introito
maggiori saranno i vantaggi.
Colesterolo nella dieta
L’impatto del colesterolo nella dieta sui livelli sierici di colesterolo è marginale rispetto a quello
della composizione in acidi grassi della dieta. Quando vengono osservate le raccomandazioni delle
linee guida che prevedono una diminuzione dell’introito di grassi saturi, generalmente questo si
accompagna anche ad una riduzione dell’apporto di colesterolo nella dieta. Alcune linee guida per
una sana alimentazione non forniscono quindi delle indicazioni precise sull’introito di colesterolo
nella dieta; in altri casi viene raccomandato di limitare l’apporto a meno di 300 mg/die.
Minerali
Sodio
Gli effetti dell’introito di sodio sulla pressione arteriosa sono ben noti. Sulla base dei risultati di
una metanalisi è stato stimato che anche una minima riduzione del consumo di sodio pari a 1 g/die
(che 1 g corrisponde a circa 2.5 g di sale) si traduce in un calo della PAS di 3.1 mmHg nei pazienti
ipertesi e di 1.6 mmHg nei pazienti normotesi.
Nella maggior parte dei paesi occidentali si rileva un elevato consumo di sale (~9-10 g/die),
laddove l’introito massimo raccomandato è di 5g/die, con quantità ottimali che non dovrebbero
superare i 3 g/die. Gli alimenti trattati rappresentano una delle fonti principali di sodio. Utilizzando
un modello di simulazione, è stato stimato che nella popolazione americana una riduzione del
consumo di sale di 3 g/die comporterebbe una riduzione dell’incidenza di CI del 5.9-9.6% (stime
massime e minime sulla base delle differenti quantità assunte), di ictus del 5.0-7.8% e della
mortalità da tutte le cause del 2.6-4.1%.
Potassio
Il potassio è un altro minerale che influisce sui valori pressori, le cui fonti principali sono
rappresentate da frutta e verdura. Un elevato apporto alimentare di potassio è risultato determinare
una riduzione della pressione arteriosa. Il rischio di ictus è estremamente variabile a seconda delle
quantità di potassio assunte con la dieta: i soggetti che si collocano nel quintile a più alto introito di
potassio (consumo medio di 110 mmol/die) presentano un rischio relativo di ictus del 40% inferiore
rispetto ai quelli che si trovano nel quintile a più basso introito (consumo medio di 61 mmol/die).
Vitamine
Vitamina A ed E
Numerosi studi prospettici osservazionali e caso-controllo hanno documentato un’associazione
inversa tra i livelli di vitamina A ed E e il rischio di MCV, imputando tale effetto protettivo alle loro
proprietà antiossidanti. Tuttavia, studi di intervento volti a definire il relativo rapporto di causalità
non sono riusciti a confermare i risultati degli studi osservazionali.
Vitamine del gruppo B (B6, B12 e acido folico)
Queste vitamine sono state studiate per la loro potenziale capacità di ridurre le concentrazioni di
omocisteina, ritenuta un fattore di rischio per malattie CV (vedi capitolo dedicato). Tuttavia, è
rimasto irrisolto il quesito se l’omocisteina rappresenti semplicemente un marker di rischio o se
esista una reale correlazione causale. In una recente metanalisi condotta su 8 RCT, la Cochrane
Collaboration è giunta alla conclusione che gli interventi mirati a ridurre i livelli di omocisteina non
si accompagnano ad una riduzione del rischio di infarto miocardico fatale e non fatale (RR 1.03, IC
95% 0.94-1.13), di ictus (RR 0.89, IC 95% 0.73-1.08) o di morte per tutte le cause (RR 1.00, IC
95% 0.92-1.09). Successivamente, sono stati conclusi e pubblicati tre ampi studi di prevenzione
secondaria [Study of the Effectiveness of Additional Reductions in Cholesterol and Homocysteine
(SEARCH), VITAmins TO Prevent Stroke (VITATOPS) e Supplementation with Folate, vitamin
B6 and B12 and/or OMega- 3 fatty acids (SU.FOLOM3)], i quali hanno concordemente dimostrato
che la supplementazione con acido folico e vitamina B6 e/o B12 non esercita alcun effetto
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protettivo sullo sviluppo di malattie CV. Ne deriva, quindi, che la supplementazione con vitamine
del gruppo B volta a ridurre i livelli di omocisteina non si associa ad una diminuzione del rischio.
Riguardo alla vitamina D si rimanda all’apposito capitolo.
Fibre
Il consumo di fibre nella dieta risulta associato ad una riduzione del rischio di malattie CV. Anche
se il meccanismo alla base di tale riscontro non sia stato ancora chiaramente definito, è ormai
largamente riconosciuto che un elevato introito di fibre determina una riduzione della risposta
glicemica postprandiale dopo un pasto ad alto contenuto di carboidrati, nonché una riduzione dei
livelli di colesterolo totale ed LDL. Le principali fonti di fibre sono rappresentate dai cereali
integrali, legumi, frutta e verdura. L’American Institute of Medicine raccomanda un introito di 3.4
g/MJ pari ad un consumo di circa 30-35 g al giorno per gli adulti, considerato l’apporto ottimale ai
fini preventivi.
Nella tabella 1 è sono schematizzati i principi di una dieta che dovrebbe aiutare a ridurre il rischi
CV. A ciò va aggiunto che l’apporto calorico deve essere limitato alla quantità di energia necessaria
per mantenere (o conseguire) un peso corporeo ideale, pari ad un BMI massimo <25 kg/m²
nell’uomo e di 24 nella donna, se entrambi di media taglia corporea.
Tabella 1: principi per una dieta preventiva nei confronti del rischio CV
• Acidi grassi saturi: meno del 10% dell’apporto energetico totale, sostituzione con polinsaturi
• Acidi grassi trans-insaturi: il meno possibile, preferibilmente non da alimenti trattati e per meno
dell’1% dell’apporto energetico totale da fonti naturali
• Meno di 5 g di sale al giorno
• 30-45 g di fibre al giorno, da prodotti integrali, frutta e verdura
• 200 g di frutta al giorno (2-3 porzioni)
• 200 g di verdura al giorno (2-3 porzioni)
• Pesce almeno due volte alla settimana, una delle quali costituita da pesce grasso.
• Consumo di bevande alcoliche: da limitare a due bicchieri al giorno (20 g/die di alcool) per gli
uomini e un bicchiere al giorno (10 g/die di alcool) per le donne
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:
1.
2.
Perk J, De Backer G, Gohlke G et al. ESC European Guidelines on cardiovascular disease
prevention in clinical practice (version 2012). Eur Heart J, 2012: 352(11): 1138-45
The Risk and Prevention Study Collaboration Group: n–3 Fatty Acids in Patients with Multiple
Cardiovascular Risk Factors. New Engl J Med 2013; 368: 1800-08.
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