1 Francesco Guida (Roma Tre) La “nazione democratica” I movimenti di indipendenza nell’Europa centro-orientale (Polonia, Ungheria) Nel saggio che segue si tratterà del movimento democratico e nazionale in Ungheria e in Polonia nella prima parte dell’Ottocento, sino alla metà degli anni sessanta, quando si realizzarono avvenimenti decisivi per gli ulteriori sviluppi della lotta nazionale, la sconfitta della rivoluzione polacca nel 1864 e il Compromesso austro-ungherese del 1867. Come è evidente, si tratta di realtà diverse da quelle dei Paesi europei collocati più a occidente. Per coglierne la particolarità, in primo luogo si illustrerà la situazione politica (nell’ambito delle cornici imperiali) delle entità territoriali e statali oggetto dello studio, quindi la condizione delle nazioni magiara e polacca. Nelle sedute del congresso di Vienna non fu necessario discutere della sorte del popolo ungherese o, per essere più precisi, dei popoli che vivevano nella antica cornice del Regno d’Ungheria. Dopo la Rivoluzione francese un movimento giacobino1 aveva fatto la sua apparizione anche in terra d’Ungheria, ma era stato represso e cancellato abbastanza facilmente: in esso le idee “francesi” si erano coniugate con la tradizionale aspirazione della classe dirigente ungherese di sottrarsi alla sovranità degli Absburgo e tornare a essere pienamente padrona in casa propria, come non era più stato dalla battaglia di Mohács del 15262. In epoca napoleonica, nonostante gli eserciti del Córso avessero fatto più volte irruzione nei possedimenti di casa d’Austria, quella classe dirigente si era mantenuta fedele al proprio sovrano (re, per essa, piuttosto che imperatore). Dunque nessun diplomatico immaginò di dover spendere una parola per applicare alle pianure pannoniche i principi di legittimità e restaurazione. Le sorti della nazione magiara continuarono a dipendere dal 1 Storia dell’Ungheria, a cura di P. Hanák, Milano, Franco Angeli, pp. 98-100 La morte del re Luigi Jagellone aprì la strada a Ferdinando d’Absburgo per l’acquisizione della corona di santo Stefano, sebbene la maggior parte dei territori del Regno venissero in potere della casa d’Austria soltanto 173 anni più tardi, con la pace di Karlowitz del 1699. 2 2 “dialogo” con la dinastia regnante ormai da secoli. Se alcuni vasti e importanti territori soggetti agli Absburgo (Austria, Boemia) rientrarono da allora nei confini della Confederazione Germanica (erede in buona misura del Sacro Romano Impero Germanico), una parte più consistente ne restò fuori ed era quasi tutta inclusa nelle frontiere del Regno d’Ungheria, anche (ma non solo) per questo dotato di una sua identità amministrativa e politica, molti decenni prima che fosse siglato il noto Ausgleich del 18673. Questo semplice richiamo di sapore forse scolastico fa comprendere come la nazione ungherese, intesa ancora quale natio medievale, non si trovasse nella condizione di altre, in fase di “costruzione”, prive di un riconoscimento della propria identità, o quanto meno dotate di scarsissimi diritti da parte delle autorità imperiali cui erano sottomesse4. Insomma il ceto nobiliare ungherese sapeva da tempo difendere i propri interessi e le proprie convinzioni presso la Corte di Vienna e presso chi a Pest rappresentava l’Absburgo, cioè il palatino, una sorta di vicerè. Possiamo pertanto anticipare una considerazione su cui si tornerà: la difesa degli interessi “nazionali” (il termine andrà mutando di significato con l’andare degli anni) era in buona misura affidata a un antico ceto, solidamente fondato nel territorio con le sue vaste proprietà, piuttosto che a ceti emergenti, presso i quali era più facile trovassero accesso idee democratiche e radicali. Una vicenda non troppo dissimile si svolgeva nella provincia più orientale dell’Impero austriaco, la Galizia, inclusa per volontà del congresso nei possedimenti absburgici. Qui il ceto nobiliare polacco era in buona misura padrone della ricchezza, dell’amministrazione, della cultura, governando non solo sulle classi inferiori della stessa matrice etnica, ma anche su un altro popolo slavo, i ruteni ovvero ucraini. Non fu sorprendente che per tutto l’Ottocento e all’inizio del Novecento questi ultimi facessero quanto in loro potere per sottrarsi all’egemonia polacca: un seguito di tale contesa etnica si ebbe persino dopo la fine dell’Impero, tra le due guerre mondiali5. 3 J. Breuilly, La formazione dello Stato nazionale tedesco, Bologna, Il Mulino, 2004. Piotr Wandycz (Il prezzo della libertà. Storia dell’Europa centro-orientale dal medioevo a oggi, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 198) crede che solo parzialmente si possa usare il termine Risorgimento per Polonia e Ungheria. 5 M. Waldenberg, Le questioni nazionali nell'Europa centro-orientale: storia e attualità, Milano, Il saggiatore, 1994; R. Tolomeo, Élites nazionali e divisioni etniche nell’Europa centro-orientale agli inizi del XX secolo: la Galizia austriaca, in Conflitti e compromessi nell’Europa di centro fra XVI e XX secolo, a cura di G. Platania, Viterbo, Sette Città, 2001, pp. 287-305 4 3 Con il tempo i ruteni presero a guardare – alcuni – anche oltre frontiera ai fratelli di sangue (ucraini) sudditi dello zar russo. Peraltro anche i polacchi erano sensibili alle sorti dei connazionali soggetti allo zar: in ambedue i casi la dinastia Romanov signoreggiava sulla maggior parte sia degli ucraini sia dei polacchi. Era inevitabile che esistessero contatti tra quelle disiecta membra delle nazioni e che essi riguardassero anche la nascita e lo sviluppo delle idee democratiche e radicali. La nazione polacca dal 1815 era divisa in quattro parti: accanto alla Galizia austriaca e al Regno di Polonia, di notevolissima estensione e in unione personale con l’Impero russo, polacca era essenzialmente il granducato di Posnania incluso nei possedimenti del re di Prussia (ma non nella Confederazione germanica) e così pure il piccolo territorio della città libera di Cracovia. Non fu sorprendente che proprio nel Regno (o Polonia del congresso) si svolgessero i primi eventi di grande rilievo. 1. La rivolta polacca del 1830: limiti del movimento democratico Nel 1830 nel Regno di Polonia, entità statale di grandi dimensioni e dotata di una classe dirigente poco propensa ad accettare l’incorporamento nell’impero russo, sia pure con la formula dell’unione personale, la nazione polacca produsse un sommovimento di vasta portata dopo un lungo lavoro di preparazione che è possibile fare risalire agli anni immediatamente successivi al congresso di Vienna. Vi fu infatti il progressivo costituirsi e svilupparsi di società segrete di carattere patriottico e democratico (Unione universale, Unione dei liberi polacchi, Società patriottica, ecc.). Esse possono collegarsi all’esperienza della Massoneria settecentesca e alle coeve società segrete dell’Europa centrale e occidentale. Sulle relazioni tra queste ultime e quelle vi è spazio ancora per un’indagine storica più approfondita, ma in questa sede è sufficiente affermare che esse non mancarono e che molte idee erano comuni. La questione nazionale, cioè l’aspirazione a riacquistare una piena indipendenza, era essenziale. La nazione polacca aveva una sua forte identità coltivata attraverso i secoli: si ricordi il mito sarmatico di tarda età moderna che faceva della Polonia una terra felice, per qualche verso a ragione (ad esempio per la tradizionale tolleranza 4 religiosa). È nota la debolezza intrinseca del sistema politico polacco soprattutto alla vigilia dell’età contemporanea, ma si sa pure come nel secondo Settecento furono numerosi e ripetuti i progetti di riforma volti proprio a rimuovere le cause di quella debolezza. Il principale coincise con l’approvazione della Costituzione del 3 maggio 1791, cui seguì però il pesante intervento diplomatico e poi militare della Russia, secondata dalla Prussia e, con tempi diversi, dall’Austria, intervento che, nel giro di quattro anni e attraverso due successive spartizioni, portò alla finis Poloniae. Quello sfortunato tentativo e le ulteriori esperienze politiche di epoca napoleonica avevano fatto sedimentare sentimenti e convinzioni che, dopo il 1815, inevitabilmente riaffiorarono e confluirono nell’ideologia e nell’attività delle società segrete delle quali si è detto. La formazione di un movimento patriottico e democratico non fu pertanto fenomeno marcatamente elitario, ma riguardò buona parte dei ceti alti e medi della Polonia6. La classe dirigente polacca, peraltro, era sopravvissuta alle disgrazie politiche per ciò che concerne il proprio potere economico e sociale. Lo zar e i suoi consiglieri non ebbero dubbi che dovessero servirsi di essa per governare la Polonia. Un uomo come Adam Czartoryski7, divenuto in seguito il faro dell’emigrazione politica, non solo proveniva da una delle famiglie più potenti e ricche del Regno, ma aveva collaborato con lo zar Alessandro I nei primi anni dell’Ottocento, quando sembrò che l’autocrate russo intendesse introdurre riforme significative nell’impero. Di più, durante il congresso di Vienna aveva avuto il compito di formulare proposte a riguardo delle sorti della propria patria, proposte che invero non furono accettate se non in minima parte. Alessandro I aveva dimostrato ulteriormente la sua benevolenza verso la nazione polacca, concedendo nel novembre 1815 una Costituzione non certo ultra-liberale, che tuttavia era una carta dei diritti del popolo polacco. Tali concessioni non erano sufficienti per soddisfare le aspirazioni all’indipendenza e l’accendersi di alcuni focolai di rivolta, che contestavano in varie parti del Continente l’ordine fissato a Vienna, favorì lo sviluppo delle speranze e dell’attività cospirativa in Polonia. Dalla 6 A.Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Milano, Vallardi, 1971; H.Bogdan, Storia dei paesi dell’Est, Torino, Società editrice internazionale, 2002; Storia della Polonia, a cura di A. Gieysztor, Milano, Bompiani, 1983. 7 M. Handelsman, Adam Czartoryski, I-III, Warszawa, 1948-1950. 5 Spagna alla penisola italica si chiedeva una Costituzione non puramente octroyée e la piccola Grecia riusciva a ottenere l’indipendenza, sia pure in termini territoriali molto ridotti, dopo una lotta quasi decennale. Perché una grande nazione come quella polacca non poteva fare lo stesso? In definitiva gli affiliati alle società segrete inclinarono decisamente verso la ricerca dell’indipendenza. Non mancarono relazioni con i decabristi russi. E’ noto che questi ultimi costituivano una galassia di società segrete in parte simili a quelle occidentali e a quelle polacche, con una notevole varietà di programmi politici. In tali programmi, talora, trovava posto pure la questione polacca per la quale si proponeva anche la soluzione più radicale, l’indipendenza e la separazione dall’impero zarista. Tali relazioni tra cospiratori polacchi e russi non restarono senza effetto, anzi furono un fomite per le aspirazioni più avanzate dei primi. I pronunciamenti di carattere militare dei decabristi nel dicembre 1825 furono però troppo repentini, mal organizzati e assolutamente non concordati tra le società del Nord e del Sud e, tanto meno, con i circoli patriottici polacchi. Pertanto questi non furono coinvolti nel fallito tentativo dei decabristi di imporre un cambiamento significativo al regime politico zarista, in senso costituzionalista, se non anche più radicale (come auspicava Pestel’). Il 1825 non fu dunque l’occasione di cui vi era bisogno per tramutare i progetti dei polacchi in azione. Quando nel 1830 la rivoluzione scosse nuovamente Francia e Belgio, il momento per muoversi sembrò essere giunto. Peraltro l’Europa attendeva di sapere quale sarebbe stata la reazione dello zar, ora Nicola I, di fronte a quegli eventi. In Polonia negli ambienti militari, soprattutto tra i cadetti dell’Accademia, si temette che l’autocrate russo avrebbe nuovamente fatto marciare gli eserciti verso occidente e che nuovamente i soldati russi sarebbero andati a occupare Parigi: se così fosse stato anche i soldati e ufficiali polacchi avrebbero dovuto fare la propria parte. Quel timore, forse non infondato, servì a convincere gli ultimi indecisi; i tempi di Kościuszko sembravano tornati e la rivoluzione ebbe inizio. Non è il caso di narrarne tutte le fasi, ma qualche aspetto va ricordato. In primo luogo il fatto che la rivoluzione assunse presto le caratteristiche di una vera guerra, sebbene con forze impari in campo. Il governo provvisorio in realtà fu padrone dello Stato in misura 6 quasi totale e l’esercito zarista faticò non poco a piegare la resistenza polacca. Va osservato poi che da parte polacca ci si batteva per ripristinare l’indipendenza di una grande Polonia, in nome dei diritti storici piuttosto che facendo riferimento a motivi etnici. Era una nazione storica che scendeva in campo e si batteva: appartenere ad essa era affinità di idee e sentimenti, e non affinità di sangue. Tale ideale trovò una certa sordità presso le popolazioni ucraine e bielorusse che pure per secoli avevano vissuto nell’ambito del granducato di Lituania e poi della Reczpospolita polacca. Solo in parte i rivoluzionari seppero coinvolgere nella lotta i contadini di qualsiasi estrazione etnica fossero.8 L’identità religiosa cattolica aiutava a schierarsi da una parte della barricata, ma non si trattò di una guerra religiosa. Infine la superiore forza militare russa ebbe il sopravvento, mentre dall’Occidente non venne l’aiuto sperato: Parigi o altri governi non potevano lanciarsi in una difficilissima avventura; i due Stati tedeschi simpatizzarono per il generale Paskevič che riportò l’ordine a Varsavia. Inevitabilmente l’insurrezione peggiorò la condizione giuridico-politica del Regno: lo zar Nicola I, già pieno di timori nei confronti di qualsiasi innovazione e impegnato a mantenere l’ordine internazionale stabilito nel 1815, tanto da meritare per sé e il suo impero l’appellativo di gendarme d’Europa, cominciò a trattare l’avamposto occidentale dei suoi possedimenti con minor cautela rispetto agli anni venti. In sostanza le terre polacche andarono perdendo il trattamento e il regime speciale di cui avevano goduto, sebbene il governo russo non mettesse in atto un tentativo di russificazione, come avverrà negli ultimi decenni del secolo, con lo zar Alessandro III. Sicché nel Regno di Polonia non vi furono più governo, parlamento, esercito, università. Peraltro proprio con Nicola I fu concepita e diffusa l’idea della nazione russa o, meglio, imperiale come precisa Natalija Mazour9 e in questo nuovo clima ideologico (il ministro dell’Educazione nazionale Uvarov formulò 8 Si è parlato di “lotta per l’anima del contadino”: infatti non soltanto i sostenitori della lotta nazionale, soprattutto la corrente più radicale, volevano associare i contadini alla loro lotta e farne una componente essenziale della nazione, ma anche i governi conservatori (zarista, absburgico o prussiano) fecero di tutto per mantenere la lealtà delle masse verso il potere costituito, talora non senza successo. Cfr. P. S. Wandycz, Il prezzo della libertà, cit., p. 202. 9 N.Mazour, I paradossi dell’essere imperiale: qualche episodio di storia della costruzione nazionale nell’impero russo, in Nazioni, nazionalità, Stati nazionali nell’Ottocento europeo, Atti del LXI Congresso di Storia del Risorgimento, a cura di U.Levra, Roma, Carocci, 2004, pp. 303-322. 7 lo slogan dell’ideologia di regime con la triade “autocrazia, ortodossia, nazionalità” ovvero samoderžavie, pravoslavie, narodnost’) il programma nazionale polacco diveniva più di prima incompatibile, anzi suonava antitetico agli intenti della Corte di San Pietroburgo. 2. La grande emigrazione polacca. Il movimento democratico polacco in esilio La questione polacca ebbe sicuramente una rilevanza internazionale, nonostante l’immobilismo diplomatico e soprattutto militare delle Potenze occidentali di cui si è detto, poiché all’indomani della repressione essa non cadde nell’oblio. La cosiddetta grande emigrazione, che effettivamente interessò alcune migliaia di esuli, favorì e operò decisamente perché il programma nazionale polacco fosse noto all’opinione pubblica europea. La parte moderata di quella emigrazione costituì una sorta di governo in esilio a Parigi presso l’hotel Lambert e per alcuni decenni fece capo a Czartoryski. Si vide così all’opera una vera diplomazia che si interessava delle più varie questioni sempre con la speranza di poter da quelle rimontare alla questione polacca. Bastino due esempi. La voce dei polacchi si fece sentire e trovò ascoltò presso il governo del Principato di Serbia a metà degli anni quaranta. Quel piccolo Stato, ancora posto sotto la sovranità del sultano, pur godendo di una discreta autonomia, dimostrava una certa vitalità e, in certi suoi uomini politici, il desiderio di conquistare l’indipendenza, allargare i propri confini e fungere da centro di riferimento per gli altri popoli slavi del Sud-est europeo. Si dirà in seguito che la Serbia doveva essere “il Piemonte dei Balcani”. Ecco dunque che il leader serbo Garašanin fa suoi i Conseils sur la conduite à suivre par la Serbie, concepiti da Czartoryski ed esposti da un suo inviato, il ceco Zach. In sostanza il Principato avrebbe dovuto diffidare dell’interessamento delle Potenze conservatrici Austria e Russia, l’una limitrofa, l’altra affine per sentimento slavo; doveva invece volgere il suo sguardo e appoggiarsi alle Potenze liberali, Francia e Inghilterra per raggiungere i propri obiettivi nazionali. Era il 1844 e Garašanin stendeva quel Programma o Načertanije che in epoche successive – anche recenti - fu considerato il primo segnale del nazionalismo panserbo. Appena quattro anni dopo l’Europa fu attraversata dalla tempesta politica 8 del biennio rivoluzionario 1848-49; la piccola Serbia attirò di nuovo l’interesse internazionale e in particolare degli attivisti politici polacchi. Oltre confine, in terra della Corona di santo Stefano (nell’attuale Vojvodina) viveva la cospicua comunità dei serbi d’Ungheria che nella dura lotta in corso tra i rivoluzionari magiari e l’imperatore d’Austria si erano schierati di fatto con quest’ultimo, considerando le aspirazioni di Kossuth e dei suoi compagni pericolose per la propria tradizionale autonomia. Naturalmente i serbi del Principato simpatizzavano con tale scelta e anzi non mancò un invio di volontari. L’azione della “diplomazia” irregolare polacca (come peraltro quella della diplomazia ufficiale piemontese) fu volta inutilmente ad agire su Belgrado perché convincesse i serbi d’Ungheria a conciliarsi con i magiari e a scendere in campo con le altre nazionalità contro l’autorità imperiale. Fu tutto vano. Senza pretendere di illustrare tutte le iniziative di quella diplomazia irregolare va ancora ricordata l’attenzione che essa prestò al nascente Stato nazionale romeno, sia prima sia dopo la cosiddetta Piccola Unione (Mica Unire) dei Principati di Valacchia e Moldavia. Il più fido inviato di Czartoryski, Michał Czajkowski, ebbe rapporti10 con Ion Ghica al tempo del tentativo rivoluzionario del 1848 in Valacchia; durante gli anni di regno del principe Alexandru Ioan Cuza (1859-1866) i rapporti romeno-polacchi continuarono a essere vivaci, anche se nel luglio 1863 le truppe romene impedirono, a costo di alcuni mori e feriti, il transito di un contingente armato polacco guidato da Zygmunt Milkowski (nome di battaglia del letterato Teodor Tomasz Jez), che dal Danubio voleva raggiungere i territori polacchi in rivolta (incidente di Costangalia).11 L’azione dei polacchi presso il governo di Belgrado – dagli esiti nulli più che minimi – merita una breve riflessione. E’ evidente che su qualsiasi altra considerazione in essa faceva premio l’esigenza di battere il potere imperiale, il conseguimento della libertà delle nazioni a quello soggette, anche prescindendo dagli interessi contrapposti di esse. Tuttavia non si può dimenticare 10 Eva Ogiermann-Lothar Maier, Michal Czajkowski und Ion Ghica. Zum polnisch-rumänischen Verhältnis in Vormaärz und in der Revolution von 1848, in Romanian and Polish peoples in east-central Europe (17th – 20th centuries), ed. V. Ciobanu, Iaşi, Junimea, 2003, pp. 57-76. 11 Dumitru Ivănescu, Romanian-Polish relationships during Al. I. Cuza’s reign, 1859-1866, ivi, pp. 77-96; Paul E. Michelson, Alexandru Ioan Cuza and the Polish question: the Costangalia incident of 1863, ivi, pp. 97-110. 9 che gli esuli polacchi come pure il governo rivoluzionario ungherese erano portatori di convinzioni per i tempi sufficientemente avanzate, democratiche in termini più o meno moderati e talora anche radicali. Nel congresso slavo di Praga del 1848 (che è una sorta di risposta al vivace movimento nazionale tedesco: basti dire che il boemo František Palacký rifiutò di recarsi al parlamento di Francoforte rivendicando la propria slavità) le voci più radicali furono del polacco Libelt e del russo – ma iscritto come polacco – Bakunin. Anche quel congresso non portò nell’immediato a nulla di concreto poiché sciolto d’autorità dal generale Windischgraetz, però fu un evidente segnale che non tutta la tempesta quarantottesca – anche nell’Europa centrale – poteva essere ridotta alla lotta per l’indipendenza dal dominio absburgico. Anche in quelle regioni, e in particolare tra i polacchi come tra gli ungheresi, si registrava un arco di convinzioni politiche vario e articolato. Lo stesso Czartoryski, considerato il capo dell’emigrazione conservatrice, per certi versi fu portatore di un pensiero piuttosto avanzato. Sostenne infatti a più riprese che le relazioni internazionali dovessero trovare una composizione del tutto nuova. Egli muoveva da un’intuizione “universalista” della storia e delle società; tale intuizione non gli impediva di ritenere la nazione l’unità naturale della società e la nazionalità il fondamento della legittimità dello Stato. Seppe, almeno nelle sue elaborazioni intellettuali, trovare un punto di equilibrio tra le due idee: universalità e nazione. In primo luogo, anche prima di andare in esilio, quando era ancora al servizio di Alessandro I, aveva creduto che le relazioni europee potessero ispirarsi ad alcune regole comuni e da tutti gli Stati riconosciute valide, sotto l’egida di Russia e Inghilterra12, in modo da impedire che una Potenza potesse imporre la propria volontà alle altre. Immaginava un accordo generale, un foro superiore e soprannazionale, se non persino un’Europa unita; inoltre il riconoscimento delle singole identità nazionali, sebbene riunite in Federazioni regionali (germanica, iberica, italica, balcanica, slavo orientale). Nel suo Essai sur la diplomatie, scritto durante l’esilio, ribadì in parte gli stessi concetti alla luce dei recenti eventi sia polacchi sia internazionali, ma insistette sul problema del 12 Erano le due Potenze che Ludwig Dehio (Equilibrio o egemonia? Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, Bologna, Il Mulino, 1995) a metà Novecento definì “insulari” o “laterali”, destinate per propria natura a impedire il sopravvento dell’egemonia di una Potenza continentale, come la Francia napoleonica o la Germania hitleriana. 10 mantenimento della pace, non ignoto al dibattito intellettuale da Kant in giù. La politica non doveva trovare i mezzi per rendere “immobili” le nazioni, ma per contemperare le loro esigenze e i loro interessi, applicando i principi dell’armonia e del progresso. A tale scopo si esprimeva a favore di un congresso permanente di arbitrato e della “diplomazia aperta”.13 Benché meno noto, si può ricordare che proprio durante la rivoluzione del 1831 un altro polacco, Wojciech Jastrzebowski preparò una progetto di Stati Uniti d’Europa.14 Anche la corrente democratica dell’emigrazione polacca (articolata in molte organizzazioni tra le quali va citata almeno la Società democratica polacca) fu molto attiva e fu seguita dalle polizie degli Stati ospitanti con preoccupazione perché i suoi componenti erano considerati capaci di azioni militari le più audaci. Non fu un caso che Mazzini prendesse in considerazione appunto gli esuli polacchi (in Francia ve ne erano quasi 5.000 contro meno di 1.000 esuli italiani) per organizzare una riedizione della fallita spedizione in Savoia agli inizi degli anni trenta. Questi polacchi (ma anche molti italiani) vivevano in depôts costituiti all’uopo ed erano organizzati in modo che si può definire militare. In questa corrente democratica si era fatto largo il verbo repubblicano, ma soprattutto era radicata la convinzione che in un nuovo tentativo insurrezionale contro la dominazione straniera bisognava coinvolgere le masse contadine. Non era possibile la rivoluzione nazionale se non fosse stata rappresentativa degli interessi e delle aspirazioni di tutto il popolo. Era, certo, una visione romantica, ma è anche vero che in Polonia, il Paese in cui per la prima volta si era teorizzata la guerra di popolo, questa non si fosse realizzata quando era pure evidente che il nemico era con tutta evidenza lo straniero. Forse la patria ai contadini era sembrata essere ancora quella dei signori feudali, dei magnati, dei pan. Dal Medio evo in terra polacca si era ampiamente propagandata la aurea libertas, riservata però a una classe aristocratica dominante e lo Stato polacco, con il suo debole re elettivo, era definito Reczpospolita o Respublica, però appunto dei signori e non del popolo. Ora, a rivoluzione fallita, i democratici polacchi intendevano creare la 13 P.S.Wandycz, The Polish Precursors of the Federalism, in “Journal of Central European Affairs”, XII, 1953, 4, pp. 346-355. 14 Ivi, p. 353. Altri polacchi si collocarono con scritti e proposte sulla scia del pensiero pacifista e federalista. 11 solidarietà tra classi che unica poteva preludere al successo. Su tale convinzione sono stati espressi seri dubbi15 e, come sempre nelle discipline storiche, non è possibile applicare il metodo sperimentale galileiano per verificare la giustezza della teoria. Molti decenni più tardi, nel 1918, la Polonia indipendente nacque da una irripetibile congiuntura di eventi internazionali e militari.16 Una pagina molto particolare nel quadro delle correnti politiche e di pensiero polacche è rappresentato dal towiańismo. Era un movimento che i suoi sostenitori volevano distinguere dalla destra come dalla sinistra: fortemente permeato di misticismo ecumenico (attrasse uomini di diversa fede) non accettava il conservatorismo della Chiesa cattolica, ma non credeva in certo anticlericalismo democratico, benché inclinasse verso il movimento democratico nazionale. I towianństi polacchi e italiani (dacché in terra italica i seguaci furono più d’uno a partire dal mazziniano Scovazzi) giunsero a cogliere in certi gesti di Cavour un’inconscia disponibilità a compiere una missione religiosa né si trattennero dal cercare di coinvolgere il poco mistico Garibaldi nei propri piani. Qui, però, è più interessante ricordare che Andrea Towiański17 e i suoi adepti negli anni quaranta furono tra i più vivaci nel diffondere le notizie sulla questione polacca, a rendere popolare l’immagine della Polonia martire, “terra di schiavitù e di lacrime”. In tale opera proseguirono ben oltre il Quarantotto, sino alle nuove lotte degli anni sessanta. Il loro compito non fu molto diverso da quello di alcuni grandi scrittori romantici, in primo luogo Adam Mickiewicz il quale con le sue lezioni al Collège de France servì eccezionalmente la causa nazionale né esitò poi a organizzare una Legione polacca18 per sostenere la lotta contro l’Austria nella penisola italica, in particolare incontrando Pio IX nel marzo 1848: fu in quei giorni che Mickiewicz pubblicò il Simbolo politico polacco, ispirato a idee di fratellanza cristiana, di amor patrio e democrazia. Quella minuscola formazione politica andò crescendo nei mesi successivi affiancandosi all’esercito 15 S.Kieniewicz, The Emacipation of Polish Peasantry, Chicago, 1969. E’ quella che alcuni definiscono la “scommessa” di Piłsudski il quale aveva affermato all’inizio del conflitto di sperare che la Russia fosse sconfitta da Germania e Austria-Ungheria e che, successivamente, i due imperi centrali fossero costretti alla resa dalle Potenze occidentali: sostanzialmente è quanto avvenne nel 1918, dando modo ai patrioti polacchi di realizzare il loro sogno di ricostituire un vasto Stato nazionale. 17 M. Bersano-Begey, Italia e Polonia nel Risorgimento: spigolature towianiste, in Italia, Venezia e Polonia tra illuminismo e romanticismo, a cura di V.Branca, Firenze, Olschki, 1973, pp. 307-322. 18 S. Kieniewicz, Legion Mickiewicza. 1848-1849, Warszawa, 1955. 16 12 piemontese, mettendosi a disposizione del governo provvisorio toscano e infine combattendo a Roma nei giorni della Repubblica. I rapporti tra le battaglie risorgimentali di polacchi e italiani sono peraltro piuttosto noti19. Basti pensare alla fondazione nel 1834 della Młoda Polska, esemplata sulla Giovine Italia ed inquadrata nella Giovine Europa. La lezione di Mazzini influenzò notevolmente i patrioti polacchi e, in verità, si trattò di influenza reciproca. Gli uomini d’arme come Mieroslawski20 o Chrzanowski21 offrirono i loro servigi con esiti più o meno fortunati. Il primo però rappresentò anche una linea politica tanto in Sicilia quanto in Germania e infine nella stessa Polonia, nuovamente insorta nel 1863. Egli era il più noto rappresentante dell’ala “azionista” dell’emigrazione politica, sebbene potesse collaborare anche con interlocutori e governi non collocati su posizioni accentuatamente radicali. Infatti si deve ricordare che guidò la Scuola militare polacca di Genova posta sotto l’egida del governo italiano: non per caso di fronte all’esigenza di ottenere il riconoscimento formale del Regno d’Italia da parte del governo russo, il Gabinetto Rattazzi prima spostò a Cuneo, poi non esitò a chiudere quella Scuola la cui esistenza lo zar e la sua Corte non potevano tollerare. Dunque Mieroslawski non fu solo un comandante militare, ma un personaggio di un certo spessore politico, il rappresentante per eccellenza della “nazione democratica” o, se si vuole, della “democrazia nazionale”.22 3. Dalla Posnania alla Sicilia: i polacchi nel 1846-48 Il movimento nazionale polacco – come è noto - partecipò al Quarantotto in modo indiretto, cioè senza che in terra polacca vi fosse una rivoluzione quale conobbero, in Europa centrale, Boemia e Ungheria. Si è già vista l’azione diplomatica esercitata presso il governo principesco di 19 Jo.Ugniewska, Mazzini e la Polonia, in Il mazzinianesimo nel mondo, I, a cura di G. Limiti, Pisa, Domus Mazziniana, 1995, pp. 211-240; G.Tomassucci, Mazzini e la Polonia, “sorella combattente”, in Il mazzinianesimo nel mondo, II, a cura di G. Limiti, Pisa, Domus Mazziniana, 1996, pp. 367-462. 20 M. Żychowski, Ludwik Mieroslawski 1814-1878, Warszawa, 1963; Kzr. Żaboklicki, Il generale Ludwik Mieroslawski, difensore di Catania nel 1849, in “Archivio storico per la Sicilia orientale”, XCIII, 1997, 1-3, pp. 57-78. 21 Fu autore anche di un pamphlet sulla guerra partigiana, O wojnie partyzanckiej (Paris, 1835) 22 Questo nome sarà usato decenni più tardi da un partito tra i più importanti nel quadro politico della Polonia negli ultimi anni del dominio zarista e nei primi dello Stato indipendente: il partito di Roman Dmowski. 13 Belgrado, ma è ben più conosciuta la presenza di polacchi accanto agli ungheresi nelle battaglie contro austriaci e russi: emblematico è il caso del generale Bem che ebbe responsabilità di massimo livello e che entrò nella leggenda nazionale.23 In Posnania a metà degli anni quaranta i fermenti rivoluzionari erano giunti già maturazione, in parte per influenza di quanto a accadeva nella Confederazione germanica. Progressivamente una corrente conservatrice che faceva capo a proprietari terrieri, come Marcinkowski e Chlapowski, e alla “Rivista di Poznań” (Przegląd Poznański), fu soppiantata dai progressisti come Libelt e Moraczewski, anche essi dotati di una rivista, l’ “Annuario culturale, industriale e degli avvenimenti mondiali” (Rok pod względem oswiaty, przemyslu i wypadków swiątowych), incalzati a loro volta dall’Associazione dei plebei di Stefański. I radicali si intesero con l’ala democratica dell’emigrazione e in particolare con Ludwik Mieroslawski: il progetto prevedeva una insurrezione in tutta la regione, contando sull’appoggio almeno politico del movimento liberale tedesco e su paralleli moti di ungheresi e boemi nell’Impero absburgico. Diffusa era al convinzione che la guerra di popolo avrebbe avuto successo. In sostanza il tentativo insurrezionale (a partire dalla conquista della piazzaforte di Poznań) fu spento sul nascere con opportuni arresti. Furono irrogate alcune condanne a morte, non eseguite; i cospiratori poterono anzi tornare in libertà già nel 1848 nel nuovo clima rivoluzionario che riguardò anche le terre tedesche e la Prussia. Il caso di Cracovia merita una particolare attenzione: qui il movimento nazionale e democratico il 22 febbraio 1846 assunse il governo della città per breve tempo e in modo effimero, proclamando la Repubblica e innalzando la bandiera della democrazia liberale in un momento in cui persino il Papa sembrava farlo nello Stato pontificio. Si parlò di una Comune di Cracovia e il movimento democratico europeo guardò a quella esperienza con interesse ed attesa. Gli esuli polacchi amici e collaboratori di Mazzini ne fornirono al Genovese, allora in Inghilterra, 23 E. Kozlowski, General Józef Bem, Warszawa, 1958. Nella rivoluzione ungherese antisovietica del 1956, uno dei primi episodi fu costituito dalla manifestazione per rendere omaggio al busto di Bem, manifestazione che conservava tutto il suo significato di solidarietà tra nazioni contro la tirannia straniera. 14 un’immagine positiva24. Eppure le contraddizioni vennero presto al pettine: vi erano evidenti limiti di democraticità a Cracovia: le masse contadine (come in tanta parte d’Europa) non nutrivano interesse per le idee progressiste (neanche per il suffragio universale), anzi le osteggiavano. Esse avevano motivo di considerare con antipatia coloro che quelle idee sostenevano: si trattava talora dei padroni delle terre in cui lavoravano. Eppure il leader Erward Dembowski aveva lanciato riforme sociali avanzate (abolizione delle corvées e della servitù della gleba) che avevano convinto parte del contadiname. In realtà quelle masse popolari erano facilmente strumentalizzabili dalle autorità austriache che non tardarono a sobillarle contro i comunardi. Dembowski cadde colpito durante una processione organizzata per cercare di guadagnare le simpatie dei popolani, truppe absburgiche e irregolari raccolti tra i contadini batterono le poche milizie repubblicane e, infine, il 3 marzo 1846 le truppe zariste occuparono la città. Era la fine di quel particolare esperimento politico che, non va dimenticato, cercava anche di rimettere in discussione - come esempio - le sorti dell’intera nazione polacca. Cracovia dal novembre seguente entrò a fare parte dei possedimenti austriaci, nonostante il disaccordo di Berlino, Parigi e Londra. Nella Galizia, contigua a Cracovia, vi furono agitazioni più di carattere sociale che nazionale. Il ceto magnatizio polacco, capeggiato da Agenor Gołuchowski – destinato a una importante carriera politica - reagì con prudenza, non opponendosi alla riforma agraria del conte Stadion. L’agitazione politica nella Galizia non fu molto vivace, sebbene non assente; comunque non fu comparabile con quanto accadeva nelle altre province dell’impero absburgico e il fenomeno, un poco sorprendente, non trova facile spiegazione. E’ probabile che la classe dirigente locale – già dotata di non trascurabile potere – non condividesse le convinzioni più radicali e aspirasse semplicemente a vedere rafforzata la propria posizione in quel land. Si stava impostando una linea che dopo gli anni sessanta diverrà ancora più chiara: la causa polacca poteva essere servita con l’aiuto di Vienna non contro gli Absburgo. Inoltre le autorità imperiali, come si è detto, seppero 24 Salvo Mastellone (Giuseppe Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, traduzione e cura di S.Mastellone, Milano, Feltrinelli, 2005², pp. 25-27) mette in luce anche un certo dissenso di Mazzini a riguardo dell’egualitarismo “agrario” presente nel Manifesto di Cracovia che circolò immediatamente in Occidente. 15 andare incontro alle richieste del mondo contadino, impedendo che si creasse una solidarietà tra i vari ceti, e giocarono ancora una volta i ruteni (ucraini) contro i polacchi. Quando, tra questi, alcuni elementi radicali cercarono di attuare un colpo di mano a Cracovia, esse fecero immediatamente ricorso alle armi. Tutto ciò evidenziava una seconda contraddizione del modello positivo che i patrioti polacchi proponevano anche all’estero, una contraddizione particolarmente importante per la riflessione di uomini come Mazzini: i contadini galiziani spesso si distinguevano dal ceto nobiliare proprietario anche per estrazione etnica e affiliazione religiosa, essendo molti fra di loro ucraini (ruteni) e cattolici di rito orientale (uniati) o persino cristiani ortodossi, non polacchi e cattolici di rito latino. In piccolo la situazione riproduceva una situazione che riguardava gran parte dei territori dell’antica Rzeczpospolita polacca, scomparsa con le spartizioni settecentesche. In margine agli eventi galiziani si può introdurre un’altra considerazione che vale per l’intero movimento nazionale polacco. Almeno fino alla metà del secolo, o fino alla rivoluzione del 1863, esso si concepiva come riferito a tutti i territori dell’antica Rzeczpospolita. Importanti intellettuali (Kollątaj) affermarono apertamente che le distinzioni etniche sempre esistite all’interno della grande Unione polacco-lituana dovevano sparire, tutti dovendo sentirsi membri di un’unica nazione polacca. L’esperienza non positiva nella lotta antirussa indusse progressivamente a formulare ipotesi federali per il futuro Stato indipendente, un’idea che giunse sino al “padre della Polonia restituta”, Jozéf Piłsudski. Nel 1848 una certa agitazione politica si registrò di nuovo nella Posnania, cioè nella provincia polacca soggetta al re di Prussia: fu costituito un Comitato nazionale polacco e una milizia polacca. Quella terra non faceva parte della Confederazione germanica, ma non poteva non subire l’influenza del terremoto politico che in quella avveniva. Al parlamento di Francoforte ci fu un lungo e acceso dibattito sul futuro della Polonia; i liberali si pronunciarono per la ricostituzione di uno Stato polacco, ma al tempo stesso per l’inclusione nella Confederazione germanica di territori prussiani in parte popolati da polacchi e acquisiti dopo le spartizioni. Lo stesso Federico 16 Guglielmo IV si mostrò disponibile verso le richieste dei suoi sudditi polacchi, ma già nel maggio 1848 le truppe prussiane costrinsero alla resa le milizie polacche. In Posnania e nelle altre terre a popolazione mista si tennero le elezioni per inviare deputati (solo uno era polacco, Jan Janiszewski) a Francoforte, sebbene i polacchi e molti liberali ne contestassero la legittimità. Nel dibattito intorno alla questione polacca in corso nel parlamento confederale alla fine prevalse, in giugno, la tesi che buona parte della Posnania (Poznań inclusa) dovesse entrare a fare parte dell’erigendo Stato federale tedesco25. Intanto Mieroslawski ebbe un nuovo momento di notorietà proprio in un medio Stato germanico, il Baden, in cui gli fu affidato il comando dell’esercito da un governo provvisorio collocato su posizioni molto avanzate26. La parabola dei moti in Germania, si sa, inclinò infine verso il ripristino dello status quo ante. Federico Guglielmo IV non accettò la corona offertagli dal parlamento di Francoforte e pose fine all’esperienza costituzionale e ultraliberale, sullo sfondo della questione nazionale27. In Posnania le cose non poterono andare diversamente che nel resto dei possedimenti prussiani e dunque anche in quelle contrade popolate da polacchi si dovettero rinfoderare le speranze di vedere riconosciuti nuovi diritti o, persino, quello all’autodeterminazione. Il biennio rivoluzionario si chiuse senza esiti positivi per i patrioti polacchi. Le correnti politiche continuarono a vivere nell’emigrazione che tuttavia riusciva a mantenere relazioni con le varie parti della madrepatria. 4. La rivoluzione del 1863: rossi e bianchi. L’inizio del “lavoro organico” Nel 1859 Mieroslawski lanciò un proclama ricordando l’insurrezione di 29 anni prima concluso con l’espressione narodzie przebudzsię, cioè “popolo svegliati”. Non erano pure parole, in più Paesi (Francia, Germania, Belgio) si cercava di mantenere viva un’opera di preparazione anche militare degli emigrati, in vista di future battaglie: Su questa strada uno dei più significativi risultati si ottenne, complice Cavour, con la creazione della ricordata Scuola militare polacca a Genova. 25 H. Lutz, Tra Absurgo e Prussia. La Germania dal 1815 al 1866, Bologna, Il Mulino, pp. 359-361. Ivi, p. 388; A.Owsińska, Powstanie palatynacko-badeńskie 1849 roku oraz uzdiał w nim Polaków, Wroclaw, 1865. 27 H. Lutz, op.cit., p. 384 sgg.; J.Breuilly, op.cit. 26 17 Molto si è scritto al riguardo28 e qui si è già fatto cenno a come la questione interferisse con le relazioni diplomatiche tra la Russia e il neo-costituito Regno d’Italia. Si stava avvicinando un nuovo show down. Da una parte l’insieme della nazione polacca sembrava prepararsi nel miglior modo possibile. Infatti le masse contadine erano almeno in parte conquistate all’idea nazionale; per dire meglio, le aspirazioni e insofferenze di carattere sociale avevano preso talora una coloritura nazionale. In ciò pesava molto l’opera del clero cattolico, molto ascoltato dal popolo. Era un clero che aveva decisamente optato per la battaglia nazionale: non per caso da parte russa si guardava ad esso con doppio sospetto, in quanto cattolico (quindi avverso all’Ortodossia) e in quanto sostenitore della causa nazionale. Se Nicola I si era spinto a rendere visita al papa Gregorio XVI29, Alessandro II (lo zar riformatore) attuò una politica decisamente anticattolica e contro gli esponenti della Santa Sede in seguito agli eventi dei primi anni sessanta. La persecuzione verso vescovi e sacerdoti fu estremamente pesante. Pronta alla lotta nazionale era l’intelligencija, in primo luogo gli studenti, fattore portante e trascinatore degli eventi insurrezionali. Gli studi superiori si dovevano svolgere fuori dalla Polonia, in genere nelle università dell’impero russo, come Kiev. In esse gli studenti ebbero modo di organizzarsi anche politicamente, non mancando di tessere legami con l’emigrazione politica di cui si facevano cassa di risonanza in patria. Dal 1859 un foro di spirito nazionale fu l’Accademia di medicina di Varsavia, i cui iscritti protestarono clamorosamente contro la riunione dei tre sovrani delle Potenze partitrici tenuta a Varsavia nel 1860. Dunque le varie componenti della nazione polacca sembravano essere quanto mai unite; d’altra parte, però, non esisteva nel contesto internazionale una coalizione di Potenze che avessero interesse a sostenere la causa polacca, se non con qualche retorica dichiarazione. Si è detto dell’Italia da poco unita, si è fatto cenno alla rinnovata solidarietà verso la Russia da parte delle due Potenze tedesche, ma la stessa Francia del Secondo impero aveva 28 A.Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX e XX, cit., pp. 184-189. Una doppia lapide in latino e in russo ricorda quella visita nel Palazzo Giustiniani, in cui alloggiò lo zar che peraltro visitò anche altre città italiane. Cfr. Renato Lefevre, Il soggiorno dello Czar Nicola I a Palermo e a Napoli nel 1845, in Studi in onore di Riccardo Filangieri, Vol. III, Napoli, L’Arte Tipografica, 1954; Nicola Roncalli, Cronaca di Roma: 1844-1848, Vol. I, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1972. 29 18 necessità di coltivare la benevolenza dello zar, trovandosi in un sostanziale isolamento internazionale. Un osservatore realista avrebbero facilmente potuto capire che in caso di insurrezione i polacchi si sarebbero trovati nuovamente soli contro l’esercito zarista. E così fu. A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta esisteva in Polonia anche una corrente “conciliatrice” : chi ne faceva parte intendeva recuperare i limitati diritti costituzionali concessi già da Alessandro I e favorire lo sviluppo dell’identità nazionale e del Paese nel suo complesso, non contro ma d’accordo con la Potenza russa. Si metteva in campo per sostenere questa tesi non solo l’oggettiva impossibile di ottenere un successo insorgendo in armi, ma anche lo spirito di solidarietà tra popoli slavi e il timore del germanesimo (che aveva fondamento solo in Posnania e sulle coste baltiche). Campione di tale corrente era il conte Aleksandr Wielopolski che fu investito dei più vari incarichi tanto da apparire il vero protagonista della vita politica polacca. Le sue intenzioni non erano certo ispirate a pura conservazione, ma tra i vari progetti messi in cantiere si concretizzarono solo un maggior uso della lingua e l’apertura di nuove scuole. Tutto ciò non bastò a impedire che e agitazioni giungessero a un primo acme nell’ottobre 1861, tanto da costringere Wielopolski alle dimissioni così come il vicerè conte Lambert. L’anno successivo Wielopolski riprese le redini politiche del Paese, ma la situazione non migliorò di molto. Gli intenti conciliativi furono poco graditi al movimento nazionale, in patria e in esilio. Quando da parte russa si offrì di ripristinare a pieno lo status costituzionale dei primi anni successivi al Congresso di Vienna, la maggioranza degli interlocutori polacchi per bocca del nobile Zamoyski chiese che ciò valesse per tutti i territori dell’antica Unione polacco-lituana, quindi anche per quelli lituani, bielorussi, ucraini. Si trattava di territori ormai inseriti nel contesto della Russia e il rifiuto del governo di San Pietroburgo era scontato30. La nuova rivoluzione durò circa un anno e mezzo dal gennaio 1863 all’agosto 1864 (impiccagione dell’ultimo “dittatore” Romuald Traugutt). Essa fu avviata in modo intempestivo, 30 In Ucraina l’insurrezione non trovò simpatie, sebbene numerosi volontari ucraini (e russi) corressero ad aiutare gli insorti; invece tra i contadini lituani e bielorussi l’iniziativa rivoluzionaria prese piede e per Wandycz (op.cit., p. 234) “fu l’ultima volta che i contadini lituani e bielorussi combatterono a fianco dei polacchi”. 19 senza la necessaria preparazione e in un quadro di concreto isolamento politico, al di là delle dichiarazioni formali dei governi occidentali. Inoltre la conduzione politica non fu univoca: più di un dittatore si assunse il difficile onere di dirigere la rivoluzione (Mieroslawski, Langiewicz31, Traugutt), nel governo provvisorio si alternarono moderati e radicali (“bianchi” e “rossi”). Militarmente fu presto evidente la superiorità delle forze militari russe32, nonostante i rivoluzionari avessero promesso di dare la terra ai contadini. Sul terreno sociale il governo russo si dimostrò poi particolarmente abile. Infatti, dopo il successo militare, accanto ai generali Berg e Murav’ev (destinati rispettivamente in Polonia e in Lituania) operò Nikola Miljutin il quale mise in essere dal 1864 una significativa riforma agraria, più incisiva di quella lanciata nel 1861 dallo zar nel resto dell’impero. I contadini ebbero cospicue assegnazioni terriere che li resero grati all’autocrate illuminato e fecero ulteriormente scemare le scarse simpatie verso i proprietari terrieri polacchi. Di tale abile politica fecero le spese naturalmente anche quegli uomini che, nelle fila dei rivoluzionari, avrebbero voluto fare partecipare alla lotta nazionale le masse contadine, opportunamente riconoscendone diritti e interessi. Come si accennava, il movimento rivoluzionario non trovò appoggi internazionali concreti: i governi occidentali non fecero nulla di più che passi diplomatici a San Pietroburgo, privi di esito. L’attivismo della diplomazia parallela impiantata da Czartoryski non poté molto, soprattutto dopo la morte del conte nel 1861. A favore della causa polacca si spese di più la Santa Sede poiché il governo zarista non esitò a usare la mano pesante verso il clero cattolico, considerato non a torto di sentimenti nazionali e favorevole alle finalità nazionali dei rivoltosi. Ancora più accese furono le manifestazioni di parte dell’opinione pubblica e degli ambienti parlamentari in Italia, come in 31 Secondo Antonis Liakos (L’unificazione italiana e la Grande idea. Ideologia e azione dei movimenti nazionali in Italia e in Grecia, 1859-1871, Firenze, Aletheia, 1995, p. 191) Marian Langiewicz diverrà il “principale tramite” di Mazzini nei contatti con gli attivisti politici dei Balcani; cfr. H.Rzadkowska, Marian Langiewicz, Warszawa, 1967; K.Šarova-L.Genova, Il movimento nazionale rivoluzionario bulgaro e le idee di Mazzini, in Il mazzinianesimo nel mondo, II, cit., pp. 259-365. 32 Di fatto – diversamente dal 1830 – si trattò di operazioni prevalentemente di guerriglia, dopo la prima insurrezione armata a Varsavia attuata per reagire alla coscrizione militare che Wielopolski aveva voluto, per fini politici, limitare solo alla popolazione cittadina. 20 Francia o in Inghilterra. Meeting e sottoscrizioni furono frequenti, innumerevoli le pubblicazioni di ogni tipo legate agli eventi in corso in Polonia che sollecitarono la penna persino dei poeti33. I “rossi” tennero anche allora rapporti con i democratici italiani: Garibaldi firmò un accordo – tardivo e assolutamente inapplicabile ipotizzava un attacco all’Austria nei possedimenti italiani e in Galizia – con un rappresentante polacco (Józef Ordęga) e inutilmente tentò di convincere Herzen e i rivoluzionari russi di Zemlja i Volja ad avviare una sollevazione in Russia a sostegno della rivoluzione polacca: i russi avevano ancora tempo davanti a loro e non potevano bruciare le proprie possibilità per soccorrere un moto destinato ad essere sconfitto e le cui finalità non condividevano a pieno. Pochi presero realmente le armi per combattere sul suolo polacco: un pugno di camicie rosse guidate da Francesco Nullo che lasciò la vita nello scontro di Kzrikawka; unitisi ad altri combattenti polacchi e stranieri, quattro di loro, catturati, trascorsero alcuni anni in Siberia, ma in seguito poterono lasciare memoria di quella esperienza34. La rivoluzione fu dunque repressa con pugno di ferro e, si può dire, fu anche sconfitta politicamente35. I patrioti polacchi continuarono anche nei decenni successivi a cercare di legare le sorti della loro patria alle crisi internazionali36; intanto però le terre polacche persero del tutto il loro particolare status giuridico-amministrativo, essendo equiparate alle altre province dell’impero russo: si usò la denominazione di territorio della Vistola. Le zone etnicamente polacche resistettero a ogni tentativo di russificazione, che ebbe maggior successo in Lituania, Bielorussia ed Ucraina. Dopo la sconfitta del 1864 iniziò il periodo del cosiddetto “lavoro organico”, privo di fiammate 33 Si veda L.E.Funaro, L’Italia e l’insurrezione polacca: la politica estera e l’opinione pubblica italiana nel 1863, Modena, 1964. La produzione di versi e, ancor più, di brevi e talora più lunghi scritti fu veramente ingente e non è qui il luogo per illustrarla. Tra gli altri, uno sconosciuto omonimo di chi scrive, Francesco Guida (L’obolo per la Polonia insorta. Pensieri poetici di F.G., Persiceto 1863) fu autore di tre bellicose strofe che così suonano: “All’armi fratelli! Polonia già cade/ In preda del Russo che tutta l’invade;/ Col ferro, col fuoco scontare le fa/ L’aver desiato goder libertà.// Se dunque fratelli all’armi correte,/ Lo scudo, la lancia, la spada stringete;/ Sull’orrido tigre vibrate l’acciar;/ Scannatelo ovunque perfin sull’altar.// Quell’empia masnada di nordiche belve/ Da voi si rintani nell’ispide selve;/ Per voi la Polonia ritorni al gioir/ E premio le sia del lungo martir.” 34 Bronisław Biliński, Fratellanza di idee nel Risorgimento e le guerre polacche di indipendenza, in Polonia e Italia. Rapporti storici, scientifici e culturali, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 11-27. 35 Anche dopo la seconda rivoluzione vi fu il fenomeno dell’emigrazione politica; cfr. J.W.Borejsza, Emigracja polska po powstaniu styczniowym, Warszawa, 1966. 36 La seconda crisi d’Oriente del 1875-78 fece sperare a molti patrioti polacchi una nuova sconfitta della Russia (come era avvenuto nella prima crisi d’Oriente) che portasse come conseguenza l’indipendenza della Polonia; cfr. Carlo Fiorentino, Un esule polacco in Italia: Wladislaw Sas Kulczycki (1831-1895), Roma, Archivio Guido Izzi, 2003. 21 come quelle registrate sino ad allora, ma proficuo per mantenere salda l’individualità nazionale e prepararne il riconoscimento anche politico che venne molti decenni più tardi. In quel mezzo secolo (1864-1914) per le idee già in parte maturate e diffuse nella prima metà del secolo ci fu modo di svilupparsi e verso la fine dell’Ottocento trovare manifestazione concreta attraverso i partiti politici. 5. Dal patriottismo ungherese al movimento democratico e nazionale Si è già detto di come anche la nazione ungherese debba essere considerata “storica”. Non è un caso che a lungo Mazzini (che della nazione apprezzava soprattutto l’identità basata sul comune passato) abbia avuto una speciale considerazione per la nazione magiara, non meno che per quella polacca. Solo con l’andare del tempo, soprattutto dopo il fallimento della rivoluzione ungherese del 1848-49, iniziò a propendere per soluzioni federalistiche che riguardassero l’area danubianobalcanica. In tal modo cercava di trovare una soluzione pratica più che teorica ai problemi di difficile soluzione attinenti le relazioni tra nazionalità in quella parte del continente europeo. Il processo di nation building tra i magiari non poteva essere simile a quello in corso presso altri popoli “senza storia”. Tuttavia nella prima metà del XIX secolo fu evidente l’accentuazione posta sull’identificazione nazionale. Non si trattava affatto di identificazione etnica: sarebbe stato suicida avviarsi in quella direzione per un Regno abitato solo per metà da ungheresi. Nella definizione di Kecskemeti37 si cercò di delineare l’homo hungaricus piuttosto che il magyar. Wandycz riferisce38 espressioni esplicite di timore di una possibile sparizione dell’identità nazionale magiara se non si fosse attuata una politica di magiarizzazione delle nazionalità coabitanti nel Regno di santo Stefano. Si trattava di timori forse eccessivi che solo il Compromesso del 1867 dissipò quasi completamente. Nella visione della classe dirigente ungherese, incluso il ceto intellettuale, quei timori costituivano un punto focale e la difesa e promozione dell’identità nazionale era il problema centrale. Detto ciò, per la particolare situazione giuridica dell’Ungheria in seno ai possedimenti degli Absburgo era 37 Károly Kecskemeti, La Hongrie et le réformisme libéral: problèmes politiques et sociaux: 1790-1848, Roma, Il Centro di Ricerca, 1989. 38 Op.cit., p. 205. 22 scontato che due fossero le principali strade su cui poteva avviarsi il movimento nazionale: il lealismo verso la dinastia per ottenere in cambio maggiore autonomia e una concreta difesa degli interessi delle classi superiori ungheresi e in genere della nazione; oppure la preparazione della lotta per l’indipendenza. Le strategie furono applicate ambedue. Di indipendenza si iniziò a parlare – anche per prudenza – solo tardi, cioè nel 184839, ma a quel punto lo si fece in modo clamoroso e deciso, impugnando le armi. Quanti furono a favore di tale scelta, Lajos Kossuth in testa, continuarono a crederla giusta ancora per decenni, sebbene tra di loro molti (un esempio per tutti György Klapka) finissero per rientrare nei ranghi, soprattutto dopo l’Ausgleich, e accettassero la collaborazione con l’Austria nel nuovo quadro costituzionale. Paradossalmente lungo i decenni successivi al 1867 nel parlamento di Pest continuarono a sedere i deputati del partito di Kossuth e dell’indipendenza. Sul timore per la propria identità nazionale di cui si diceva influì forse la politica tardo settecentesca di Giuseppe II che impose l’uso amministrativo del tedesco in tutto l’impero. Scampato in parte il pericolo delle riforme illuminate e centralizzatrici di quel sovrano (tra i migliori di casa d’Austria) e superata anche la parentesi “giacobina” e cospiratoria all’epoca della rivoluzione francese cui si è fatto cenno, e avviata l’epoca della Restaurazione, si pose il problema dell’uso del latino, tradizionale lingua amministrativa oltre che dotta. I fautori dell’affermazione della nazione si batterono con successo per la sostituzione non con il tedesco, ma con l’ungherese. Non era una scelta indolore poiché il latino era stata lingua “neutrale”, cioè lingua dello Stato ma non della nazione. Ora i vari popoli che vivevano all’ombra della Corona di santo Stefano mal tolleravano di dovere usare una lingua non propria né “neutrale”. Il fenomeno fu molto evidente in Croazia, terra che godeva di una limitata autonomia: per i deputati croati divenne un punto d’onore potere esprimersi nel parlamento o Sabor di Zagabria (Agram) nella propria lingua. Si impostava in 39 In realtà Kossuth ancora nei primi mesi di quell’anno enunciava un programma decisamente riformistico ma che non metteva in discussione l’impero e la dinastia: “A noi il compito di salvare la dinastia, di legare il suo futuro alla fratellanza dei diversi popoli dell’Austria, di farla riposare anziché sui cattivi metodi di unione delle baionette e dell’oppressione burocratica, sul saldo cemento di una libera Costituzione” (citato in Heinrich Lutz, op.cit., p. 315). 23 questa maniera la fondamentale questione delle relazioni tra popoli e nazionalità inclusi nei confini del Regno. 6. I rapporti con le altre nazionalità Il conflitto con i croati fu senza dubbio il più serio e impegnativo: l’autonomia tradizionale della Croazia, erede di un Regno medievale, la vivacità degli intellettuali di quella nazionalità in un contesto di generale rinascita culturale dei popoli slavi (si pensi all’illirismo di Ljudevit Gaj e dei suoi seguaci o alla normalizzazione di una lingua degli slavi del Sud, il serbo-croato), la presenza limitata dell’elemento magiaro in terra croata, tutto ciò rendeva difficile l’assimilazione dei croati o anche la semplice gestione dei rapporti tra loro e gli ungheresi. Tuttavia la classe dirigente ungherese e il movimento nazionale magiaro dovevano tenere in conto tante altre nazionalità, più o meno attrezzate e agguerrite per confrontarsi con la nazione tradizionalmente dominante nel Regno. In quella che a lungo era stata la vera roccaforte della magiarità, la Transilvania, la presenza della nazionalità romena era maggioritaria40 e per ciò preoccupante, sebbene in minima percentuale i romeni appartenessero alle classi alte: la differenza di religione (ortodossi i romeni, cattolici o riformati gli ungheresi) era un ottimo strumento per salvaguardare l’identità nazionale. In tal senso, più debole era la resistenza che gli slovacchi (cattolici, salvo una minoranza protestante) potevano opporre al processo di magiarizzazione in quella che allora si chiamava Alta Ungheria e oggi costituisce la Repubblica di Slovacchia. I serbi d’Ungheria, cioè dell’attuale Vojvodina, erano molto attaccati alle garanzie di autonomia che gli Absburgo dal Seicento avevano garantito loro quando si erano trasferiti dalla Serbia per timore degli ottomani. Dunque i rapporti tra nazione ungherese e le altre nazionalità non erano facili, sebbene non mancassero fenomeni di assimilazione di cui fa fede il bardo del Risorgimento Sándor Petőfi (figlio di un Petrovics, slovacco). 40 Anche i censimenti ottocenteschi registravano che i romeni costituivano oltre metà della popolazione, mentre la restante parte comprendeva ungheresi (anche nella variante székely), tedeschi, ebrei ecc. Cfr. László Katus, Multinational Hungary in the light of statistics, in Ethnicity and society in Hungary, ed. F.Glatz, 2, Budapest, Akadèmiai Kiadó, 1990, p. 118. 24 Accanto alle soluzioni di questi problemi di carattere essenzialmente nazionale, in terra d’Ungheria si andavano sviluppando anche tendenze liberali per le quali i residui delle istituzioni (sociali più che politiche) feudali dovevano essere spazzati via per fare spazio a una nuova rappresentanza politica e al riconoscimento dei diritti civili. Sia la borghesia ancora numericamente scarsa sia la piccola nobiltà costituivano i ceti trainanti per l’affermazione delle nuove idee liberali che andavano in vario modo a combinarsi con le aspirazioni nazionali. Erano quasi assenti in tale quadro istanze radicali sia in campo politico sia, ancor più, in campo sociale. La vicenda quarantottesca è più che nota nelle sue varie fasi (dall’approvazione di una Costituzione ungherese nell’aprile 1848, con la conseguente formazione del governo Batthyány, agli scontri militari con i croati, alle dimissioni di Batthyány, alla detronizzazione degli Absburgo nell’aprile 1849 e, infine, alla resa nell’agosto seguente di fronte alle preponderanti forze imperiali e russe) e qui ci si limita a ricordare che le due strategie - maggiore autonomia o indipendenza - vi trovarono ambedue posto. Lo stesso Kossuth attese un anno prima di fare dichiarare decaduta la dinastia absburgica. Come in Polonia nel 1830, anche in Ungheria si assistette, nel contesto di un impero sconvolto dalla guerra civile e da guerre in altri scacchieri (come quello italiano), a un vero conflitto combattuto da eserciti. Infatti il governo rivoluzionario provvisorio fu in grado di mettere in campo contingenti ben organizzati che per molto tempo tennero in scacco le forze imperiali, fino al punto che solo un’incertezza politica (e il principio di non ingerenza nella parte austriaca della Monarchia) non li indusse ad attaccare la stessa Vienna in un momento cruciale, quando imperiali e croati la posero sotto assedio per toglierla di mano (riuscendovi) agli insorti: un’occasione perduta. Fu guerra non solo contro gli imperiali, ma anche contro le truppe regolari croate, capeggiate dal bano Jelačić il quale fece una precisa scelta di lealtà verso gli Absburgo che era al contempo un pronunciamento contro una nuova Ungheria maggiormente caratterizzata in senso nazionale, come Kossuth voleva. Ancora fu guerra contro gli irregolari serbi, spalleggiati da volontari venuti d’oltre Danubio, dal principato di Serbia – come si è detto sopra. Persino in Transilvania i romeni (e per 25 qualche tempo i sassoni) presero le armi rifiutando l’annullamento della tradizionale autonomia della regione rispetto all’Ungheria, annullamento decretato dal governo rivoluzionario di Pest. Dunque, la rivoluzione ungherese trovò i suoi alleati solo lontano: il Piemonte, la Repubblica di Venezia, la Repubblica romana, l’emigrazione polacca. Erano alleati che poterono dare un aiuto ben scarso e che anzi avevano sperato a loro volta aiuto dai magiari.41 Alcuni alleati, i polacchi accorsi come volontari ad ingrossare le fila dell’esercito rivoluzionario (con l’ormai consueto slogan “per la vostra libertà e la nostra”) e soprattutto i quadri degli ufficiali (si è detto già di Bem), si rivelarono pericolosi: infatti la loro presenza creò un particolare allarme a San Pietroburgo e, se mai Nicola I ebbe remore a intervenire in soccorso di Francesco Giuseppe, appena salito sul trono, esse furono messe da parte proprio nel timore che la rivoluzione potesse nuovamente deflagrare nella Polonia russa. 6: I ripensamenti di Kossuth. L’alternativa Deák. Anche la rivoluzione ungherese, dopo la sua repressione, diede luogo a una cospicua emigrazione politica i cui membri furono estremamente attivi in Occidente e nei Balcani. Anche gli esuli ungheresi, come i polacchi, sperarono che una crisi internazionale – come quella orientale del 1853-55 – creasse le condizioni per rendere indipendente l’Ungheria e abbattere l’impero absburgico. Peraltro il territorio turco era stato il primo rifugio per lo stesso Kossuth e per lo scopo indicato ungheresi, non meno che polacchi prestarono servizio nell’esercito ottomano.42 Già, all’indomani della sconfitta, a Kutahya Kossuth aveva compreso che la rivoluzione non poteva essere fatta senza l’appoggio delle altre nazionalità soggette all’Austria. Né va dimenticato che nell’estate del 1849, alla vigilia della resa, egli era giunto a concludere un accordo con i romeni di 41 M.Jaszay, L' Italia e la rivoluzione ungherese: 1848-1849, Budapest, Istituto per l'Europa Orientale, 1948; F.Guida, La stampa romana e la Rivoluzione ungherese del 1848-49, in Italia e Ungheria 1848-1849, a cura di E. Capuzzo, numero speciale della “Rassegna Storica del Risorgimento”, Roma 1999, pp. 137-152. 42 Quando alcuni esuli ungheresi vollero attaccare e polemizzare con István Türr pubblicarono un pamphlet intitolato con il nome da lui usato proprio durante il servizio prestato al sultano: Achmet Sciamil Effendi o Supplemento al libro ‘Arrestation, procès et condamnation du Général Türr racontés par lui-même suivis de ses vicissitudes ulterieurs par l’Avocat Curti’ , Pest, 1863. Il libro fu pubblicato invero in Italia, anonimo ma se ne conoscono gli autori. Si veda P. Fornaro, István Türr. Una biografia politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004. 26 Transilvania,capeggiati da Avram Iancu, appunto per porre fine al conflitto in corso con quella nazionalità e per avviare la lotta comune contro gli imperiali. Cominciò da allora un lungo processo che portò il capo della rivoluzione a concedere sempre di più agli altri popoli della valle del Danubio in vista della realizzazione di una vasta Confederazione43; ma non fu mai abbastanza per convincere gli interlocutori serbi, romeni, croati, slovacchi44. Altri ungheresi si occuparono45 ripetutamente della questione, cercando talora di spingersi oltre le offerte di Kossuth: molteplici furono le missioni nelle capitali del Sud-est europeo soprattutto quando negli anni sessanta tutti attendevano una nuova guerra dell’Italia contro l’Austria, ma né il progetto confederale fu accettato dai governanti di Bucarest e Belgrado (come non fu accolto a Zagabria) né, quando nel 1866 la guerra scoppiò davvero, si poté aprire un fronte danubiano, coinvolgendo altri Stati nel conflitto oppure organizzando formazioni militari irregolari in quello scacchiere, come da anni si andava progettando con chiaro riferimento all’esempio garibaldino e facendo conto sull’impegno personale dello stesso Garibaldi46. Gli ungheresi furono molto presenti nelle vicende e nelle battaglie del Risorgimento italiano. Se durante la prima guerra d’indipendenza una Legione ungherese operò accanto all’esercito piemontese, per poi offrire il suo contributo alla Repubblica Romana47, essa ebbe un ruolo ben più rilevante nel 1859 e soprattutto nel 1860. I suoi componenti divennero così intrinseci con le forze armate italiane che parteciparono a una guerra ben più “sporca”, cioè alla repressione del 43 Un momento cruciale si ebbe nel 1862, ma su questo rinvio a W.Maturi, Le avventure balcaniche di Marc’Antonio Canini, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, Firenze, 1958, II, pp. 557-645; F.Guida, L’Italia e il Risorgimento balcanico. Marco Antonio Canini, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984 e P.Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese (1849-1867). Marcello Cerruti e le intese politiche italo-magiare, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995. 44 Nei confronti degli slovacchi le concessioni furono sempre molto limitate: durante il biennio rivoluzionario le Richieste della nazione slovacca (riconoscimento della propria identità e una certa autonomia) non furono prese in considerazione da parte ungherese; né maggior successo ottenne un Memorandum del 1861 in un momento in cui l’impero stava già vivendo una trasformazione che valorizzava le realtà nazionali in un contesto semifederale e parlamentare; cfr. P.S. Wandycz, op.cit., pp. 227-231. 45 Lajos Pásztor, La Confederazione danubiana nel pensiero degli italiani ed ungheresi nel Risorgimento, Roma, 1949. 46 Angelo Tamborra, Questione veneta e progetti di azioni garibaldine dalla Dalmazia all’Europa centrale, in Conferenze e note accademiche nel I centenario dell’unione del Veneto all’Italia, Padova, 1967. 47 F.Guida, Michelangelo Pinto, un letterato e patriota romano tra Italia e Russia, Roma, Archivio Guido Izzi, 1998, p. 00-00. 27 brigantaggio nel Meridione nei primi anni post-unitari48. Tra tutti raggiunse una posizione particolarmente elevata accanto a Garibaldi nel 1860 il già ricordato Türr, uomo di opinioni moderate ma destinato a un successivo impegno a favore dei movimenti pacifisti49. Gli esuli ungheresi ebbero così modo di combattere contro le divise bianche degli imperiali, nelle occasioni cui si è fatto cenno, ma anche nel 1866. Nel conflitto che vide l’Austria contro Prussia e Italia, alcune centinaia di magiari si aggregarono all’esercito prussiano dopo intese che passarono attraverso il generale Klapka. Fu quello l’ultimo exploit degli emigrati del 1849; in seguito il clima internazionale non induceva più i governi di Berlino e Firenze a utilizzare i loro servigi. In Italia Marcello Cerruti, il fedele collaboratore di Cavour, rimase solo a mantenere rapporti con gli ungheresi immaginando che la lotta contro Vienna non fosse terminata. La Legione ungherese si sciolse quasi per esaurimento50. Senza commettere l’errore di credere che l’emigrazione magiara operasse solo in terra italiana (ma Kossuth morì nel 1894 nel Baraccone di Collegno presso Torino) è giusto sottolineare che, a fianco all’impegno militare, fu notevole l’intreccio di rapporti politici e personali tra italiani e ungheresi, rapporti che spesso passavano attraverso le logge massoniche. All’inizio degli anni sessanta sia la Massoneria ungherese che quella italiana ripresero vigore e furono costituite logge e persino un Grande Oriente per l’una come per l’altra, con evidenti dipendenze che la storiografia ha sufficientemente messo in luce51. Una seconda osservazione non va taciuta. Ancor più di quanto non fosse accaduto con l’emigrazione polacca, il motivo nazionale prevalse ampiamente su qualsiasi altra convinzione o considerazione. E’ ben difficile catalogare politicamente i maggiori esponenti dell’emigrazione politica ungherese, a loro agio con i governi come con Garibaldi, meno in verità con Mazzini (clamorosa la sua rottura con Kossuth nella prima parte degli anni cinquanta)52. Ancora più difficile 48 P.Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese, cit., pp. 102 sgg. Id., István Türr. Una biografia politica, cit. 50 Id., Risorgimento italiano e questione ungherese, cit., p. 283 51 L.Polo Friz, La Massoneria italiana nel decennio post unitario. Lodovico Frapolli, Milano, FrancoAngeli, 1998. 52 Id., Kossuth-Mazzini. La disputa in margine al 6 febbraio 1853, in “Il Risorgimento”, XLII, 1990, 2-2, pp. 237-252. 49 28 individuare un programma di carattere sociale, mentre il costituzionalismo cui spesso gli esuli facevano riferimento è abbastanza indistinto, se non ambiguo. Il rispetto dello Statuto albertino (cui all’indomani della sconfitta del 1849 Vittorio Emanuele II non rinunciò nonostante le pressioni austriache) era importante agli occhi di quegli esuli in primis come manifestazione di dignità nazionale, quindi anche come omaggio al liberalismo che prima e durante il biennio rivoluzionario molti di quegli attivisti politici magiari avevano sostenuto e per breve tempo imposto53. Insomma i termini “democratico” e “radicale” nel caso di quella emigrazione vanno usati con prudenza. Di più, anche in terra d’Ungheria non vi era stato un grande impulso all’introduzione di principi e istituti liberali, sia nel decennio seguito al fallimento della rivoluzione (et pour cause) sia quando lo stesso governo viennese – in seguito alla sconfitta del 1859 sui campi di Lombardia – decise di introdurre riforme di carattere costituzionale nell’impero (Diploma dell’ottobre 1860, Patente del febbraio 1861). Sotto questa apparenza di tranquillo lealismo e di piatta conservazione, però, qualche cosa stava avvenendo anche in patria e non solo per i rapporti che in vario modo si mantenevano con l’emigrazione. I germi del liberalismo almeno, se non di ideologia più avanzate, continuavano a fermentare. Ciò avvenne principalmente nell’alveo di quella tradizionale strategia alternativa di cui già si è detto: era possibile introdurre novità feconde e positive, nonché aumentare i margini di autonomia della nazione ungherese e della sua classe dirigente, anche trovando un compromesso con Vienna. Era questo il “lavoro organico” di cui in molti libri si scrisse, era questa la linea politica legata soprattutto al nome di Ferenc Deák, che in parte riprendeva l’impulso al rinnovamento civile più che politico che da decenni trovava in István Széchenyi il suo uomo di riferimento. Una nazione “storica” che dimostrasse di possedere pure una forza economica, culturale e in ogni campo della civiltà sarebbe diventata più libera naturaliter rispetto all’Austria e alla dinastia. Il legame dinastico poteva diventare un carico leggero e un prezzo conveniente di fronte a una situazione di fatto indirizzata verso il condominium tra elemento tedesco e magiaro, tanto più quando essa fosse stata 53 Tra le leggi varate dal governo rivoluzionario l’abolizione di alcuni istituti feudali, l’equiparazione per gli ebrei in fatto di diritti civili, ecc. 29 riconosciuta anche da un punto di vista costituzionale. E’ quanto avvenne nel 1867 con la sigla dell’Ausgleich che segnò la vittoria della linea conciliativa a scapito di quella indipendentistica, la vittoria di Deák su Kossuth. Questi, rifiutando sdegnosamente di accettare sia il compromesso sia la sua elezione in parlamento di poco successiva, affermò a tutte lettere che l’accordo era fatto a tutto vantaggio di una ristretta classe dominante ungherese e della dominazione straniera, insomma un vero tradimento interessato54. Diversamente da lui buona parte degli esuli politici preferirono accettare l’amnistia e la possibilità di rientrare in patria per curare i propri interessi ma pure per servire il proprio Paese. Tra gli esuli fin qui ricordati si possono citare Klapka e, in forma molto complessa, lo stesso Türr. L’esempio più clamoroso di rovesciamento dei ruoli si ebbe con Gyula Andrássy, sul cui capo pendeva una condanna a morte firmata da Francesco Giuseppe, di cui divenne ministro degli Esteri55. Pesò sulla scelta di molti ungheresi a favore del Compromesso il recente fallimento della rivoluzione indipendentista in Polonia: insomma prevalse il realismo politico. Restarono tuttavia in piedi molti problemi, sia nei rapporti con Vienna sia con le nazionalità della Corona di santo Stefano56. Nel 1868 fu siglato un accordo (Nagodba) con la Croazia cui fu riconosciuta una certa autonomia, senza però soddisfare pienamente le richieste dei croati; le altre nazionalità si dovettero accontentare di un loro riconoscimento in un’apposita legge del 1868 (di cui fu ispiratore Józséf Eötvös) che prevedeva il rispetto dei diritti culturali (principio non sempre applicato in seguito), senza dare spazio ad autonomie politiche. Le frizioni con Vienna riguardarono questioni economiche e il fatto che l’esercito era solo quello imperiale in mano a ufficiali tedeschi (anche se esistevano tanto una Landwehr quanto la Honvéd magiara). 54 P.Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese, cit., pp. 283-284. Il ministero degli Esteri, insieme con quelli della Guerra e delle Finanze, era comune alle due parti dell’impero (Austria e Ungheria), mentre non esisteva un unico presidente del Consiglio. Tale carica invece era prevista per lo specifico governo ungherese, con competenze sui territori della Corona di santo Stefano, non diversamente dal parlamento o Dieta di Pest. Il quadro era completato dalle delegazioni miste in cui trovavano poste uomini designati dai due Parlamenti, Pest e Vienna. 56 F.Guida, Il problema delle minoranze in Ungheria tra Ottocento e primo Novecento (1867-1914), "Rassegna Storica Toscana", XXXIX, 1993, 2, pp. 315-324 55 30 A metà degli anni sessanta, dunque, l’epoca delle grandi lotte per l’indipendenza nazionale si era conclusa in Ungheria come in Polonia. La nazione polacca continuava la sua battaglia in condizioni molto diverse nei diversi contesti statali in cui viveva; avrebbe ottenuto risultati per niente disprezzabili in vari campi, a partire dall’economia per giungere all’organizzazione dei moderni partiti politici, in parte eredi delle correnti che erano state protagoniste nella sfortunata lotta risorgimentale. Idee, fino ad allora abbozzate e talora svolte in forma contraddittorie, trovarono così una più precisa sistemazione teorica senza rinunciare – almeno nella maggior parte dei casi57 alla causa nazionale. I mutamenti in Ungheria furono meno significativi, ancorché non assenti, poiché le classi alte avevano trovato modo di esercitare il potere e tenere sotto controllo anche lo sviluppo del Paese: a una modernizzazione non impetuosa corrispose una democratizzazione modesta. Egualmente, pure nelle terre ungheresi, si costituirono formazioni politiche e le ideologie trovarono anche là un inquadramento teorico e una rappresentanza politica, nei limiti consentiti dal sistema. 57 Se il partito socialista di Piłsudski nacque coniugando marxismo e aspirazioni nazionali, quello della Luxenburg e di Džeržyński non credeva in una patria polacca vantaggiosa per il proletariato.