24 - LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO: DALLA CRISI DI FINE SECOLO ALLA SVOLTA LINGUISTICA 0. Da un secolo all'altro: il contesto sociale (1870-1939) 1. Dalla crisi di fine secolo alla cultura della crisi 2. Analitici e continentali e la svolta linguistica DA UN SECOLO ALL'ALTRO: IL CONTESTO SOCIALE (1870-1939) 0. Da un secolo all'altro: il contesto sociale (1870-1939) Una lunga fin de siècle si aprì fino dalla metà degli anni settanta del XIX secolo, con l'inizio di una delle crisi economiche più gravi per intensità e durata, ricordata col nome di "Grande depressione". Venne così profilandosi il profondo, accidentato processo di transizione che avrebbe portato al Novecento. Questa crisi, tuttavia, non incrinò la cieca fiducia nel progresso, nella scienza e nella tecnica che aveva accompagnato l'affermarsi dell'industrializzazione in Europa. Anzi, se si escludono alcune minoranze intellettuali che assunsero atteggiamenti fortemente pessimistici, nella maggioranza dell'opinione pubblica essa accentuò il culto della crescita economica e il mito dello sviluppo delle forze produttive. La crisi finì però per incidere profondamente sulla struttura delle società industriali, sul rapporto tra economia e politica, tra industria e stato, e sulle stesse mentalità collettive. Infatti il significato storico della "Grande depressione" è di segnare il passaggio a una fase qualitativamente nuova nell'organizzazione della produzione e del mercato e conseguentemente nella società. Per tutto l’Ottocento il mercato prevalente di destinazione dei prodotti industriale rimase quello dei beni produttivi, quindi destinati ad altre aziende, reggendosi lo sviluppo industriale sullo sfruttamento della manodopera il che ne comportava l’esclusione dal mercato, per questo possiamo definire la società ottocentesca una società classista. La ristrutturazione delle attività imposte dalla "Grande depressione" potenziando le capacità produttive, attraverso la concentrazione industriale, l’introduzione della catena di montaggio e il progresso tecnologico, richiese, a partire dai primi del Novecento, un graduale allargamento del mercato destinato ad assorbire i beni di massa che caratterizzeranno la produzione industriale del XX secolo. Per indicare sommariamente i processi che prendono avvio in questa fase storica possiamo parlare dell'emergere della società di massa. Questo fenomeno, che possiamo ritenere completamente sviluppato solo a partire dagli anni venti-trenta del nuovo Secolo, riguarda la produzione e il mercato, le classi sociali e la loro stratificazione, ma anche, i comportamenti culturali e i modelli politici. La società civile del tardo Ottocento viene, infatti, mutando non solo i propri caratteri economico-sociali ma anche quelli culturali, sia nel senso delle istituzioni e dei canali di diffusione della cultura, sia in quello dei valori e dei modelli di comportamento. Assistiamo ai seguenti fenomeni: la crescita della scolarizzazione, e dunque della domanda di informazione e di cultura; lo sviluppo dei mezzi di comunicazione tradizionali — giornali, riviste, libri — in relazione a un mercato in continua espansione; la diffusione di consumi culturali sino ad allora patrimonio di una ristretta élite, come i prodotti artistici e di design (ricordiamo che è questa l'epoca del liberty); la diffusione ormai amplissima della fotografia e l'apparire di nuovi mezzi comunicativi con enormi potenzialità di sviluppo: la radio, il cinematografo, il fonografo; la diffusione del telegrafo e del telefono, e dunque l'aumento rapidissimo della velocità di circolazione delle informazioni; il costituirsi 1870- 90: La grande ______________ ma opinione pubblica fiducia nel __________________________ Grande _____________ passaggio dalla società _____________ dell’_______________ alla società di ___________ del _________________ 1 della pubblicità in attività economica e forma comunicativa specifica. L’esordio della società di massa e del nuovo secolo si riveleranno però ancor più travagliati del tramonto della società ottocentesca con il dramma dello scoppio del primo conflitto mondiale, la crisi degli stati liberali incapaci di favorire la partecipazione alla vita politica delle masse e di gestire lo sviluppo economico (crisi del ’29) che porteranno all’affermazione degli stati totalitari e al secondo conflitto mondiale. Nei primi quattro decenni del Novecento quella che era stata, nell’ultimo periodo del secolo precedente, la posizione di alcune minoranze intellettuali finì per diffondersi dando luogo a quella che significativamente è stata chiamata la cultura della crisi. Mutamenti _____________________: A –istituzioni e ________________di diffusione __________________ 1- diffusione scuola _______________________ 2 - nuovi ________________________ (fotografia,______________________________ ____________________________________) 3 - sviluppo mezzi comunicazione ________________(giornali, ______________________) 2 + 3 = + velocità ____________________________________________ 4 – la ______________________ come nuova forma di attività ________________+ ____________________________ B – nuovi modelli di ____________ 1 – crescita ________________________ 2 – consumi culturali da _____________a __________________ 1900-1940 La cultura della crisi orientamento logico ed empiristico: Russell (1872-1970) 1920-1960 Nietzsche (1844-1900) Freud (1856-1939) Storicismo: Dilthey (1833-1911) Spiritualismo: Bergson (1859-1941) Fenomenologia: Husserl (1859-1938) Analitici e Continentali Primo Wittgenstein (1889-1951) Filosofia della scienza: Circolo di Vienna (Schlick,Carnap e Neurath) Popper (1902-1994) 1960 Secondo Wittgenstein (1889-1951) Filosofia del linguaggio: Austin (1911-1960) Filosofia della scienza: Khun (1922-96) Esistenzialismo:Primo Heidegger (1889-1976), Jaspers (18831969), Sartre (1905-80), Merleau-Ponty (1908-61). Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse) La svolta linguistica Secondo Heidegger (1889-1976) Ermeneutica: Gadamer (1900-2002), Lévinas (1905-1995) Post-strutturalismo: Foucault (1926-84), Derrida (1930-2004) 2 1. Dalla crisi di fine secolo alla cultura della crisi 1.1 Il crollo delle certezze e le rivoluzioni teoriche di inizio Novecento 1.2 Le risposte della filosofia DALLA CRISI DI FINE SECOLO ALLA CULTURA DELLA CRISI IL CROLLO DELLE CERTEZZE E LE RIVOLUZIONI TEORICHE DI INIZIO 1.1 Il crollo delle certezze e le rivoluzioni teoriche di inizio Novecento La dimensione epocale del crollo delle certezze che si è verificato nella cultura europea di fine Ottocento, legata a quella che è stata chiama la crisi di fine secolo, è stata colta pienamente riconosciuta solo nella seconda metà del secolo scorso. È stato un filosofo francese, Paul Ricoeur (1913-2005), a utilizzare una formula molto felice, riferita a Marx, Nietzsche e Freud, — «filosofi del sospetto. — per esprimere questa visione critica della soggettività e della coscienza entro i cui termini il sospetto è appunto quello esercitato dal pensiero sulla pretesa della coscienza stessa di essere padrona di sé e del tutto evidente a sé. “Il filosofo educato alla scuola di Descartes sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza.” (P. Ricoeur, Dell’inteipretazione Saggio su Freud). Mentre con Marx scopriamo che per comprendere e determinare l'essere del soggetto dobbiamo partire dalle condizioni materiali e dai rapporti sociali e produttivi, e con Nietzsche che il soggetto altro non è che la maschera dietro la quale si nasconde la profonda illusione del pensiero metafisico, che induce l'uomo a credere nell'esistenza di verità immutabili, con il pensiero di Freud la crisi del soggetto diviene strutturale. L'identità di io e coscienza è infatti il bersaglio principale della psicoanalisi freudiana. La tesi di Freud è che la vita psichica dell'io non è contenuta e non si esaurisce nella coscienza, perché al di là di questa si nasconde un autentico abisso, l'inconscio. Con inconscio dobbiamo intendere un luogo psichico, sede di desideri inappagati e inibiti, rimossi dalla coscienza, che rende l’io sconosciuto a se stesso. Questi autori avrebbero quindi smascherato la falsa coscienza che illude i il soggetto, mettendo invece a nudo le strutture profonde della realtà, cioè i rapporti materiali ed economici (Marx), la volontà di potenza (Nietzsche), e l'inconscio (Freud), regalando a tutti una possibilità di liberazione e forse di realistica felicità Se possiamo considerare Marx, Nietzsche, Freud in prospettiva come i maggiori risultati filosofici della crisi delle certezze a distanza di più di un secolo siamo in grado di individuare le due più importanti rivoluzioni teoriche che, all'inizio del Novecento, hanno coinvolto rispettivamente il campo delle scienze fisico-matematiche e quello delle scienze umane, determinando un nuovo corso della cultura nel suo complesso. Si tratta di quella compiuta da Albert Einstein con la teoria della relatività, dai fisici che posero le basi della meccanica quantistica e di quella compiuta da Sigmund Freud con la fondazione della psicoanalisi. Queste rivoluzioni hanno avuto un'incidenza profonda sulla cultura, hanno cioè prodotto tali innovazioni da costringere, per così dire, tutti gli studiosi a rivedere modi di pensare inveterati, teorie ritenute immodificabili, credenze consolidate nel tempo. In altri termini, non hanno solo modificato radicalmente i quadri concettuali della fisica-matematica e della psicologia, ma hanno determinato un nuovo modo di considerare i fenomeni della nostra stessa vita quotidiana, un nuovo modo di usare i nostri strumenti concettuali per comprendere sempre più approfonditamente il nostro mondo (naturale e umano). I rivolgimenti prodotti da queste due rivoluzioni hanno reso necessario un riesame completo dei metodi di indagine e del concetto NOVECENTO La crisi di fine secolo A - Filosofia: i __________________________ la visione critica della ____________ _________e della ________________ Cartesio dubbio = _____________ ma non ________________________ Marx, _________________ e _______ Soggetto ≠ _________________ Per Marx Soggetto = ___________ ______________________________ Per Nietzsche Soggetto = _______ __________________ Per Freud Soggetto = __________ B – scienze ______________________ La teoria _______________________ di ______________________ C – scienze ______________________ La ________________________ di ________________ La necessità di ___________________ _______________________________ 3 stesso della razionalità scientifica. La discussione otto-novecentesca in campo filosofico- scientifico ha origine dallo stesso progresso teorico che conduce a mettere in discussione taluni dei presupposti epistemologici, in qualche caso anche secolari, intorno ai quali si era organizzato il sapere scientifico, particolarmente nelle discipline logico-matematiche e nella fisica. Già poco dopo la metà del secolo, la formulazione di geometrie fondate su presupposti non euclidei dimostra che non si può decidere in modo ultimativo della corrispondenza fra le rappresentazioni dello spazio e le sue proprietà fisiche: la geometria non può dunque presentarsi più come scienza apodittica, fondata sull'evidenza a priori dell'intuizione spaziale, ed è costretta a ricercare nella correttezza logica delle deduzioni il solo criterio di validità delle proprie rappresentazioni. Ma è la stessa centralità dell'evidenza intuitiva quale garanzia ontologica delle verità geometrico-matematiche a venirne messa radicalmente in discussione. Negli stessi anni, la fisica è interessata da una vera e propria rivoluzione teoretica che ha come oggetto il modello della meccanica classica elaborato da Newton e Laplace. Quest'ultimo si fondava sull'assolutezza delle coordinate spaziotemporali, sul presupposto "ontologico" dell'esistenza di un ordine naturale determinabile attraverso rapporti di causa-effetto e sulla distinzione e indipendenza fra soggetto conoscente e oggetto indagato, tra osservatore e osservato. Nonostante tutti i tentativi di "salvare" il modello meccanicistico come paradigma all'interno del quale collocare i programmi di ricerca e i risultati delle diverse discipline fisiche, la crisi del meccanicismo stesso diventa irreversibile nei primi decenni del nuovo secolo: nel 1905, la teoria della relatività di Albert Einstein mostra come spazio e tempo non siano entità assolute, ma dipendano dagli strumenti di osservazione e dai sistemi di riferimento. Successivamente, verranno messi in discussione due secolari presupposti dell'impresa scientifica: la meccanica quantistica di Bohr (1913) violerà il principio della continuità dei fenomeni naturali; la discussione intorno alla natura della luce condurrà ancora Bohr (1927) ad ammettere la complementarietà di due teorie alternative, la corpuscolare e l'ondulatoria, per spiegare uno stesso fenomeno. Contemporaneamente, il principio di indeterminazione formulato da Heisenberg fa vacillare il caposaldo del determinismo, ovvero la possibilità di predire con certezza gli stati futuri di un sistema fisico conoscendo le condizioni di partenza, e rivela come ogni osservazione interferisca inevitabilmente con il sistema osservato. Due espressioni nate nell'ambito del pensiero ottocentesco — «scienze dell'uomo», ricorrente nel linguaggio di Comte, e «scienze dello spirito», appartenente al lessico dello storicismo tedesco — preludono allo sviluppo di un nuovo campo di indagine che si esprimerà pienamente nel Novecento: quello delle scienze umane, discipline scientifiche — come la sociologia, la psicologia, l'antropologia, l'etnologia, la storiografia, la linguistica, le scienze dell'educazione, le scienze politico-giuridiche — che studiano l'uomo e le sue manifestazioni culturali e spirituali. Sotto la spinta della crescita economica, la società europea si fa sempre più complessa, così che, per comprendere e guidare i fenomeni evolutivi che la attraversano, si rendono necessarie capacità di analisi sempre più sofisticate, che a loro volta richiedono conoscenze teoriche e competenze tecnico-pratiche altrettanto articolate. Contemporaneamente il rischio di soffocamento delle individualità, già messo in luce dalle correnti liberali, si accentua, mentre cresce il senso di disagio soggettivo di fronte ai grandi apparati politico-burocratici che sovrastano il singolo. Per governare questo intreccio di processi che fuoriescono dagli schemi noti, si B – SCIENZE ___________________ 1 – Le geometrie non ______________ non una ma diverse _______________ dello spazio 2 – La ______________________ Il superamento del modello ________ _______________________ A – Einstein: ____________________ non ________________ B - ____________: no ___________ ______________________________ C – Bohr: complementarietà ________________________ D – Heisemberg: no _______________ E – no oggetto _____________ ma ___________ _____________ C – SCIENZE ___________________ sociologia, la psicologia,___________ ______________________________ ________________ sociale + ___________________ individualità nascita ________________________ 4 avverte l'esigenza di conoscere più approfonditamente il mondo umano, guardando all'uomo come individuo nella sua dimensione psicologica soggettiva, ai comportamenti linguistici, ai rapporti individuo e società, al problema della coesione sociale, alle forme del potere, al confronti tra culture e gruppi umani diversi nelle varie aree del mondo. A questo bisogno di conoscenze specifiche rispondono appunto le scienze umane. La prima fase di sviluppo delle scienze umane appare in gran parte legata allo storicismo, nel senso che la storicità dei fenomeni spirituali di cui si occupano costituisce il denominatore comune di queste discipline, in contrapposizione alle scienze naturali e alle scienze esatte. Le attività umane e i loro specifici prodotti — il linguaggio, l'arte, le istituzioni sociali, i modelli di pensiero e di comportamento — sono visti come espressioni storiche degli uomini, la cui vita non solo si colloca nella storia, ma anche si svolge all'insegna della consapevolezza storica. Le discipline che si occupano dei prodotti umani — come la linguistica, la sociologia, la psicologia, la scienza politica, e così via — sono quindi considerate inizialmente dei saperi `storici'. Il rapporto con l'universo storico appare dunque decisivo nella definizione dell'identità delle scienze umane rispetto alle altre scienze, e nel loro percorso iniziale; ma ben presto esse si ramificano in una pluralità di saperi autonomi, ciascuno dei quali individua un proprio metodo di indagine in relazione al proprio oggetto di ricerca. In questo senso le scienze umane tendono progressivamente a liberarsi dalla soggezione sia nei confronti dello storicismo sia della filosofia in generale, e arrivano in molti casi ad appropriarsi, grazie alla loro specifica competenza, di spazi di indagine un tempo da essa occupati. Il processo di allontanamento o di emancipazione dalla filosofia colloca le scienze umane al di fuori dell'ambito propriamente filosofico. Le loro indagini, tuttavia, in quanto analizzano aspetti specifici della vita e dell'attività umana, hanno rilevanza filosofica, ovvero si intersecano continuamente con quelle filosofiche, in un rapporto di stimolo reciproco: da un lato, le scienze umane offrono il contributo delle proprie autonome riflessioni sul piano del metodo e dell'analisi dei contenuti (lo stesso diversificarsi interno delle singole scienze porta alla luce problemi teorico-metodologici di grande interesse); dall'altro, la filosofia, proponendo interrogativi e temi di carattere generale, spinge ciascuna di esse ad aggiornare continuamente la propria ricerca nel quadro di un orizzonte più ampio. La crisi che investe il soggetto, a opera delle scienze umane, costituisce il motivo primo di confronto con la filosofia. La soggettività umana, identificata dalla tradizione occidentale con la coscienza, con il pensiero in quanto strumento di dominio della realtà, scopre in sé delle strutture — inconsce — che la dominano e di fronte alle quali non dispone di alcuno strumento di controllo. Le intuizioni inquietanti di Schopenhauer e soprattutto di Nietzsche — la volontà cieca e irrazionale, il gorgo oscuro del dionisiaco, l'idea che il soggetto sia solo una finzione grammaticale — trovano ora larga eco e puntuali riscontro in diversi ambiti. In questo contesto si colloca l’opera di Freud che, come abbiamo detto, è l’altra più importante rivoluzione teorica del Novecento. Anche se Freud concepisce in effetti se stesso come un medico e un uomo di scienza, la psicoanalisi sfugge ai criteri di una scienza positiva. Nel lavoro psicoanalitico la conoscenza è ineliminabilmente connessa con la terapia, il soggetto è indissolubilmente implicato, sul piano intellettuale e affettivo, con l'oggetto dell'indagine. Quest'ultima consiste in un lungo processo (le cui conclusioni sono sempre ipotetiche, provvisorie) di decifrazione di segni: i "fatti" da essa privilegiati sono proprio quelli che la psicologia sperimentale relegava ai margini, e in primo luogo i sogni, la cui logica, costruita in violazione delle L’interesse per società e individuo: A - In ambito filosofico 1 ____________________________ Le attività __________________ come attività ________________________ B – La separazione delle ___________ ___________ dalla _______________ Filosofia ____________________ temi di carattere ____________ contenuti e _____________ 2 La crisi della soggettività Schopenhauer, ___________________ e __________________ La _______________________ teorica delle __________________________ A – la _________________________ connessioni tra: - ________________ e terapia - razionalità e ___________________ - metodo = ______________________ 5 tradizionali categorie spaziotemporali e del principio di non contraddizione rivela l'incessante opera di elaborazione e di camuffamento con cui la coscienza si difende dalle pulsioni profonde. L'uomo di Freud è dunque un uomo la cui trasparenza è solo l'obiettivo, mai pienamente raggiungibile, di un faticoso lavoro interpretativo, e la cui razionalità è sempre provvisoria e instabile equilibrio fra conosciuto e ignoto, intellettuale e affettivo; una prospettiva di grande fecondità ma anche problematica inquietante, che Freud radicalizzerà a partire dagli anni venti, a contatto con i drammatici eventi del dopoguerra descrivendo un uomo lacerato e paralizzato dall'eterno conflitto tra Eros e Thanatos, pulsioni creative e pulsioni distruttive, e inevitabilmente represso nei propri impulsi profondi e primari dalle esigenze della convivenza sociale. Nello stesso tempo, la maggiore conoscenza delle culture extraeuropee, che prende slancio nella seconda metà dell'Ottocento grazie al colonialismo e che porterà alla nascita dell’etnografia che farà della ricerca sul campo l’asse portante del proprio metodo d’indagine, mette in crisi l'idea che esista un unico modello di pensiero e di organizzazione logica: quello rappresentato dal pensiero occidentale. L’uomo di ___________________ = _________________ conflitto tra _______________________________ + __________________________ B – L’________________________ Il pensiero _____________________ non unico modello _______________ LE RISPOSTE DELLA FILOSOFIA 1.2 Le risposte della filosofia I primi anni del Novecento minarono dunque la fiducia positivista nel sapere scientifico propria del XIX secolo, dando avvio ad un fenomeno sotterraneo e inarrestabile a cui la prima guerra mondiale darà un'accelerazione definitiva. La Kulturkritik primonovecentesca, cioè la cultura della crisi, rappresentata da autori come Fredrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), Sigmund Freud (1856-1939), aveva già iniziato a demolire la civiltà moderna e la sua fiducia incondizionata nella scienza e nella tecnica, approdando, pur attraverso percorsi diversi, ad una critica del modello positivistico di conoscenza scientifica. La prima guerra mondiale porta quindi tali giudizi solo all'esito definitivo, poiché segna il disfacimento del sogno in un progresso indefinito che aveva dominato ancora la cultura e gli atteggiamenti della Belle époque, espressione francese utilizzata per indicare il periodo storico che inizia alla fine dell'Ottocento e si conclude, appunto, negli orrori della guerra. In crisi non sono solo modelli interpretativi e teorie consolidate, ma il concetto stesso di scientificità comunemente intesa, nonché il ruolo della riflessione filosofica che si era sempre più intrecciata strettamente alla scienza, assumendone metodo e caratteri principali. Questa crisi investe così anche la filosofia, che si trova a riflettere su se stessa e a fare i conti con il proprio ruolo, la propria funzione e ad individuare i suoi compiti specifici. Le risposte a questa domanda furono diverse a seconda dei contesti culturali in cui furono elaborate. In sintesi, possiamo individuare, all'interno del pensiero filosofico del Novecento, due diversi modalità di risposta, che corrispondono ad aree linguisticamente identificabili e a due interpretazioni diverse dei compiti della filosofia. Nei paesi anglosassoni, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si assiste al prevalere di un orientamento logico ed empiristico, che continua a identificare nel discorso scientifico l’unico discorso vero e fa dell'analisi del linguaggio la funzione principale di una filosofia che ha il compito di chiarire gli enunciati scientifici e, stabilendo una linea di demarcazione tra scienza e non-scienza, rimetta in discussione la sua stessa funzione. Questa impostazione, che prende avvio dalla riflessione di filosofi come Bertrand Russell (1872-1970), George Edward Moore (1873-1958) e, a partire dagli anni venti, matura nell’opera del primo Wittgenstein (1889-1951) e nel cosiddetto Lo scenario filosofico decenni del Novecento dei primi La cultura della _______________: _______________________ _________________________ A – l’orientamento ________________ ___________________________ Discorso scientifico = ____________ _____________________________ funzioni filosofia: - ______________________________ - ______________________________ B. Russel, __________________ ______________________, Circolo di __________(___________________) 6 neopositivismo o empirismo logico che, rappresentato soprattutto dal Circolo di Vienna, è interessato a rifondare la conoscenza su basi puramente empiriche mediante la costruzione di un linguaggio unificato e controllabile e l'esclusione delle insensatezze della metafisica. Diverso, invece, è l'approccio assunto nelle filosofie tedesca e francese, dove si sviluppa un atteggiamento antipositivistico che porta alla necessità di affermare le ragioni del rifiuto di un approccio puramente scientifico della realtà. Tale rifiuto si è realizzato in una pluralità di forme che vanno, inizialmente dallo spiritualismo di Bergson (1859-1941), allo storicismo di Dilthey (1833-1911), alla fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938), e dagli anni ’20, dal tentativo di costruire una nuova ontologia, cioè una nuova filosofia dell'essere di Martin Heidegger (18891976), all'esistenzialismo di Karl Jaspers (1883-1969), Jean Paul Sartre , 19051980) e Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), alla teoria critica della Scuola di Francoforte. Se volessimo individuare un tema che fa da sfondo allo scenario filosofico dei primi decenni del Novecento (soprattutto di area tedesca), fino ad investire momenti successivi della sensibilità filosofica europea, potremmo far riferimento al tema della vita, intesa come incessante oltrepassamento delle forme, dei principi e dei criteri di organizzazione che la vita stessa assume di volta in volta nel suo corso storico. Quelle forme — per esempio, le leggi della scienza che interpretano ed esprimono l'energia vitale della natura o, più evidentemente, le culture, cioè l'insieme di norme, posizioni e ruoli sociali, valori in cui credere, usi e costumi, linguaggi, espressioni religiose e di culto, che interpretano di volta in volta l'energia vitale delle diverse società umane — sembrano ingabbiare la vita e il suo sviluppo tumultuoso e quindi presentarsi come non-vita, cioè come il contrario della vita stessa, cui pretendono di imprimere una direzione e un senso precostituiti. Ma la vita stessa non potrebbe riconoscere ed esprimere la propria energica vitalità se non frantumando ciò che le si oppone, cioè le forme, i principi, i criteri di senso e di azione che essa stessa si da. In questo senso il rapporto tra la vita e le sue forme è un rapporto dialettico, perché fondato sulla contraddizione, cioè sul contrasto tra la forma che la vita si dà per affermare se stessa in un certo momento storico e la spinta energica di affermazione che è propria dèlla vita stessa e che non tollera di essere incanalata, guidata e indirizzata. Pensiamo per esempio alle varie espressioni culturali che si succedono nel tempo storico della vita di una società, soprattutto nei passaggi generazionali: le mode, i valori in cui credere e per cui combattere, la concezione della famiglia, i costumi sessuali, le scelte linguistiche o le pratiche religiose. Le diverse forme culturali tendono a conservare sé stesse contro l'irruenza della vita che riesce sempre a superarle generando nuove forme culturali. Dietro dunque all'attenzione per la vita ritroviamo una polemica contro ogni pretesa della ragione di poter spiegare qualsiasi fenomeno in modo definitivo e una rinnovata sensibilità per tutto quello che resta fuori o sembra sfuggire alla determinazione concettuale, cioè a ogni concezione generale elaborata dalla ragione umana — valori, leggi, norme, usi, modelli, principi — che si illude di poter imporre alla vita un senso deciso dall'esterno. È così che la vita si rivela anche, per W. Dilthey, il fondatore dello storicismo, dimensione imprescindibile per comprendere il processo storico e le formazioni culturali che lo attraversano. Le forme astratte, puramente concettuali, cioè non in grado di interpretare il libero corso della vita, diventano appiccicose ragnatele, strumenti di morte che lo spirito deve sentirsi libero di squarciare, rifiutando ogni dogmatismo, cioè ogni concezione precostituita del mondo che pretenda di portare nel mondo un senso, senza ascoltare il senso che emerge di volta in volta dalla storia e dalla vita umana, rimanendo interno alla storia e alla vita umane. Scrive Dilthey, nel suo Introduzione alle scienze dello spirito (1883): «I fatti spirituali che si sono sviluppati storicamente nell'umanità e che sono stati battezzati scienza B – l’atteggiamento ______________ (la cultura della ________________) Discorso scientifico non ___________ ______________________________ 1 – Lo ______________________ di ________________________ vita = ________________________ dei criteri di _____________________ il rapporto ______________________ tra la vita e le sue forma l’impossibilità di imporre _________ ____________ dall’esterno Sapere _______________________ CTR Sapere ________________________ 7 dell'uomo, storia, sociologia, costituiscono la realtà che noi vogliamo non dominare, ma anzi tutto capire. Il metodo empirico vuole che in questo gruppo di scienze il valore dei singoli procedimenti di cui il pensiero si serve per risolvere qui suoi problemi venga sviluppato in senso storico critico .. . Tale metodo è in contrasto con quello oggi troppo frequentemente adottato, proprio dai cosiddetti positivisti, che deriva il contenuto del concetto di scienza da una definizione del sapere nata per lo più nell'ambito delle scienze naturali e decide a quali attività intellettuali spetta il nome e la dignità di scienza partendo da esso». Della necessità di una nuova filosofia era convinto anche un altro filosofo, Henri Bergson (1859-1932), che, come conduce un'opposizione al positivismo e al suo culto nei confronti della conoscenza scientifica intesa come immancabilmente efficace, perché basata sul diritto esclusivo dei semplici dati di fatto a fornire la chiave di lettura del mondo e generalmente improntata ad un atteggiamento riduzionistico. La scienza, erigendo un solo aspetto della realtà (per esempio la materia o il pensiero) a criterio unico della sua interpretazione, impedisce infatti di cogliere, attraverso le nuances, ovvero attraverso le mille sfumature di cui la realtà è composta, il nuovo, le novità, la pluralità e il cambiamento, che sono le caratteristiche più rilevati della realtà effettiva. Per Bergson, la realtà, l'essere, come aveva compreso Eraclito agli albori della filosofia, è un perpetuo divenire che «si fa o disfa, ma non è mai qualcosa di fatto». All'interno di questa messa in discussione delle concezioni filosofiche positivistiche che ebbe luogo soprattutto nella cultura tedesca si colloca anche la fenomenologia, strettamente legata al nome di Edmund Husserl (1859-1938), suo fondatore e rappresentante principale. In opposizione ai positivisti che pensavano i dati, i fatti, le cose come entità puramente oggettive la fenomenologia si propone di studiare le diverse modalità in cui le cose del mondo si manifestano alla coscienza, sottolineando come che il carattere oggettuale che caratterizza la realtà sia il risultato di «attribuzione di senso» operata dalla coscienza. Non è difficile esemplificare che cosa intenda Husserl con "attribuzione di senso". Si tratta infatti di ciò che facciamo costantemente quando percepiamo qualcosa. Mentre, ad esempio, vedo il lato del libro rivolto a me, sono consapevole che c'è un lato che non mi si mostra, dunque che il libro trascende il mio attuale vissuto di coscienza. Qualora cambiassi prospettiva, capovolgendo il libro o alzandomi e girando attorno al tavolo, continuerei a rimanere persuaso che il lato che non vedo più sia ancora lì, ossia che appartenga al libro, sia un lato del libro e non semplicemente un'illusione, un sogno, una fantasia, in una parola un mio vissute psichico. Ciò è avvenuto, secondo Husserl, grazie all'attribuzione di senso oggettuale. La riflessione fenomenologica consente di rivolgere lo sguardo all'origine delle infinite attribuzioni di senso compiute costantemente dalla coscienza. La maggior parte dell'infaticabile ricerca di Husserl è appunto dedicata ad analizzare e descrivere i diversi modi in cui dalla vita immanente della coscienza sorge il senso trascendente degli oggetti. Proprio per questa sua critica contro il modello positivistico della conoscenza, il movimento fenomenologico ispirerà, e si intreccerà con, le filosofie esistenzialistiche successive ed eserciterà una profonda influenza in molti campi del sapere, dalla psicologia, all'etica, all'epistemologia, alla religione, all'estetica. Anche la fenomenologia e l’esistenzialismo riconosceranno nella scienza solo uno tra i tanti possibili atteggiamenti o manifestazioni della vita spirituale e pratica, dell'uomo. Affidando alla filosofia il compito di analizzare il modo d'essere dell'uomo che è a fondamento di tutte quelle manifestazioni, la fenomenologia riconoscerà alla filosofia il compito di analizzare gli atteggiamenti fondamentali da cui si origina tutto il mondo della conoscenza e della vita dell'uomo e l'esistenzialismo quello di analizzare il modo d'essere dell'uomo (esistenza) nel suo rapporto con l'essere. 2- Lo ________________________ di ________________________ semplici _______________________ CTR ____________________________ 3 – La __________________________ di __________________________ fenomenologia = _________________ ______________________________ Le ___________________________ ____________della _______________ Anni venti: primo Heidegger (ontologia) Esistenzialismo (Sartre) Compito filosofia: Fenomenologia = analizzare l’origine della ___________________________ Esistenzialismo = analizzare le _____ ______________________________ 8 2. Analitici e continentali e la svolta linguistica 2.1 La filosofia analitica: filosofia della scienza e filosofia del linguaggio ANALITICI E CONTINENTALI E LA SVOLTA LINGUISTICA ordinario 2.2 Wittgenstein e la teoria dei giochi linguistici 2.3 La filosofia continentale: l’ermeneutica 2.4 La filosofia continentale: strutturalismo e post- strutturalismo e il problema del soggetto La distinzione tra _______________ e ____________________________ Uno dei modi comunemente accolti di presentare la filosofia della seconda metà del Novecento è stata la distinzione tra una filosofia analitica e una filosofia continentale, fra due tradizioni riconoscibili, opposte e spesso tra loro in polemica. A parte il fatto che anche in questo caso non occorre essere rigidi nelle delimitazioni temporali in quanto è possibile, per entrambe, ricostruirne i presupposti primo-novecenteschi, bisogna rimarcare che mentre il termine «analitico», individua una precisa tradizione filosofica, che ha tra i suoi protagonisti Wittgenstein, i neopositivisti e Ayer, il termine «continentale» fa riferimento a un’area geografica in cui sono rintracciabili più tradizioni (quella fenomenologico-esistenziale, il marxismo francofortese, lo strutturalismo o l’ermeneutica). Ciò nonostante, nel secolo scorso, a partire dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta-settanta il dibattito sulla natura della filosofia si è caratterizzato davvero nella distinzione e nell'antitesi tra un modo analitico di fare filosofia e un modo continentale. È infine da sottolineare che sia per gli analitici che per i continentali è stata centrale la riflessione sul linguaggio esaminato, dai primi, nella sua capacita di descrivere il mondo dell’esperienza, i fatti per avvicinarci alla verità e come prodotto storicoculturale che consente di interpretare i fatti, dai secondi. Da questo punto di vista si può sicuramente concordare con chi ritiene che il dibattito filosofico della seconda metà del Novecento sia stato incentrato sul problema del linguaggio. limiti: - ____________________________ - una ________________________ (________________________) CTR più __________________________ (________________________) Un tema ____________________: __ ____________________ il Novecento = secolo del __________ __________________(la svolta ____ ___________________) 2.1 La filosofia analitica: filosofia della scienza e filosofia del linguaggio ordinario In termini generali, viene definito «analitico» un movimento filosofico ampio e variegato che, tenendo conto dei lavori di Wittgenstein e dell'incontro tra pragmatismo e neopositivismo, si caratterizza per la pratica della filosofia come analisi rigorosa del linguaggio e dei suoi usi, per l'interesse rivolto alla logica formale, per la ricerca di strategie argomentative dimostrative. Generalmente, con l'espressione filosofia analitica si intende perciò non una precisa corrente della filosofia, ma una vasta tradizione di pensiero che:è in larga parte di lingua inglese, almeno da un certo punto della sua storia in poi; include al proprio interno un primo orientamento interessato soprattutto al problema della scienza, comprendendovi quindi il neopositivismo o empirismo logico o positivismo logico (Schlick, Carnap e Neurath), ma anche autori che da essi si allontanano fin dagli anni trenta, come cui K. R. Popper (1902-1994) o, più recentemente, i cosiddetti post-positivisti tra cui T. S. Khun (1922-96); a partire poi dal secondo Wittgenstein la filosofia analitica ha dato vita a un secondo orientamento che, condividendo con l’altro orientamento l’interesse per il linguaggio, ha esteso le proprie indagine anche al linguaggio quotidiano. «Tutta la filosofia è critica del linguaggio» aveva detto Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, esprimendo la convinzione che i problemi filosofici non LA FILOSOFIA ANALITICA Filosofia = analisi del __________ ______ e dei suoi _______________ A – Filosofia della ______________ 1 – Il primo __________________ Problemi __________________ = problemi di ___________________ 9 siano altro che problemi linguistici, risolvibili attraverso l'analisi del linguaggio. Questo intento, che caratterizza la cosiddetta «svolta linguistica» avvenuta in filosofia, aveva animato anche i neopositivisti di Vienna e di Berlino e la loro battaglia contro il linguaggio insensato della metafisica. Secondo i neopositivisti (Circolo di Vienna, anni ‘20-’30 del XX secolo) per spiegare la scienza occorre riconoscere che essa dipende sia da fattori empirici (i fatti dei positivisti) che da fattori logico-linguistici, in quanto l’osservazione dei fatti è inevitabilmente espressa in enunciati linguistici costruiti secondo le regole che governano l’uso dei simboli linguistici. In questo modo la scientificità di una teoria dipende dalle procedure di verifica degli enunciati che rimandano ai fatti. Procedura di verifica che, essendo necessariamente ristretta a un numero limitato, di casi non può dar luogo a una certezza assoluta quanto invece a una probabilità di conferma degli enunciati osservativi che costituiscono una certa teoria. K. R. Popper (1902-1994) ha contrapposto alla centralità che continuavano, anche nell’impostazione neopositivista, a mantenere i fatti la centralità della ragione, ammettendo che le teorie scientifiche sono congetture della nostra mente che osserva la realtà non in modo passivo, ma attraverso aspettative e ipotesi alla luce delle quali percepisce la realtà. Tali congetture devono essere considerate sempre confutabili dall’esperienza e quindi non rappresentano la verità quanto dei tentativi di approssimarsi gradualmente alla verità, non potendo mai pervenire a una spiegazione definitiva dei fenomeni. La scienza costituisce il teatro di lotta fra teorie rivali, nel quale hanno il sopravvento le teorie migliori che più si avvicinano alla verità, che meglio corrispondono ai fatti. In particolare, Popper rifiuta l'idea dei neopositivisti che le ipotesi scientifiche possano essere giustificate induttivamente sulla base dell'evidenza osservativa che li aveva condotti ad accettare il criterio della verificabilità per distinguere le proposizioni scientifiche . In alternativa al verificazionismo dei neoempiristi, Popper suggerisce una concezione del tutto diversa del metodo scientifico, nota come falsificazionismo. Il razionalismo critico di Popper supera l'empirismo logico in quanto viene negata la possibilità, da parte della scienza, di raggiungere verità oggettive, ma risulta pur sempre in linea con lo spirito dell'empirismo in quanto il termine ultimo di paragone della validità o meno delle nostre (rivedibili) teorie resta l'esperienza, ossia il controllo empirico. Sia dal neopositivismo logico sia dall'epistemologia falsificazionistica di Popper emerge un'immagine della scienza, e dei criteri in base ai quali valutare il progresso scientifico, che è poi stata oggetto di numerose critiche. L'approccio analitico-formale, propugnato nella prima metà del Novecento dal neopositivismo logico, venne affiancato dall’approccio storico-descrittivo, sostenuto, intorno agli anni Sessanta, soprattutto da Thomas Kuhn. L’epistemologia post-popperiana ha ulteriormente accentuato l’anti-empirismo, già presente in Popper, sulla base della convinzione che non esistono fatti “puri” che siano dati al di fuori dei nostri quadri concettuali e teorici, ma ha anche, contro Popper, messo in evidenza come la concreta storia della scienza non dipenda solo dalla razionalità delle teorie, la maggior approssimazione alla verità di Popper, ma anche da condizionamenti extra-scientifici. Così, ad esempio T. S. Khun (1922-96), ha visto nella scienza non un’attività esclusivamente razionale quanto invece un’attività svolta da un concreto gruppo sociale, gli scienziati, le cui convenzioni e il cui consenso sono in definitiva i fattori che condizionano ciò che è ritenuto scientifico e ciò che non lo è. In questo modo la scienza ha comunque finito per perdere quelle caratteristiche di sapere certo assoluto e oggettivo che aveva per i positivisti ottocenteschi; nello stesso tempo si cominciavano ad evidenziare anche le criticità del rapporto uomo-natura che scienza e tecnologia aveva instaurato o della società che su tale 1 - Neopositivismo (______________ ________________________) Scienza = _____________________ espressa in _____________________ scientificità = __________________ degli enunciati poiché limitata scienza = ____________________ 2 – _______________________ Aspettative (_________________) __________________ __________ ___________ (teorie) falsificabili Scienza = lotta tra _______________ con il soppravvento delle __________ ___________________________ Dal criterio della _________________ al criterio della _________________ 3 - ___________________________ Dall’approccio __________________ all’approccio ____________________ dai _____________________ ai condizionamenti _________________ Il gruppo ___________________ ___________________________ Dalla fiducia alla ____________: scienza ____________________, società industriale, ______________ ________________ 10 tecnologia si fondava, la società industriale, nonché del modello antropologico imposto da tale società. Tutte queste teorie epistemologiche hanno comunque finito per riconoscere alle conoscenze scientifiche o un carattere probabilistico (neopositivisti) o un carattere non definitivo (Popper) o convenzionale, influenzato da fattori extrascientifici (post-popperiani). A determinare il secondo campo di indagine della filosofia analitica è stato ancora una volta Ludwig Wittgenstein che, dopo aver abbandonato per alcuni ani la carrier accademica, nel 1929, era tornato a Cambridge in Inghilterra, iniziando un fecondo periodo di approfondimento e di ripensamento delle tesi del Tractatus, che avrebbe influito notevolmente sullo sviluppo di ricerche filosofiche successive, incentrate non solo più sull'analisi rigorosa del linguaggio scientifico ma anche di quello ordinario, in relazione ai suoi «usi», all'interno di condotte di vita e di comunità di credenze e di pratiche. J. L. Austin(1911-1960) è il più originale rappresentante di questo secondo interesse dominante nella filosofia analitica che ha dato vita alla cosiddetta filosofia del linguaggio ordinario che ha identificato la filosofia con una sistematica e minuziosa analisi del linguaggio ordinario, volta, da un lato, ad esaminare i problemi posti dal linguaggio, con gli errori e i fraintendimenti che esso comporta, e, dall'altro, a individuare e a risolvere problemi chiarendo il significato delle proposizioni adottate. Intende il significato dei termini non come corrispondenza fra essi ed elementi della realtà (come aveva sostenuto il primo Wittgenstein), ma in riferimento al loro uso e alla correttezza di tale uso rispetto alle regole prescritte dal sistema linguistico di cui essi fanno parte ((come sosteneva il secondo Wittgenstein). L'analisi logico-linguistica viene intesa come opera di chiarificazione concettuale volta a risolvere problemi. Se ne mette, perciò, in rilievo la funzione euristica, cioè la capacità di trovare soluzioni ai problemi teorici. Vi è una costante attenzione verso i più disparati tipi di linguaggio, verso le concrete forme d'uso dei linguaggi, piuttosto che verso i loro princìpi logicoformali. In tale ambito si esprime anche un interesse positivo per l'uso linguistico dei termini nelle proposizioni della metafisica che non vengono trattate come pseudoproposizioni, cioè proposizioni prive di senso (come aveva fatto, ad esempio, Carnap e il neopositivismo sulla base della loro non verificabilità) ma solo studiate con lo scopo di comprendere quel particolare "gioco linguistico", lo specifico uso dei termini e delle proposizioni che esso adotta e che è determinato dalle regole interne al gioco stesso. Sia che privilegi la scienza (neopositivisti, Popper, epistemologia) o il linguaggio e il senso comune (Wittgenstein, filosofia del linguaggio) come campo d’indagine, in ogni caso la filosofia analitica è comunque caratterizzata dal riconoscimento di un rapporto privilegiato tra linguaggio e filosofia e, più drasticamente, dalla convinzione che i problemi filosofici siano problemi di linguaggio, configurandosi così, in molti autori rappresentativi, come una filosofia linguistica, rivolta o alla formulazione di un linguaggio perfetto, lontano dalle incertezze, dalle ambiguità e dagli inganni del linguaggio ordinario (primo Wittgenstein e neopositivisti) , o chiarificare i significati e usi del linguaggio comune (filosofia del linguaggio). Si presenta inoltre come uno stile di pensiero rigoroso e di frequente polemico contro le concezioni metafisiche che hanno animato e spesso dominato la sviluppo della filosofia occidentale e, più in generale, contro l'approssimazione argomentativa ed espressiva della filosofia precedente e coeva, considerata, in alcuni casi, addirittura più vicina alla letteratura che al pensiero rigoroso. Il valore della scienza: __________________ (neopositivisti) ______________________ (Popper) convenzionale (________________) B – Filosofi a del ________________ _____________________ 1 – secondo _____________________ 2 - ___________________________ L’analisi dell’ ______________ del linguaggio____________________ per risolvere ____________________ che ____________________________ I giochi ___________________ (vedi Wittgenstein) Caratteri comuni della filosofia analitica: 1- __________________________ _____________________________ 2 – rifiuto ______________________ ___________________________ 11 2.2 Wittgenstein e la teoria dei giochi linguistici Il primo Wittgenstein e la svolta Le Ricerche filosofiche e la teoria dei giochi linguistici Il primo Wittgenstein e la svolta WITTGENSTEIN E LA TEORIA DEI GIOCHI LINGUISTICI Il primo Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus) e la svolta Linguaggio e __________________ = Ludwig Wittgenstein (1889-1951), uno dei padri fondatori della filosofia analitica e uno dei massimi filosofi del Novecento, è noto soprattutto per avere scritto il Tractatus logico-philosophicus, che rimarrà l’unico suo testo pubblicato in vita (1921/1922), e le Ricerche filosofiche (1953). Nel primo, Wittgenstein ritiene di aver dato risposta a quello che considera il problema fondamentale della filosofia: come il linguaggio possa rappresentare la realtà. Il primo Wittgenstein pensa che il linguaggio rappresenti la realtà perché linguaggio e realtà hanno una struttura comune. Si tratta, ovviamente, di una struttura logica. Null'altro potrebbe infatti essere presente tanto nella realtà quanto nella proposizione. Un po' semplificando si può dire che i nomi stanno per gli oggetti del mondo e che le relazioni in cui i nomi si trovano all'interno delle proposizioni rappresentano le relazioni in cui gli oggetti si trovano nel mondo. La proposizione, dunque, rappresenta la realtà nel senso che la raffigura. Wittgenstein suppone, dunque, da un lato, che le proposizioni rappresentino la struttura logica dei fatti e, dall'altro, che i nomi corrispondano agli oggetti. Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein si oppone nettamente e decisamente alla teoria del linguaggio che aveva esposto nel Tractatus. Con il Tractatus, Wittgenstein ritiene di avere detto tutto quello che è possibile dire nei limiti del linguaggio scientificamente corretto e di non poter dire alcunché su tutto il resto. Negli anni successivi egli non si occupa professionalmente di filosofia e vive facendo il maestro elementare. Forse proprio il rapporto con i bambini e l'osservazione dei loro comportamenti linguistici lo convince che anche il linguaggio non scientifico può essere sensato, che bisogna andare al di là del Tractatus, dove si prende in esame solo una parte minoritaria del linguaggio. Di qui la svolta: la filosofia deve occuparsi dei linguaggi ordinari non formalizzati, prendendo in esame i concreti usi linguistici. La convinzione che il linguaggio debba essere spiegato in base al suo parallelismo con la realtà, che esista una forma linguistica privilegiata, un linguaggio primo, puro e ideale che raffigura il mondo, lascia il posto al riconoscimento della pluralità dei nostri modi di parlare, che deriva dalla pluralità delle forme di vita vissute dagli uomini. Il ritorno a Cambridge e la ripresa dell'attività filosofica aprono la fase del `secondo Wittgenstein', una fase di ripensamento, che si concretizza in una consistente massa di appunti e riflessioni elaborati negli anni 1936-1949, di cui i più significativi sono raccolti nelle Ricerche filosofiche (pubblicate nel 1953). Quest'opera è in realtà assai difficile da inquadrare nella tradizione filosofica: si tratta, per ammissione dell'autore, di una demolizione delle sue idee precedenti. Tuttavia, nella misura in cui il Tractatus rappresenta il culmine di una tradizione filosofica dominata dalla ricerca dell'essenza dei fenomeni, da scoprire e disvelare scavando sotto la superficie del linguaggio e del suo uso effettivo, le Ricerche, rompendo nettamente con questa impostazione, risultano un testo particolarmente critico nei confronti della tradizione metafisica occidentale, se non il testo critico per eccellenza di quella tradizione. Nelle Ricerche filosofiche la filosofia non è più concepita come teoria ma come terapia, come cura, cioè, dei fraintendimenti del linguaggio e del suo funzionamento da cui, secondo Wittgenstein, avrebbero origine i cosiddetti «problemi filosofici». Questi, in realtà, non sarebbero problemi genuini, passibili di _______________ logica __________ nomi __________________ _____________________ relazioni _________________________ la proposizione ___________________ la realtà l’abbandono della ________________ l’interesse per ____________________ _________________________ Il secondo Wittgenstein (Ricerche filosofiche) dal linguaggio che ________________ il mondo alla __________________dei linguaggi la critica al ______________________ e alla ___________________________ La filosofia come _________________ dai pseudo- _______________originati dal _____________________ del linguaggio Wittgenstein e ___________________ 12 vere soluzioni, bensì pseudo- problemi nati dal cattivo uso del linguaggio. Alla luce di questo atteggiamento ferocemente critico della tradizione filosofica occidentale e dei suoi metodi, molti considerano Wittgenstein come uno degli iniziatori del postmoderno, insieme con Nietzsche, Heidegger e Derrida. LE RICERCHE FILOSOFICHE E LA TEORIA DEI GIOCHI LINGUISTICI Le Ricerche filosofiche e la teoria dei giochi linguistici La svolta rappresentata dalle Ricerche, rispetto alle tesi precedentemente sostenute da Wittgenstein, ha indotto gli studiosi a parlare di un "primo" e di un "secondo Wittgenstein", per sottolineare la notevole differenza che intercorre tra le nuove posizioni e quelle contenute nel Tractatus. Per il secondo Wittgenstein la ricerca può essere condotta solo osservando il farsi effettivo del linguaggio. Il suo fine non potrà quindi più essere l'edificazione di una teoria, ma solo il tentativo di sradicale i pregiudizi che spesso conducono a una rappresentazione erronea dei fenomeni. L'attività filosofica, quindi, avrà essenzialmente il valore di una terapia, cioè, dice Wittgenstein, di una cura dei «bernoccoli» che ci facciamo quando ci fissiamo su un aspetto particolare del linguaggio e da questo estrapoliamo il suo funzionamento in generale. Ora, questi bernoccoli non ce li facciamo perché siamo stupidi, ma perché il linguaggio ci induce spesso in errore. Sovente, infatti, presenta analogie superficiali che ci spingono a trattare in maniera simile fenomeni in realtà molto diversi. Per esempio, "anima" e "mente" sono nomi, proprio come "tavolo" e "sedia": non è facile quindi resistere alla tentazione di considerare oggetti ciò a cui rimandano, sulla scorta di quanto facciamo abitualmente con "tavolo" o "sedia". Anche la parola "significato" è un nome: che cosa vi è quindi di più naturale del pensare che il significato di una parola sia un oggetto, materiale o astratto? "Pensare", "comprendere" sono verbi al pari di "camminare" e "cucinare": sembra quindi giocoforza ritenere che descrivano processi, non manifesti come questi ultimi, ma interiori. Ecco quindi palesarsi davanti a noi, in maniera del tutto naturale, un'intera «mitologia»: che l'anima e la mente siano oggetti e che comprendere il significato di una parola sia un processo cognitivo che ci metta in grado di afferrare questo oggetto misterioso. Ma, a ben guardare, le cose non stanno così. Dobbiamo quindi curarci, e la terapia avrà effetto quando giungeremo a estirpare dal nostro intelletto quelle immagini che ci tenevano prigionieri, pervenendo a una «rappresentazione perspicua», cioè chiara e nitida, dei fenomeni. Il nostro intelletto avrà così pace, poiché non vi saranno più confusioni su cui arrovellarsi. La terapia avrà quindi effetto se ci permetterà di smettere di filosofare: se i problemi filosofici vengono dissolti, allora non c'è più bisogno di filosofia Una malattia endemica che, secondo Wittgenstein, infesta non solo il Tractatus, ma anche gran parte della nostra tradizione filosofica occidentale, è credere che il significato del nome sia l'oggetto per cui quel nome sta. Questo vuol dire credere che a fondamento di tutto il nostro operare col linguaggio risieda la «definizione ostensiva», cioè una definizione che trascende il linguaggio e ci pone direttamente in connessione con la realtà, come avviene quando diciamo "Questo è giallo" indicando un campione di quel colore, oppure "Questa è una sedia" indicandone una. L'apprendimento del linguaggio consisterebbe così nel compiere queste connessioni tra una parola - "giallo", oppure "sedia" - e il suo correlato extralinguistico. Ma, per comprendere una definizione ostensiva si devono già sapere un mucchio di cose, per esempio, che "giallo" è il nome del colore dell'oggetto che ci viene mostrato e non della sua forma; oppure che "sedia" è il nome dell'oggetto e non del suo fabbricante, e così via. Quindi è sbagliato credere che apprendiamo il Dalla teoria del ________________ alla cura del ____________________ la cura dei ______________________ (bernoccoli) che derivano dall’_______ _________________________ Parole e ________________________ Una parola un oggetto Tavolo oggetto _______________ Anima ? la terapia = la ___________________ _________________ dei fenomeni = liberazione dai _________________ filosofici = ___________________ Gli errori da curare: 1 – i nomi stanno per Se nome ____________________ allora linguaggio _______________ apprendere = ____________________ nome a _________________ 13 linguaggio attraverso queste definizioni, perché in realtà esse presuppongono che si sappia già moltissimo sul linguaggio e sul suo funzionamento. Secondo Wittgenstein, invece, entriamo nel linguaggio mediante l'addestramento, all'interno della nostra comunità linguistica, a usare le parole in un certo modo e a prendere parte alle svariate attività che compiamo con le parole e che fanno parte della nostra «forma di vita». Queste attività, Wittgenstein le chiama «giochi linguistici». Attraverso tali «giochi» apprendiamo che "sedia" è il nome di quel certo tipo di oggetto, con il quale si possono fare certe cose e non altre, perché veniamo addestrati a portare una sedia quando ci viene richiesto, a spostarla se ingombra il passaggio, a salirci sopra quando dobbiamo raggiungere un oggetto che sta in alto. Infatti, è proprio della nostra forma di vita - concetto sfumato che comprende tratti sia biologici sia culturali - che le sedie non si mangino, o che non vengano usate per giocare a pallavolo. Se incontrassimo quindi qualcuno che in tutta serietà ci dicesse che ha mangiato un'ottima sedia, o che ha vinto una partita di "sedia a volo", noi non lo capiremmo: la nostra specie, infatti, non può mangiare legno, colla, chiodi e vernici, e non è proprio delle nostre prassi sportive - anche per ragioni ovvie - usare le sedie per giocare a pallavolo. Wittgenstein intende curare anche un'altra malattia che ha attraversato tutta la filosofia, da Platone in poi: la credenza che la definizione permetta di conoscere l'essenza della cosa — cioè le condizioni necessarie e sufficienti che fanno sì che qualcosa sia quello che è — e che conoscere il significato della parola consista nel conoscerne la definizione, questa volta non ostensiva, ma verbale. Certo, in taluni casi noi abbiamo definizioni esplicite. Pensiamo a "scapolo", definito come "maschio, adulto, non sposato". Ovviamente la definizione ci dice che cosa fa sì che un individuo sia uno scapolo, e, altrettanto ovviamente, conoscere il significato di quella parola vuol dire padroneggiarne la definizione. Tuttavia in molti casi non abbiamo nessuna definizione esplicita. Pensiamo, per esempio, alla parola "gioco". Non siamo in grado di addurre una serie di condizioni necessarie e insieme sufficienti che facciano sì che qualcosa sia un gioco. Proviamo con "attività divertente retta da regole": ne verrebbe escluso il gioco delle bambole, che non è retto da regole. Oppure, semplicemente, "attività divertente": questo escluderebbe dal novero dei giochi gli scacchi, a giudicare dalle espressioni sul volto dei giocatori quando questi sono intenti a pensare a una mossa; in compenso, vi includerebbe il giardinaggio (almeno per molti). Quindi, sembra proprio che non esista una definizione completa di "gioco", oppure che, se c'è, sia del tutto arbitraria. Quindi a nulla vale farvi ricorso per spiegare le nostre capacità categoriali e linguistiche. II concetto di gioco, come quelli di regola, proposizione, linguaggio, filosofia, bellezza, giustizia, e tanti altri sono concetti per «somiglianze di famiglia». Ciò significa che annoveriamo tra i giochi, per esempio, attività che non presentano un insieme determinato di tratti comuni, ma si assomigliano le une alle altre in modi diversi, un po' come i membri di una stessa famiglia: la figlia assomiglia alla madre nella bocca e al padre negli occhi; il figlio, invece, assomiglia al padre nella statura e alla madre nel naso. Eppure noi, vedendoli tutti e quattro insieme, ci accorgiamo, attraverso questa rete di somiglianze, che il ragazzo e la ragazza sono fratelli, anche se non mostrano alcuna somiglianza tra loro. Conoscere il significato di "gioco", quindi, non vuol dire conoscere una definizione, bensì sapere applicare quella parola a un insieme molto vario di attività che mostrano tra loro solo somiglianze di famiglia. La concezione dei concetti proposta da Wittgenstein nelle Ricerche ha una conseguenza assai rilevante: se non vi è qualcosa di comune a tutto quello che chiamiamo "gioco", "famiglia", "bene", "bellezza" e così via, allora non ha neanche senso ricercare questa presunta essenza comune. Da Platone in avanti, però, si è pensato che questo fosse il compito della metafisica e, quindi, il fine più importante ma apprendere = addestramento a ______________ le parole in relazione alla nostra ______________________ ovvero apprendere dei ____________ _____________________________ 2 – le definizioni descrivono _______ __________________________ le definizioni verbali ___________ e li concetti per __________________ di ___________________ Se i concetti si costruiscono per ______________________________ allora NO _______________ comune NO ____________________________ 14 della filosofia. La scoperta apparentemente modesta che i nostri concetti funzionano per somiglianze di famiglia ha pertanto l'effetto dirompente di minare alle fondamenta la metafisica occidentale e di ridurla a una ricerca vuota, provocata dal fraintendimento del nostro linguaggio. La possibilità di comprenderci con i nostri «giochi linguistici» e gli innumerevoli tipi di proposizioni che possiamo impiegare poggia tra l'altro sul fatto che seguiamo delle regole. Ma cosa significa «seguire una regola»? In generale, «seguire la regola è una prassi» appresa generalmente attraverso esempi. Le regole infatti da sole non possono determinare la prassi, ma abbiamo bisogno anche di esempi: del resto, così leggiamo nella raccolta di pensieri intitolata Della certezza (par. 139), «le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa. Inoltre, seguire una regola è anche un'abitudine e non è questione privata: le regole sono sempre pubbliche e seguirle fa parte delle abitudini che si incorporano nell'interazione con gli altri, nelle «forme di vita» in cui cresciamo, con ciò che ci abituiamo a credere, con gli usi in vigore e con le aspettative degli altri nei nostri confronti. Non disponiamo neppure di un linguaggio privato, in quanto usiamo e capiamo le espressioni linguistiche come membri di una società: anche l'espressione «provo dolore» che sembra riguardare un sentimento interno che solo chi la pronuncia può conoscere, ha un significato e viene compresa dagli altri perché esiste un criterio in base al quale si può dire se è corretta o scorretta. Non occorre che gli altri provino lo stesso dolore di chi afferma di provare dolore, per capire il significato dell'espressione: chi parla e chi ascolta deve avere appreso, entro forme di vita, il linguaggio (pubblico) relativo a un certo tipo di sensazioni e i rispettivi giochi linguistici, imparando ad associare agli stati di sofferenza o disagio l'espressione del «provare dolore» (e molte altre correlate). Indagare questi aspetti consente di approfondire come apprendiamo il linguaggio e, in questo modo, il nesso tra significati, prassi e usi, vale a dire i riferimenti ma anche gli effetti che certe espressioni linguistiche provocano. La funzione della filosofia è dunque terapeutica: la filosofia è terapia. Secondo Wittgenstein, il filosofo deve trattare un problema filosofico come il medico tratta una malattia. I problemi filosofici non sono veri problemi, nascono da un uso errato delle parole. Il filosofo deve correggere tale uso errato. Benché Wittgenstein abbia molto criticato la psicoanalisi di Freud, possiamo paragonare la psicoanalisi alla funzione che la filosofia deve avere secondo Wittgenstein. Come la psicoanalisi cura le nevrosi portandole alla coscienza del paziente, così la filosofia affronta e dissolve i problemi filosofici rendendo consapevole il filosofo del corretto e del cattivo uso delle parole. La filosofia, così, non è neppure un gioco linguistico particolare: le parole che si usano in filosofia non hanno particolari regole d'uso, la filosofia è solo la descrizione dell'uso delle parole nei contesti ordinari. Questo modo di intendere il lavoro filosofico ha avuto una vasta influenza sulla filosofia soprattutto di lingua inglese, un'area nella quale è stata ed è dominante la cosiddetta filosofia analitica 2.3 La filosofia continentale: l’ermeneutica Caratteri generali della filosofia continentale Gadamer e l’ermeneutica Le _________________ linguistiche Regola + ____________ + ______ ______ nelle _______________ con gli altri e le ____________________ in cui ________________________ quindi linguaggio sempre _________ _____________________ anche per le ____________________ Filosofia = rendere ____________ dell’uso ___________________ del _____________________ e la filosofia _________________ LA FILOSOFIA CONTINENTALE: L’ERMENEUTICA Caratteri generali della filosofia continentale Benché sia, come abbiamo già sottolineato, forzato tenere insieme tradizioni 15 filosofiche molto diverse che vanno da quelle sorte nel corso del primo Novecento, quali la fenomenologia e l’esistenzialismo a quelle tipiche del secondo Novecento, strutturalismo, post-strutturalismo e ermeneutica, è però possibile indicare almeno alcuni caratteri comuni che le contrappone alla tradizione analitica. Raccogliendo la lezione di Schopenhauer e Nietzsche i continentali vedono la realtà come una costruzione culturale, che muta in funzione di soggiacenti fattori vitali e non è, perciò, suscettibile di un inquadramento razionalmente unitario e fondante. Pensano che la ricerca di un fondamento della conoscenza, così come la specificazione di ben definiti criteri di razionalità e di verità, abbia condotto a esiti fallimentari e intrinsecamente paradossali; e pensano, ancor prima, che tale ricerca corrisponda all'adozione di un atteggiamento che è tanto più metafisico quanto più si fissa su una concezione passiva del soggetto conoscente, dimenticando la dimensione partecipativa, emotiva, corporea, esistenziale dell'essere umano. I continentali rimproverano agli analitici, da un lato, di sottovalutare la molteplicità di aspetti che ineriscono all'esperienza umana - inconsci, emotivi, esistenziali, sociali – e, dall'altro, di ignorare la storicità stessa dell'esperienza, che non riguarda soltanto l'oggetto ma anche il soggetto e le modalità della sua autocomprensione: poiché il pensiero è vita che interpreta la vita, è apertura alla varietà delle sue determinazioni, consapevole finitezza, coraggio di accettare la fallibilità delle risorse conoscitive, disperato tentativo di dare e darsi un senso. È dunque sulla nozione di esperienza che c'è una profonda divergenza dagli analitici. Non c'è solo l'esperienza percettiva e quel suo raffinamento che si ottiene nella pratica osservativo-sperimentale delle scienze (con l'ausilio di protesi artificiali: microscopi, telescopi ecc.). C'è anche l'esperienza esistenziale, carica di emozioni e ancorata a un contesto, che è propria di ciascun individuo nella sua unicità. E c'è infine un'esperienza storica, che pervade i modi della vita sociale, dalla comunità più circoscritta all'umanità nella sua interezza. Una filosofia che valorizzi tutte le forme d'esperienza, descriva la gamma delle loro concrete manifestazioni, le ancori alle loro radici extra-razionali e abbia il coraggio di affrontare i grandi problemi inerenti alla ricerca del senso ultimo della vita umana (o alla vanità di una tale ricerca), non potrà che prendere le distanze dall'astrattezza di una riflessione puramente epistemologica e semantica. Strutturalismo, post-strutturalismo e ermeneutica sono gli indirizzi fondamentali, seguiti dalla filosofia continentale nel secondo Novecento, nel tentativo di realizzare tale tipo d’indagine filosofica. CARATTERI GENERALI DELLA FILOSOFIA CONTINENTALE Gadamer e l’ermeneutica GADAMER E L’ ERMENEUTICA 1 - realtà = _____________________ culturale dettata da _______________ non ________________________ 2 - soggetto _____________________ e dimensioni ____________________ _______________________________ 3 - ___________________________ dell’esperienza La svolta linguistica, che abbiamo detto caratterizzare la filosofia del Novecento, La filosofia come ________________ è ben visibile nell’ermeneutica che a partire dalla presa di coscienza del carattere circolare delle procedure di interpretazione dell'esperienza, completamente permeate di linguaggio, presentare la filosofia come dottrina dell'interpretazione, cioè,appunto, ermeneutica. Il termine ermeneutica, che prima di Hans Georg Gadamer (1900-2002) indicava Testo e ________________________ soltanto una tecnica di interpretazione dei testi, in particolar modo testi giuridici e ______________________________ religiosi, è utilizzato oggi, dopo la pubblicazione della principale opera di Gadamer, Verità e metodo (1960), per indicare un problema filosofico universale. Dall'ermeneutica abbiamo infatti appreso che in ogni testo si nasconde una domanda, o meglio un orizzonte di domande, come direbbe Gadamer, che ci riguarda direttamente e che l'analisi filosofica può portare alla luce solo entrando in un complesso rapporto con il testo, cioè smontandolo e rimontandolo. Il filosofo Friedrich Schleiermacher (1768-1834) ha aperto la strada 16 all'ermeneutica come filosofia dell'interpretazione. Egli infatti è stato il primo a sostenere che il problema ermeneutico non si presenta solo quando valutiamo le possibili interpretazioni di uno scritto, ma tutte le volte che ci troviamo di fronte a un «tu» da interpretare, conoscere, comprendere. Le persone che ci circondano sono un mistero per noi e tutte le volte che ci rapportiamo a loro dobbiamo interpretarle per capire che cosa ci dicono e ci manifestano, come mostra il caso emblematico del fraintendimento. Ogni atto significativo dunque, ogni espressione dotata di senso, e non solo il testo scritto, richiedono un'ermeneutica, un'operazione del comprendere. Da Schleiermacher abbiamo inoltre appreso che il linguaggio è un presupposto imprescindibile del problema ermeneutico. Il linguaggio, che accomuna l'interprete e l'oggetto dell'interpretazione, non è solo un mezzo di comunicazione, uno strumento neutro, ma è un momento istitutivo della nostra percezione del mondo, del nostro modo di stare nel mondo, nel senso che il linguaggio condiziona il pensiero e addirittura lo costruisce. Il pensiero non può prescindere dall'esperienza della mediazione linguistica; così come non viviamo di intuizioni tacite o di telepatie, non pensiamo senza immagini e senza linguaggio. Il problema ermeneutico si pone proprio perché sappiamo che gli strumenti linguistici non sono estrinseci al pensiero, ma sono intrinseci, fanno cioè parte della costituzione dell'esperienza del pensiero come tale. Facendo tesoro della lezione heideggeriana, ma anche distaccandosene, Gadamer ha fornito alla riflessione successiva gli elementi di una teoria dell'esperienza ermeneutica. In Verità e metodo Gadamer sviluppa una teoria del linguaggio come "mezzo", come elemento mediatore (non strumento) dell'esperienza del mondo. Il linguaggio è sottratto al dominio del soggetto, della coscienza, ed è l'ambito in cui il soggetto incontra l'altro da sé: il mondo, gli altri e l'intera dimensione del nondetto che sorregge sempre il linguaggio espresso, ciò che viene detto. Inoltre, nella comprensione ermeneutica di qualunque fatto della cultura noi siamo condizionati, secondo Gadamer, da schemi che ereditiamo dal passato, dalla tradizione. Se non fossimo già in possesso di queste conoscenze, se non avessimo dei «pregiudizi», non potremmo conoscere nulla: in un certo senso, non possiamo conoscere se non quello che già sappiamo. È quella che Gadamer chiama «precomprensione», che fa sì che la nostra conoscenza abbia un carattere circolare. Non si tratta però di un circolo chiuso: nella ricerca della verità, noi modifichiamo i nostri pregiudizi di partenza e giungiamo a concetti più adeguati; conferiamo sempre nuovi e diversi significati alla tradizione, aprendola così a infiniti sensi. Il senso di questo discorso appare chiaro quando ci troviamo davanti a un testo e lo vogliamo comprendere. Se non avessimo una precomprensione di quello che leggiamo, difficilmente riusciremmo a farci un'idea di quello che ci sta di fronte. Ciò che alla fine diciamo di comprendere è quindi il risultato di un'interpretazione basata su ciò che già conoscevamo prima di intraprendere l'impresa della comprensione. La comprensione non è una struttura rigida, un muro che si costruisce mattone su mattone, ma è il risultato di una dinamica circolare. Essa si sviluppa percorrendo un percorso circolare in cui il punto di partenza e il punto di fine non sono individuabili: l'interpretazione che offriamo di un testo arricchisce di nuove conoscenze il nostro vecchio bagaglio, ma dall'uso di questo nuovo bagaglio dipenderà poi l'interpretazione che daremo di ogni testo ulteriore che leggeremo e cercheremo di comprendere. In altri termini: la precomprensione condiziona l'interpretazione, e questa, a sua volta, modifica la precomprensione, arricchendola e conferendole spessore e significato. Il fatto che la circolarità, invece di significare ripetizione e identità, comporti Schleiermacher (inizio ‘800): 1 - il _________ da interpretare L’estensioni degli atti significativi da _________________ 2 – il linguaggio costitutivo del ______ _______ e del percepire il __________ Schleiermacher + ______________ ________________________ La comprensione è condizionata da: 1 - Il linguaggio che costituisce ______ _____ dell’incontro con ____________ e con ________________________ 2 - ___________________(pregiudizi) = ciò che già __________________ Il circolo ___________________ Pre___________________+ Testo ____________________+ Il carattere ____________________ e ______________________ 17 produzione del nuovo e differenza risulta ancor più chiaro se teniamo conto di un altro concetto: quello del tempo, ovvero quello che Gadamer chiama «l'implicarsi degli orizzonti del passato, del presente e del futuro». Che cosa significa? Riprendendo l'analisi del tempo del suo maestro Heidegger, egli vede nella dimensione temporale qualcosa di irriducibile a un procedimento analitico in cui si può separare nettamente un elemento dall'altro. Il tempo inautentico, quello della fisica newtoniana, è strutturato così: è una successione di istanti fra loro staccati e tutti uguali. Ma il tempo autentico ha un'altra struttura: in esso ogni attimo del mio presente è essenzialmente condizionato dal riferimento allo sfondo di passato da cui proveniamo. Esso è inoltre altrettanto essenzialmente caratterizzato dal suo sporgersi verso il futuro (in ogni momento noi abbiamo una, per quanto ridotta, prospettiva che ci fa andare oltre il nostro presente e che gli dà la sua coloritura, il suo tono). Nessun attimo, insomma, è semplicemente se stesso; ma tende sempre a qualcos'altro. Ne consegue che tutti i prodotti della cultura, della storia, che sono essenzialmente legati al tempo (a differenza degli enti naturali), non hanno un significato fisso e unico, ma molteplice e variabile; anche da questo consegue l'apertura infinita del circolo ermeneutico. 2.4 La filosofia continentale: strutturalismo e post- strutturalismo e il problema del soggetto Il problema del soggetto nella filosofia moderna e contemporanea Foucault: la crisi dell’ideologia umanistica Lévinas: il Medesimo e l’Altro Derrida: il decostruttivismo e la ricerca della differenza LA FILOSOFIA CONTINENTALE: STRUTTURALISMO E POSTSTRUTTURALISMO E IL PROBLEMA DEL SOGGETTO IL PROBLEMA DEL SOGGETTO Il problema del soggetto nella filosofia moderna e contemporanea La riflessione dell'età moderna si è sviluppata a partire dal problema del soggetto. Per soggetto si intende l'individuo capace di comprendere il mondo e di seguire principi di natura morale come guida dei propri comportamenti. Fin dal periodo umanistico-rinascimentale, le filosofie affrontano la questione relativa alla fondazione e alla giustificazione delle possibilità che l'io ha di pervenire alla verità e volgere le proprie azioni in vista del bene. Sia che venisse considerato come ««sostanza» o come «esperienza» sensibile, sia che si fondasse su una ragione universale o su una credenza empirica, l'immagine prevalente del soggetto dava per acquisita l'identificazione tra «io» e «coscienza». Alla metà del XIX secolo si assiste a un mutamento di prospettiva. È da questo cambiamento che dobbiamo partire per comprendere la crisi del soggetto e l'avvento del pensiero della differenza, cioè quella concezione secondo cui la frammentazione del sapere scientifico nei diversi specialismi impedisce la realizzazione del sogno di un sapere totale, dominato da un punto di vista assoluto, e richiede invece una presa d'atto della dispersione e della molteplicità delle forme del sapere. Con i sistemi dell'idealismo tedesco (Fichte, Schelling ed Hegel) si era giunti a considerare il soggetto moderno come una realtà assoluta (l'io in Fichte, l'autocoscienza trascendentale in Schelling e lo spirito in Hegel). Tuttavia, già all'interno di queste filosofie il soggetto finiva effettivamente con l'afferrare del tutto se stesso, con il realizzarsi, con il sapersi soggetto (si pensi all'autocoscienza in Hegel), ma non prima di aver attraversato il confronto e lo scontro con ciò che era altro da sé (che questo altro fossero la natura, gli altri uomini ecc.). Ciò 1 – Filosofia moderna IO (ragione o ccredenza _________ = ____________________ La filosofia contemporanea: dall’______________________ alla ___________________________ 2 - ___________________________ Soggetto _________________ ma attraverso ___________________ 18 significa che già l'io degli idealisti recava in sé una dimensione di negatività da superare per giungere alla piena affermazione della propria realtà di soggetto. Questa modalità di affrontare e risolvere la vicenda del soggetto fu sottoposta a critica lungo tutta la seconda metà dell'Ottocento; critica che trova nel Novecento una radicalizzazione decisiva. Da Schopenhauer a Kierkegaard, da Marx a Nietzsche fino a Freud molteplici sono i tentativi di uscire da un'immagine della coscienza soggettiva come dimensione trasparente a se stessa e conciliata, cioè priva di scissioni, contraddizioni e ombre. È stato, come abbiamo già ricordato, Paul Ricoeur (1913-2005), a utilizzare la formula molto felice, riferita a Marx, Nietzsche e Freud, — «filosofi del sospetto» — per esprimere questa visione critica della soggettività e della coscienza entro i cui termini il sospetto è appunto quello esercitato dal pensiero sulla pretesa della coscienza stessa di essere padrona di sé e del tutto evidente a sé. La filosofia del Novecento radicalizza a tal punto la critica al soggetto da renderla condizione strutturale di ogni possibile interpretazione della stessa soggettività. Ciò significa, se volessimo usare una formula, che all’io non accade di andare in crisi ma che è, come io, la sua stessa crisi. Nella seconda metà del secolo scorso le posizioni dello strutturalismo hanno fortemente contribuito a porre il problema della marginalità e del decentramento del soggetto; al posto del soggetto divengono centrali le strutture e i sistemi entro cui i soggetti agiscono, pensano, rivestono posizioni e ruoli in modo significativo, cioè dotato di un senso riconosciuto dal soggetto stesso e dagli altri. In questo senso sono sistemi il linguaggio, il potere, il sapere, i sistemi di parentela, ma anche l'inconscio o la scrittura. Tutto ciò che afferma un soggetto (e questo già la psicoanalisi lo insegna), il suo consegnarsi a un senso, cioè la sua pretesa di giustificare se stesso in base a determinati significati, non sono che una sorta di effetto di superficie, tutto sommato ingannevole. Foucault: la crisi dell’ideologia umanistica Michel Foucault (1926-1984), continuerà nella critica alla sovranità del soggetto e mostrerà l'impossibilità per quest'ultimo di cogliersi nella trasparenza immediata del cogito, come invece accade in Cartesio, secondo il quale di tutto si può dubitare, ma non del fatto di dubitare, cioè di essere una coscienza che esercita il dubbio. Quella che dunque siamo soliti chiamare nell'espressione ordinaria «presa di coscienza», cioè una piena assunzione di consapevolezza di se stessi, è qui considerata un inganno o per meglio dire un autoinganno. L'uomo che vuole rendersi padrone della sua verità e della sua storia viene mostrato in quello che realmente è e cioè, come sosterrà lo strutturalismo, una piega, una conseguenza secondaria dei linguaggi e dei saperi, a loro volta prodotti dai rapporti di potere in atto nella società, cioè non un attore protagonista, ma una sorta di burattino in mano di strutture che lo sostengono. A entrare in crisi sono dunque l'ideologia umanistica e l'antropocentrismo che si mostrano nella loro estrema fragilità. La domanda da porre è dunque: cosa accade nel posto vuoto lasciato dal soggetto? Potremmo dire che emergono, per usare l'espressione tecnica di Foucault, gli ordini del discorso, cioè i diversi sistemi di sapere con le rispettive espressioni logiche, nei confronti dei quali il soggetto non è più vero soggetto ma, al limite, una funzione enunciativa, cioè appunto una delle espressioni e dei modi in cui tali sistemi dichiarano se stessi. Questo significa che il soggetto non preesiste a questi ordini come se fosse il loro fondamento: ad esempio, non esiste un soggetto «bambino» (quel particolare bambino) che sia tale prima di essere nominato e chiamato Tommaso; e Tommaso si saprà come 3 – Kierkegaard, ________________, maestri del _____________________ la coscienza non _________________ ______________________ L’io non ___________________ ma è la _____________________ 3 – secondo Novecento: _________ _______________ Senso del _______________ = Sistemi e _________________ (linguaggio, _____________________ _______)in cui _____________agisce e ___________________ FOUCAULT: LA CRISI DELL’IDEOLOGIA UMANISTICA L’uomo ______________________ secondaria dei __________________ _____________________________ Il soggetto non ________________ non è _________________ gli ordini del _________________ (sistemi di __________________) 19 Tommaso nella misura in cui, venendo così indicato nell'ordine del discorso quotidiano, imparerà a interiorizzare il suo nome e a pronunciarlo. Il punto è che questo ordine del discorso non si riferisce solo alla forma linguistica ed enunciativa, ma anche al contenuto e qui è importante ricordare l'attacco lanciato da Foucault a quello che lui stesso definisce il «mito dell'interiorità». Caratteristica del soggetto è infatti di pensare, oltre al fatto di essere sempre stato Tommaso anche prima di essere stato chiamato e quindi iscritto in un ordine enunciativo, di avere idee del tutto personali, la cui origine sia nella propria interiorità. Foucault ammonisce che quello che il soggetto arriva a pensare dipende dalle sue prassi discorsive e più in generale dalle prassi, cioè dalle attività pratiche della società cui appartiene. Tommaso, se fosse vissuto in un'altra epoca storica, non avrebbe pensato quello che pensa oggi. Pertanto gli enunciati possiedono una particolare portata materiale e storica. Dietro a ciò che si è soliti definire «soggetto» vi è quindi una dimensione materiale-istituzionale-pratica e in ultima analisi linguistica. Mentre per secoli le dimensioni del soggetto, della coscienza, dell'io sono state poste al centro dei processi storici, come cause delle strutture e dei sistemi con cui la realtà veniva plasmata e organizzata dalla volontà dell'uomo, ora sono viste come effetti di quelle stesse strutture e sistemi in cui l'uomo è inserito e da cui viene inconsciamente plasmato. Con l'affermarsi del pensiero strutturalista, il posto centrale che una volta era occupato dall'uomo viene preso dalle strutture linguistiche (Lacan) e socio-culturali (Levi-Strauss), o dai sistemi di sapere e di potere (Foucault), che determinano la fisionomia e la coscienza degli individui. Le critiche al mito dell’____________ ciò che il ____________________ pensa di ___________ dipende dalle ____________ della società in cui vive Da coscienza _______________e ______________ per plasmare la realtà a _______________e _____________ per plasmare la realtà ___________ sistema: per Lacan: ______________________ Levi-Strauss: ___________________ Foucault: ______________________ Lévinas: il Medesimo e l’Altro Ma proprio nell'ambito di questo processo di decentramento e svalutazione del soggetto, operato dallo strutturalismo, emergono nuove modalità di guardare la soggettività, mettendola in relazione con ciò che la precede, la supera, la determina o l'attende e comunque sempre la eccede. Complessivamente queste nuove prospettive possono essere raggruppate sotto la denominazione di post-strutturalismo, non banalmente perché si collochino dopo lo strutturalismo, ma perché la marginalizzazione e il decentramento del soggetto, che lo strutturalismo ha perseguito, hanno suggerito loro una riconsiderazione del soggetto come snodo di trame e relazioni che lo costituiscono, lo modificano e lo sviluppano. Nel post-strutturalismo, il soggetto non è l'apparenza di una struttura, ma un processo, un'energia che varia al variare delle relazioni che intrattiene con il linguaggio stesso, con gli altri e con la società. In quanto energia il soggetto si esprime soprattutto come attività interpretante, da qui l’interesse per una nuova forma di ermeneutica che, rispetto alla proposta di Gadamer, che nel rapporto fra l'atto interpretativo e la tradizione culturale insisteva soprattutto sulla continuità con il passato, insista di più sul carattere di discontinuità, di rottura dell'atto interpretativo rispetto al passato. A configurare un'ermeneutica della rottura e della novità ha dato un contributo fondamentale il filosofo francese di origine ebraiche Emmanuel Lévinas (19051995), che muove una critica all'intera tradizione del pensiero occidentale, responsabile di aver praticato una particolare forma di «violenza concettuale» che ha ridotto l'«Altro», il diverso, il prossimo a subire l'imperialismo del «Medesimo», dello «Stesso», dell'«Io», impedendo così la possibilità di pensare eticamente l'esistenza. Nella sua opera principale, Totalità e infinito (1961), sottopone a critica l'intera riflessione occidentale: legata al lògos greco (a un tempo "ragione" e "parola"), 4 – Il ________________________ il soggetto in relazione con ________ ____________________ il soggetto come _______________ _______________________ il nuovo modi di intendere ________ ___________________________ LÉVINAS: L’ALTRO IL MEDESIMO E L’Altro ridotto al ________________ 20 essa si è concentrata sull'essere, sull'oggettività; da Platone a Heidegger, ha privilegiato una ragione che, come una luce, porta allo scoperto completamente l'essenza delle cose e dà luogo a sistemi, a concezioni chiuse, coerenti e totalitarie. Nelle maglie di tali sistemi tutto è ridotto a omogeneità, ovvero, nei termini di Lévinas, l'altro è ridotto al medesimo. Ma l'incontro a faccia a faccia con l'altro, l'apparire del suo volto rompono la chiusura, la sistematicità e omogeneità del mondo oggettivo: l'altro mi impone amore, rispetto, obbedienza; egli, nelle vesti bibliche «della vedova, dell'orfano, del povero», invoca il mio aiuto, sottraendomi allo spazio chiuso del mio io. In una parola, la visione del volto dell'altro è un altro tipo di visione, non più teoretica: essa introduce violentemente la dimensione etica che spezza l'omogeneità dell'essere e fa riemergere dal livellamento imposto dal lògos la singolarità e irriducibilità del soggetto umano. Conferendo alle categorie dell'altro e dell'alterità, tipiche della tradizione ebraica, la dignità di una rigorosa concezione filosofica, che contesta da cima a fondo l'intera tradizione filosofica occidentale, Lévinas ha contribuito in modo decisivo a configurare quella nuova ermeneutica della rottura, incentrata sulla pratica e l'etica, sul carattere di evento e di irriducibilità che ha l'incontro con l'altro, sulla vera e propria contestazione di noi stessi che esso comporta. Non a caso Lévinas ha avuto un'influenza decisiva sul pensiero di Jacques Derrida (anch'egli di origine ebraica). Derrida: il decostruttivismo e la ricerca della differenza = concezioni _____________ omogeneità = altro ____________ il ______________________ (la dimensione ___________) impone l’_____________________ dell’altro L’Altro come ___________________ di noi stessi DERRIDA: IL DECOSTRUTTIVISMO E LA RICERCA DELLA DIFFERENZA La critica della metafisica della _____ _______________ Parole (__________) essenza delle ____________ = illusione della ___________________________ Storia della metafisica = ___________ ____________________ _____________________ Paura _____________ metafisica della presenza Desiderio Infatti pensiero della differenza e dell'alterità è anche quello di Jacques Derrida (1930-2004). L'importanza cruciale del suo pensiero risiede nell'aver letto l'intera tradizione del pensiero occidentale come una particolare metafisica della presenza. Egli legge il percorso della metafisica come la pretesa del pensiero di afferrare l'essenza delle cose, ciò che esse sono in sé e di poterla rendere presente attraverso il pensiero, ma soprattutto con le parole (fono-logo-centrismo). Questa centralità della voce nella concezione che la metafisica ha avuto di se stessa e della propria possibilità illimitata è, per Derrida, nient'altro che un inganno e un'illusione della coscienza. “Quando parlo, non solo ho coscienza di essere presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al concetto un significante che non cade nel mondo, che io intendo nel momento medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l'uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa dal mondo. Beninteso, questa esperienza è un inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura e tutta un'epoca.” (Posizioni). Sulla base di questa denuncia dell'inganno della presenza organizzato dalla voce ai danni della coscienza, Derrida legge la storia della metafisica come la storia di uno scacco. Seguendo il discorso di Derrida, la metafisica è come se raccogliesse, nel momento in cui lavora a una fondazione indubitale della presenza, il desiderio tutto umano di presenza certa ,che come esseri viventi ci è connaturato, ma che l'esperienza smentisce in ogni momento. Questo desiderio di presenza risponde infatti all'esigenza tipicamente umana di garantirsi stabilità e durata in un orizzonte di esperienza che costantemente ci ripropone lo scandalo, cioè l'inciampo, l'ostacolo insormontabile della scomparsa e della morte. La metafisica è in questo senso il luogo in cui è andato costantemente «in scena» il privilegio dell'idealità e della presenza in generale, rispetto alle condizioni materiali che regolavano quella «messa in scena». Il primato della presenza serviva per esorcizzare la caducità e il carattere Ragione = _____________________ 21 provvisorio e perituro e finito di queste stesse condizioni. Derrida ci ha ricordato che pensare la presenza è anche sempre pensare una certa impossibilità, uno scacco appunto, attiva nel vivente, originaria e insuperabile. In effetti scriviamo per sottrarre almeno qualcosa al destino di caducità e di morte. Il sapere scritto, in quanto reiterabile e ripetibile, rende possibile la nascita delle idee. Si crede allora che le idee coincidano con i segni scritti in cui sono impresse, esistano per se stesse, racchiudano l'essenza delle cose. Nasce così la metafisica, come esigenza estrema di dare consistenza alla fragilità costitutiva del vivente. Si tratta allora di praticare — di fronte al carattere insuperabile e inaggirabile della metafisica — un altro procedimento, concetto che ha attraversato più ambiti disciplinari (dall'architettura alla critica letteraria) portando alla ribalta l'opera di Derrida. Con decostruzione dobbiamo intendere una particolare modalità di rilettura dei testi della tradizione filosofica che ha come obiettivo quello di sottolineare i meccanismi di rimozione attivi e operanti nel testo stesso. Il termine «rimozione» richiama un concetto psicoanalitico indicante una modalità universale della psiche umana la cui finalità è proprio quella di difendere, come una sorta di apparato immunitario, l'ideale dell'io in cui ci si rispecchia e che è ritenuto puro: rimuoviamo ciò che turba la perfezione dell'immagine di noi in cui ci piace riconoscerci. Non è un caso che il procedimento decostruttivo di Derrida sia stato letto come una sorta di psicoanalisi della filosofia. Nelle coppie concettuali di cui la metafisica si nutre e di cui fa largo uso (soggetto/oggetto, spirito/materia, essere/divenire, sostanza/accidente ecc.) si tende a valutare positivamente un termine rispetto all'altro e a privilegiarlo rimuovendo l'altro, cioè eliminandolo dall'orizzonte delle questioni. La metafisica, in altre parole, stabilisce una gerarchia di concetti dove l'uno è più importante e domina sul suo opposto. In luogo della rimozione e rispetto a questa tendenza della metafisica, Derrida fa giocare invece il concetto chiave di differenza (différance, termine creato dall’autore) che sta ad indicare al contempo la «differenza» tra due ipotetici termini (differenza tra giorno e notte, tra bene e male) e l'atto del «differire» nella sua valenza temporale, perché «differire» vuol dire rinviare, rimandare. A Derrida preme sottolineare che ogni contrapposizione tra due termini è il prodotto di un movimento differenziale, che è anche un processo temporale antecedente, il quale ha dato origine a questa contrapposizione. In questi termini si esprime Derrida:”Il movimento della differenza, in quanto produce i differenti e differenzia, è la radice comune di tutte le operazioni concettuali che scandiscono il nostro linguaggio, quali ad esempio, per prenderne solo alcune, quelle di sensibile/intelligibile, intuizione/significazione, natura/cultura.”(Posizioni). L'attenzione del filosofo decostruzionista non si rivolge pertanto alla coppia dei termini, ma all'operazione che sta dietro al loro differire, al motivo cioè per cui si è voluto differenziare un termine dall'altro, stabilendo la superiorità di uno e l'inferiorità dell'altro. Quella del decostruzionismo è un'indagine volta a scoprire le motivazioni profonde, inconsce, della rimozione di un termine a vantaggio dell'altro. Derrida rimarca il carattere dinamico e temporale della «differenza» che non è da intendere, dunque, come un fondamento dato una volta per tutte e come un'origine pura; si tratta piuttosto di un movimento mai completamente presente e quindi mai afferrabile. È precisamente in questo smontaggio, operato dalla decostruzione, delle opposizioni rigide che consiste la portata etica del pensiero di Derrida, nel senso del suo orientamento a rendere gli uomini consapevoli delle possibilità aperte dalle loro azioni e dalle loro scelte. In fondo la lettura dell'intera metafisica occidentale sono tese a denunciare, nei meccanismi di rimozione e nelle opposizioni concettuali, pregiudizi morali e giudizi di valore impliciti (un termine Il ___________________________ La messa in luce della ____________ dell’_____________________ Dalla ____________________ alla _____________________ la ______________________ = i motivi veri del differire dei _________ il carattere ________________ della __________________ il carattere _________________ del ____________________ denunciare le rimozioni che ________ ___________________________ 22 Tolleranza Garanzie atte a rendere l’altro amministrabile __________________ Salvaguardare l’alterità dell’altro Rimozione dell’________________ è buono, per esempio, la voce o lo spirito, e un altro è cattivo, la scrittura o il corpo), che impediscono di intravedere possibilità ulteriori e più ricche di senso nell'esperienza umana. In queste prospettive che una delle tematiche più care e ricorrenti nell'ultimo Derrida riguardi l'ospitalità e la relazione tra ospitalità e tolleranza, cioè forme di apertura all'altro e alla possibilità che l'altro reca in sé. Quello di tolleranza è un concetto fondamentale della filosofia politica e morale dell'età moderna, soprattutto a partire dalla riforma protestante e dalla nascita di confessioni cristiane antagoniste e in competizione circa il possesso della verità. Nel mondo contemporaneo, esso si pone anche in relazione alla convivenza di religioni e in generale culture diverse di cui le persone sono portatrici. Derrida è molto critico sul concetto stesso di tolleranza perché la ritiene una forma di ospitalità condizionata, mentre a dover essere perseguita è un'ospitalità incondizionata, tesa alla salvaguardia di quella che in termini lévinasiani è l'alterità dell'Altro. La tolleranza è criticata perché chiama sempre in causa un sistema di garanzie atte a rendere l'avvento dell'altro amministrabile, docile alle intenzioni di chi si mostra tollerante nei suoi confronti: si accetta l'altro purché assomigli il più possibile a noi stessi e dia garanzie di non mettere in crisi la nostra identità. 23