1 24 - LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO: DALLA CRISI DI FINE

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24 - LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO: DALLA CRISI DI FINE SECOLO ALLA SVOLTA LINGUISTICA
0. Da un secolo all'altro: il contesto sociale (1870-1939)
1. Dalla crisi di fine secolo alla cultura della crisi
2. Analitici e continentali e la svolta linguistica
DA UN SECOLO ALL'ALTRO: IL
CONTESTO SOCIALE (1870-1939)
0. Da un secolo all'altro: il contesto sociale (1870-1939)
Una lunga fin de siècle si aprì fino dalla metà degli anni settanta del XIX secolo,
con l'inizio di una delle crisi economiche più gravi per intensità e durata, ricordata
col nome di "Grande depressione". Venne così profilandosi il profondo,
accidentato processo di transizione che avrebbe portato al Novecento. Questa crisi,
tuttavia, non incrinò la cieca fiducia nel progresso, nella scienza e nella tecnica che
aveva accompagnato l'affermarsi dell'industrializzazione in Europa. Anzi, se si
escludono alcune minoranze intellettuali che assunsero atteggiamenti fortemente
pessimistici, nella maggioranza dell'opinione pubblica essa accentuò il culto della
crescita economica e il mito dello sviluppo delle forze produttive.
La crisi finì però per incidere profondamente sulla struttura delle società industriali,
sul rapporto tra economia e politica, tra industria e stato, e sulle stesse mentalità
collettive. Infatti il significato storico della "Grande depressione" è di segnare il
passaggio a una fase qualitativamente nuova nell'organizzazione della produzione e
del mercato e conseguentemente nella società.
Per tutto l’Ottocento il mercato prevalente di destinazione dei prodotti industriale
rimase quello dei beni produttivi, quindi destinati ad altre aziende, reggendosi lo
sviluppo industriale sullo sfruttamento della manodopera il che ne comportava
l’esclusione dal mercato, per questo possiamo definire la società ottocentesca una
società classista. La ristrutturazione delle attività imposte dalla "Grande depressione" potenziando le capacità produttive, attraverso la concentrazione
industriale, l’introduzione della catena di montaggio e il progresso tecnologico,
richiese, a partire dai primi del Novecento, un graduale allargamento del mercato
destinato ad assorbire i beni di massa che caratterizzeranno la produzione
industriale del XX secolo.
Per indicare sommariamente i processi che prendono avvio in questa fase storica
possiamo parlare dell'emergere della società di massa. Questo fenomeno, che possiamo ritenere completamente sviluppato solo a partire dagli anni venti-trenta del
nuovo Secolo, riguarda la produzione e il mercato, le classi sociali e la loro
stratificazione, ma anche, i comportamenti culturali e i modelli politici.
La società civile del tardo Ottocento viene, infatti, mutando non solo i propri caratteri economico-sociali ma anche quelli culturali, sia nel senso delle istituzioni e
dei canali di diffusione della cultura, sia in quello dei valori e dei modelli di
comportamento. Assistiamo ai seguenti fenomeni: la crescita della scolarizzazione,
e dunque della domanda di informazione e di cultura; lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione tradizionali — giornali, riviste, libri — in relazione a un mercato in
continua espansione; la diffusione di consumi culturali sino ad allora patrimonio di
una ristretta élite, come i prodotti artistici e di design (ricordiamo che è questa
l'epoca del liberty); la diffusione ormai amplissima della fotografia e l'apparire di
nuovi mezzi comunicativi con enormi potenzialità di sviluppo: la radio, il
cinematografo, il fonografo; la diffusione del telegrafo e del telefono, e dunque
l'aumento rapidissimo della velocità di circolazione delle informazioni; il costituirsi
1870- 90: La grande ______________
ma opinione pubblica  fiducia nel
__________________________
Grande _____________  passaggio
dalla società _____________
dell’_______________ alla società di
___________ del _________________
1
della pubblicità in attività economica e forma comunicativa specifica.
L’esordio della società di massa e del nuovo secolo si riveleranno però ancor più
travagliati del tramonto della società ottocentesca con il dramma dello scoppio del
primo conflitto mondiale, la crisi degli stati liberali incapaci di favorire la
partecipazione alla vita politica delle masse e di gestire lo sviluppo economico
(crisi del ’29) che porteranno all’affermazione degli stati totalitari e al secondo
conflitto mondiale. Nei primi quattro decenni del Novecento quella che era stata,
nell’ultimo periodo del secolo precedente, la posizione di alcune minoranze
intellettuali finì per diffondersi dando luogo a quella che significativamente è stata
chiamata la cultura della crisi.
Mutamenti _____________________:
A –istituzioni e ________________di diffusione __________________
1- diffusione scuola _______________________ 2 - nuovi ________________________ (fotografia,______________________________
____________________________________) 3 - sviluppo mezzi comunicazione ________________(giornali, ______________________)
2 + 3 = + velocità ____________________________________________
4 – la ______________________ come nuova forma di attività ________________+ ____________________________
B – nuovi modelli di ____________
1 – crescita ________________________ 2 – consumi culturali da _____________a __________________
1900-1940
La cultura della crisi
orientamento logico ed empiristico: Russell (1872-1970)
1920-1960
Nietzsche (1844-1900) Freud (1856-1939)
Storicismo: Dilthey (1833-1911)
Spiritualismo: Bergson (1859-1941)
Fenomenologia: Husserl (1859-1938)
Analitici e Continentali
Primo Wittgenstein (1889-1951)
Filosofia della scienza: Circolo di Vienna (Schlick,Carnap
e Neurath)
Popper (1902-1994)
1960 Secondo Wittgenstein (1889-1951)
Filosofia del linguaggio: Austin (1911-1960)
Filosofia della scienza: Khun (1922-96)
Esistenzialismo:Primo Heidegger (1889-1976), Jaspers (18831969), Sartre (1905-80), Merleau-Ponty (1908-61).
Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse)
La svolta linguistica
Secondo Heidegger (1889-1976)
Ermeneutica: Gadamer (1900-2002), Lévinas (1905-1995)
Post-strutturalismo: Foucault (1926-84), Derrida (1930-2004)
2
1. Dalla crisi di fine secolo alla cultura della crisi
1.1 Il crollo delle certezze e le rivoluzioni teoriche di inizio Novecento
1.2 Le risposte della filosofia
DALLA CRISI DI FINE SECOLO
ALLA CULTURA DELLA CRISI
IL
CROLLO DELLE CERTEZZE E LE
RIVOLUZIONI
TEORICHE
DI
INIZIO
1.1 Il crollo delle certezze e le rivoluzioni teoriche di inizio Novecento
La dimensione epocale del crollo delle certezze che si è verificato nella cultura
europea di fine Ottocento, legata a quella che è stata chiama la crisi di fine secolo,
è stata colta pienamente riconosciuta solo nella seconda metà del secolo scorso.
È stato un filosofo francese, Paul Ricoeur (1913-2005), a utilizzare una formula
molto felice, riferita a Marx, Nietzsche e Freud, — «filosofi del sospetto. — per
esprimere questa visione critica della soggettività e della coscienza entro i cui
termini il sospetto è appunto quello esercitato dal pensiero sulla pretesa della
coscienza stessa di essere padrona di sé e del tutto evidente a sé.
“Il filosofo educato alla scuola di Descartes sa che le cose sono dubbie, che non
sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se
stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx,
Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del
dubbio sulla coscienza.” (P. Ricoeur, Dell’inteipretazione Saggio su Freud).
Mentre con Marx scopriamo che per comprendere e determinare l'essere del
soggetto dobbiamo partire dalle condizioni materiali e dai rapporti sociali e
produttivi, e con Nietzsche che il soggetto altro non è che la maschera dietro la
quale si nasconde la profonda illusione del pensiero metafisico, che induce l'uomo
a credere nell'esistenza di verità immutabili, con il pensiero di Freud la crisi del
soggetto diviene strutturale. L'identità di io e coscienza è infatti il bersaglio
principale della psicoanalisi freudiana. La tesi di Freud è che la vita psichica dell'io
non è contenuta e non si esaurisce nella coscienza, perché al di là di questa si
nasconde un autentico abisso, l'inconscio. Con inconscio dobbiamo intendere un
luogo psichico, sede di desideri inappagati e inibiti, rimossi dalla coscienza, che
rende l’io sconosciuto a se stesso.
Questi autori avrebbero quindi smascherato la falsa coscienza che illude i il
soggetto, mettendo invece a nudo le strutture profonde della realtà, cioè i rapporti
materiali ed economici (Marx), la volontà di potenza (Nietzsche), e l'inconscio
(Freud), regalando a tutti una possibilità di liberazione e forse di realistica felicità
Se possiamo considerare Marx, Nietzsche, Freud in prospettiva come i maggiori
risultati filosofici della crisi delle certezze a distanza di più di un secolo siamo in
grado di individuare le due più importanti rivoluzioni teoriche che, all'inizio del
Novecento, hanno coinvolto rispettivamente il campo delle scienze fisico-matematiche e quello delle scienze umane, determinando un nuovo corso della cultura
nel suo complesso. Si tratta di quella compiuta da Albert Einstein con la teoria della relatività, dai fisici che posero le basi della meccanica quantistica e di quella
compiuta da Sigmund Freud con la fondazione della psicoanalisi. Queste
rivoluzioni hanno avuto un'incidenza profonda sulla cultura, hanno cioè prodotto
tali innovazioni da costringere, per così dire, tutti gli studiosi a rivedere modi di
pensare inveterati, teorie ritenute immodificabili, credenze consolidate nel tempo.
In altri termini, non hanno solo modificato radicalmente i quadri concettuali della
fisica-matematica e della psicologia, ma hanno determinato un nuovo modo di considerare i fenomeni della nostra stessa vita quotidiana, un nuovo modo di usare i
nostri strumenti concettuali per comprendere sempre più approfonditamente il
nostro mondo (naturale e umano). I rivolgimenti prodotti da queste due rivoluzioni
hanno reso necessario un riesame completo dei metodi di indagine e del concetto
NOVECENTO
La crisi di fine secolo
A - Filosofia:
i __________________________
la visione critica della ____________
_________e della ________________
Cartesio  dubbio = _____________
ma non ________________________
Marx, _________________ e _______
Soggetto ≠ _________________
Per Marx  Soggetto = ___________
______________________________
Per Nietzsche  Soggetto = _______
__________________
Per Freud  Soggetto = __________
B – scienze ______________________
La teoria _______________________
di ______________________
C – scienze ______________________
La ________________________ di
________________
La necessità di ___________________
_______________________________
3
stesso della razionalità scientifica.
La discussione otto-novecentesca in campo filosofico- scientifico ha origine dallo
stesso progresso teorico che conduce a mettere in discussione taluni dei presupposti
epistemologici, in qualche caso anche secolari, intorno ai quali si era organizzato il
sapere scientifico, particolarmente nelle discipline logico-matematiche e nella
fisica. Già poco dopo la metà del secolo, la formulazione di geometrie fondate su
presupposti non euclidei dimostra che non si può decidere in modo ultimativo della
corrispondenza fra le rappresentazioni dello spazio e le sue proprietà fisiche: la
geometria non può dunque presentarsi più come scienza apodittica, fondata
sull'evidenza a priori dell'intuizione spaziale, ed è costretta a ricercare nella
correttezza logica delle deduzioni il solo criterio di validità delle proprie
rappresentazioni. Ma è la stessa centralità dell'evidenza intuitiva quale garanzia
ontologica delle verità geometrico-matematiche a venirne messa radicalmente in
discussione.
Negli stessi anni, la fisica è interessata da una vera e propria rivoluzione teoretica
che ha come oggetto il modello della meccanica classica elaborato da Newton e
Laplace. Quest'ultimo si fondava sull'assolutezza delle coordinate spaziotemporali,
sul presupposto "ontologico" dell'esistenza di un ordine naturale determinabile
attraverso rapporti di causa-effetto e sulla distinzione e indipendenza fra soggetto
conoscente e oggetto indagato, tra osservatore e osservato. Nonostante tutti i
tentativi di "salvare" il modello meccanicistico come paradigma all'interno del
quale collocare i programmi di ricerca e i risultati delle diverse discipline fisiche, la
crisi del meccanicismo stesso diventa irreversibile nei primi decenni del nuovo
secolo: nel 1905, la teoria della relatività di Albert Einstein mostra come spazio e
tempo non siano entità assolute, ma dipendano dagli strumenti di osservazione e
dai sistemi di riferimento. Successivamente, verranno messi in discussione due
secolari presupposti dell'impresa scientifica: la meccanica quantistica di Bohr
(1913) violerà il principio della continuità dei fenomeni naturali; la discussione
intorno alla natura della luce condurrà ancora Bohr (1927) ad ammettere la complementarietà di due teorie alternative, la corpuscolare e l'ondulatoria, per spiegare
uno stesso fenomeno. Contemporaneamente, il principio di indeterminazione
formulato da Heisenberg fa vacillare il caposaldo del determinismo, ovvero la
possibilità di predire con certezza gli stati futuri di un sistema fisico conoscendo le
condizioni di partenza, e rivela come ogni osservazione interferisca inevitabilmente
con il sistema osservato.
Due espressioni nate nell'ambito del pensiero ottocentesco — «scienze dell'uomo»,
ricorrente nel linguaggio di Comte, e «scienze dello spirito», appartenente al
lessico dello storicismo tedesco — preludono allo sviluppo di un nuovo campo di
indagine che si esprimerà pienamente nel Novecento: quello delle scienze umane,
discipline scientifiche — come la sociologia, la psicologia, l'antropologia,
l'etnologia, la storiografia, la linguistica, le scienze dell'educazione, le scienze
politico-giuridiche — che studiano l'uomo e le sue manifestazioni culturali e
spirituali.
Sotto la spinta della crescita economica, la società europea si fa sempre più
complessa, così che, per comprendere e guidare i fenomeni evolutivi che la
attraversano, si rendono necessarie capacità di analisi sempre più sofisticate, che a
loro volta richiedono conoscenze teoriche e competenze tecnico-pratiche altrettanto
articolate. Contemporaneamente il rischio di soffocamento delle individualità, già
messo in luce dalle correnti liberali, si accentua, mentre cresce il senso di disagio
soggettivo di fronte ai grandi apparati politico-burocratici che sovrastano il singolo.
Per governare questo intreccio di processi che fuoriescono dagli schemi noti, si
B – SCIENZE ___________________
1 – Le geometrie non ______________
non una ma diverse _______________
dello spazio
2 – La ______________________
Il superamento del modello ________
_______________________
A – Einstein: ____________________
non ________________
B - ____________: no ___________
______________________________
C – Bohr: complementarietà
________________________
D – Heisemberg: no _______________
E – no oggetto  _____________

ma ___________  _____________
C – SCIENZE ___________________
sociologia, la psicologia,___________
______________________________
________________ sociale
+
___________________ individualità
nascita ________________________
4
avverte l'esigenza di conoscere più approfonditamente il mondo umano, guardando
all'uomo come individuo nella sua dimensione psicologica soggettiva, ai
comportamenti linguistici, ai rapporti individuo e società, al problema della coesione
sociale, alle forme del potere, al confronti tra culture e gruppi umani diversi nelle
varie aree del mondo. A questo bisogno di conoscenze specifiche rispondono
appunto le scienze umane.
La prima fase di sviluppo delle scienze umane appare in gran parte legata allo
storicismo, nel senso che la storicità dei fenomeni spirituali di cui si occupano
costituisce il denominatore comune di queste discipline, in contrapposizione alle
scienze naturali e alle scienze esatte. Le attività umane e i loro specifici prodotti —
il linguaggio, l'arte, le istituzioni sociali, i modelli di pensiero e di comportamento
— sono visti come espressioni storiche degli uomini, la cui vita non solo si colloca
nella storia, ma anche si svolge all'insegna della consapevolezza storica. Le
discipline che si occupano dei prodotti umani — come la linguistica, la sociologia,
la psicologia, la scienza politica, e così via — sono quindi considerate inizialmente
dei saperi `storici'.
Il rapporto con l'universo storico appare dunque decisivo nella definizione
dell'identità delle scienze umane rispetto alle altre scienze, e nel loro percorso
iniziale; ma ben presto esse si ramificano in una pluralità di saperi autonomi,
ciascuno dei quali individua un proprio metodo di indagine in relazione al proprio
oggetto di ricerca. In questo senso le scienze umane tendono progressivamente a
liberarsi dalla soggezione sia nei confronti dello storicismo sia della filosofia in
generale, e arrivano in molti casi ad appropriarsi, grazie alla loro specifica
competenza, di spazi di indagine un tempo da essa occupati.
Il processo di allontanamento o di emancipazione dalla filosofia colloca le scienze
umane al di fuori dell'ambito propriamente filosofico. Le loro indagini, tuttavia, in
quanto analizzano aspetti specifici della vita e dell'attività umana, hanno rilevanza
filosofica, ovvero si intersecano continuamente con quelle filosofiche, in un
rapporto di stimolo reciproco: da un lato, le scienze umane offrono il contributo
delle proprie autonome riflessioni sul piano del metodo e dell'analisi dei contenuti
(lo stesso diversificarsi interno delle singole scienze porta alla luce problemi
teorico-metodologici di grande interesse); dall'altro, la filosofia, proponendo
interrogativi e temi di carattere generale, spinge ciascuna di esse ad aggiornare
continuamente la propria ricerca nel quadro di un orizzonte più ampio.
La crisi che investe il soggetto, a opera delle scienze umane, costituisce il motivo
primo di confronto con la filosofia. La soggettività umana, identificata dalla
tradizione occidentale con la coscienza, con il pensiero in quanto strumento di
dominio della realtà, scopre in sé delle strutture — inconsce — che la dominano e
di fronte alle quali non dispone di alcuno strumento di controllo. Le intuizioni
inquietanti di Schopenhauer e soprattutto di Nietzsche — la volontà cieca e
irrazionale, il gorgo oscuro del dionisiaco, l'idea che il soggetto sia solo una
finzione grammaticale — trovano ora larga eco e puntuali riscontro in diversi
ambiti.
In questo contesto si colloca l’opera di Freud che, come abbiamo detto, è l’altra
più importante rivoluzione teorica del Novecento. Anche se Freud concepisce in
effetti se stesso come un medico e un uomo di scienza, la psicoanalisi sfugge ai
criteri di una scienza positiva.
Nel lavoro psicoanalitico la conoscenza è ineliminabilmente connessa con la
terapia, il soggetto è indissolubilmente implicato, sul piano intellettuale e affettivo,
con l'oggetto dell'indagine. Quest'ultima consiste in un lungo processo (le cui
conclusioni sono sempre ipotetiche, provvisorie) di decifrazione di segni: i "fatti"
da essa privilegiati sono proprio quelli che la psicologia sperimentale relegava ai
margini, e in primo luogo i sogni, la cui logica, costruita in violazione delle
L’interesse per società e individuo:
A - In ambito filosofico
1 ____________________________
Le attività __________________ come
attività ________________________
B – La separazione delle ___________
___________ dalla _______________

Filosofia  ____________________
temi di carattere ____________
contenuti e _____________
2 La crisi della soggettività
Schopenhauer, ___________________
e __________________
La _______________________ teorica
delle __________________________
A – la _________________________
connessioni tra:
- ________________ e terapia
- razionalità e ___________________
- metodo = ______________________
5
tradizionali categorie spaziotemporali e del principio di non contraddizione rivela
l'incessante opera di elaborazione e di camuffamento con cui la coscienza si
difende dalle pulsioni profonde. L'uomo di Freud è dunque un uomo la cui
trasparenza è solo l'obiettivo, mai pienamente raggiungibile, di un faticoso lavoro
interpretativo, e la cui razionalità è sempre provvisoria e instabile equilibrio fra
conosciuto e ignoto, intellettuale e affettivo; una prospettiva di grande fecondità
ma anche problematica inquietante, che Freud radicalizzerà a partire dagli anni
venti, a contatto con i drammatici eventi del dopoguerra descrivendo un uomo
lacerato e paralizzato dall'eterno conflitto tra Eros e Thanatos, pulsioni creative e
pulsioni distruttive, e inevitabilmente represso nei propri impulsi profondi e
primari dalle esigenze della convivenza sociale.
Nello stesso tempo, la maggiore conoscenza delle culture extraeuropee, che prende
slancio nella seconda metà dell'Ottocento grazie al colonialismo e che porterà alla
nascita dell’etnografia che farà della ricerca sul campo l’asse portante del proprio
metodo d’indagine, mette in crisi l'idea che esista un unico modello di pensiero e di
organizzazione logica: quello rappresentato dal pensiero occidentale.
L’uomo di ___________________ =
_________________  conflitto tra
_______________________________
+ __________________________
B – L’________________________
Il pensiero _____________________
non unico modello _______________
LE RISPOSTE DELLA FILOSOFIA
1.2 Le risposte della filosofia
I primi anni del Novecento minarono dunque la fiducia positivista nel sapere
scientifico propria del XIX secolo, dando avvio ad un fenomeno sotterraneo e
inarrestabile a cui la prima guerra mondiale darà un'accelerazione definitiva. La
Kulturkritik primonovecentesca, cioè la cultura della crisi, rappresentata da autori
come Fredrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), Sigmund Freud (1856-1939),
aveva già iniziato a demolire la civiltà moderna e la sua fiducia incondizionata
nella scienza e nella tecnica, approdando, pur attraverso percorsi diversi, ad una
critica del modello positivistico di conoscenza scientifica. La prima guerra
mondiale porta quindi tali giudizi solo all'esito definitivo, poiché segna il
disfacimento del sogno in un progresso indefinito che aveva dominato ancora la
cultura e gli atteggiamenti della Belle époque, espressione francese utilizzata per
indicare il periodo storico che inizia alla fine dell'Ottocento e si conclude,
appunto, negli orrori della guerra.
In crisi non sono solo modelli interpretativi e teorie consolidate, ma il concetto
stesso di scientificità comunemente intesa, nonché il ruolo della riflessione
filosofica che si era sempre più intrecciata strettamente alla scienza, assumendone
metodo e caratteri principali. Questa crisi investe così anche la filosofia, che si
trova a riflettere su se stessa e a fare i conti con il proprio ruolo, la propria
funzione e ad individuare i suoi compiti specifici.
Le risposte a questa domanda furono diverse a seconda dei contesti culturali in cui
furono elaborate.
In sintesi, possiamo individuare, all'interno del pensiero filosofico del Novecento,
due diversi modalità di risposta, che corrispondono ad aree linguisticamente
identificabili e a due interpretazioni diverse dei compiti della filosofia.
Nei paesi anglosassoni, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si assiste al prevalere
di un orientamento logico ed empiristico, che continua a identificare nel discorso
scientifico l’unico discorso vero e fa dell'analisi del linguaggio la funzione
principale di una filosofia che ha il compito di chiarire gli enunciati scientifici e,
stabilendo una linea di demarcazione tra scienza e non-scienza, rimetta in
discussione la sua stessa funzione.
Questa impostazione, che prende avvio dalla riflessione di filosofi come Bertrand
Russell (1872-1970), George Edward Moore (1873-1958) e, a partire dagli anni
venti, matura nell’opera del primo Wittgenstein (1889-1951) e nel cosiddetto
Lo scenario filosofico
decenni del Novecento
dei
primi
La cultura della _______________:
_______________________
_________________________
A – l’orientamento ________________
___________________________
Discorso scientifico = ____________
_____________________________
funzioni filosofia:
- ______________________________
- ______________________________
B. Russel, __________________ 
______________________, Circolo di
__________(___________________)
6
neopositivismo o empirismo logico che, rappresentato soprattutto dal Circolo di
Vienna, è interessato a rifondare la conoscenza su basi puramente empiriche
mediante la costruzione di un linguaggio unificato e controllabile e l'esclusione
delle insensatezze della metafisica.
Diverso, invece, è l'approccio assunto nelle filosofie tedesca e francese, dove si
sviluppa un atteggiamento antipositivistico che porta alla necessità di affermare le
ragioni del rifiuto di un approccio puramente scientifico della realtà. Tale rifiuto si
è realizzato in una pluralità di forme che vanno, inizialmente dallo spiritualismo di
Bergson (1859-1941), allo storicismo di Dilthey (1833-1911), alla fenomenologia
di Edmund Husserl (1859-1938), e dagli anni ’20, dal tentativo di costruire una
nuova ontologia, cioè una nuova filosofia dell'essere di Martin Heidegger (18891976), all'esistenzialismo di Karl Jaspers (1883-1969), Jean Paul Sartre , 19051980) e Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), alla teoria critica della Scuola di
Francoforte.
Se volessimo individuare un tema che fa da sfondo allo scenario filosofico dei
primi decenni del Novecento (soprattutto di area tedesca), fino ad investire
momenti successivi della sensibilità filosofica europea, potremmo far riferimento al
tema della vita, intesa come incessante oltrepassamento delle forme, dei principi e
dei criteri di organizzazione che la vita stessa assume di volta in volta nel suo corso
storico. Quelle forme — per esempio, le leggi della scienza che interpretano ed
esprimono l'energia vitale della natura o, più evidentemente, le culture, cioè
l'insieme di norme, posizioni e ruoli sociali, valori in cui credere, usi e costumi,
linguaggi, espressioni religiose e di culto, che interpretano di volta in volta
l'energia vitale delle diverse società umane — sembrano ingabbiare la vita e il suo
sviluppo tumultuoso e quindi presentarsi come non-vita, cioè come il contrario
della vita stessa, cui pretendono di imprimere una direzione e un senso
precostituiti. Ma la vita stessa non potrebbe riconoscere ed esprimere la propria
energica vitalità se non frantumando ciò che le si oppone, cioè le forme, i principi, i
criteri di senso e di azione che essa stessa si da. In questo senso il rapporto tra la
vita e le sue forme è un rapporto dialettico, perché fondato sulla contraddizione,
cioè sul contrasto tra la forma che la vita si dà per affermare se stessa in un certo
momento storico e la spinta energica di affermazione che è propria dèlla vita stessa
e che non tollera di essere incanalata, guidata e indirizzata. Pensiamo per esempio
alle varie espressioni culturali che si succedono nel tempo storico della vita di una
società, soprattutto nei passaggi generazionali: le mode, i valori in cui credere e per
cui combattere, la concezione della famiglia, i costumi sessuali, le scelte
linguistiche o le pratiche religiose. Le diverse forme culturali tendono a conservare
sé stesse contro l'irruenza della vita che riesce sempre a superarle generando nuove
forme culturali. Dietro dunque all'attenzione per la vita ritroviamo una polemica
contro ogni pretesa della ragione di poter spiegare qualsiasi fenomeno in modo
definitivo e una rinnovata sensibilità per tutto quello che resta fuori o sembra
sfuggire alla determinazione concettuale, cioè a ogni concezione generale elaborata
dalla ragione umana — valori, leggi, norme, usi, modelli, principi — che si illude
di poter imporre alla vita un senso deciso dall'esterno.
È così che la vita si rivela anche, per W. Dilthey, il fondatore dello storicismo,
dimensione imprescindibile per comprendere il processo storico e le formazioni
culturali che lo attraversano. Le forme astratte, puramente concettuali, cioè non in
grado di interpretare il libero corso della vita, diventano appiccicose ragnatele,
strumenti di morte che lo spirito deve sentirsi libero di squarciare, rifiutando ogni
dogmatismo, cioè ogni concezione precostituita del mondo che pretenda di portare
nel mondo un senso, senza ascoltare il senso che emerge di volta in volta dalla
storia e dalla vita umana, rimanendo interno alla storia e alla vita umane. Scrive
Dilthey, nel suo Introduzione alle scienze dello spirito (1883): «I fatti spirituali che
si sono sviluppati storicamente nell'umanità e che sono stati battezzati scienza
B – l’atteggiamento ______________
(la cultura della ________________)
Discorso scientifico non ___________
______________________________
1 – Lo ______________________
di ________________________
vita = ________________________
dei criteri di _____________________
il rapporto ______________________
tra la vita e le sue forma
l’impossibilità di imporre _________
____________ dall’esterno
Sapere _______________________
CTR
Sapere ________________________
7
dell'uomo, storia, sociologia, costituiscono la realtà che noi vogliamo non
dominare, ma anzi tutto capire. Il metodo empirico vuole che in questo gruppo di
scienze il valore dei singoli procedimenti di cui il pensiero si serve per risolvere qui
suoi problemi venga sviluppato in senso storico critico .. . Tale metodo è in
contrasto con quello oggi troppo frequentemente adottato, proprio dai cosiddetti
positivisti, che deriva il contenuto del concetto di scienza da una definizione del
sapere nata per lo più nell'ambito delle scienze naturali e decide a quali attività
intellettuali spetta il nome e la dignità di scienza partendo da esso».
Della necessità di una nuova filosofia era convinto anche un altro filosofo, Henri
Bergson (1859-1932), che, come conduce un'opposizione al positivismo e al suo
culto nei confronti della conoscenza scientifica intesa come immancabilmente
efficace, perché basata sul diritto esclusivo dei semplici dati di fatto a fornire la
chiave di lettura del mondo e generalmente improntata ad un atteggiamento
riduzionistico. La scienza, erigendo un solo aspetto della realtà (per esempio la
materia o il pensiero) a criterio unico della sua interpretazione, impedisce infatti di
cogliere, attraverso le nuances, ovvero attraverso le mille sfumature di cui la realtà
è composta, il nuovo, le novità, la pluralità e il cambiamento, che sono le
caratteristiche più rilevati della realtà effettiva. Per Bergson, la realtà, l'essere,
come aveva compreso Eraclito agli albori della filosofia, è un perpetuo divenire
che «si fa o disfa, ma non è mai qualcosa di fatto».
All'interno di questa messa in discussione delle concezioni filosofiche
positivistiche che ebbe luogo soprattutto nella cultura tedesca si colloca anche la
fenomenologia, strettamente legata al nome di Edmund Husserl (1859-1938), suo
fondatore e rappresentante principale. In opposizione ai positivisti che pensavano
i dati, i fatti, le cose come entità puramente oggettive la fenomenologia si propone
di studiare le diverse modalità in cui le cose del mondo si manifestano alla
coscienza, sottolineando come che il carattere oggettuale che caratterizza la realtà
sia il risultato di «attribuzione di senso» operata dalla coscienza.
Non è difficile esemplificare che cosa intenda Husserl con "attribuzione di
senso". Si tratta infatti di ciò che facciamo costantemente quando percepiamo
qualcosa. Mentre, ad esempio, vedo il lato del libro rivolto a me, sono
consapevole che c'è un lato che non mi si mostra, dunque che il libro trascende il
mio attuale vissuto di coscienza. Qualora cambiassi prospettiva, capovolgendo il
libro o alzandomi e girando attorno al tavolo, continuerei a rimanere persuaso che
il lato che non vedo più sia ancora lì, ossia che appartenga al libro, sia un lato del
libro e non semplicemente un'illusione, un sogno, una fantasia, in una parola un
mio vissute psichico. Ciò è avvenuto, secondo Husserl, grazie all'attribuzione di
senso oggettuale. La riflessione fenomenologica consente di rivolgere lo sguardo
all'origine delle infinite attribuzioni di senso compiute costantemente dalla
coscienza. La maggior parte dell'infaticabile ricerca di Husserl è appunto dedicata
ad analizzare e descrivere i diversi modi in cui dalla vita immanente della
coscienza sorge il senso trascendente degli oggetti.
Proprio per questa sua critica contro il modello positivistico della conoscenza, il
movimento fenomenologico ispirerà, e si intreccerà con, le filosofie
esistenzialistiche successive ed eserciterà una profonda influenza in molti campi
del sapere, dalla psicologia, all'etica, all'epistemologia, alla religione, all'estetica.
Anche la fenomenologia e l’esistenzialismo riconosceranno nella scienza solo uno
tra i tanti possibili atteggiamenti o manifestazioni della vita spirituale e pratica,
dell'uomo.
Affidando alla filosofia il compito di analizzare il modo d'essere dell'uomo che è a
fondamento di tutte quelle manifestazioni, la fenomenologia riconoscerà alla
filosofia il compito di analizzare gli atteggiamenti fondamentali da cui si origina
tutto il mondo della conoscenza e della vita dell'uomo e l'esistenzialismo quello di
analizzare il modo d'essere dell'uomo (esistenza) nel suo rapporto con l'essere.
2- Lo ________________________
di ________________________
semplici _______________________
CTR
____________________________
3 – La __________________________
di __________________________
fenomenologia = _________________
______________________________
Le ___________________________
____________della _______________
Anni venti:
primo Heidegger (ontologia)
Esistenzialismo (Sartre)
Compito filosofia:
Fenomenologia = analizzare l’origine
della ___________________________
Esistenzialismo = analizzare le _____
______________________________
8
2. Analitici e continentali e la svolta linguistica
2.1 La filosofia analitica: filosofia della scienza e filosofia del linguaggio ANALITICI E CONTINENTALI E
LA SVOLTA LINGUISTICA
ordinario
2.2 Wittgenstein e la teoria dei giochi linguistici
2.3 La filosofia continentale: l’ermeneutica
2.4 La filosofia continentale: strutturalismo e post- strutturalismo e il
problema del soggetto
La distinzione tra _______________
e ____________________________
Uno dei modi comunemente accolti di presentare la filosofia della seconda metà
del Novecento è stata la distinzione tra una filosofia analitica e una filosofia
continentale, fra due tradizioni riconoscibili, opposte e spesso tra loro in polemica.
A parte il fatto che anche in questo caso non occorre essere rigidi nelle
delimitazioni temporali in quanto è possibile, per entrambe, ricostruirne i
presupposti primo-novecenteschi, bisogna rimarcare che mentre il termine
«analitico», individua una precisa tradizione filosofica, che ha tra i suoi
protagonisti Wittgenstein, i neopositivisti e Ayer, il termine «continentale» fa
riferimento a un’area geografica in cui sono rintracciabili più tradizioni (quella
fenomenologico-esistenziale, il marxismo francofortese, lo strutturalismo o
l’ermeneutica).
Ciò nonostante, nel secolo scorso, a partire dagli anni Trenta fino agli anni
Sessanta-settanta il dibattito sulla natura della filosofia si è caratterizzato davvero
nella distinzione e nell'antitesi tra un modo analitico di fare filosofia e un modo
continentale.
È infine da sottolineare che sia per gli analitici che per i continentali è stata centrale
la riflessione sul linguaggio esaminato, dai primi, nella sua capacita di descrivere il
mondo dell’esperienza, i fatti per avvicinarci alla verità e come prodotto storicoculturale che consente di interpretare i fatti, dai secondi. Da questo punto di vista si
può sicuramente concordare con chi ritiene che il dibattito filosofico della seconda
metà del Novecento sia stato incentrato sul problema del linguaggio.
limiti:
- ____________________________
- una ________________________
(________________________)
CTR
più __________________________
(________________________)
Un tema ____________________: __
____________________  il
Novecento = secolo del __________
__________________(la svolta ____
___________________)
2.1 La filosofia analitica: filosofia della scienza e filosofia del linguaggio ordinario
In termini generali, viene definito «analitico» un movimento filosofico ampio e variegato che, tenendo conto dei lavori di Wittgenstein e dell'incontro tra
pragmatismo e neopositivismo, si caratterizza per la pratica della filosofia come
analisi rigorosa del linguaggio e dei suoi usi, per l'interesse rivolto alla logica
formale, per la ricerca di strategie argomentative dimostrative.
Generalmente, con l'espressione filosofia analitica si intende perciò non una precisa corrente della filosofia, ma una vasta tradizione di pensiero che:è in larga parte
di lingua inglese, almeno da un certo punto della sua storia in poi;
include
al proprio interno un primo orientamento interessato soprattutto al problema della
scienza, comprendendovi quindi il neopositivismo o empirismo logico o
positivismo logico (Schlick, Carnap e Neurath), ma anche autori che da essi si
allontanano fin dagli anni trenta, come cui K. R. Popper (1902-1994) o, più
recentemente, i cosiddetti post-positivisti tra cui T. S. Khun (1922-96); a partire
poi dal secondo Wittgenstein la filosofia analitica ha dato vita a un secondo
orientamento che, condividendo con l’altro orientamento l’interesse per il
linguaggio, ha esteso le proprie indagine anche al linguaggio quotidiano.
«Tutta la filosofia è critica del linguaggio» aveva detto Wittgenstein nel Tractatus
logico-philosophicus, esprimendo la convinzione che i problemi filosofici non
LA FILOSOFIA ANALITICA
Filosofia = analisi del __________
______ e dei suoi _______________
A – Filosofia della ______________
1 – Il primo __________________
Problemi __________________ =
problemi di ___________________
9
siano altro che problemi linguistici, risolvibili attraverso l'analisi del linguaggio.
Questo intento, che caratterizza la cosiddetta «svolta linguistica» avvenuta in
filosofia, aveva animato anche i neopositivisti di Vienna e di Berlino e la loro
battaglia contro il linguaggio insensato della metafisica.
Secondo i neopositivisti (Circolo di Vienna, anni ‘20-’30 del XX secolo) per
spiegare la scienza occorre riconoscere che essa dipende sia da fattori empirici (i
fatti dei positivisti) che da fattori logico-linguistici, in quanto l’osservazione dei
fatti è inevitabilmente espressa in enunciati linguistici costruiti secondo le regole
che governano l’uso dei simboli linguistici. In questo modo la scientificità di una
teoria dipende dalle procedure di verifica degli enunciati che rimandano ai fatti.
Procedura di verifica che, essendo necessariamente ristretta a un numero limitato,
di casi non può dar luogo a una certezza assoluta quanto invece a una probabilità
di conferma degli enunciati osservativi che costituiscono una certa teoria.
K. R. Popper (1902-1994) ha contrapposto alla centralità che continuavano,
anche nell’impostazione neopositivista, a mantenere i fatti la centralità della
ragione, ammettendo che le teorie scientifiche sono congetture della nostra mente
che osserva la realtà non in modo passivo, ma attraverso aspettative e ipotesi alla
luce delle quali percepisce la realtà. Tali congetture devono essere considerate
sempre confutabili dall’esperienza e quindi non rappresentano la verità quanto
dei tentativi di approssimarsi gradualmente alla verità, non potendo mai pervenire
a una spiegazione definitiva dei fenomeni. La scienza costituisce il teatro di lotta
fra teorie rivali, nel quale hanno il sopravvento le teorie migliori che più si
avvicinano alla verità, che meglio corrispondono ai fatti.
In particolare, Popper rifiuta l'idea dei neopositivisti che le ipotesi scientifiche
possano essere giustificate induttivamente sulla base dell'evidenza osservativa che
li aveva condotti ad accettare il criterio della verificabilità per distinguere le
proposizioni scientifiche . In alternativa al verificazionismo dei neoempiristi,
Popper suggerisce una concezione del tutto diversa del metodo scientifico, nota
come falsificazionismo.
Il razionalismo critico di Popper supera l'empirismo logico in quanto viene negata
la possibilità, da parte della scienza, di raggiungere verità oggettive, ma risulta pur
sempre in linea con lo spirito dell'empirismo in quanto il termine ultimo di
paragone della validità o meno delle nostre (rivedibili) teorie resta l'esperienza,
ossia il controllo empirico.
Sia dal neopositivismo logico sia dall'epistemologia falsificazionistica di Popper
emerge un'immagine della scienza, e dei criteri in base ai quali valutare il progresso
scientifico, che è poi stata oggetto di numerose critiche.
L'approccio analitico-formale, propugnato nella prima metà del Novecento dal
neopositivismo logico, venne affiancato dall’approccio storico-descrittivo,
sostenuto, intorno agli anni Sessanta, soprattutto da Thomas Kuhn.
L’epistemologia post-popperiana ha ulteriormente accentuato l’anti-empirismo,
già presente in Popper, sulla base della convinzione che non esistono fatti “puri”
che siano dati al di fuori dei nostri quadri concettuali e teorici, ma ha anche,
contro Popper, messo in evidenza come la concreta storia della scienza non
dipenda solo dalla razionalità delle teorie, la maggior approssimazione alla verità
di Popper, ma anche da condizionamenti extra-scientifici.
Così, ad esempio T. S. Khun (1922-96), ha visto nella scienza non un’attività
esclusivamente razionale quanto invece un’attività svolta da un concreto gruppo
sociale, gli scienziati, le cui convenzioni e il cui consenso sono in definitiva i
fattori che condizionano ciò che è ritenuto scientifico e ciò che non lo è.
In questo modo la scienza ha comunque finito per perdere quelle caratteristiche
di sapere certo assoluto e oggettivo che aveva per i positivisti ottocenteschi; nello
stesso tempo si cominciavano ad evidenziare anche le criticità del rapporto
uomo-natura che scienza e tecnologia aveva instaurato o della società che su tale
1 - Neopositivismo (______________
________________________)
Scienza = _____________________
espressa in _____________________
scientificità = __________________
degli enunciati poiché limitata 
scienza = ____________________
2 – _______________________
Aspettative (_________________) 
__________________  __________
___________ (teorie)  falsificabili
Scienza = lotta tra _______________
con il soppravvento delle __________
___________________________
Dal criterio della _________________
al criterio della _________________
3 - ___________________________
Dall’approccio __________________
all’approccio ____________________
dai _____________________ ai
condizionamenti _________________
Il gruppo ___________________
___________________________
Dalla fiducia alla ____________:
scienza  ____________________,
società industriale, ______________
________________
10
tecnologia si fondava, la società industriale, nonché del modello antropologico
imposto da tale società.
Tutte queste teorie epistemologiche hanno comunque finito per riconoscere alle
conoscenze scientifiche o un carattere probabilistico (neopositivisti) o un
carattere non definitivo (Popper) o convenzionale, influenzato da fattori extrascientifici (post-popperiani).
A determinare il secondo campo di indagine della filosofia analitica è stato ancora
una volta Ludwig Wittgenstein che, dopo aver abbandonato per alcuni ani la carrier
accademica, nel 1929, era tornato a Cambridge in Inghilterra, iniziando un fecondo
periodo di approfondimento e di ripensamento delle tesi del Tractatus, che avrebbe
influito notevolmente sullo sviluppo di ricerche filosofiche successive, incentrate
non solo più sull'analisi rigorosa del linguaggio scientifico ma anche di quello
ordinario, in relazione ai suoi «usi», all'interno di condotte di vita e di comunità di
credenze e di pratiche.
J. L. Austin(1911-1960) è il più originale rappresentante di questo secondo
interesse dominante nella filosofia analitica che ha dato vita alla cosiddetta
filosofia del linguaggio ordinario che ha identificato la filosofia con una
sistematica e minuziosa analisi del linguaggio ordinario, volta, da un lato, ad
esaminare i problemi posti dal linguaggio, con gli errori e i fraintendimenti che
esso comporta, e, dall'altro, a individuare e a risolvere problemi chiarendo il
significato delle proposizioni adottate. Intende il significato dei termini non come
corrispondenza fra essi ed elementi della realtà (come aveva sostenuto il primo
Wittgenstein), ma in riferimento al loro uso e alla correttezza di tale uso rispetto
alle regole prescritte dal sistema linguistico di cui essi fanno parte ((come
sosteneva il secondo Wittgenstein). L'analisi logico-linguistica viene intesa come
opera di chiarificazione concettuale volta a risolvere problemi. Se ne mette, perciò,
in rilievo la funzione euristica, cioè la capacità di trovare soluzioni ai problemi
teorici. Vi è una costante attenzione verso i più disparati tipi di linguaggio, verso le
concrete forme d'uso dei linguaggi, piuttosto che verso i loro princìpi logicoformali.
In tale ambito si esprime anche un interesse positivo per l'uso linguistico dei
termini nelle proposizioni della metafisica che non vengono trattate come pseudoproposizioni, cioè proposizioni prive di senso (come aveva fatto, ad esempio,
Carnap e il neopositivismo sulla base della loro non verificabilità) ma solo studiate
con lo scopo di comprendere quel particolare "gioco linguistico", lo specifico uso
dei termini e delle proposizioni che esso adotta e che è determinato dalle regole
interne al gioco stesso.
Sia che privilegi la scienza (neopositivisti, Popper, epistemologia) o il linguaggio e
il senso comune (Wittgenstein, filosofia del linguaggio) come campo d’indagine, in
ogni caso la filosofia analitica è comunque caratterizzata dal riconoscimento di un
rapporto privilegiato tra linguaggio e filosofia e, più drasticamente, dalla
convinzione che i problemi filosofici siano problemi di linguaggio, configurandosi
così, in molti autori rappresentativi, come una filosofia linguistica, rivolta o alla
formulazione di un linguaggio perfetto, lontano dalle incertezze, dalle ambiguità e
dagli inganni del linguaggio ordinario (primo Wittgenstein e neopositivisti) , o
chiarificare i significati e usi del linguaggio comune (filosofia del linguaggio).
Si presenta inoltre come uno stile di pensiero rigoroso e di frequente polemico
contro le concezioni metafisiche che hanno animato e spesso dominato la sviluppo
della filosofia occidentale e, più in generale, contro l'approssimazione
argomentativa ed espressiva della filosofia precedente e coeva, considerata, in alcuni casi, addirittura più vicina alla letteratura che al pensiero rigoroso.
Il valore della scienza:
__________________ (neopositivisti)
______________________ (Popper)
convenzionale (________________)
B – Filosofi a del ________________
_____________________
1 – secondo _____________________
2 - ___________________________
L’analisi dell’ ______________ del
linguaggio____________________
per risolvere ____________________
che ____________________________
I giochi ___________________
(vedi Wittgenstein)
Caratteri comuni della filosofia
analitica:
1- __________________________
_____________________________
2 – rifiuto ______________________
___________________________
11
2.2 Wittgenstein e la teoria dei giochi linguistici
Il primo Wittgenstein e la svolta
Le Ricerche filosofiche e la teoria dei giochi linguistici
Il primo Wittgenstein e la svolta
WITTGENSTEIN E LA TEORIA DEI
GIOCHI LINGUISTICI
Il primo Wittgenstein
(Tractatus
logico-philosophicus) e la svolta
Linguaggio e __________________ =
Ludwig Wittgenstein (1889-1951), uno dei padri fondatori della filosofia analitica
e uno dei massimi filosofi del Novecento, è noto soprattutto per avere scritto il
Tractatus logico-philosophicus, che rimarrà l’unico suo testo pubblicato in vita
(1921/1922), e le Ricerche filosofiche (1953). Nel primo, Wittgenstein ritiene di
aver dato risposta a quello che considera il problema fondamentale della filosofia:
come il linguaggio possa rappresentare la realtà.
Il primo Wittgenstein pensa che il linguaggio rappresenti la realtà perché
linguaggio e realtà hanno una struttura comune. Si tratta, ovviamente, di una
struttura logica. Null'altro potrebbe infatti essere presente tanto nella realtà quanto
nella proposizione. Un po' semplificando si può dire che i nomi stanno per gli
oggetti del mondo e che le relazioni in cui i nomi si trovano all'interno delle
proposizioni rappresentano le relazioni in cui gli oggetti si trovano nel mondo.
La proposizione, dunque, rappresenta la realtà nel senso che la raffigura.
Wittgenstein suppone, dunque, da un lato, che le proposizioni rappresentino la
struttura logica dei fatti e, dall'altro, che i nomi corrispondano agli oggetti.
Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein si oppone nettamente e decisamente alla
teoria del linguaggio che aveva esposto nel Tractatus.
Con il Tractatus, Wittgenstein ritiene di avere detto tutto quello che è possibile dire
nei limiti del linguaggio scientificamente corretto e di non poter dire alcunché su
tutto il resto. Negli anni successivi egli non si occupa professionalmente di
filosofia e vive facendo il maestro elementare. Forse proprio il rapporto con i
bambini e l'osservazione dei loro comportamenti linguistici lo convince che anche
il linguaggio non scientifico può essere sensato, che bisogna andare al di là del
Tractatus, dove si prende in esame solo una parte minoritaria del linguaggio.
Di qui la svolta: la filosofia deve occuparsi dei linguaggi ordinari non formalizzati,
prendendo in esame i concreti usi linguistici. La convinzione che il linguaggio
debba essere spiegato in base al suo parallelismo con la realtà, che esista una forma
linguistica privilegiata, un linguaggio primo, puro e ideale che raffigura il mondo,
lascia il posto al riconoscimento della pluralità dei nostri modi di parlare, che
deriva dalla pluralità delle forme di vita vissute dagli uomini. Il ritorno a
Cambridge e la ripresa dell'attività filosofica aprono la fase del `secondo
Wittgenstein', una fase di ripensamento, che si concretizza in una consistente massa
di appunti e riflessioni elaborati negli anni 1936-1949, di cui i più significativi sono
raccolti nelle Ricerche filosofiche (pubblicate nel 1953).
Quest'opera è in realtà assai difficile da inquadrare nella tradizione filosofica: si
tratta, per ammissione dell'autore, di una demolizione delle sue idee precedenti.
Tuttavia, nella misura in cui il Tractatus rappresenta il culmine di una tradizione
filosofica dominata dalla ricerca dell'essenza dei fenomeni, da scoprire e disvelare
scavando sotto la superficie del linguaggio e del suo uso effettivo, le Ricerche,
rompendo nettamente con questa impostazione, risultano un testo particolarmente
critico nei confronti della tradizione metafisica occidentale, se non il testo critico
per eccellenza di quella tradizione.
Nelle Ricerche filosofiche la filosofia non è più concepita come teoria ma come
terapia, come cura, cioè, dei fraintendimenti del linguaggio e del suo
funzionamento da cui, secondo Wittgenstein, avrebbero origine i cosiddetti
«problemi filosofici». Questi, in realtà, non sarebbero problemi genuini, passibili di
_______________ logica __________
nomi  __________________
_____________________  relazioni
_________________________
la proposizione ___________________
la realtà
l’abbandono della ________________
l’interesse per ____________________
_________________________
Il secondo Wittgenstein (Ricerche
filosofiche)
dal linguaggio che ________________
il mondo alla __________________dei
linguaggi
la critica al ______________________
e alla ___________________________
La filosofia come _________________
dai pseudo- _______________originati
dal _____________________ del
linguaggio
Wittgenstein e ___________________
12
vere soluzioni, bensì pseudo- problemi nati dal cattivo uso del linguaggio. Alla luce
di questo atteggiamento ferocemente critico della tradizione filosofica occidentale
e dei suoi metodi, molti considerano Wittgenstein come uno degli iniziatori del
postmoderno, insieme con Nietzsche, Heidegger e Derrida.
LE RICERCHE FILOSOFICHE E LA
TEORIA DEI GIOCHI LINGUISTICI
Le Ricerche filosofiche e la teoria dei giochi linguistici
La svolta rappresentata dalle Ricerche, rispetto alle tesi precedentemente sostenute
da Wittgenstein, ha indotto gli studiosi a parlare di un "primo" e di un "secondo
Wittgenstein", per sottolineare la notevole differenza che intercorre tra le nuove
posizioni e quelle contenute nel Tractatus.
Per il secondo Wittgenstein la ricerca può essere condotta solo osservando il farsi
effettivo del linguaggio. Il suo fine non potrà quindi più essere l'edificazione di una
teoria, ma solo il tentativo di sradicale i pregiudizi che spesso conducono a una
rappresentazione erronea dei fenomeni. L'attività filosofica, quindi, avrà
essenzialmente il valore di una terapia, cioè, dice Wittgenstein, di una cura dei
«bernoccoli» che ci facciamo quando ci fissiamo su un aspetto particolare del
linguaggio e da questo estrapoliamo il suo funzionamento in generale. Ora, questi
bernoccoli non ce li facciamo perché siamo stupidi, ma perché il linguaggio ci
induce spesso in errore. Sovente, infatti, presenta analogie superficiali che ci
spingono a trattare in maniera simile fenomeni in realtà molto diversi. Per esempio,
"anima" e "mente" sono nomi, proprio come "tavolo" e "sedia": non è facile quindi
resistere alla tentazione di considerare oggetti ciò a cui rimandano, sulla scorta di
quanto facciamo abitualmente con "tavolo" o "sedia". Anche la parola "significato"
è un nome: che cosa vi è quindi di più naturale del pensare che il significato di una
parola sia un oggetto, materiale o astratto? "Pensare", "comprendere" sono verbi al
pari di "camminare" e "cucinare": sembra quindi giocoforza ritenere che
descrivano processi, non manifesti come questi ultimi, ma interiori. Ecco quindi
palesarsi davanti a noi, in maniera del tutto naturale, un'intera «mitologia»: che
l'anima e la mente siano oggetti e che comprendere il significato di una parola sia
un processo cognitivo che ci metta in grado di afferrare questo oggetto misterioso.
Ma, a ben guardare, le cose non stanno così. Dobbiamo quindi curarci, e la terapia
avrà effetto quando giungeremo a estirpare dal nostro intelletto quelle immagini
che ci tenevano prigionieri, pervenendo a una «rappresentazione perspicua», cioè
chiara e nitida, dei fenomeni. Il nostro intelletto avrà così pace, poiché non vi
saranno più confusioni su cui arrovellarsi. La terapia avrà quindi effetto se ci
permetterà di smettere di filosofare: se i problemi filosofici vengono dissolti, allora
non c'è più bisogno di filosofia
Una malattia endemica che, secondo Wittgenstein, infesta non solo il Tractatus, ma
anche gran parte della nostra tradizione filosofica occidentale, è credere che il
significato del nome sia l'oggetto per cui quel nome sta. Questo vuol dire credere
che a fondamento di tutto il nostro operare col linguaggio risieda la «definizione
ostensiva», cioè una definizione che trascende il linguaggio e ci pone direttamente
in connessione con la realtà, come avviene quando diciamo "Questo è giallo"
indicando un campione di quel colore, oppure "Questa è una sedia" indicandone
una. L'apprendimento del linguaggio consisterebbe così nel compiere queste
connessioni tra una parola - "giallo", oppure "sedia" - e il suo correlato
extralinguistico.
Ma, per comprendere una definizione ostensiva si devono già sapere un mucchio di
cose, per esempio, che "giallo" è il nome del colore dell'oggetto che ci viene
mostrato e non della sua forma; oppure che "sedia" è il nome dell'oggetto e non del
suo fabbricante, e così via. Quindi è sbagliato credere che apprendiamo il
Dalla teoria del ________________
alla cura del ____________________
la cura dei ______________________
(bernoccoli) che derivano dall’_______
_________________________
Parole e ________________________
Una parola un oggetto
Tavolo  oggetto _______________
Anima  ?
la terapia = la ___________________
_________________ dei fenomeni
= liberazione dai _________________
filosofici = ___________________
Gli errori da curare:
1 – i nomi stanno per
Se nome ____________________
allora linguaggio _______________
apprendere = ____________________
nome a _________________
13
linguaggio attraverso queste definizioni, perché in realtà esse presuppongono che si
sappia già moltissimo sul linguaggio e sul suo funzionamento. Secondo
Wittgenstein, invece, entriamo nel linguaggio mediante l'addestramento, all'interno
della nostra comunità linguistica, a usare le parole in un certo modo e a prendere
parte alle svariate attività che compiamo con le parole e che fanno parte della
nostra «forma di vita». Queste attività, Wittgenstein le chiama «giochi linguistici».
Attraverso tali «giochi» apprendiamo che "sedia" è il nome di quel certo tipo di
oggetto, con il quale si possono fare certe cose e non altre, perché veniamo
addestrati a portare una sedia quando ci viene richiesto, a spostarla se ingombra il
passaggio, a salirci sopra quando dobbiamo raggiungere un oggetto che sta in alto.
Infatti, è proprio della nostra forma di vita - concetto sfumato che comprende tratti
sia biologici sia culturali - che le sedie non si mangino, o che non vengano usate
per giocare a pallavolo. Se incontrassimo quindi qualcuno che in tutta serietà ci
dicesse che ha mangiato un'ottima sedia, o che ha vinto una partita di "sedia a
volo", noi non lo capiremmo: la nostra specie, infatti, non può mangiare legno,
colla, chiodi e vernici, e non è proprio delle nostre prassi sportive - anche per
ragioni ovvie - usare le sedie per giocare a pallavolo.
Wittgenstein intende curare anche un'altra malattia che ha attraversato tutta la
filosofia, da Platone in poi: la credenza che la definizione permetta di conoscere
l'essenza della cosa — cioè le condizioni necessarie e sufficienti che fanno sì che
qualcosa sia quello che è — e che conoscere il significato della parola consista nel
conoscerne la definizione, questa volta non ostensiva, ma verbale. Certo, in taluni
casi noi abbiamo definizioni esplicite. Pensiamo a "scapolo", definito come
"maschio, adulto, non sposato". Ovviamente la definizione ci dice che cosa fa sì
che un individuo sia uno scapolo, e, altrettanto ovviamente, conoscere il significato
di quella parola vuol dire padroneggiarne la definizione. Tuttavia in molti casi non
abbiamo nessuna definizione esplicita. Pensiamo, per esempio, alla parola "gioco".
Non siamo in grado di addurre una serie di condizioni necessarie e insieme
sufficienti che facciano sì che qualcosa sia un gioco. Proviamo con "attività
divertente retta da regole": ne verrebbe escluso il gioco delle bambole, che non è
retto da regole. Oppure, semplicemente, "attività divertente": questo escluderebbe
dal novero dei giochi gli scacchi, a giudicare dalle espressioni sul volto dei
giocatori quando questi sono intenti a pensare a una mossa; in compenso, vi
includerebbe il giardinaggio (almeno per molti). Quindi, sembra proprio che non
esista una definizione completa di "gioco", oppure che, se c'è, sia del tutto
arbitraria. Quindi a nulla vale farvi ricorso per spiegare le nostre capacità
categoriali e linguistiche.
II concetto di gioco, come quelli di regola, proposizione, linguaggio, filosofia,
bellezza, giustizia, e tanti altri sono concetti per «somiglianze di famiglia». Ciò
significa che annoveriamo tra i giochi, per esempio, attività che non presentano un
insieme determinato di tratti comuni, ma si assomigliano le une alle altre in modi
diversi, un po' come i membri di una stessa famiglia: la figlia assomiglia alla madre
nella bocca e al padre negli occhi; il figlio, invece, assomiglia al padre nella statura
e alla madre nel naso. Eppure noi, vedendoli tutti e quattro insieme, ci accorgiamo,
attraverso questa rete di somiglianze, che il ragazzo e la ragazza sono fratelli,
anche se non mostrano alcuna somiglianza tra loro. Conoscere il significato di
"gioco", quindi, non vuol dire conoscere una definizione, bensì sapere applicare
quella parola a un insieme molto vario di attività che mostrano tra loro solo
somiglianze di famiglia.
La concezione dei concetti proposta da Wittgenstein nelle Ricerche ha una
conseguenza assai rilevante: se non vi è qualcosa di comune a tutto quello che
chiamiamo "gioco", "famiglia", "bene", "bellezza" e così via, allora non ha neanche
senso ricercare questa presunta essenza comune. Da Platone in avanti, però, si è
pensato che questo fosse il compito della metafisica e, quindi, il fine più importante
ma apprendere = addestramento a
______________ le parole in relazione
alla nostra ______________________
ovvero apprendere dei ____________
_____________________________
2 – le definizioni descrivono _______
__________________________
le definizioni verbali ___________
e li concetti per __________________
di ___________________
Se i concetti si costruiscono per
______________________________
allora NO _______________ comune
NO ____________________________
14
della filosofia. La scoperta apparentemente modesta che i nostri concetti
funzionano per somiglianze di famiglia ha pertanto l'effetto dirompente di minare
alle fondamenta la metafisica occidentale e di ridurla a una ricerca vuota, provocata
dal fraintendimento del nostro linguaggio.
La possibilità di comprenderci con i nostri «giochi linguistici» e gli innumerevoli
tipi di proposizioni che possiamo impiegare poggia tra l'altro sul fatto che
seguiamo delle regole. Ma cosa significa «seguire una regola»? In generale,
«seguire la regola è una prassi» appresa generalmente attraverso esempi. Le regole
infatti da sole non possono determinare la prassi, ma abbiamo bisogno anche di
esempi: del resto, così leggiamo nella raccolta di pensieri intitolata Della certezza
(par. 139), «le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve
parlare per se stessa. Inoltre, seguire una regola è anche un'abitudine e non è
questione privata: le regole sono sempre pubbliche e seguirle fa parte delle
abitudini che si incorporano nell'interazione con gli altri, nelle «forme di vita» in
cui cresciamo, con ciò che ci abituiamo a credere, con gli usi in vigore e con le
aspettative degli altri nei nostri confronti.
Non disponiamo neppure di un linguaggio privato, in quanto usiamo e capiamo le
espressioni linguistiche come membri di una società: anche l'espressione «provo
dolore» che sembra riguardare un sentimento interno che solo chi la pronuncia può
conoscere, ha un significato e viene compresa dagli altri perché esiste un criterio in
base al quale si può dire se è corretta o scorretta. Non occorre che gli altri provino
lo stesso dolore di chi afferma di provare dolore, per capire il significato
dell'espressione: chi parla e chi ascolta deve avere appreso, entro forme di vita, il
linguaggio (pubblico) relativo a un certo tipo di sensazioni e i rispettivi giochi
linguistici, imparando ad associare agli stati di sofferenza o disagio l'espressione
del «provare dolore» (e molte altre correlate).
Indagare questi aspetti consente di approfondire come apprendiamo il linguaggio e,
in questo modo, il nesso tra significati, prassi e usi, vale a dire i riferimenti ma
anche gli effetti che certe espressioni linguistiche provocano.
La funzione della filosofia è dunque terapeutica: la filosofia è terapia. Secondo
Wittgenstein, il filosofo deve trattare un problema filosofico come il medico tratta
una malattia. I problemi filosofici non sono veri problemi, nascono da un uso errato
delle parole. Il filosofo deve correggere tale uso errato. Benché Wittgenstein abbia
molto criticato la psicoanalisi di Freud, possiamo paragonare la psicoanalisi alla
funzione che la filosofia deve avere secondo Wittgenstein. Come la psicoanalisi
cura le nevrosi portandole alla coscienza del paziente, così la filosofia affronta e
dissolve i problemi filosofici rendendo consapevole il filosofo del corretto e del
cattivo uso delle parole. La filosofia, così, non è neppure un gioco linguistico
particolare: le parole che si usano in filosofia non hanno particolari regole d'uso, la
filosofia è solo la descrizione dell'uso delle parole nei contesti ordinari. Questo
modo di intendere il lavoro filosofico ha avuto una vasta influenza sulla filosofia
soprattutto di lingua inglese, un'area nella quale è stata ed è dominante la cosiddetta
filosofia analitica
2.3 La filosofia continentale: l’ermeneutica
Caratteri generali della filosofia continentale
Gadamer e l’ermeneutica
Le _________________ linguistiche
Regola + ____________ + ______
______ nelle _______________ con
gli altri e le ____________________
in cui ________________________
quindi linguaggio sempre _________
_____________________
anche per le ____________________
Filosofia = rendere ____________
dell’uso ___________________ del
_____________________
e la filosofia _________________
LA FILOSOFIA CONTINENTALE:
L’ERMENEUTICA
Caratteri generali della filosofia continentale
Benché sia, come abbiamo già sottolineato, forzato tenere insieme tradizioni
15
filosofiche molto diverse che vanno da quelle sorte nel corso del primo Novecento,
quali la fenomenologia e l’esistenzialismo a quelle tipiche del secondo Novecento,
strutturalismo, post-strutturalismo e ermeneutica, è però possibile indicare almeno
alcuni caratteri comuni che le contrappone alla tradizione analitica.
Raccogliendo la lezione di Schopenhauer e Nietzsche i continentali vedono la
realtà come una costruzione culturale, che muta in funzione di soggiacenti fattori
vitali e non è, perciò, suscettibile di un inquadramento razionalmente unitario e
fondante. Pensano che la ricerca di un fondamento della conoscenza, così come la
specificazione di ben definiti criteri di razionalità e di verità, abbia condotto a esiti
fallimentari e intrinsecamente paradossali; e pensano, ancor prima, che tale ricerca
corrisponda all'adozione di un atteggiamento che è tanto più metafisico quanto più
si fissa su una concezione passiva del soggetto conoscente, dimenticando la
dimensione partecipativa, emotiva, corporea, esistenziale dell'essere umano.
I continentali rimproverano agli analitici, da un lato, di sottovalutare la
molteplicità di aspetti che ineriscono all'esperienza umana - inconsci, emotivi,
esistenziali, sociali – e, dall'altro, di ignorare la storicità stessa dell'esperienza, che
non riguarda soltanto l'oggetto ma anche il soggetto e le modalità della sua
autocomprensione: poiché il pensiero è vita che interpreta la vita, è apertura alla
varietà delle sue determinazioni, consapevole finitezza, coraggio di accettare la
fallibilità delle risorse conoscitive, disperato tentativo di dare e darsi un senso.
È dunque sulla nozione di esperienza che c'è una profonda divergenza dagli
analitici. Non c'è solo l'esperienza percettiva e quel suo raffinamento che si ottiene
nella pratica osservativo-sperimentale delle scienze (con l'ausilio di protesi
artificiali: microscopi, telescopi ecc.). C'è anche l'esperienza esistenziale, carica di
emozioni e ancorata a un contesto, che è propria di ciascun individuo nella sua
unicità. E c'è infine un'esperienza storica, che pervade i modi della vita sociale,
dalla comunità più circoscritta all'umanità nella sua interezza.
Una filosofia che valorizzi tutte le forme d'esperienza, descriva la gamma delle loro
concrete manifestazioni, le ancori alle loro radici extra-razionali e abbia il coraggio
di affrontare i grandi problemi inerenti alla ricerca del senso ultimo della vita
umana (o alla vanità di una tale ricerca), non potrà che prendere le distanze
dall'astrattezza di una riflessione puramente epistemologica e semantica.
Strutturalismo, post-strutturalismo e ermeneutica sono gli indirizzi fondamentali,
seguiti dalla filosofia continentale nel secondo Novecento, nel tentativo di
realizzare tale tipo d’indagine filosofica.
CARATTERI GENERALI DELLA
FILOSOFIA CONTINENTALE
Gadamer e l’ermeneutica
GADAMER E L’ ERMENEUTICA
1 - realtà = _____________________
culturale dettata da _______________
non ________________________
2 - soggetto _____________________
e dimensioni ____________________
_______________________________
3 - ___________________________
dell’esperienza
La svolta linguistica, che abbiamo detto caratterizzare la filosofia del Novecento, La filosofia come ________________
è ben visibile nell’ermeneutica che a partire dalla presa di coscienza del carattere
circolare delle procedure di interpretazione dell'esperienza, completamente
permeate di linguaggio, presentare la filosofia come dottrina dell'interpretazione,
cioè,appunto, ermeneutica.
Il termine ermeneutica, che prima di Hans Georg Gadamer (1900-2002) indicava Testo e ________________________
soltanto una tecnica di interpretazione dei testi, in particolar modo testi giuridici e
______________________________
religiosi, è utilizzato oggi, dopo la pubblicazione della principale opera di
Gadamer, Verità e metodo (1960), per indicare un problema filosofico universale.
Dall'ermeneutica abbiamo infatti appreso che in ogni testo si nasconde una
domanda, o meglio un orizzonte di domande, come direbbe Gadamer, che ci
riguarda direttamente e che l'analisi filosofica può portare alla luce solo entrando
in un complesso rapporto con il testo, cioè smontandolo e rimontandolo.
Il filosofo Friedrich Schleiermacher (1768-1834) ha aperto la strada
16
all'ermeneutica come filosofia dell'interpretazione. Egli infatti è stato il primo a
sostenere che il problema ermeneutico non si presenta solo quando valutiamo le
possibili interpretazioni di uno scritto, ma tutte le volte che ci troviamo di fronte a
un «tu» da interpretare, conoscere, comprendere. Le persone che ci circondano
sono un mistero per noi e tutte le volte che ci rapportiamo a loro dobbiamo interpretarle per capire che cosa ci dicono e ci manifestano, come mostra il caso
emblematico del fraintendimento. Ogni atto significativo dunque, ogni
espressione dotata di senso, e non solo il testo scritto, richiedono un'ermeneutica,
un'operazione del comprendere.
Da Schleiermacher abbiamo inoltre appreso che il linguaggio è un presupposto
imprescindibile del problema ermeneutico. Il linguaggio, che accomuna
l'interprete e l'oggetto dell'interpretazione, non è solo un mezzo di comunicazione,
uno strumento neutro, ma è un momento istitutivo della nostra percezione del
mondo, del nostro modo di stare nel mondo, nel senso che il linguaggio
condiziona il pensiero e addirittura lo costruisce. Il pensiero non può prescindere
dall'esperienza della mediazione linguistica; così come non viviamo di intuizioni
tacite o di telepatie, non pensiamo senza immagini e senza linguaggio. Il
problema ermeneutico si pone proprio perché sappiamo che gli strumenti
linguistici non sono estrinseci al pensiero, ma sono intrinseci, fanno cioè parte
della costituzione dell'esperienza del pensiero come tale.
Facendo tesoro della lezione heideggeriana, ma anche distaccandosene, Gadamer
ha fornito alla riflessione successiva gli elementi di una teoria dell'esperienza
ermeneutica.
In Verità e metodo Gadamer sviluppa una teoria del linguaggio come "mezzo",
come elemento mediatore (non strumento) dell'esperienza del mondo. Il
linguaggio è sottratto al dominio del soggetto, della coscienza, ed è l'ambito in cui
il soggetto incontra l'altro da sé: il mondo, gli altri e l'intera dimensione del nondetto che sorregge sempre il linguaggio espresso, ciò che viene detto.
Inoltre, nella comprensione ermeneutica di qualunque fatto della cultura noi
siamo condizionati, secondo Gadamer, da schemi che ereditiamo dal passato,
dalla tradizione. Se non fossimo già in possesso di queste conoscenze, se non
avessimo dei «pregiudizi», non potremmo conoscere nulla: in un certo senso, non
possiamo conoscere se non quello che già sappiamo. È quella che Gadamer chiama «precomprensione», che fa sì che la nostra conoscenza abbia un carattere
circolare. Non si tratta però di un circolo chiuso: nella ricerca della verità, noi
modifichiamo i nostri pregiudizi di partenza e giungiamo a concetti più adeguati;
conferiamo sempre nuovi e diversi significati alla tradizione, aprendola così a
infiniti sensi.
Il senso di questo discorso appare chiaro quando ci troviamo davanti a un testo e
lo vogliamo comprendere. Se non avessimo una precomprensione di quello che
leggiamo, difficilmente riusciremmo a farci un'idea di quello che ci sta di fronte.
Ciò che alla fine diciamo di comprendere è quindi il risultato di un'interpretazione
basata su ciò che già conoscevamo prima di intraprendere l'impresa della
comprensione.
La comprensione non è una struttura rigida, un muro che si costruisce mattone su
mattone, ma è il risultato di una dinamica circolare. Essa si sviluppa percorrendo
un percorso circolare in cui il punto di partenza e il punto di fine non sono individuabili: l'interpretazione che offriamo di un testo arricchisce di nuove conoscenze
il nostro vecchio bagaglio, ma dall'uso di questo nuovo bagaglio dipenderà poi
l'interpretazione che daremo di ogni testo ulteriore che leggeremo e cercheremo
di comprendere. In altri termini: la precomprensione condiziona l'interpretazione,
e questa, a sua volta, modifica la precomprensione, arricchendola e conferendole
spessore e significato.
Il fatto che la circolarità, invece di significare ripetizione e identità, comporti
Schleiermacher (inizio ‘800):
1 - il _________ da interpretare
L’estensioni degli atti significativi da
_________________
2 – il linguaggio costitutivo del ______
_______ e del percepire il __________
Schleiermacher + ______________
 ________________________
La comprensione è condizionata da:
1 - Il linguaggio che costituisce ______
_____ dell’incontro con ____________
e con ________________________
2 - ___________________(pregiudizi)
= ciò che già __________________
Il circolo ___________________
Pre___________________+
Testo
____________________+
Il carattere ____________________
e ______________________
17
produzione del nuovo e differenza risulta ancor più chiaro se teniamo conto di un
altro concetto: quello del tempo, ovvero quello che Gadamer chiama «l'implicarsi
degli orizzonti del passato, del presente e del futuro». Che cosa significa?
Riprendendo l'analisi del tempo del suo maestro Heidegger, egli vede nella
dimensione temporale qualcosa di irriducibile a un procedimento analitico in cui
si può separare nettamente un elemento dall'altro. Il tempo inautentico, quello
della fisica newtoniana, è strutturato così: è una successione di istanti fra loro
staccati e tutti uguali. Ma il tempo autentico ha un'altra struttura: in esso ogni
attimo del mio presente è essenzialmente condizionato dal riferimento allo sfondo
di passato da cui proveniamo. Esso è inoltre altrettanto essenzialmente
caratterizzato dal suo sporgersi verso il futuro (in ogni momento noi abbiamo una,
per quanto ridotta, prospettiva che ci fa andare oltre il nostro presente e che gli dà
la sua coloritura, il suo tono). Nessun attimo, insomma, è semplicemente se
stesso; ma tende sempre a qualcos'altro. Ne consegue che tutti i prodotti della
cultura, della storia, che sono essenzialmente legati al tempo (a differenza degli
enti naturali), non hanno un significato fisso e unico, ma molteplice e variabile;
anche da questo consegue l'apertura infinita del circolo ermeneutico.
2.4 La filosofia continentale: strutturalismo e post- strutturalismo e il problema del
soggetto
Il problema del soggetto nella filosofia moderna e contemporanea
Foucault: la crisi dell’ideologia umanistica
Lévinas: il Medesimo e l’Altro
Derrida: il decostruttivismo e la ricerca della differenza
LA FILOSOFIA CONTINENTALE:
STRUTTURALISMO
E
POSTSTRUTTURALISMO
E
IL
PROBLEMA DEL SOGGETTO
IL PROBLEMA DEL SOGGETTO
Il problema del soggetto nella filosofia moderna e contemporanea
La riflessione dell'età moderna si è sviluppata a partire dal problema del soggetto.
Per soggetto si intende l'individuo capace di comprendere il mondo e di seguire
principi di natura morale come guida dei propri comportamenti.
Fin dal periodo umanistico-rinascimentale, le filosofie affrontano la questione
relativa alla fondazione e alla giustificazione delle possibilità che l'io ha di pervenire alla verità e volgere le proprie azioni in vista del bene. Sia che venisse
considerato come ««sostanza» o come «esperienza» sensibile, sia che si fondasse
su una ragione universale o su una credenza empirica, l'immagine prevalente del
soggetto dava per acquisita l'identificazione tra «io» e «coscienza».
Alla metà del XIX secolo si assiste a un mutamento di prospettiva. È da questo
cambiamento che dobbiamo partire per comprendere la crisi del soggetto e
l'avvento del pensiero della differenza, cioè quella concezione secondo cui la
frammentazione del sapere scientifico nei diversi specialismi impedisce la
realizzazione del sogno di un sapere totale, dominato da un punto di vista assoluto,
e richiede invece una presa d'atto della dispersione e della molteplicità delle forme
del sapere.
Con i sistemi dell'idealismo tedesco (Fichte, Schelling ed Hegel) si era giunti a
considerare il soggetto moderno come una realtà assoluta (l'io in Fichte,
l'autocoscienza trascendentale in Schelling e lo spirito in Hegel). Tuttavia, già
all'interno di queste filosofie il soggetto finiva effettivamente con l'afferrare del
tutto se stesso, con il realizzarsi, con il sapersi soggetto (si pensi all'autocoscienza
in Hegel), ma non prima di aver attraversato il confronto e lo scontro con ciò che
era altro da sé (che questo altro fossero la natura, gli altri uomini ecc.). Ciò
1 – Filosofia moderna
IO (ragione o ccredenza _________ =
____________________
La filosofia contemporanea:
dall’______________________
alla ___________________________
2 - ___________________________
Soggetto _________________
ma attraverso ___________________
18
significa che già l'io degli idealisti recava in sé una dimensione di negatività da
superare per giungere alla piena affermazione della propria realtà di soggetto.
Questa modalità di affrontare e risolvere la vicenda del soggetto fu sottoposta a
critica lungo tutta la seconda metà dell'Ottocento; critica che trova nel Novecento
una radicalizzazione decisiva. Da Schopenhauer a Kierkegaard, da Marx a
Nietzsche fino a Freud molteplici sono i tentativi di uscire da un'immagine della
coscienza soggettiva come dimensione trasparente a se stessa e conciliata, cioè
priva di scissioni, contraddizioni e ombre. È stato, come abbiamo già ricordato,
Paul Ricoeur (1913-2005), a utilizzare la formula molto felice, riferita a Marx,
Nietzsche e Freud, — «filosofi del sospetto» — per esprimere questa visione
critica della soggettività e della coscienza entro i cui termini il sospetto è appunto
quello esercitato dal pensiero sulla pretesa della coscienza stessa di essere padrona
di sé e del tutto evidente a sé.
La filosofia del Novecento radicalizza a tal punto la critica al soggetto da renderla
condizione strutturale di ogni possibile interpretazione della stessa soggettività. Ciò
significa, se volessimo usare una formula, che all’io non accade di andare in crisi
ma che è, come io, la sua stessa crisi.
Nella seconda metà del secolo scorso le posizioni dello strutturalismo hanno
fortemente contribuito a porre il problema della marginalità e del decentramento
del soggetto; al posto del soggetto divengono centrali le strutture e i sistemi entro
cui i soggetti agiscono, pensano, rivestono posizioni e ruoli in modo significativo,
cioè dotato di un senso riconosciuto dal soggetto stesso e dagli altri. In questo
senso sono sistemi il linguaggio, il potere, il sapere, i sistemi di parentela, ma
anche l'inconscio o la scrittura. Tutto ciò che afferma un soggetto (e questo già la
psicoanalisi lo insegna), il suo consegnarsi a un senso, cioè la sua pretesa di
giustificare se stesso in base a determinati significati, non sono che una sorta di
effetto di superficie, tutto sommato ingannevole.
Foucault: la crisi dell’ideologia umanistica
Michel Foucault (1926-1984), continuerà nella critica alla sovranità del soggetto e
mostrerà l'impossibilità per quest'ultimo di cogliersi nella trasparenza immediata
del cogito, come invece accade in Cartesio, secondo il quale di tutto si può
dubitare, ma non del fatto di dubitare, cioè di essere una coscienza che esercita il
dubbio. Quella che dunque siamo soliti chiamare nell'espressione ordinaria «presa
di coscienza», cioè una piena assunzione di consapevolezza di se stessi, è qui
considerata un inganno o per meglio dire un autoinganno. L'uomo che vuole
rendersi padrone della sua verità e della sua storia viene mostrato in quello che
realmente è e cioè, come sosterrà lo strutturalismo, una piega, una conseguenza
secondaria dei linguaggi e dei saperi, a loro volta prodotti dai rapporti di potere in
atto nella società, cioè non un attore protagonista, ma una sorta di burattino in
mano di strutture che lo sostengono.
A entrare in crisi sono dunque l'ideologia umanistica e l'antropocentrismo che si
mostrano nella loro estrema fragilità. La domanda da porre è dunque: cosa accade
nel posto vuoto lasciato dal soggetto? Potremmo dire che emergono, per usare
l'espressione tecnica di Foucault, gli ordini del discorso, cioè i diversi sistemi di
sapere con le rispettive espressioni logiche, nei confronti dei quali il soggetto non è
più vero soggetto ma, al limite, una funzione enunciativa, cioè appunto una delle
espressioni e dei modi in cui tali sistemi dichiarano se stessi. Questo significa che il
soggetto non preesiste a questi ordini come se fosse il loro fondamento: ad esempio, non esiste un soggetto «bambino» (quel particolare bambino) che sia tale
prima di essere nominato e chiamato Tommaso; e Tommaso si saprà come
3 – Kierkegaard, ________________,
maestri del _____________________
la coscienza non _________________
______________________
L’io non ___________________
ma è la _____________________
3 – secondo Novecento: _________
_______________
Senso del _______________ =
Sistemi e _________________
(linguaggio, _____________________
_______)in cui _____________agisce
e ___________________
FOUCAULT:
LA
CRISI
DELL’IDEOLOGIA
UMANISTICA
L’uomo ______________________
secondaria dei __________________
_____________________________
Il soggetto non ________________
non è _________________ gli ordini
del _________________ (sistemi di
__________________)
19
Tommaso nella misura in cui, venendo così indicato nell'ordine del discorso
quotidiano, imparerà a interiorizzare il suo nome e a pronunciarlo.
Il punto è che questo ordine del discorso non si riferisce solo alla forma linguistica
ed enunciativa, ma anche al contenuto e qui è importante ricordare l'attacco
lanciato da Foucault a quello che lui stesso definisce il «mito dell'interiorità».
Caratteristica del soggetto è infatti di pensare, oltre al fatto di essere sempre stato
Tommaso anche prima di essere stato chiamato e quindi iscritto in un ordine
enunciativo, di avere idee del tutto personali, la cui origine sia nella propria
interiorità. Foucault ammonisce che quello che il soggetto arriva a pensare dipende
dalle sue prassi discorsive e più in generale dalle prassi, cioè dalle attività pratiche
della società cui appartiene. Tommaso, se fosse vissuto in un'altra epoca storica,
non avrebbe pensato quello che pensa oggi. Pertanto gli enunciati possiedono una
particolare portata materiale e storica.
Dietro a ciò che si è soliti definire «soggetto» vi è quindi una dimensione
materiale-istituzionale-pratica e in ultima analisi linguistica. Mentre per secoli le
dimensioni del soggetto, della coscienza, dell'io sono state poste al centro dei
processi storici, come cause delle strutture e dei sistemi con cui la realtà veniva
plasmata e organizzata dalla volontà dell'uomo, ora sono viste come effetti di
quelle stesse strutture e sistemi in cui l'uomo è inserito e da cui viene inconsciamente plasmato. Con l'affermarsi del pensiero strutturalista, il posto centrale
che una volta era occupato dall'uomo viene preso dalle strutture linguistiche
(Lacan) e socio-culturali (Levi-Strauss), o dai sistemi di sapere e di potere
(Foucault), che determinano la fisionomia e la coscienza degli individui.
Le critiche al mito dell’____________
ciò che il ____________________
pensa di ___________ dipende dalle
____________ della società in cui vive
Da coscienza  _______________e
______________ per plasmare la realtà
a _______________e _____________
per plasmare la realtà  ___________
sistema:
per Lacan: ______________________
Levi-Strauss: ___________________
Foucault: ______________________
Lévinas: il Medesimo e l’Altro
Ma proprio nell'ambito di questo processo di decentramento e svalutazione del
soggetto, operato dallo strutturalismo, emergono nuove modalità di guardare la
soggettività, mettendola in relazione con ciò che la precede, la supera, la determina
o l'attende e comunque sempre la eccede.
Complessivamente queste nuove prospettive possono essere raggruppate sotto la
denominazione di post-strutturalismo, non banalmente perché si collochino dopo lo
strutturalismo, ma perché la marginalizzazione e il decentramento del soggetto, che
lo strutturalismo ha perseguito, hanno suggerito loro una riconsiderazione del
soggetto come snodo di trame e relazioni che lo costituiscono, lo modificano e lo
sviluppano. Nel post-strutturalismo, il soggetto non è l'apparenza di una struttura,
ma un processo, un'energia che varia al variare delle relazioni che intrattiene con il
linguaggio stesso, con gli altri e con la società.
In quanto energia il soggetto si esprime soprattutto come attività interpretante, da
qui l’interesse per una nuova forma di ermeneutica che, rispetto alla proposta di
Gadamer, che nel rapporto fra l'atto interpretativo e la tradizione culturale
insisteva soprattutto sulla continuità con il passato, insista di più sul carattere di
discontinuità, di rottura dell'atto interpretativo rispetto al passato.
A configurare un'ermeneutica della rottura e della novità ha dato un contributo
fondamentale il filosofo francese di origine ebraiche Emmanuel Lévinas (19051995), che muove una critica all'intera tradizione del pensiero occidentale,
responsabile di aver praticato una particolare forma di «violenza concettuale» che
ha ridotto l'«Altro», il diverso, il prossimo a subire l'imperialismo del
«Medesimo», dello «Stesso», dell'«Io», impedendo così la possibilità di pensare
eticamente l'esistenza.
Nella sua opera principale, Totalità e infinito (1961), sottopone a critica l'intera
riflessione occidentale: legata al lògos greco (a un tempo "ragione" e "parola"),
4 – Il ________________________
il soggetto in relazione con ________
____________________
il soggetto come _______________
_______________________
il nuovo modi di intendere ________
___________________________
LÉVINAS:
L’ALTRO
IL
MEDESIMO
E
L’Altro ridotto al ________________
20
essa si è concentrata sull'essere, sull'oggettività; da Platone a Heidegger, ha
privilegiato una ragione che, come una luce, porta allo scoperto completamente
l'essenza delle cose e dà luogo a sistemi, a concezioni chiuse, coerenti e totalitarie.
Nelle maglie di tali sistemi tutto è ridotto a omogeneità, ovvero, nei termini di
Lévinas, l'altro è ridotto al medesimo. Ma l'incontro a faccia a faccia con l'altro,
l'apparire del suo volto rompono la chiusura, la sistematicità e omogeneità del
mondo oggettivo: l'altro mi impone amore, rispetto, obbedienza; egli, nelle vesti
bibliche «della vedova, dell'orfano, del povero», invoca il mio aiuto, sottraendomi
allo spazio chiuso del mio io. In una parola, la visione del volto dell'altro è un
altro tipo di visione, non più teoretica: essa introduce violentemente la dimensione
etica che spezza l'omogeneità dell'essere e fa riemergere dal livellamento imposto
dal lògos la singolarità e irriducibilità del soggetto umano.
Conferendo alle categorie dell'altro e dell'alterità, tipiche della tradizione ebraica,
la dignità di una rigorosa concezione filosofica, che contesta da cima a fondo
l'intera tradizione filosofica occidentale, Lévinas ha contribuito in modo decisivo
a configurare quella nuova ermeneutica della rottura, incentrata sulla pratica e
l'etica, sul carattere di evento e di irriducibilità che ha l'incontro con l'altro, sulla
vera e propria contestazione di noi stessi che esso comporta. Non a caso Lévinas
ha avuto un'influenza decisiva sul pensiero di Jacques Derrida (anch'egli di
origine ebraica).
Derrida: il decostruttivismo e la ricerca della differenza
= concezioni _____________ 
omogeneità = altro  ____________
il ______________________ (la
dimensione ___________) impone
l’_____________________ dell’altro
L’Altro come ___________________
di noi stessi
DERRIDA:
IL DECOSTRUTTIVISMO E LA
RICERCA DELLA DIFFERENZA
La critica della metafisica della _____
_______________
Parole (__________)  essenza delle
____________ = illusione della
___________________________
Storia della metafisica = ___________
____________________
_____________________
Paura _____________  metafisica della presenza
Desiderio
Infatti pensiero della differenza e dell'alterità è anche quello di Jacques Derrida
(1930-2004). L'importanza cruciale del suo pensiero risiede nell'aver letto l'intera
tradizione del pensiero occidentale come una particolare metafisica della presenza.
Egli legge il percorso della metafisica come la pretesa del pensiero di afferrare
l'essenza delle cose, ciò che esse sono in sé e di poterla rendere presente attraverso
il pensiero, ma soprattutto con le parole (fono-logo-centrismo). Questa centralità
della voce nella concezione che la metafisica ha avuto di se stessa e della propria
possibilità illimitata è, per Derrida, nient'altro che un inganno e un'illusione della
coscienza. “Quando parlo, non solo ho coscienza di essere presente a ciò che
penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al
concetto un significante che non cade nel mondo, che io intendo nel momento
medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera
spontaneità, senza esigere l'uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna
forza presa dal mondo. Beninteso, questa esperienza è un inganno, ma un inganno
sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura e tutta un'epoca.”
(Posizioni).
Sulla base di questa denuncia dell'inganno della presenza organizzato dalla voce
ai danni della coscienza, Derrida legge la storia della metafisica come la storia di
uno scacco. Seguendo il discorso di Derrida, la metafisica è come se raccogliesse,
nel momento in cui lavora a una fondazione indubitale della presenza, il desiderio
tutto umano di presenza certa ,che come esseri viventi ci è connaturato, ma che
l'esperienza smentisce in ogni momento. Questo desiderio di presenza risponde
infatti all'esigenza tipicamente umana di garantirsi stabilità e durata in un orizzonte di esperienza che costantemente ci ripropone lo scandalo, cioè l'inciampo,
l'ostacolo insormontabile della scomparsa e della morte. La metafisica è in questo
senso il luogo in cui è andato costantemente «in scena» il privilegio dell'idealità e
della presenza in generale, rispetto alle condizioni materiali che regolavano quella
«messa in scena».
Il primato della presenza serviva per esorcizzare la caducità e il carattere
Ragione = _____________________
21
provvisorio e perituro e finito di queste stesse condizioni. Derrida ci ha ricordato
che pensare la presenza è anche sempre pensare una certa impossibilità, uno
scacco appunto, attiva nel vivente, originaria e insuperabile. In effetti scriviamo
per sottrarre almeno qualcosa al destino di caducità e di morte. Il sapere scritto, in
quanto reiterabile e ripetibile, rende possibile la nascita delle idee. Si crede allora
che le idee coincidano con i segni scritti in cui sono impresse, esistano per se
stesse, racchiudano l'essenza delle cose. Nasce così la metafisica, come esigenza
estrema di dare consistenza alla fragilità costitutiva del vivente.
Si tratta allora di praticare — di fronte al carattere insuperabile e inaggirabile
della metafisica — un altro procedimento, concetto che ha attraversato più ambiti
disciplinari (dall'architettura alla critica letteraria) portando alla ribalta l'opera di
Derrida. Con decostruzione dobbiamo intendere una particolare modalità di
rilettura dei testi della tradizione filosofica che ha come obiettivo quello di sottolineare i meccanismi di rimozione attivi e operanti nel testo stesso. Il termine
«rimozione» richiama un concetto psicoanalitico indicante una modalità
universale della psiche umana la cui finalità è proprio quella di difendere, come
una sorta di apparato immunitario, l'ideale dell'io in cui ci si rispecchia e che è
ritenuto puro: rimuoviamo ciò che turba la perfezione dell'immagine di noi in cui
ci piace riconoscerci. Non è un caso che il procedimento decostruttivo di Derrida
sia stato letto come una sorta di psicoanalisi della filosofia. Nelle coppie
concettuali di cui la metafisica si nutre e di cui fa largo uso (soggetto/oggetto,
spirito/materia, essere/divenire, sostanza/accidente ecc.) si tende a valutare
positivamente un termine rispetto all'altro e a privilegiarlo rimuovendo l'altro,
cioè eliminandolo dall'orizzonte delle questioni. La metafisica, in altre parole,
stabilisce una gerarchia di concetti dove l'uno è più importante e domina sul suo
opposto.
In luogo della rimozione e rispetto a questa tendenza della metafisica, Derrida fa
giocare invece il concetto chiave di differenza (différance, termine creato
dall’autore) che sta ad indicare al contempo la «differenza» tra due ipotetici
termini (differenza tra giorno e notte, tra bene e male) e l'atto del «differire» nella
sua valenza temporale, perché «differire» vuol dire rinviare, rimandare. A Derrida
preme sottolineare che ogni contrapposizione tra due termini è il prodotto di un
movimento differenziale, che è anche un processo temporale antecedente, il quale
ha dato origine a questa contrapposizione. In questi termini si esprime Derrida:”Il
movimento della differenza, in quanto produce i differenti e differenzia, è la radice comune di tutte le operazioni concettuali che scandiscono il nostro
linguaggio, quali ad esempio, per prenderne solo alcune, quelle di
sensibile/intelligibile, intuizione/significazione, natura/cultura.”(Posizioni).
L'attenzione del filosofo decostruzionista non si rivolge pertanto alla coppia dei
termini, ma all'operazione che sta dietro al loro differire, al motivo cioè per cui si
è voluto differenziare un termine dall'altro, stabilendo la superiorità di uno e
l'inferiorità dell'altro. Quella del decostruzionismo è un'indagine volta a scoprire
le motivazioni profonde, inconsce, della rimozione di un termine a vantaggio
dell'altro.
Derrida rimarca il carattere dinamico e temporale della «differenza» che non è da
intendere, dunque, come un fondamento dato una volta per tutte e come un'origine
pura; si tratta piuttosto di un movimento mai completamente presente e quindi
mai afferrabile.
È precisamente in questo smontaggio, operato dalla decostruzione, delle
opposizioni rigide che consiste la portata etica del pensiero di Derrida, nel senso
del suo orientamento a rendere gli uomini consapevoli delle possibilità aperte
dalle loro azioni e dalle loro scelte. In fondo la lettura dell'intera metafisica
occidentale sono tese a denunciare, nei meccanismi di rimozione e nelle
opposizioni concettuali, pregiudizi morali e giudizi di valore impliciti (un termine
Il ___________________________
La messa in luce della ____________
dell’_____________________
Dalla ____________________
alla _____________________
la ______________________ = i
motivi veri del differire dei _________
il carattere ________________
della __________________
il carattere _________________ del
____________________
denunciare le rimozioni che ________
___________________________
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Tolleranza
Garanzie atte a rendere l’altro amministrabile
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Salvaguardare l’alterità dell’altro
Rimozione dell’________________
è buono, per esempio, la voce o lo spirito, e un altro è cattivo, la scrittura o il
corpo), che impediscono di intravedere possibilità ulteriori e più ricche di senso
nell'esperienza umana.
In queste prospettive che una delle tematiche più care e ricorrenti nell'ultimo
Derrida riguardi l'ospitalità e la relazione tra ospitalità e tolleranza, cioè forme di
apertura all'altro e alla possibilità che l'altro reca in sé. Quello di tolleranza è un
concetto fondamentale della filosofia politica e morale dell'età moderna,
soprattutto a partire dalla riforma protestante e dalla nascita di confessioni
cristiane antagoniste e in competizione circa il possesso della verità. Nel mondo
contemporaneo, esso si pone anche in relazione alla convivenza di religioni e in
generale culture diverse di cui le persone sono portatrici. Derrida è molto critico
sul concetto stesso di tolleranza perché la ritiene una forma di ospitalità
condizionata, mentre a dover essere perseguita è un'ospitalità incondizionata, tesa
alla salvaguardia di quella che in termini lévinasiani è l'alterità dell'Altro. La
tolleranza è criticata perché chiama sempre in causa un sistema di garanzie atte a
rendere l'avvento dell'altro amministrabile, docile alle intenzioni di chi si mostra
tollerante nei suoi confronti: si accetta l'altro purché assomigli il più possibile a
noi stessi e dia garanzie di non mettere in crisi la nostra identità.
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