TITO LIVIO La vita: nacque nel 59 a.C. a Padova, da famiglia agiata. Della città natale mantenne sempre un’impronta nella lingua, nello stile e nel moralismo tradizionalistico di sapore provinciale: la patavinitas che gli rimprovera Asinio Pollione. Si trasferì da giovane a Roma dove entrò in confidenza con Augusto, che lo chiamava, a detta di Tacito (Annales), pompeiano per il suo nostalgico filorepubblicanesimo, senza che ciò nocesse alla loro amicizia. Attorno al 27 a.C. incominciò la sua opera storica, Ab urbe Condita libri, alla quale si dedicò sino alla morte nel 17 d.C., a Padova dove si recava di tanto in tanto. Fino ad allora erano stati composti 142 libri. Il carattere totalizzante dell’attività letteraria di Livio costituisce una novità nel panorama letterario della storiografia romana i cui esponenti, Catone, Cesare e Sallustio, erano soliti alternare l’otium letterario all’impegno politico: ciò si spiega nel fatto che Livio è il primo storico latino a non appartenere a famiglia senatoria. Opera: perdute le opere filosofiche scritte in giovane età ci rimangono solo alcuni libri della sua opera. I 142 libri dell’opera costituiscono un’epopea del popolo romano paragonabile per la mole, per la rilevanza ideologica, per l’impatto propagandistico e per il peso esercitato sulla tradizione posteriore, all’Eneide di Virgilio, a cui si accomuna anche la presunta incompiutezza ma da cui si differenza per il numero di scritti che ci rimangono, solo un quarto, a causa della sua mole che portò a un lavoro di selezione e alla redazione di compendi (epitomi) più maneggevoli. Essa tratta in 142 libri la storia di Roma dalle mitiche origini troiane sino al 9 a.C. (morte di Druso figlio di Augusto) o forse sino al 9 d.C. , lasciando comunque interrotto il principato augusteo. Si ritiene che Livio intendesse comporre 150 libri, concludendo la propria opera con la morte di Augusto (14 d.C.). A noi sono pervenuti 35 libri non consecutivi: dal 1°al 10 e dal 21 al 45. • La prima decade copre il periodo monarchico e i primi secoli della repubblica sino alla fine della 3 guerra sannitica (293 a.C.). • La seconda decade, non pervenuta, era incentrata sulla guerra contro Pirro e sulla prima guerra punica. • I libri 21-45 trattano gli anni dal 218 al 167 a.C. che videro la grande espansione di Roma sul Mediterraneo, trattando anche la seconda guerra punica, la guerra macedonia contro Filippo V e quella contro la Siria di Antioco III. • Degli altri libri ci sono pervenuti pochi frammenti di tradizione indiretta e inoltre di tutti i 142 libri possediamo le Periochae, scarni riassunti redatti tra il III e il IV secolo. Come nella maggior parte delle opere greche la narrazione si fa via via più dettagliata quanto più ci si avvicina all’età contemporanea: ciò si verifica per la maggior quantità di documenti e notizie, per un più vivo interesse del pubblico e dell’autore per la storia recente. Tradizione annalistica e concezione storiografica di Livio: dopo le esperienze autobiografiche, memorialistiche e monografiche della storiografia di Cesare e Sallustio, Livio interrompe queste sperimentazioni e rimette in auge il modello della storiografia annalistica, mai del tutto abbandonata. Concepisce e realizza il grandioso disegno di una storia generale del popolo romano dalle origini troiane ai suoi giorni. Nel racconto, quando si fa riferimento al periodo monarchico, la datazione si riferisce ai re e ai loro anni di regno, quando invece si fa riferimento all’età consolare ci si riferisce proprio alla coppia di consoli. Livio utilizza anche un metodo diastematico basato sull’intervallo di tempo trascorso a partire da un avvenimento epocale: la fondazione di Roma (ab urbe condita) ma anche la cacciata dei Tarquini (post reges exactos). La totale adesione alla tradizione annalistica comporta la spezzatura del racconto in sezioni annuali, ciascuna dedicata alla politica interna ed esterna, e la menzione di notizie leggendarie e di presunti eventi prodigiosi. Nonostante ciò la storia di Livio è tuttavia di tipo essenzialmente politico militare: ogni blocco di libri ruota intorno a una guerra. Scarso è l’interesse per gli aspetti economici, sociali e culturali. Livio si serve solo di fonti letterarie, opere di autori precedenti, rinunciando alla ricerca e alla consultazione di documenti. Le sue fonti corrispondono essenzialmente alle opere degli annalisti romani del II-I sec. a.C. 1 (Quadrigario, Anziate, Antipatro) e a partire dalla terza decade alle Storie del greco Polibio (200-118 a.C.) che diventa fonte quasi unica per gli avvenimenti orientali. Livio segue Polibio fedelmente, limitandosi talora a tradurre dal greco. Per ogni sezione della propria opera Livio fa riferimento a una sola fonte principale, non rinunciando a registrare versioni divergenti, senza però accordare la sua preferenza a una o l’altra fonte, lasciando spesso la scelta al lettore. Oltre alla mancata consultazione di documenti, all’assenza di critica delle fonti si rimproverano a Livio lo scarso interesse per i problemi economici e sociali e l’incapacità di presentare in modo chiaro l’evoluzione costituzionale dello stato romano. Altri difetti sono il carattere approssimativo e talvolta erroneo delle indicazioni geografiche e la scarsa competenza in tema di arte militare. Si aggiungono a ciò le deformazioni volontarie della realtà storica, in modo da fornire un’immagine più positiva (idealizzazione) del popolo romano nei suoi rapporti con gli altri popoli. A ciò si aggiunge la caratterizzazione negativa dei nemici di Roma. Livio condivide la concezione didascalica e moralistica che caratterizza la storiografia romana a partire dalle Origines di Catone. La ricostruzione del passato non è né un’ operazione puramente scientifica né esclusivamente retorico letteraria ma ha innanzitutto finalità etica e civile: si tratta di presentare ai lettori la più ampia serie di comportamenti paradigmatici in positivo e in negativo affinché il lettore cittadino possa imitare gli esempi, utili a lui e allo stato, ed evitare quelli dannosi. Molto più limitato è il ruolo assegnato alla fortuna, ora favorevole ora ostile. Lo stile e la tecnica narrativa: Livio (giudicato verbosus, un parolaio, da Caligola e lodato da Quintiliano) è caratterizzato da una lactea ubertas, ovvero la scorrevole fluidità della sua prosa, dalla brevitas e dall’inconcinnitas (disarmonia) sallustiane. Pur recuperando un periodare ampio e armonico, si distingue da quello ciceroniano per una meno perfetta simmetria delle sue parti e per un maggior uso delle strutture participiali. Egli sa inoltre variare i registri stilistici in funzione alla narrazione. Nelle sue vicende si passa dal periodare fluido dei preliminari e del nucleo centrale, ai momenti di tensione, resi tramiti paratassi e asindeti fino all’andamento ellittico dello scioglimento della vicenda. Ponendo in rilievo le virtù e i vizi Livio dedica grande spazio all’analisi psicologica dei suoi personaggi. Ciò lo porta alla dissoluzione del racconto in una serie di episodi ciascuno dei quali è caratterizzato da una premessa, un nucleo centrale e una soluzione. Il narratore si avvale anche di vari artifici (allusione, anticipazione, suspence) per creare attesa nel lettore. Livio concede anche grande spazio all’elemento oratorio inserendo un gran numero di discorsi sia diretti sia indiretti. Livio, rispetto alla brevitas sallustiana, presenta uno stile più fluido, ciceroniano: Quintiliano infatti definisce lo stile di Livio lactea ubertas cioè “abbondanza dolce come il latte”. E’ un’espressione metaforica, poiché il richiamo al latte, elemento naturale altamente nutritivo che scaturisce spontaneamente da un organismo per segreto potere della natura e capace di nutrire gli altri, sta ad indicare che per Quintiliano la scrittura di Livio scorreva dolce, ricca, spontanea e contribuiva ad alimentare l’oratore nel rispetto totale della naturale semplicità. Pertanto, sempre secondo Quintiliano, l’opera di Livio poteva essere profondamente soddisfacente per tutti coloro che badavano più alla bellezza dell’esposizione che non alla fedeltà storica o verità (fides). La narrazione liviana è ricca di aneddoti ed è anche una miniera di informazioni antropologiche; lo stile della prima decade mostra un colorito arcaico ed un sapore poetico attinto dagli annalisti e dagli epici latini arcaici; l’autore ama spesso riecheggiare le antiche formule del linguaggio giuridico e religioso. Livio intende la storia come un opus oratorium maxime seguendo in tal modo l’ideale di Cicerone, pertanto lo stile è oratorio, con il suo periodare ampio e dall’architettura studiata tendente ad evidenziare le simmetrie nello svolgimento della narrazione. L’abilità oratoria liviana, si nota soprattutto nei discorsi diretti dei personaggi, che sono interamente inventati dall’autore; accanto al discorso diretto, Livio adopera anche il discorso indiretto per sviluppare gli stati d’animo dei personaggi. Livio è insuperabile nell’arte di drammatizzare i personaggi, di costruirne la loro psicologia, ed inoltre nell’evidenziare e far emergere una serie di personaggi positivi e negativi, maschili e femminili quali modelli da imitare o da evitare, sempre in riferimento alla morale degli antichi, a cui fece sempre riferimento nella stesura della sua opera. Livio e il suo tempo: Livio, rompendo la tradizione degli storici senatori che scrivevano nei momenti di otium, è il primo storico letterato della letteratura latina. Nella sua opera si amalgamano diverse tendenze operanti nella cultura del tempo: nonostante la scelta di tornare alla tradizione annalistica, Livio la rinnova applicandovi la tecnica narrativa della storiografia 2 drammatica sviluppata da Sallustio. L’inserimento di numerosi discorsi continua la tendenza di Sallustio (di coinvolgere il lettore, di avere uno stile fluido e pacato, di usare figure retoriche) e soddisfa le aspettative ciceroniane di un historia intesa come opus oratorium maxime (opera principalmente di eloquenza). Anche la sua finalità si rifà alla storia ideale di Cicerone, concepita come magistra vitae. Indicando la virtù, inquadrata nel mos maiorum, come principale motore della storia romana e auspicando un ritorno all’antica moralità, Livio condivide il programma di restaurazione augusteo. Sappiamo da Tacito che le simpatie di Livio per Pompeo, ostile quindi a Cesare, non incrinarono il rapporto con Augusto tanto che egli fu forse l’educatore di un rampollo imperiale, Claudio. È però confermata una divergenza ideologica con il principe, caratterizzata non tanto dall’avversione, seppur dichiarata, nei confronti della monarchia antica, ma quanto dalla critica verso quei personaggi che, come Scipione l’Africano, tendevano ad affermare il proprio potere al disopra delle istituzioni. Livio però, data la sua formazione culturale e morale conservatrice, si trovò in sintonia con parecchi aspetti del programma augusteo: la pax augustea, la rivalorizzazione dell’agricoltura italica, la concezione della missione di civilizzazione e pacificazione di Roma sugli altri popoli, la restaurazione dell’antica austerità di costumi e il recupero della religiosità italica. Nella prefazione, Livio, afferma con un pessimismo simile a quello di Sallustio, che desidera ritornare allo studio del passato per poter allontanare lo sguardo dalla corruzione moderna. A differenza di Sallustio che invece cercava di capire nel passato quale erano state le cause della corruzione di Roma, Livio accetta il declino morale della società romana come una legge ineluttabile: l’impero romano soffre ormai per la sua stessa grandezza ed è pertanto una magra consolazione dover constatare che tale declino sia giunto tardi ed in minore entità rispetto ad altri popoli. Sulla base di questo pessimistico pensiero, secondo Livio, è necessario rivolgersi al passato per poter recuperare gli antichi valori. Nel raccontare gli avvenimenti storici, Livio, si rende conto che le antiche leggende sono idonee ai racconti poetici piuttosto che ad un’opera storica, ma ciò non costituisce per lui alcun ostacolo nella narrazione, poiché a Livio non interessa la critica storica, bensì la sostanza morale che tali leggende tramandano e sono in grado di esprimere. I Romani, secondo Livio, sono giunti ad avere un immenso Impero solo grazie ai valori etici e religiosi del mos maiorum che proprio Augusto intendeva restaurare di nuovo a Roma. Le vicende narrate dell’antica Roma insegnano meglio di qualunque altro avvenimento storico ciò che bisogna imitare e ciò che bisogna evitare sia per il proprio bene sia per quello della Patria. Anche le figure mitologiche vengono utilizzate da Livio per illustrare la moralità romana arcaica e questo processo di idealizzazione conferisce ai personaggi mitici un valore esemplare. Le leggende raccontate da Livio nella sua opera costituiscono quindi un punto di partenza fondamentale per lo studio della cultura romana arcaica. Nel I libro, infatti, sono narrate una serie di leggende sorte intorno alla nascita e quindi alle origini di Roma. Secondo Livio, il mito, fornisce un’illustrazione completa delle virtù romane quali la fides, la pietas, la gravitas, ecc. I valori vengono accostati a dei personaggi sia positivi sia negativi, nel primo caso sono modelli da seguire, nel secondo quelli da evitare. Positivo ad es. Numa, il buon legislatore, oppure Muzio Scevola, l’eroe della parola data. Negativo ad es. Coriolano, un figlio senza padre e senza patria, oppure Tarpea, vestale traditrice. Per ciò che riguarda il rapporto tra Livio ed il regime augusteo, si è propensi a pensare che non vede il presente come la nuova età dell’oro e non considera Augusto come l’uomo della Provvidenza. Lo sguardo di Livio rimane sempre rivolto al passato con la ferma consapevolezza che non potrà mai più ritornare. Il ritorno agli antichi valori morali e religiosi erano importanti anche per l’Imperatore Augusto, al quale pertanto poteva tornare utile l’opera di Livio; infatti la repubblica era ormai morta per sempre, l’Imperatore Augusto si presentava come il restauratore della libertà e della legalità nel rispetto formale delle istituzioni repubblicane. Pertanto, gli uomini politici del passato, compreso Pompeo, potevano essere idealizzati in quanto non costituivano più alcun pericolo per l’Impero. Nella sua opera, Livio, tende a rendere avvincente il racconto ed a scandagliare psicologicamente i personaggi, sorvolando su comportamenti poco edificanti da parte dei Romani. Nel raccontare gli avvenimenti, Livio si rifà a diverse fonti rielaborando tutto in maniera personale secondo un proprio schema etico ed artistico, infatti talvolta inclina verso una versione più antica oppure più dettagliata, talvolta si rifà a fonti a cui hanno attinto il maggior numero di autori; in ogni caso non ricorre mai a ricerche d’archivio al fine di risolvere i suoi dubbi. Da tutto ciò si comprende chiaramente i limiti del Livio storico: non tratta assolutamente i problemi economici e sociali, l’organizzazione costituzionale di Roma sembra non aver avuto alcun cambiamento dalle origini fino ai suoi tempi, le descrizioni geografiche sono approssimative così pure la cronologia. Per ciò che riguarda i contrasti sociali della società romana, parteggia quasi sempre per il Senato e nel caratterizzare i nemici di Roma, indulge quasi sempre ad un certo disprezzo, fatta salva, in modo del tutto eccezionale, l’ammirazione per le grandi doti militari di Annibale. 3 LIVIO “Praefatio” (traduzione di M. Scandola) 1 Facturusne operae pretium sim, si a primordio urbis res populi Romani perscripserim, nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, 2 quippe qui cum veterem tum vulgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. 3 Utcumque erit, iuvabit tamen rerum gestarum memoriae principis terrarum populi pro virili parte et ipsum consuluisse; et si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum me qui nomini officient meo consoler. 4 Res et praetera et immensi operis, ut quae supra septingesimum annum repetatur et quae ab exiguis profecta initiis eo creverit, ut iam magnitudine laboret sua; et legentium plerisque haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus praebitura voluptatis sint festinantibus ad haec nova, quibus iam pridem praevalentis populi vires se ipsae conficiunt; 5 ego contra hoc quoque laboris praemium petam, ut me a conspectu malorum; quae nostra tot per annos vidit aetas, tantisper certe, dum prisca illa tota mente repeto, avertam,omnis expers curae quae scribentis animum etsi non flectere a vero, sollicitum tamen efficere posset. 6 Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. 7 Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et si cui populo licet oportet consecrare origines suas et ad deos referre auctores, ea belli gloria est populo Romano ut, cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo quam imperium patiuntur. 1 «Non so bene se farò un'opera degna di pregio narrando compiutamente, fin dai primordi dell'Urbe, la storia del popolo romano, né, se lo sapessi, oserei dirlo, 2 poiché vedo che si tratta di un uso antico e comune, mentre gli storici recenti credono di portare nella narrazione dei fatti qualche notizia più sicura, oppure di superare col proprio stile quello rozzo degli antichi. 3 Comunque debba essere, mi sarà grato per lo meno aver contribuito anch'io, nei limiti delle umane possibilità, a ricordare le gesta del più grande popolo del mondo; e se fra tanta moltitudine di scrittori il mio nome dovesse rimanere oscuro, mi sia di conforto la rinomanza e la grandezza di coloro che offuscheranno la mia fama. 4 Si tratta inoltre di un'opera assai impegnativa, perché questa storia deve rifarsi a più di settecento anni addietro, e perché, dopo aver preso le mosse da modesti inizi, s’è sviluppata a tal punto da soccombere ormai sotto il peso della propria mole; e non dubito che le prime origini e gli avvenimenti che immediatamente le seguono offriranno scarso diletto alla maggior parte dei lettori, i quali s'affretteranno a giungere a quelli recenti, in cui le forze del popolo da lungo tempo primeggiante vanno da se stesse esaurendosi. 5 Io invece anche questo compenso cercherò di ottenere alla mia fatica, di distogliermi dalla vista dei mali di cui per tanti anni la nostra età è stata spettatrice, almeno fino a tanto ch'io m'immergo interamente nel ricordo di quelle lontane vicende, libero di ogni preoccupazione che potrebbe, se non distrarre dalla verità il giudizio dell'autore, per lo meno turbarne la serenità. 6 I racconti tradizionali che si riferiscono ai tempi precedenti la fondazione o la futura fondazione dell'Urbe, conformi più alle favole poetiche che a una rigorosa documentazione storica, io non intendo né confermarli né confutarli. 7 Si può ben accordare agli antichi questa licenza di nobilitare le origini delle città mescolando l'umano col divino; e se v'è un popolo cui si deve consentire di divinizzare le proprie origini e di attribuirne la causa prima agli dei, il popolo romano ha tale gloria militare che, quando esso vanta soprattutto Marte come padre suo e del suo fondatore, le genti accettano di buon animo questa sua debolezza cosi' come ne accettano il dominio. 4 8 Sed haec et his similia, utcumque animadversa aut existimata erunt, haud in magno equidem ponam discrimine: 9 ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labante deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora, quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus, perventum est. 10 Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri: inde tibi tuaequae rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites. 11 Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla unquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec in quam civitatem tam serae avaritia luxuriaque immigraverint, nec ubi tantus ac tam tam diu paupertati ac parsimoniae honos fuerit: adeo quanto rerum minus, tanto minus cupiditatis erat. 12 Nuper divitiae avaritiam et abundantes voluptates desiderium per luxum atque libidinem pereundi perdendique omnia invexere. Sed querellae, ne rtum quidem gratae futurae, cum forsitam necessariae erunt, ab initio certe tantae ordiendae rei absint: 13 cum bonis potius ominibus votisque et precationibus deorum dearumque, si, ut poetis, nobis quoque mos esset, libentius inciperemus, ut orsis tantum operis successus prosperos darent. 8 Ma comunque si vorranno considerare e giudicare queste ed altre consimili tradizioni, io non le terrò certo in gran conto; 9 a me preme che ciascuno per parte sua rifletta attentamente su questi fenomeni: quali siano state le condizioni di vita, quali i costumi, in virtù di quali uomini e di quali mezzi si sia formato ed accresciuto, in pace e in guerra, l'impero; che consideri come poi, rilassandosi a poco a poco la disciplina, i costumi si siano dapprima corrotti e quindi si siano anch'essi sempre più rilassati, per rovinare poi a precipizio, finché si è giunti a questi tempi, in cui non possiamo sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi. 10 Questo soprattutto v'è di salutare e di utile nella conoscenza della storia, che tu hai sotto gli occhi gli insegnamenti di ogni genere che sono riposti nelle illustri memorie, e puoi prenderne ciò che sia da imitare per te e per il tuo stato, ciò che sia da evitare perché turpe nel principio e turpe alla fine. 11 Del resto, o m'inganna l'amore per l'opera che ho intrapreso, o nessuno stato fu mai né più grande né più santo né più ricco di buoni esempi, né ve ne fu alcuno in cui sì tardi penetrassero la cupidigia e la lussuria, e dove si gran misura e per tanto tempo fossero onorate la povertà e la parsimonia. Cosi quanto meno si aveva tanto meno si desiderava: 12 recentemente, invece, le ricchezze hanno portato con sé la cupidigia, e l'abbondanza dei piaceri la smania di rovinarsi e di mandar tutto in rovina con gli sperperi e gli eccessi. Ma le recriminazioni, che sono destinate a non riuscir gradite nemmeno quando forse saranno necessarie, siano bandite almeno dall'esordio di opera così vasta qual è quella a cui mi accingo: 13 con buoni presagi, con voti e preghiere agli dei e alle dee vorremmo piuttosto cominciare se anche noi, come i poeti, avessimo questa abitudine -, perché coronassero d'un lieve successo un'impresa sì grande» 5 Lo stile pittorico di Sallustio e Livio: Il ritratto paradossale: Premessa Nelle monografie sallustiane e nella storiografia di Livio compaiono vari ritratti, più o meno riusciti, più o meno stereotipi: si pensi soltanto all'immagine sallustiana di Mario (Bellum Iugurthinum, 63 ss.) o di Silla (ibidem, 95 ss.), oppure alla figura di Camillo (Liv. V 27 ss.), o ancora, per citare due esempi femminili, all'affascinante e dissoluta Sempronia (Cat. 25), o all'integerrima Lucrezia (Liv. I 57-58); di seguito si traccerà un confronto tra le figure di due grandi personaggi storici, Catilina e Annibale, secondo la descrizione dei due altrettanto grandi scrittori di storia romana, rispettivamente Sallustio e Livio. Il ritratto di Annibale in Livio Il ritratto liviano si apre con l'invio del giovane figlio di Amilcare Barca, Annibale, in Spagna, dove inizialmente presta servizio militare alle dipendenze del cognato Asdrubale, per poi assumere, dopo la morte di quest'ultimo, il comando dell'esercito cartaginese là stanziato. Dunque, Annibale non si può distinguere subito per le sue doti di capo: non è ancora, infatti, propriamente il dux dell'esercito; tuttavia, Livio lo presenta immediatamente come un individuo particolare, eccezionale: pur non essendo ancora capo a tutti gli effetti, egli mostra un innegabile carisma, che gli fa guadagnare "da subito, fin dal suo primo arrivo" (primo statim adventu,) la stima dei commilitoni. La rapidità con cui Annibale cattura le simpatie dell'esercito è dovuta, in parte, anche al fatto che i soldati sono veterani di suo padre e vedono quindi il vecchio comandante redivivo nel figlio giovinetto: infatti, essi riconoscono nel giovane le medesime caratteristiche di Amilcare e sono chiaramente influenzati (in positivo) nel giudicarlo. Più in particolare, Livio menziona quattro dettagli: "il medesimo vigore nel volto, la stessa energia negli occhi, la stessa espressione e i lineamenti del viso" (eundem vigorem in vultu vimque in oculis, habitum oris lineamentaque,); leggendo con più attenzione, si nota che gli elementi propriamente somatici menzionati per il figlio sono due, gli occhi e il volto (solo quest'ultimo somigliante al padre), ma lo storico sottolinea con insistenza piuttosto un altro aspetto, quello della forza intrinseca (espressa con due sostantivi, vigor e vis) che emana tanto dal padre quanto dal figlio e che si mostra palesemente solo guardandoli nel viso o negli occhi. Questa prima – e già positivamente connotata – impressione, chiaramente duplice perché riferita sia ai soldati che conobbero allora Annibale, sia ai lettori, che ne fanno la indiretta conoscenza nell'opera liviana, viene dapprima suggerita dalla scelta di verbi opportuni (credere e intueri, cioè "avevano l'impressione" e "notavano") ed è poi comunque confermata dalla somiglianza col padre. Ben presto, però, Annibale si emancipa dalla pesante eredità paterna e diviene, già alla fine del paragrafo 2, una figura a tutto tondo, padrona di sé e capace di suscitare ammirazione a prescindere dal confronto col pur grande genitore: dein brevi effecit ut pater in se minimum momentum ad favorem conciliandum esset, cioè comincia a contare poco la stirpe dei Barca, ma acquistano sempre più importanza le doti personali di Annibale. A questo proposito, l'avverbio dein è un correlativo funzionale a orientare il lettore nel passaggio dal precedente primo ...adventu, riferito alla "prima (positiva) impressione", a questo "poi", che precisa l'effettivo inizio della folgorante carriera di Annibale ed è quindi carico di aspettative, in attesa di proseguire nella conoscenza delle caratteristiche peculiari del personaggio. Come Sallustio ha messo in rilievo le contraddizioni di Catilina, così anche Livio, procedendo con l'enumerazione delle qualità di Annibale, sottolinea una particolarità del cartaginese, il fatto che fosse naturalmente predisposto a compiere due azioni contrarie, cioè a comandare e ad obbedire (Numquam ingenium idem ad res diversissimas, parendum atque imperandum, habilius fuit, 3: "Giammai una medesima natura fu più adatta a cose diversissime fra loro, come l'obbedire e il comandare"). Tuttavia, questo aspetto, pur se realmente contraddittorio, lungi dal funestare l'immagine di presentazione del personaggio, contribuisce invece ad accentuarne la positività: è dunque un ulteriore elemento di distinzione dagli altri e un modo per sottolineare e spiegare al contempo la benevolenza sia dei soldati sia di Asdrubale nei suoi confronti (Itaque haud facile discerneres utrum imperatori an exercitui carior esset: "Perciò non avresti potuto facilmente distinguere se fosse più caro al comandante o all'esercito"). Non solo: Annibale veniva scelto da Asdrubale come capo di eventuali missioni in cui occorrevano forza e valore (neque Hasdrubal alium quemquam praeficere malle ubi quid fortiter ac strenue agendum esset, 4: "né Asdrubale preferiva mettere a capo qualcun altro, quando vi fosse da compiere qualche impresa con forza e valore") e i suoi compagni d'armi, con lui come guida, davano il massimo di se stessi (neque milites alio duce plus confidere aut audere, 4: "né i soldati avevano più fiducia od osavano di più sotto un'altra guida"). Annibale, dunque, fino ad ora è esente da vizi e caratterizzato solo da grandi qualità, in netto anticipo rispetto ai tempi: pur non essendo ancora il capo, possiede già le doti per diventarlo e di questo si accorgono non solo i commilitoni, ma anche l'imperator Asdrubale; proprio per questo è lo stesso suo superiore a qualificarlo come guida nelle imprese più delicate. Si noti che in questi paragrafi Livio insiste più volte nell'uso di termini indicanti la gestione militare, in riferimento ad Annibale: pur essendo Asdrubale l'effettivo comandante in capo (imperator, 3), Annibale è abile a comandare (habilius imperandum: lo stesso verbo imperare!), sta a capo dell'esercito (praeficere) in caso di necessità, cioè se 6 si deve agere quid fortiter ac strenue, infine sa trarre dai compagni il meglio, come non potrebbe fare un alius dux. Sembrerebbe quasi che Livio volesse proiettare su Annibale giovinetto le qualità che il cartaginese avrebbe mostrato solo successivamente, nell'incontro-scontro coi Romani. Ma, propriamente, quali erano le qualità di Annibale? Abbiamo or ora appreso che era abile, forte, valoroso e possedeva le qualità innate adatte a farlo emergere come capo (parr. 3-4); ma nella prassi come si comportava? I paragrafi 5-8 rispondono a questa domanda con dovizia di particolari, facendo emergere una figura leggendaria, affascinante perché complessa, in quanto caratterizzata da grandi qualità, qualche volta anche contraddittorie, ma soltanto in apparenza. Vediamo in dettaglio l'analisi di questi paragrafi: 5. Plurimum audaciae ad pericula capessenda, plurimum consilii inter ipsa pericula erat. 5. "Aveva grandissima audacia nell'affrontare i pericoli, grandissima prudenza in mezzo ai pericoli stessi". Un Annibale audace, dunque, ma non temerario: non c'è contraddizione, poiché egli non solo sapeva affrontare il pericolo, ma era poi anche in grado di gestirlo assennatamente, da perfetto capo militare; possedeva quindi la rara dote della misura, che gli impediva di compiere mosse troppo azzardate. 6. Nullo labore aut corpus fatigari aut animus vinci poterat. Caloris ac frigoris patientia par; cibi potionisque desiderio naturali, non voluptate modus finitus; vigiliarum somnique nec die nec nocte discriminata tempora; 7. id quod gerendis rebus superesset quieti datum; ea neque molli strato neque silentio accersita; multi saepe militari sagulo opertum humi iacentem inter custodias stationesque militum conspexerunt. 6. "Da nessuna fatica il suo corpo poteva essere oppresso o il suo animo piegato. Tollerava parimenti il caldo e il freddo; la misura del mangiare e del bere veniva determinata dal bisogno naturale, non dall'ingordigia; i tempi della veglia e del sonno non erano distinti né dal giorno né dalla notte: 7. quello che gli avanzava dalle attività da sbrigare lo dedicava al riposo; e quel riposo non era cercato né grazie a un morbido letto né col silenzio; molti spesso lo videro che giaceva a terra coperto dal mantello militare, tra le sentinelle e i corpi di guardia". Annibale viene qui dipinto come un uomo dalla straordinaria prestanza fisica: resistente alle fatiche (sia fisiche sia psicologiche) e alle intemperie, parco e temperante nel regime alimentare e nella gestione del riposo. 8. Vestitus nihil inter aequales excellens: arma atque equi conspiciebantur. Equitum peditumque idem longe primus erat; princeps in proelium ibat, ultimus conserto proelio excedebat. 8. "L'abito in nulla si distingueva fra i suoi commilitoni; si distinguevano (invece) le armi e i cavalli. Era di gran lunga il primo, ugualmente fra i cavalieri come tra i fanti, per primo andava in battaglia, per ultimo si ritirava a battaglia finita". Non amava in generale le manifestazioni di superiorità, soprattutto in quegli àmbiti poco consoni a un soldato, come per esempio l'abbigliamento; preferiva invece dotarsi di armi e di cavalli d'eccezione, più che altro per le possibili applicazioni pratiche delle une e degli altri. Nell'azione militare, infine, era il primo a iniziare e ovviamente l'ultimo ad andarsene. Le spie linguistiche che Livio dissemina nel testo sono molte: l'uso iniziale dei superlativi (plurimum, plurimum a 5) contribuisce a creare l'idea della grandezza del personaggio, mentre l'insistenza finale sul primato (longe primus, princeps e ultimus a 8) enfatizza l'unicità di questo comandante; i parallelismi nella costruzione dei brevi periodi sono funzionali a calibrare con attenzione e precisione di dettagli le doti riferite a diversi settori della pratica militare: Annibale possiede audacia e consilium, entrambi in sommo grado (par. 5); non si lascia fiaccare da alcunché, né nel corpus, né nell'animus (par. 6); nell'alimentazione si lascia guidare dalla natura, non dalla voluptas (par. 6) e si riposa quando, dove e come può (par. 7). Una lunga e particolareggiata enumerazione delle virtù annibaliche, dunque, senza la benché minima allusione ad alcun vizio: si potrebbe quasi parlare di "agiografia" del personaggio in questione. In questi paragrafi, infine, vengono impiegati molti artifici retorico-stilistici e Livio utilizza una scrittura efficace e concisa al contempo: si evidenziano in particolare l'anafora, la variatio, l'allitterazione, l'ellissi, l'endiadi, l'asindeto (si veda il commento puntuale al passo liviano). Quella che in Sallustio è apparsa come la cifra del ritratto, cioè la presenza del chiaroscuro di virtù e vizi fin dall'inizio, in Livio appare soltanto alla fine della descrizione: (paragrafo 9), 9. Has tantas viri virtutes ingentia vitia aequabant, inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio. 10. Cum hac indole virtutum atque vitiorum triennio sub Hasdrubale imperatore meruit, nulla re quae agenda videndaque magno futuro duci esset praetermissa. 9. "Queste tanto grandi virtù dell'uomo erano eguagliate da grandi vizi: una crudeltà disumana, una perfidia più che cartaginese, nessun rispetto per il vero, per il sacro, nessun timore per gli dèi, nessun riguardo per i giuramenti, nessuno scrupolo religioso. 10. Con questo complesso di virtù e di vizi per tre anni militò sotto il comando di Asdrubale, non avendo tralasciato alcuna cosa da compiere e da considerare da parte di un futuro grande generale". Livio intende dichiaratamente mostrare, ora, il "rovescio della medaglia": all'inizio di entrambi i paragrafi, infatti, ripete il binomio virtus-vitium, quasi a indicare con più enfasi il chiaroscuro. È pur vero che le virtù 7 sono diffuse lungo 7 paragrafi (2-8), mentre i vizi sono concentrati in uno (il 9); è altrettanto vero che le virtù sono rappresentate in opera ed esemplificate nei vari aspetti, mentre i vizi sono solo elencati, ma restano sganciati da precisi episodi biografici e non hanno alcun legame col tirocinio militare in Spagna. Resta comunque il fatto che l'enumerazione in asindeto del paragrafo 9 smantella l'immagine dell'optimus dux rivelandone i terribili vitia, cioè quelli opposti alle più tipiche virtutes Romanae, come la pietas, la fides, la iustitia: egli infatti è crudele e inumano, sleale, senza scrupoli né religiosi né morali (si veda a questo proposito lo schema degli opposti nel commento a conclusione del ritratto di Annibale in Livio). In conclusione, Annibale nega, pur se in maniera convenzionale, le più importanti virtù della tradizione dei Romani: per questo incarna fin d'ora l'acerrimo nemico e per questo stesso motivo, sembra suggerire Livio, è anche destinato a soccombere, pur se dopo aver inflitto pesanti perdite ai Romani. Nel ritratto di Livio, Annibale emerge come perfetto capo militare (parr. 2-8), ma è tratteggiato a tinte fosche come uomo (par. 9): lo storico ha voluto quindi enfatizzare gli aspetti del dux legati al conflitto con Roma e insieme condannare i gravi comportamenti del vir contrari all'etica romana; nel suo modo di concepire la storia, infatti, i viri e i mores stanno sempre in primo piano, allacciandosi al resoconto delle res, di cui sono spesso la causa ma anche l'effetto. Passando in rassegna, in ultima analisi, le varie caratteristiche notate nei due ritratti, non possono non colpire le analogie: in effetti, l'Annibale tratteggiato da Livio sembra modellato sulla figura sallustiana di Catilina. In entrambi gli autori, infatti, i dettagli fisici non hanno valore di per sé, ma in quanto spie del carattere e dell'animo dei personaggi descritti. Nei pochi tratti somatici di Annibale, del tutto simili a quelli del padre Amilcare, emergono comunque anche le qualità interiori; di Catilina, invece, si rammenta solo l'incredibile capacità di sopportazione (par. 3), caratteristica presente anche in Livio (par. 6): Catilina resisteva straordinariamente alla fame, al gelo, alle veglie (Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae); Annibale tollerava ugualmente il freddo e il caldo (Caloris ac frigoris patientia par). I ritratti di Catilina e Annibale sono dipinti "al chiaroscuro": sono infatti un misto di virtù e vizi e appaiono dotati di caratteristiche contraddittorie, apparentemente o effettivamente. Il romano ha grande vigore psico-fisico, ma natura prava, è avaro e prodigo al contempo, perfetto figlio di una città dilaniata dal lusso e dall'avidità; il cartaginese è abile tanto a ubbidire quanto a comandare, è caro contemporaneamente al comandante e all'esercito, è audace e saggio insieme nell'approccio ai pericoli. Catilina ha poche virtù e innumerevoli vizi; Annibale è invece ricco di virtù, superate peraltro, se non in quantità, certamente in gravità, da macroscopici vizi, menzionati enfaticamente in clausola. I due individui sono presentati come nemici di Roma e dei Romani: Catilina in quanto sovvertitore dello stato con la congiura, Annibale come avversario eccellente; in entrambi spicca l'assenza di scrupoli morali: Catilina, assalito da un desiderio sfrenato di ottenere il potere assoluto, non si preoccupa minimamente dei mezzi con cui lo potrà raggiungere (neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat); Annibale non ha nessun senso della verità e del sacro, né timore degli dèi o rispetto per i giuramenti, insomma nessuno scrupolo di coscienza (nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio). Una netta differenza li separa: Annibale è scaltro nel gestire le situazioni di pericolo, Catilina invece non è dotato di grande sapientia. Eppure, quest'ultimo è eloquentissimo: quindi, non solo nega l'ideale catoniano del vir bonus dicendi peritus (Praecepta ad Marcum filium), ma fa presagire al lettore la realizzazione di quei danni lamentati da Cicerone nel De inventione relativamente al binomio sapientia-eloquentia (sapientiam sine eloquentia parum prodesse civitatibus, eloquentiam vero sine sapientia nimium obesse plerumque, 1, 1). Se Sallustio nella descrizione Catilina applica quello che Antonio La Penna ha giustamente definito "ritratto paradossale", pare che i medesimi tratti si possano rintracciare anche nella figura liviana di Annibale, la cui indole è dichiaratamente presentata dall'autore come mista virtutum atque vitiorum. In Catilina la corruzione sfocia nel delitto e anche le qualità e le capacità positive soggiacciono sempre a intenti criminali; parimenti, in Annibale le indiscutibili doti militari sono negate dalla malafede e dalla mancanza di scrupoli morali. Tutti e due sono influenzati dall'ambiente in cui vivono e ne accentuano se possibile la negatività: è vero che Catilina trae da una società deteriorata scellerati spunti per le sue attività criminali, ma non tutti i nobili del suo tempo tramarono contro lo stato; anzi, molti furono da lui raccolti e allettati... Annibale è sì un cartaginese, eppure la sua perfidia è definita addirittura plus quam Punica. Per concludere, dunque, Sallustio è modello seguìto non solo da Tacito (si pensi al magistrale ritratto di Petronio in Ann. XVI 18 o a quello "catilinario" di Seiano in Ann. IV 1 ss.), ma anche da Livio: e ciò diviene palese se si pensa che, in effetti, tanto in Sallustio quanto in Livio viene segnalata come eccezionale l'energia dei personaggi descritti, ma il messaggio da leggere in filigrana è che questa straordinaria carica umana non vale nulla senza la pietas, intesa come sommo e onnipresente rispetto dei valori fondamentali della persona (anche del nemico), della famiglia e dello stato. Infine, esaminando brevemente lo stile dei due autori, in parallelo, si nota che la struttura del discorso è in entrambi scandita da periodi concisi, pregnanti, spesso ellittici del verbo, ricchi di figure retoriche, fra cui spiccano il chiasmo, l'antitesi e, su tutte, la variatio. Se queste sono caratteristiche generalmente dominanti nello stile sallustiano, non sono altrettanto consuete, invece, in Livio: tanto più dunque si dimostra l'influenza di Sallustio nel ritratto di Annibale. 8 ANNIBALE (Livio XXI 4, 2-10) 2. Missus Hannibal in Hispaniam primo statim aduentu omnem exercitum in se conuertit; Hamilcarem iuuenem redditum sibi ueteres milites credere; eundem uigorem in uoltu uimque in oculis, habitum oris lineamentaque intueri. Dein breui effecit ut pater in se minimum momentum ad fauorem conciliandum esset. 3. Nunquam ingenium idem ad res diuersissimas, parendum atque imperandum, habilius fuit. Itaque haud facile discerneres utrum imperatori an exercitui carior esset; 4. neque Hasdrubal alium quemquam praeficere malle ubi quid fortiter ac strenue agendum esset, neque milites alio duce plus confidere aut audere. 5. Plurimum audaciae ad pericula capessenda, plurimum consilii inter ipsa pericula erat. 6. Nullo labore aut corpus fatigari aut animus uinci poterat. Caloris ac frigoris patientia par; cibi potionisque desiderio naturali, non uoluptate modus finitus; uigiliarum somnique nec die nec nocte discriminata tempora; 7. id quod gerendis rebus superesset quieti datum; ea neque molli strato neque silentio accersita; multi saepe militari sagulo opertum humi iacentem inter custodias stationesque militum conspexerunt. 8. Vestitus nihil inter aequales excellens: arma atque equi conspiciebantur. Equitum peditumque idem longe primus erat; princeps in proelium ibat, ultimus conserto proelio excedebat. 9. Has tantas uiri uirtutes ingentia uitia aequabant, inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, nihil ueri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio. 10. Cum hac indole uirtutum atque uitiorum triennio sub Hasdrubale imperatore meruit, nulla re quae agenda uidendaque magno futuro duci esset praetermissa. 2. Annibale, inviato in Spagna, da subito, fin dal suo primo arrivo, attirò a sé tutto l'esercito: i veterani ebbero l'impressione che fosse stato loro restituito Amilcare da giovane, notavano il medesimo vigore nel volto, la stessa energia negli occhi, la stessa espressione e i lineamenti del viso. Ed ecco che in breve (Annibale) fece sì che il padre fosse nei suoi riguardi di poco peso per conquistarsi il favore (dei soldati). 3. Giammai una medesima natura fu più adatta a cose diversissime fra loro, come l'obbedire e il comandare. Perciò non avresti potuto facilmente distinguere se fosse più caro al comandante o all'esercito; 4. né Asdrubale preferiva mettere a capo qualcun altro, quando vi fosse da compiere qualche impresa con forza e valore, né i soldati avevano più fiducia od osavano di più sotto un'altra guida. 5. Aveva grandissima audacia nell'affrontare i pericoli, grandissima prudenza in mezzo ai pericoli stessi. 6. Da nessuna fatica il suo corpo poteva essere oppresso o il suo animo piegato. Tollerava parimenti il caldo e il freddo; la misura del mangiare e del bere veniva determinata dal bisogno naturale, non dall'ingordigia; i tempi della veglia e del sonno non erano distinti né dal giorno né dalla notte: 7. quello che gli avanzava dalle attività da sbrigare lo dedicava al riposo; e quel riposo non era cercato né grazie a un morbido letto né col silenzio; molti spesso lo videro che giaceva a terra coperto dal mantello militare, tra le sentinelle e i corpi di guardia. 8. L'abito in nulla si distingueva fra i suoi commilitoni; si distinguevano (invece) le armi e i cavalli. Era di gran lunga il primo, ugualmente fra i cavalieri come tra i fanti, per primo andava in battaglia, per ultimo si ritirava a battaglia finita. 9. Queste tanto grandi virtù dell'uomo erano eguagliate da grandi vizi: una crudeltà disumana, una perfidia più che cartaginese, nessun rispetto per il vero, per il sacro, nessun timore per gli dèi, nessun riguardo per i giuramenti, nessuno scrupolo religioso. 10. Con questo complesso di virtù e di vizi per tre anni militò sotto il comando di Asdrubale, non avendo tralasciato alcuna cosa da compiere e da considerare da parte di un futuro grande generale. 9