CULTURA, CIVILTÀ E RELIGIOSITÀ IPERTESTO La Germania di fronte a Napoleone rigi fu accolto con entusiasmo da numerosi intellettuali tedeschi, determina- ti ad assumere posizioni più aperte e più progressiste di quelle dominanti. L’esecuzione di Luigi XVI e il Terrore spensero questi entusiasmi. Anzi, il fascino si trasformò in timore quando si comprese che gli effetti devastanti della rivoluzione avrebbero potuto toccare anche la Germania. Un interesse del tutto particolare destò di nuovo, dal 1798, la figura di Napoleone, attentamente osservata nei suoi movimenti dagli osservatori più acuti. Christoph Martin Wieland (17331813), scrittore acuto e ben informato, denunciò fin dall’inizio del consolato di Bonaparte che il nuovo regime francese era una dittatura pericolosa per l’intera Europa. Una volta dotato della pienezza dei poteri, il generale avrebbe potuto porre fine alle lotte civili che dilaniavano il Paese, e ciò avrebbe finalmente permesso alla Francia di espandersi sul continente, fino a diventarne l’incontrastata potenza egemone. Nel 1804, un altro scrittore tedesco, Johann Friedrich Reichardt (1752-1814), pubblicò F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 Un gruppo di popolani tedeschi intonano un canto religioso, dipinto del XIX secolo. In Germania, nel Settecento, si diffuse un nuovo tipo di religiosità, il pietismo, che rivalutava l’autenticità del sentimento religioso a scapito della dimensione dottrinale. 1 La Germania di fronte a Napoleone Nel Settecento, Berlino fu una delle grandi capitali dell’Illuminismo (Aufklärung, in lingua tedesca), anche se il movimento assunse nella città prussiana alcune caratteristiche particolari, molto diverse da quelle tipicamente francesi o inglesi. Rispetto a Voltaire, gli intellettuali tedeschi furono molto più cauti nelle loro critiche alla religione, convinti che la Riforma avesse già rigenerato la fede cristiana, sfrondandola dalle superstizioni e dalle credenze più irrazionali che erano imputate al cattolicesimo. Per di più, nel corso del secolo XVIII, gran parte del luteranesimo aveva accolto con entusiasmo il pietismo, un tipo di religiosità che dava scarsa importanza alla dimensione dottrinale e attribuiva invece il peso predominante alla lettura personale della Bibbia, all’etica e al sentimento, cioè alla personale percezione della presenza divina sia nel creato che nell’anima di ogni individuo. Questo orientamento religioso spingeva in direzione della pace interiore e della stabilità sociale, in quanto ognuno doveva essere soddisfatto della sua posizione, senza alterare l’ordine stabilito da Dio. Certo, gli individui dovevano essere rispettati nella loro libertà e nei loro beni: ma garantire questi benefici era un dovere morale dello Stato, non l’esito di un’arrogante richiesta dei sudditi, in nome dei rivoluzionari diritti dell’uomo. Nel 1789, l’inizio della Rivoluzione a Pa- IPERTESTO B Gli intellettuali tedeschi di fronte al generale vittorioso IPERTESTO un resoconto di viaggio relativo a un suo soggiorno a Parigi e offrì un quadro estremamente cupo dell’atmosfera che si respirava nella capitale francese. «Regnare è la sua sola passione e occupazione», scrisse parlando di Bonaparte, presentato come una figura solitaria e triste, ormai prigioniero delle straordinarie misure di sicurezza introdotte a sua difesa. In termini ancora più duri si espresse il conte prussiano Gustav von Schlabrendorf, che in un volume del 1804 dipingeva il regime napoleonico come una specie di gigantesco Stato di polizia, di sistema totalitario, quasi, basato sulla totale assenza di libertà, da un lato, e sul controllo dell’insegnamento scolastico, dei teatri e della stampa dall’altro. UNITÀ IV Posizioni moderate, filofrancesi POLITICA E CULTURA NELL’ETÀ NAPOLEONICA 2 Il più prestigioso scrittore tedesco del tempo, Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), conosceva bene questi scritti polemici. Viveva nel piccolo ducato di Sassonia-WeimarEisenach e svolgeva nella capitale, Weimar, le funzioni di responsabile della cultura: dirigeva il teatro di corte, la biblioteca e l’università di Jena. Nel 1806, al momento dell’inizio della guerra con la Francia, il duca aveva messo a disposizione del re di Prussia un battaglione di più di 700 soldati: quindi, a Weimar, si temeva che Napoleone avrebbe usato il pugno di ferro contro il ducato, al punto da prendere in considerazione la sua soppressione. L’imperatore decise infine per un inserimento del ducato di Weimar nella Confederazione del Reno; sul piano formale, l’indipendenza era salva, ma in realtà il piccolo Stato era divenuto un vassallo di Bonaparte, cui dovette pagare un pesante tributo: un contingente militare di 800 uomini (580 dei quali sarebbero poi morti in Spagna, combattendo contro i guerriglieri catalani), una somma di 2,2 milioni di franchi e, soprattutto, l’obbligo di fornire vitto e alloggio a 80 000 soldati e 22 000 cavalli fino alla primavera. Nonostante le pesanti umiliazioni morali e materiali imposte al suo sovrano da Napoleone, Goethe rifiutò il nuovo entusiasmo nazionalistico, che spingeva Fichte e altri intellettuali in direzione della lotta senza quartiere contro la Francia. A suo giudizio, una sottomissione non servile, unita a un atteggiamento di collaborazione costruttiva con il vincitore francese, avrebbe prodotto frutti ben più efficaci e duraturi della resistenza dettata dall’orgoglio della propria specificità nazionale. La posizione del grande scrittore non era affatto eccezionale; in particolare, fu condivisa da Alexander von Humboldt (1769-1859) e da un intellettuale che all’epoca era molto noto e influente, Johannes von Müller (1752-1809). Storico di corte a Berlino, Müller si schierò inizialmente con il partito favorevole alla Il poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe. guerra: i suoi attacchi contro l’«uomo malvagio» e i suoi paralleli tra Attila e Bonaparte non erano insulti gratuiti; l’intellettuale tedesco, infatti, aveva intuito che dietro Napoleone c’era la Francia rivoluzionaria, e che questa aveva una capacità devastatrice superiore a quella posseduta dai regni dell’antico regime. Quella di Bonaparte, diceva Müller, era una specie di guerra santa, e il generale vittorioso aveva un carisma e una forza travolgente che lo rendevano più simile a Maometto che a un sovrano europeo del Settecento. Tuttavia, dopo la disfatta di Jena (1806), Müller non fuggì da Berlino né incitò alla lotta di liberazione: egli si rese conto che la Germania, stretta tra le potenze dell’Est e dell’Ovest, avrebbe dovuto pre➔Dominio francese, sto capitolare all’una o all’altra. La prospettiva di finire sotto l’impero russo, di fronte alla come male minore cui barbarie e arretratezza Müller rifuggiva inorridito, pareva intollerabile. Egli ritenne preferibile, in seguito a un’ipotetica disfatta e alla conseguente perdita dell’indipendenza, sottomettersi a una potenza occidentale piuttosto che alla semiasiatica Russia. Altri scrittori e polemisti del tempo giunsero a conclusioni simili, a sostenere cioè Napoleone e a criticare gli sforzi di resistenza antifrancese, perché temevano che l’alternativa al dominio universale napoleonico sarebbe stato quello britannico, materialista e fondato solo F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 ➔Interesse per il Codice IPERTESTO sulla forza dell’oro e del commercio. Alla tirannia del denaro, era preferibile quella delle armi vittoriose, cui però sarebbe seguito il diritto. Goethe condivise proprio questo aspetto specifico della dominazione francese e pertanto, all’università di Jena introdusse nel giro di un anno lo studio del nuovo Codice napoleonico, che sarebbe di lì a poco entrato in vigore nella Confederazione del Reno. Si trattava di una strada che era l’opposto di quanto insegnavano Herder e Fichte, per i quali le legislazioni straniere non dovevano per alcun motivo essere importate, e anzi il diritto romano, con la sua pretesa di universalità, era stato un pericoloso fattore di distruzione dell’identità nazionale germanica. Abbagliare per dominare F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 Napoleone incontra a Erfurt i principi tedeschi, dipinto del XIX secolo. Con la Prussia prostrata e pesantemente indebolita, Napoleone era riuscito a stabilire in Germania e nell’Europa centrale un predominio quale mai la Francia aveva raggiunto nella sua storia. IPERTESTO B ➔Erfurt 3 La Germania di fronte a Napoleone Dopo la vittoria di Jena, la città prussiana di Erfurt passò sotto totale controllo francese, e anzi divenne un dominio riservato dell’imperatore, cioè dipese direttamente dall’amministrazione imperiale. Non era affatto una posizione vantaggiosa, in quanto gli oneri che Erfurt dovette accollarsi (alloggio e rifornimento per migliaia di soldati e di cavalli, ad esempio) furono molto pesanti. Anche se il dominio francese durò solo dal 1807 al 1813, la città accumulò debiti per l’enorme somma di 7,36 milioni di talleri, tanto che nel 1878 gli abitanti di Erfurt non avevano ancora saldato tutti i creditori... Tutte le petizioni per ridurre le spese furono respinte, e in un caso, addirittura, la risposta negativa fu accompagnata da un formale divieto di lamentarsi. Dal 27 settembre al 14 ottobre 1808, Napoleone convocò a Erfurt un imponente congresso di principi tedeschi, cui fu invitato anche lo zar di Russia Alessandro I (18011825). In quei giorni concitati, la piccola città provinciale prussiana si trasformò nel centro della vita politica europea e in una grandiosa corte sfavillante e sfarzosa. Il principe di Talleyrand, gran ciambellano di Napoleone, ricordò nelle sue memorie che l’imperatore dei francesi si propose esplicitamente di impressionare il sovrano russo, mentre la stampa tedesca – debitamente ammaestrata – doveva diffondere in tutta la Germania una rinnovata ammirazione per Napoleone, con lodi talmente esagerate da far pensare alla messa in atto di un vero e proprio culto della personalità. IPERTESTO ➔Uno spettacolo grandioso UNITÀ IV ➔Il ruolo politico del teatro POLITICA E CULTURA NELL’ETÀ NAPOLEONICA 4 In realtà, lo splendore con cui si voleva abbagliare lo zar e i tedeschi mascherava una grave situazione di debolezza. Con terre tolte alla Prussia, Napoleone aveva ricostituito un granducato di Varsavia e l’aveva fatto entrare nella Confederazione del Reno; tale operazione aveva profondamente irritato il governo russo, che considerava la Polonia una propria zona di influenza e quindi mal tollerava l’ingerenza francese nella regione. Cosa ancora più grave, Bonaparte aveva da poco invaso la Spagna e deposto il suo re. Questo gesto aveva rafforzato l’opinione negativa che tutti gli altri sovrani avevano dell’imperatore, ritenuto un soggetto del tutto inaffidabile e incapace di contenere la propria sete di potere. Per di più, il Paese si era ribellato e la guerriglia, sostenuta dagli inglesi, non era stata domata. Bonaparte si trovava dunque dinnanzi al serio pericolo di una guerra su due fronti: mentre gran parte del suo esercito era impegnato in Spagna, sarebbe stato molto difficile combattere una campagna vittoriosa in Europa centrale contro austriaci e russi, coalizzati. Per lo meno – ecco lo scopo napoleonico del congresso di Erfurt – occorreva tener fuori dall’eventuale coalizione lo zar, che a questo scopo andava nel medesimo tempo riverito e stupito, dando una simultanea immagine di amicizia e di opulenza, e quindi in grado di finanziare un esercito se necessario. Nel grandioso spettacolo che aveva inscenato davanti allo zar (e all’intera Germania) Napoleone segnò un importante compito al teatro, o meglio agli attori del Théâtre Français, fatti venire apposta da Parigi. Il repertorio da rappresentare di fronte a un pubblico selezionato (lo zar, i sovrani dei più importanti principati della Confederazione del Reno, alcuni celebri intellettuali tedeschi, tra cui Goethe) fu scelto con estrema cura e precise finalità, a un tempo pedagogiche e propagandistiche. Mostrandosi, sotto questo profilo, figlio della Rivoluzione ed erede della serietà del periodo giacobino, Napoleone scartò le commedie, per distinguere lo stile di corte francese dai frivoli ambienti aristocratici dell’Ancien Régime; l’imperatore offrì al suo pubblico tedesco solo tragedie, oppure – come scrive Talleyrand – opere in cui grandi eroi «compivano imprese gloriose e possenti» e «s’innalzavano al di sopra degli uomini comuni per il loro coraggio e per le loro elevate virtù spirituali». Goethe e il progetto imperiale napoleonico ➔Una nuova cultura europea Nel corso del congresso di Erfurt, Napoleone convocò Goethe e gli concesse un’udienza privata. Il colloquio ebbe luogo il 2 ottobre 1808 e durò circa un’ora. Nei suoi resoconti, lo scrittore ci presenta un Bonaparte nervoso e irrequieto, ma intellettualmente vivace, tutt’altro che incompetente in ambito letterario, soprattutto nel campo del teatro tragico francese. Goethe ricorda che l’imperatore fu costretto a interrompere il dialogo per affrontare gli urgenti problemi politici che gli venivano sottoposti, ma congedò lo scrittore solo dopo averlo ufficialmente invitato a Parigi. L’obiettivo politico di tale proposta era chiara: l’imperatore tentava di circondarsi di intellettuali di grande fama internazionale, al fine di presentare il suo dominio non più come il frutto puro e semplice della superiorità militare francese, ma come l’inizio di un processo di rigenerazione dell’Europa, in direzione della pace e di una nuova civiltà basata sulla ragione (e sul Codice civile francese). Qualche giorno più tardi, Napoleone e lo zar si recarono a Weimar, e anche qui i festeggiamenti si trasformarono in raffinata propaganda politica. In un sontuoso banchetto, si trovarono riunite 150 persone: al centro della scena i due imperatori; tutt’intorno, come satelliti intorno al sole, i principi tedeschi creati da Napoleone. Come al solito, il suo obiettivo era quello di abbagliare e ipnotizzare i suoi interlocutori: lo zar e i sovrani dovevano comprendere che l’Europa intera gravitava intorno alla Francia ed era ai suoi piedi. Alla sera, la compagnia del Théâtre Français inscenò la Morte di Cesare, di Voltaire, e i versi declamati con maggiore solennità dall’attore che impersonava Cesare furono quelli in cui il generale romano proclamava di voler instaurare «sull’universo, volontario servo, senza violenza un generoso impero». Era, di fatto, un concentrato del programma napoleonico: un’Europa finalmente pacificata, sotto un unico imperatore. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IPERTESTO IPERTESTO B Georges Rouget, Il matrimonio fra Napoleone e Maria Luisa d’Asburgo, 1810. Non a caso, sappiamo che le preferenze storiche di Napoleone (imbevute, com’era pras- ➔Modello romano si, a quell’epoca, di reminiscenze classiche) andarono sempre a Roma, e non a Sparta (con le sue virtù militari e civili) o ad Atene (con la sua pericolosa democrazia). Roma era un modello di impero unitario, mentre la Grecia, per quanto celebrata in quei medesimi anni da Foscolo e da altri scrittori neoclassici, gli pareva solo sinonimo di particolarismo e di litigiosità. Quella stessa sera, Napoleone ebbe un altro breve colloquio con Goethe; commentando l’opera appena rappresentata, da un lato individuò i punti deboli del lavoro di Voltaire, e dall’altro ribadì che, a suo giudizio, il teatro tragico era lo strumento pedagogico per eccellenza, ai fini del rafforzamento dello Stato. Pertanto, rinnovandogli l’invito a recarsi a Parigi, l’imperatore fece a Goethe una precisa proposta: scrivere un dramma sulla figura di Cesare, mettendo l’accento sul fatto che avrebbe potuto portare la pace al mondo, se non fosse stato prematuramente assassinato. Goethe declinò di nuovo l’invito, ma Napoleone, una volta tornato a Parigi, lo insignì comunque della Legion d’onore, una prestigiosa onorificenza di solito riservata a generali e statisti. Da quel momento, Riferimento Goethe prese l’abitudine di chiamare in pubblico Bonaparte «Mein Kaiser», cioè il mio storiografico 1 imperatore. pag. 8 Da un punto di vista pratico, l’incontro al vertice di Erfurt si rivelò fallimentare. Lo zar, infatti, non intervenne personalmente in guerra, ma non dissuase in alcun modo Vienna dal portare una nuova sfida al progetto egemonico francese. Così, mentre si combatteva in Spagna, nel 1809 Napoleone dovette far fronte in Europa centrale all’offensiva degli austriaci. Subito, a guerra appena iniziata, i direttori di tutti i giornali tedeschi F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 La Germania di fronte a Napoleone 5 IPERTESTO ➔Vittoria di Wagram furono avvisati che la pubblicazione di notizie o commenti «non conformi all’interesse politico del sublime protettore e degli Stati confederati» avrebbe comportato l’immediata chiusura della testata. Napoleone riuscì infine a sconfiggere gli austriaci a Wagram (1809), ma la sua vittoria, questa volta, fu di strettissima misura, sebbene ovviamente amplificata da una stampa totalmente allineata a forza o abilmente manovrata e diretta. Il risultato più immediato del successo francese fu il matrimonio di Bonaparte con Maria Luisa d’Asburgo, la figlia dell’imperatore d’Austria. Tale unione non solo tentava di risolvere il delicato problema della successione al trono (Napoleone infatti, da un precedente matrimonio, non aveva avuto eredi), ma anche di dare maggiore legittimità al suo progetto imperiale, nella misura in cui il sovrano che si era incoronato con le sue mani e aveva costruito il suo potere solo grazie alla forza delle armi si legava alla famiglia che, per secoli, aveva portato la corona del Sacro romano impero. Oltretutto, poiché la nuova principessa austriaca che si recava a Parigi era stret- tamente imparentata con la regina Maria Antonietta (sua prozia, decapitata nel 1793), la Rivoluzione sembrava davvero finita: Napoleone si illudeva di non apparire più come un pericoloso sovversivo, ma di essere finalmente accolto a pieno titolo tra i sovrani europei. UNITÀ IV Dal compromesso al volontariato patriottico POLITICA E CULTURA NELL’ETÀ NAPOLEONICA 6 ➔Rispetto per il “vincitore temperato” ➔Invasione della Russia Nel 1810, l’Institut de France di Parigi bandì un concorso per una dissertazione storica, che solo in apparenza si occupava di un tema distante, caro solo a pochi eruditi. Il tema della trattazione riguardava il rapporto tra goti e romani in Italia, al tempo di Teodorico. Dieci anni più tardi, in Italia, Alessandro Manzoni avrebbe utilizzato uno stratagemma simile: parlando di longobardi, franchi e italici, in realtà voleva affrontare la realtà politica del proprio tempo, in cui i soggetti erano gli austriaci, i francesi e il popolo italiano, privato della sua indipendenza e subordinato al padrone di turno, fino a che non avesse trovato le energie per conquistarsi da solo la libertà. Allo stesso modo, l’Accademia parigina che bandì il concorso prendeva le mosse dal passato remoto, ma in realtà voleva occuparsi delle relazioni tra dominati e conquistatori nel tempo presente. Il concorso fu vinto da uno stretto conoscente di Goethe, Georg Sartorius, il quale espresse posizioni politiche molto simili a quelle del grande scrittore. A suo giudizio, quello di Teodorico era stato un dominio saggio, moderato e rispettoso dei diritti dei subordinati; solo «la stupida superbia e il fanatismo della grande massa» aveva potuto rifiutarlo a priori, per il fatto che i goti erano stranieri e barbari. Peggio ancora, il ritorno dei legittimi signori bizantini provocò all’Italia guerre, carestie, epidemie e infine uno sfruttamento sistematico e brutale molto superiore a quello dei goti. Dall’odio ingiusto e immotivato contro «un vincitore temperato», commentò Goethe dopo aver letto il testo, «non c’è da attendersi nulla di buono». Si trattava di una posizione tutt’altro che patriottica, che raccomandava di adattarsi in modo disciplinato alla dominazione francese. In realtà, a questa data, Goethe era ormai in netta minoranza, come ammetteva lo stesso Girolamo Bonaparte, re di Westfalia in una lettera inviata il 5 dicembre 1811 al fratello imperatore. A suo giudizio, il desiderio di cacciare lo straniero non era più, in Germania, il frutto della fantasia esaltata di pochi intellettuali, ma nasceva dai problemi concreti che la popolazione doveva affrontare quotidianamente: le imposte per le guerra, i contributi per mantenere le truppe d’occupazione, i saccheggi e le angherie dei soldati. «Si deve temere – concludeva Girolamo, – la disperazione di quel popolo che non ha più nulla da perdere perché gli è stato preso tutto». Il 27 gennaio 1812, la potenza del conquistatore si fece udire per l’ultima e più micidiale volta: i principi della Confederazione ricevettero, da parte dell’imperatore, l’ordine di preparare entro il 15 febbraio tutti i contingenti militari dovuti, secondo le condizioni pattuite al momento della resa, in vista dell’invasione della Russia. L’entità del disastro che seguì la sciagurata campagna orientale offrì la possibilità ad Austria e Prus- F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 Riferimento storiografico pag. 10 ➔La “guerra di liberazione” 2 IPERTESTO 7 La Germania di fronte a Napoleone sia di rialzare la testa e di infliggere a Napoleone la decisiva disfatta di Lipsia (16-19 ottobre 1813). Il conflitto del 1813 fu accolto con entusiasmo da migliaia di giovani tedeschi (per lo più studenti d’estrazione borghese), che lo vissero come guerra di liberazione nazionale e diedero inizio a quel fenomeno del volontariato per motivi patriottici che avrebbe caratterizzato l’intero Ottocento e i primi mesi della prima guerra mondiale, nel 1914. Goethe non condivise l’euforia patriottica dei suoi connazionali e non giudicò positivamente il fenomeno del volontariato. I giovani intellettuali che si arruolavano entusiasti gli parevano dei presuntuosi dilettanti che si impegnavano in un gioco più grande di loro, mettendo stupidamente a repentaglio una vita che sarebbe servita assai di più alla Germania e all’umanità se quegli studenti fossero diventati bravi medici o validi funzionari dello Stato. Ma, soprattutto, riprendendo un tema già discusso nel 1806, lo scrittore ritornò, nelle sue lettere e nelle sue riflessioni, sulla questione del rischio di un eccessivo espansionismo russo: «Fra tutto quanto accade, – scrisse nell’ottobre 1813, mentre ancora la battaglia di Lipsia non era terminata, – se devo essere sincero, vedere qui i cosacchi non era quello che desideravo». Nell’entusiasmo della vittoria e della liberazione, dunque, Goethe rimase in disparte, con un riserbo che vari intellettuali delle generazioni seguenti gli avrebbero rimproverato. Per la grande maggioranza dei tedeschi colti, Napoleone era l’incarnazione del Male e dell’oppressione, al punto che la ricorrenza della battaglia di Lipsia divenne una delle più importanti feste nazionali. Per Goethe, si era trattato di una speranza sfumata: ai suoi occhi, la colpa maggiore di Napoleone non era stata la dominazione sulla Germania, ma il fallimento della sua missione di portare la pace in Europa. IPERTESTO B Johann Peter Krafft, La partenza del soldato di leva, 1813 (Vienna, Heeresgeschichtliches Museum). Molti giovani tedeschi si offrirono volontari per combattere contro Napoleone a Lipsia nel 1813: il conflitto, infatti, era visto come una guerra di liberazione nazionale dall’invasore straniero. IPERTESTO Riferimenti storiografici 1 Goethe e il sogno di una duratura pace europea UNITÀ IV Il grande poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe non fu un patriota tedesco e non può di certo essere considerato uno dei padri del nazionalismo germanico. Egli guardò con lucidità la situazione politica globale e accettò serenamente l’egemonia francese in Europa, considerandola un’importante opportunità per l’instaurazione di una pace duratura. In particolare, gli parve particolarmente promettente il matrimonio celebrato nel 1810 tra Napoleone e la principessa austriaca Maria Luisa d’Asburgo. POLITICA E CULTURA NELL’ETÀ NAPOLEONICA 8 Il conflitto mondiale che si profila tra l’Europa napoleonica e la Russia alleata con l’Inghilterra costituisce lo sfondo epocale dell’unica poesia politica scritta e poi subito pubblicata da Goethe durante l’epoca napoleonica. Si tratta delle strofe da Karlsbad [celebre stazione termale in Boemia, n.d.r.] dedicate all’imperatrice francese Maria Luisa, la figlia dell’imperatore austriaco sposata da Napoleone nel 1810. Esse fanno parte di una trilogia che Goethe compone nella seconda settimana di luglio del 1812 su commissione della cittadinanza di Karlsbad per l’arrivo dell’imperatore austriaco, di sua moglie Maria Ludovica e della figlia Maria Luisa – nata da un precedente matrimonio e quasi coetanea della nuova matrigna –, che doveva fungere da saluto per le altezze imperiali. Si ha dunque a che fare con poesie d’occasione per la corte, con opere solenni su committenza che proseguono il ciclo con cui Goethe, due anni prima, aveva celebrato Maria Ludovica. Tuttavia, tono e stile sono decisamente cambiati. Non a una soltanto, bensì a tre persone si rivolge il poeta, ma questa volta il metro dei versi è uniforme. Goethe adotta infatti strofe di otto versi, vale a dire l’ottava rima, nota dall’epica rinascimentale italiana e da lui altrimenti utilizzata soltanto per occasioni solenni […]. La poesia dedicata all’imperatore celebra dapprima il suo vasto e fertile impero, e poi anche l’accogliente città di Karlsbad, dove arte e natura si congiungono a creare un clima salubre. […] Simili quadri di armonia politica e naturale – coronati dalla concordia familiare tra l’imperatore padre, la madre e la figlia, uniti per una piacevole vacanza – preparano la scena per la terza, più breve e però decisamente più importante poesia del ciclo, che è dedicata all’imperatrice di Francia, ma che in realtà parla di Napoleone. Hans Magnus Enzensberger [scrittore tedesco contemporaneo, n.d.r.] la descrive come «convenzionale poesia di corte», costituita da «strofe devote, fredde e piatte». In effetti, il suo costrutto linguistico liscio e senza rotture può apparire piatto, e il catalogo di imNapoleone presenta il figlio suo e di Maria Luisa d’Asburgo, Napoleone II, ai dignitari dell’impero, dipinto del XIX secolo. magini allegoriche risultare freddo. Chi tutF.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 «Ma se tutto è riuscito all’eroe che la sorte eresse a beniamino a lui più che a tutti imponendo ogni impresa mai enumerata dalla storia – più di quanto i poeti mai cantavano! – pure fin qui il sommo bene gli è mancato: ma ora che l’Impero è sicuro e compiuto ora potrà, felice, nel figlio radicarsi». IPERTESTO tavia non aspiri per forza alla profondità del sentimento o all’urgenza espressiva troverà qui l’esempio più nobile di stile impero letterario, forse l’unico equivalente della pittura di corte napoleonica, che esista in lingua tedesca: alta politica in versi. La poesia comincia molto al di sopra della sfera terrestre, nello spazio, tra le stelle. Il matrimonio di Napoleone con una principessa asburgica appare come un avvenimento cosmico. […] Questa fondazione storica universale adesso è consolidata e garantita per il futuro da un erede. […] Maria Luisa appare come una materna dea della pace, quasi una Madonna, e il verso finale fa dell’imperatore dei francesi un dispensatore di pace dai poteri assoluti. Colpisce, nelle ultime strofe, la triplice evocazione del figlio di Napoleone, che conferisce al sontuoso dettato del testo una misteriosa nota escatologica, pagana quanto cristiana, che rimanda di nuovo all’epoca augustea: non si può infatti non pensare qui al fanciullo divino della IV Egloga di Virgilio, che pone fine all’età del ferro e apre un’età dell’oro fatta di pace e di prosperità. In Virgilio egli «reggerà l’orbe pacato dalle virtù patrie» – pacatumque reget patriis virtutibus orbem. L’immaginario cosmico della poesia culmina dunque in una teologia politica. Ma il verso finale in realtà è un appello urgente, che persino nel momento in cui la poesia trovò impiego ufficiale – il 2 luglio del 1812 – non sembrava ancora del tutto vano: la campagna di Russia era iniziata solo da una settimana, e Napoleone era appena arrivato nella polacca Vilnius. «Ella, giunta un tempo eletta sposa per essere divina mediatrice, da splendida madre col bambino in braccio promuova una durevole, nuova unione; mentre il mondo si dibatte nelle tenebre schiarisca il cielo in eterno splendore! E grazie a Lei quest’ultima gioia ci tocchi: chi può tutto volere, voglia anche la pace!». Si tratta di versi grandi e significativi, l’unica apostrofe pubblica diretta di Goethe a Napoleone durante l’intero arco del suo dominio. Di tutto quello che ha detto e pensato di lui, altrimenti, è rimasta soltanto testimonianza privata in lettere e conversazioni, che sono divenute note pubblicamente solo molti anni dopo la morte di Goethe. G. SEIBT, Il poeta e l’imperatore. La volta che Goethe incontrò Napoleone, Donzelli, Roma 2009, pp. 165-169, trad. it. M. LUMACHE, P. SCOTINI Spiega l’espressione «Stile impero letterario». A quale figura sacra è paragonata l’imperatrice? Spiega l’espressione «Misteriosa nota escatologica, pagana quanto cristiana». F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 9 La Germania di fronte a Napoleone «E affinché la sua altezza allietando l’erede, si presceglie a garante Roma stessa. La dea, devota sulla culla del mare, di nuovo pensa al destino di un mondo. Ma che valgono i trofei di tutte le vittorie, dinanzi a un padre che nel figlio si compiace? Insieme godranno la felicità di chiudere Con mano pietosa il tempio di Giano». IPERTESTO B Il figlio di Napoleone sarà il re di Roma, e in tal modo la città del primo grande impero pacificato di tutta la storia mondiale diventa la custode della nuova pace attuale. Come Augusto, padre e figlio chiudono dopo un’epoca di guerre il tempio di Giano: 2 IPERTESTO La guerra di liberazione e il fenomeno del volontariato UNITÀ IV Il fenomeno del volontariato militare iniziò in Francia, al tempo della Repubblica. Per la prima volta, i soldati non combattevano in nome di un sovrano, ma per un ideale, per difendere il quale erano disposti a sacrificare la vita. Tuttavia, la Francia era un Paese unito da molto tempo, e l’ideale per cui si combatteva era di difficile definizione, in quanto patria e rivoluzione si sovrapponevano, in concorrenza reciproca. Nel 1813, invece, i giovani che si arruolarono nell’esercito prussiano (o addirittura diedero vita a reparti speciali, denominati Corpi franchi) affermavano di combattere per la patria, per la nazione tedesca. Poiché la Germania era frammentata e divisa, si trattava ancora di un’astrazione; quell’ideale, però, nell’arco di una generazione si sarebbe prepotentemente imposto e trasformato in realtà. POLITICA E CULTURA NELL’ETÀ NAPOLEONICA 10 Soldati dell’esercito prussiano in una illustrazione del 1815. Le particolari circostanze in cui furono combattute fecero sì che le guerre di liberazione tedesche contro Napoleone costituissero un ambiente elettivo per lo sviluppo del Mito dell’esperienza della guerra. Con tutto il suo entusiasmo per la patrie, la Francia era uno Stato nazionale costituito; non solo, ma uno Stato che aveva trionfato sul resto dell’Europa. La Prussia invece era occupata da Napoleone, e il suo re, Federico Guglielmo III, sembrava aver accettato quest’occupazione. Ma la sconfitta di Napoleone in Russia gli fece cambiare idea, e nel 1813 chiamò infine la nazione alle armi. I poeti e gli scrittori patrioti, che prima della guerra avevano patito frustrazioni e umiliazioni, poterono ora unirsi alla lotta nazionale, e celebrarla. La voce di poeti come Theodor Körner o Max von Schenkendorf, di scrittori come Ernst Moritz Arndt e di organizzatori come Friedrich Jahn, per citare qualche nome – tutti combatterono come volontari – si spinse fino a preconizzare [profetizzare, n.d.r.], al di là dei confini della Prussia, una Germania nuova e unita, rigenerata attraverso la guerra. Essi trasformarono l’appello alle armi del 1813 in un’insurrezione popolare basata sull’ardente aspirazione della Volksseele [l’anima del popolo, n.d.r.] all’unità tedesca. Questa cosiddetta insurrezione fu vista dai volontari come un appello populistico rivolto a tutti i tedeschi perché si unissero e formassero un’unica nazione, benché non vi fosse nessuna prova concreta a sostegno di quest’asserzione, se si eccettua il loro stesso entusiasmo e la loro stessa energia. Per molti di coloro che risposero all’appello del re, si trattò semplicemente di un’occasione per porre termine all’odiata occupazione francese: si trattò cioè di una guerra contro la Francia piuttosto che per la Germania. E altri poterono vedere nel conflitto la resurrezione e il rafforzamento della Prussia, piuttosto che la lotta per un Reich che non esisteva. Questi motivi non si escludevano reciprocamente, anche se la maggior parte dei volontari combatté una guerra contro la Francia e per la Prussia. Ma le generazioni successive, specialmente dopo la realizzazione dell’unità della Germania [dopo il 1871, n.d.r.], videro questo conflitto attraverso gli occhi di uomini come Körner e Arndt, scorgendovi dunque un’esemplare esplosione (Aufbruch, come venne definita) di quello spirito nazionale ch’esse volevano coltivare, e l’alba di una nuova epoca. Nella sua poesia Un appello alle armi (Aufruf, 1813), Theodor Körner esclama che le guerre di liberazione tedesche sono una crociata popolare, che non riguarda i re. Benché una dichiarazione del genere fosse in clamoroso contrasto con la realtà – dopo tutto, per- F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 G.L. MOSSE, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 19-26, trad. it. G. FERRARA DEGLI UBERTI Che ruolo ebbero effettivamente i re nella guerra di liberazione del 1813? Quale mito potente contestava loro il ruolo di guide della lotta? Quale importante riorientamento subirono nel 1813 le fedeltà di numerosi tedeschi? Quale rapporto si instaurò tra la nuova fede nella nazione (valore supremo per cui si doveva, al limite, sacrificare la propria vita) e la religione tradizionale? F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IPERTESTO IPERTESTO B 11 La Germania di fronte a Napoleone sino i volontari avevano aspettato che il re di Prussia proclamasse la guerra – Federico Guglielmo II dovette far fronte a questo mito potente. Egli provvide pertanto affinché il re figurasse al primo posto in tutte le iscrizioni patriottiche. «Per il Re e per la Patria»: così suonava il testo inciso sui monumenti ai caduti o sulle targhe commemorative nelle chiese. Ciò nondimeno, alcune iscrizioni sulle tombe di volontari caduti in battaglia menzionavano soltanto «la libertà e la patria», ignorando il re. Anche se la guerra in sé presa non fu, a rigore, una guerra di popolo, le fedeltà dei singoli subirono un riorientamento dalla dinastia alla patria. I diritti rivali della monarchia e della nazione non avrebbero mai conosciuto una piena riconciliazione. I principali strumenti impiegati dai volontari per diffondere il loro messaggio furono la parola e la canzone. Benché avesse una tradizione risalente assai addietro nei secoli, la poesia di guerra, con il suo messaggio politico, affermò la propria autonomia durante le guerre di liberazione. «Il poeta e il guerriero – scrisse intorno alla metà dell’Ottocento un critico letterario riandando alle guerre di liberazione – sono due tra le più nobili missioni che lo spirito del mondo affidi ai suoi beniamini, congiungendo in un’unica e medesima persona la lotta con la parola e la lotta con la spada». Il Romanticismo giocò il suo ruolo nella poesia nazionale, e lo stesso dicasi del retaggio pietista dell’interiorità, della ricerca di valori assoluti, di edificazione e illuminazione spirituale. Intorno alla metà dell’Ottocento, furono eretti monumenti a poeti e volontari come Körner, Schenkendorf e Arndt, laddove in precedenza quest’onore era stato riservato ai re, agli uomini di Stato e ai generali; e dopo l’unificazione tedesca siffatti monumenti si moltiplicarono. Nel titolo del volume di poesie di guerra di Körner – La lira e la spada (1814) – si vide un simbolo della lotta dei tedeschi per l’unità della nazione. […] L’idea che la guerra conferisse un nuovo significato alla vita, rendendola degna d’esser vissuta, fu ripetuta in poesia e nelle canzoni, in rapporto non soltanto con l’esperienza del cameratismo, ma anche con il sentimento dell’eccezionalità, così forte tra i volontari dalle guerre di liberazione in avanti. La guerra sottraeva i giovani alla routine della vita quotidiana e li inseriva in un ambiente nuovo, che per molti di loro significava la promessa di una missione da adempiere nella vita. La sensazione di trovarsi al di fuori della vita ordinaria riceveva poi una sanzione, una legittimazione religiosa ad opera della stessa Chiesa, giacché prima di partire alla volta dei loro reggimenti i volontari venivano benedetti in Chiesa. […] La cooptazione [acquisizione, n.d.r.] del simbolo e del rituale cristiani al fine di consacrare la vita e la morte del soldato avrebbe giocato un ruolo cruciale nel Mito dell’esperienza della guerra. Theodor Körner, per citare ancora una volta questo poeta popolarissimo, scrisse una canzone – destinata ad essere cantata durante la cerimonia della benedizione di un Corpo franco salesiano (1813) – in cui affermava che grazie al fatto ch’essi s’erano levati in sua difesa Dio stesso aveva salvato la patria. […] Giustificando il proprio arruolamento al padre, Theodor Körner scrisse che nessuno è troppo prezioso perché non si possa sacrificare la sua vita per la libertà e l’onore della nazione, ma che molti non sono degni di questo sacrificio.