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N° 11 - NOVEMBRE 2014 - CHESHVAN 5775 • ANNO XLVIII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
MEDIO ORIENTE
ISRAELE
ITALIA
IL TERRORISMO SI VINCE
AFFRONTANDOLO
DIFENDERE
LO STATUS QUO
GETTITO OTTO
PER MILLE
‫בס’’ד‬
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Non c'è Shabbat senza challà
Le ragioni per un giorno di riposo
Chi sei popolo ebraico?
FOCUS
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LASCIA
UN BUON SEGNO
TESTAMENTI
I progetti di Lasciti e Donazioni danno pieno valore
alle storie personali e collettive degli amici del popolo
ebraico. Un testamento è una concreta possibilità per
aiutare oggi e domani l’azione del Keren Hayesod.
FONDI
Il nostro buon nome dipende dalle nostre buone azioni.
Un fondo a te dedicato o alla persona da te designata,
è la migliore maniera di lasciare una traccia duratura
associandola ad un ambito di azione da te prescelto. I
temi ed i progetti non mancano.
Una vita ricca
di valori lascia
il segno anche
nelle vite degli altri.
Nel presente
e nel futuro.
PROGETTI
Il KH ha tanti progetti in corso, tra gli altri; progetti
per Anziani e sopravvissuti alla Shoah - Sostegno
negli ospedali - Bambini disabili - Sviluppo di energie
alternative - Futuro dei giovani - Sicurezza e soccorso
- Restauro del patrimonio nazionale. Progetti delicati,
dedicati, duraturi nel tempo. Di cui sei l’artefice.
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti Lasciti
e Fondi del Keren Hayesod Italia vi potrà dare
maggiori informazioni in assoluta riservatezza
Enrica Moscati - Responsabile Roma
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una storia
millenaria
KEREN HAYESOD
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EDITORIALE
È
una condizione molto
sgradevole quella di trovarsi
in un angolo, con le spalle al
muro. Non vi sono vie di fuga,
l’unico modo per uscire dall’impasse è
uno scatto in avanti, forte, veloce, però
non senza rischi. Questa metafora si
adatta alla situazione che Israele sta
vivendo. Non è una condizione militare:
da quando lo Stato ebraico fu fondato
è sempre stato accerchiato da paesi
e popoli o dichiaratamente nemici, o
tiepidamente dialoganti. Da un punto
di vista della ‘sicurezza’ quindi nulla di
nuovo, se non per il fatto che i nemici
di Israele sono oggi molto più forti,
dispongono di armi sofisticate – anche
non convenzionali – sono animati non
da un desiderio di riconquista delle
terre, non di riparare a torti subiti, ma
sostenuti da una ideologia religiosa
che non concede spazi di dialogo o
compromessi con “l’entità sionista”. Il
progetto di Hezbollah, Hamas, Fratelli
Musulmani, Isis, jihadisti, ayatollah
iraniani è assolutamente semplice: non
c’è spazio per Israele nella terra della
Mezzaluna, gli ebrei possono vivere
come ‘dimmi’ (cittadini protetti ma con
minori diritti), ma lo Stato degli ebrei
deve essere cancellato, che sia al di là
o al di qua della cosiddetta linea verde
del 1967. Il radicalismo islamico, con
forti componenti anche nella società
palestinese, non si accontenta della
riconquista della terra persa a seguito
della Guerra dei sei giorni, ma mira alla
conquista di tutta la terra persa con la
caduta dell’Impero Ottomano.
Questa aspirazione – che diventa
per i musulmani radicali, una jihad,
un comandamento divino – non può
conoscere compromessi, non può
essere oggetto di trattativa, tutt’al
più di una ‘hudna’, una tregua, che
viene accolta solo in una chiave tattica
(come insegna il Corano: l’hudna si
accetta unicamente quando si è in
condizioni di inferiorità; può essere
rotta in qualunque momento e serve
unicamente a riarmarsi per portarsi in
condizione di superiorità e riprendere il
combattimento).
In questa situazione senza alternative,
con Hamas che lentamente si riarma
beneficiando di milionarie elargizioni
dei Paesi Arabi del Golfo e con l’Isis
che annuncia l’istituzione del califfato
nel Sinai come "il primo passo sulla
strada dell'invasione di Gerusalemme",
ci si può meravigliare che le trattative
israelo-palestinesi siano ferme? E’
palese e comprensibile che Israele non
si fidi e voglia le garanzie e la sicurezza
che la cessione di nuovi territori
anziché portare la pace, non rafforzi gli
estremisti islamici.
Ci si aspetterebbe quindi che il mondo
– anche davanti alle immagini delle
violazioni dei diritti umani e della
violenza senza freni, a Gaza come in
tutti i Paesi islamici – comprendesse le
preoccupazioni del governo israeliano.
Sembrerebbe persino ovvio che le
diplomazie internazionali premessero
sull’Autorità palestinese perché
prenda le distanze dalle violenze, dal
terrorismo e dalla invocazione di una
guerra santa per liberare la spianata
delle moschee a Gerusalemme.
Invece Israele viene accusata – anche
dal suo principale alleato americano – di
essere paurosa, di non avere il coraggio
di fare la pace (l’amministrazione
Obama ha addirittura definito
Nehanyahu un "chickenshit", una ‘cacca
di gallina’, un "codardo" che pensa solo
alla sua sopravvivenza politica).
È questo il vero angolo nel quale
Israele è stato schiacciato: incapace
a spiegare le sue ragioni, vive un
crescente isolamento internazionale, ed
è costretto ad assistere al successo di
una diplomazia palestinese che porta
a casa crescenti riconoscimenti, senza
pagare alcun prezzo alla trattativa,
senza dover dare nulla in cambio. La
Palestina infatti ormai esiste, esiste
dal 2011 per l’Unesco, dal 2012 per
l’Onu come stato osservatore, esiste
per 138 Stati fra cui la Svezia. E non
basta davanti a questo processo di
riconoscimento ‘gratuito’ – fatto senza
stabilire, come la logica vorrebbe, quali
saranno i confini tra i due stati – a
questa enorme pressione che Israele
subisce, liquidare la situazione con
una battuta, come ha fatto il ministro
degli Esteri Avigdor Lieberman che alla
decisione di Stoccolma ha così reagito:
"Il governo svedese deve comprendere
che le relazioni in Medio Oriente sono
più complicate del montaggio dei mobili
di Ikea e che occorre agire in questo
settore con responsabilità e sensibilità".
È da questo angolo diplomatico che
Israele deve saper uscire, rompendo
l’accerchiamento, imponendo una sua
agenda e una sua opzione. Dall’angolo
si può e si deve uscire ma occorrerà
forza e determinazione.
SHALOM‫שלום‬
COPERTINA
C’È UN TEMPO PER IL SACRO
E UNO PER IL PROFANO
4
5
6
JONATAN DELLA ROCCA
L’ALTRO ZACHÒR
SHALOM HAZAN
SABATO: VIETATO LAVORARE.
MA È UN GIORNO
PROPRIO DI RIPOSO?
MICOL ANTICOLI
MEDIO ORIENTE
IL TERRORISMO ESISTE DA ANNI,
EPPURE NON LO SI VUOLE
RICONOSCERE
10
FIAMMA NIRENSTEIN
12
14
DIFENDERE LO STATUS QUO
È LA SOLA SOLUZIONE
UGO VOLLI
L’EUROPA E IL MEDIO ORIENTE:
UNA POLITICA ESTERA
DI TANTE PAROLE E ZERO AZIONI
GIORGIO ISRAEL
15
IL TERRORISMO SI VINCE
AFFRONTANDOLO
E NON SCAPPANDO
CLELIA PIPERNO
ISRAELE
ISRAELE O BERLINO?
LA SFIDA DEL BUDINO
16
ARIEL DAVID
PENSIERO
I FALSI EROI CHE PIACCIONO
ALLA GENERAZIONE
DEI NUOVI STORICI
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ANGELO PEZZANA
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25
CHI SEI POPOLO DI ISRAELE?
MICHAEL LAITMAN
OLTRE I CONFLITTI
DAVID MEGHNAGI
QUEGLI EBREI FUGGITI DALL’ITALIA
MA CON L’ITALIA NEL CUORE
ALESSANDRA FARKAS
Foto di copertina: Rebecca Mieli
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Israele in un angolo
3
COPERTINA
C'è un tempo per il sacro
e uno per il profano
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
S
4
Il significato del riposo dal lavoro
come liberazione dalle catene del tempo
habbat rappresenta il paradigma del tempo sacro. È il
giorno destinato alla famiglia, al riposo e alla spiritualità,
lontano dalla quotidianità professionale dei restanti sei
giorni. Una delle parole più eminenti "Kadosh" - scrive
Abraham Joshua Heschel, viene usata per la prima volta nella
Genesi, alla fine della storia della Creazione: "D-o benedisse il
settimo giorno e lo santificò".
Nel racconto della creazione a nessun oggetto dello
spazio viene attribuito il
concetto di santità, solo al
concetto di tempo sabbatico. Tanto inchiostro è stato
dedicato dalla tradizione
rabbinica a ciò. Mentre gli
studi scientifici, a cominciare dalla sociologia applicata al concetto di tempo, hanno approfondito le
teorie scientifiche sulla distinzione tra tempo sacro
e tempo profano: da Emile
Durkheim, uno dei padri
della sociologia, passando
per Norbert Elias, fino ad
arrivare, tanto per citarne
alcuni tra i più importanti,
agli studi di Mircea Eliade, Erich Fromm ed Eviatar Zerubavel. Nei
loro studi hanno messo in rilievo il concetto di tempo non visto
solo come una entità omogenea quantitativa, ma come abilità socioculturale di distinzione tra diverse qualità di periodi di tempo.
Lo stesso Durkheim, nella sua analisi dell'organizzazione sociale
della vita religiosa, ha sottolineato la fondamentale divisione bipartita del tempo in due parti distinte, reciprocamente esclusive,
essendo l'una dedicata all'attività profana di ogni giorno, e l'altra
consacrata al culto. Così scrive Durkheim nella sua opera fondamentale "Le forme elementari della vita religiosa": "…l'aspetto caratteristico del fenomeno religioso è il fatto che esso presuppone
sempre una divisione dell'universo conosciuto e conoscibile in due
generi che comprendono tutto ciò che esiste, ma che si escludono
radicalmente. Le cose sacre sono quelle protette e isolate dalle
interdizioni; le cose profane sono invece quelle a cui si riferiscono
queste interdizioni, e che debbono restare a distanza dalle prime.
Non esiste nella storia del pensiero umano un altro esempio di due
categorie di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l'una all'altra. L'opposizione tradizionale tra il bene e il
male non è nulla al confronto… Il sacro e il profano sono stati sempre e ovunque concepiti dallo spirito umano come generi separati,
cioè come due mondi tra cui non c'è nulla in comune…".
Il calendario ebraico è denso di questa contrapposizione tra tempo
sacro e profano: i sei giorni della settimana in rapporto al settimo
giorno, il tempo specifico per l'esercizio del sacerdozio e lo stesso
tempo consacrato al lavoro distinto dal tempo vano, profanazione
del dono vitale divino. Lo Shabbat è il collegamento con la creazione del mondo, dove D-o dopo i sei giorni della Genesi, si è astenuto
nel giorno successivo dal compiere qualsiasi opera. Scrive Erich
Fromm: "La Bibbia nella sua concezione del Sabato fa un tentativo completamente nuovo di risolvere il problema: arrestando ogni
intervento nella natura per un giorno il tempo è eliminato; dove
non c'è mutamento, né lavoro, né intromissione umana, non esiste
tempo. Invece di un Sabato in cui l'uomo si inginocchia davanti al
Signore del tempo. Il Sabato biblico è il simbolo della vittoria umana sul tempo... Il Sabato è il simbolo di uno stato d'unità fra l'uomo
e la natura e fra uomo e uomo. Non lavorando - cioè non partecipando al processo del cambiamento naturale e sociale - l'uomo è
libero dalle catene del tempo, anche per un solo giorno alla settimana".
In questa osservanza dettata nella Torah, gli ebrei
hanno mantenuto ininterrottamente nel corso della
storia questo filo che parte
dalla Creazione per legarsi al tempo messianico, di
cui, come afferma il Talmud, il settimo giorno è il
suo anticipatore spirituale. Come nota il sociologo
Zerubavel, nello Shabbat
non vi è mai interruzione
del tempo della Creazione,
infatti la tradizione rabbinica definisce il settimo
giorno nel suo arrivo "Moavé Sciabbat" - l'arrivo del
Sabato e la partenza con
"Mozzé Shabbat" - l'uscita del Sabato, non usando erroneamente
i termini inizio e fine. Perché il vero inizio per l'ebraismo è stato il
primo Shabbat della Creazione del mondo.
JONATAN DELLA ROCCA
Abraham Joshua Heschel ha dedicato
al significato dello Shabbat una delle sue
più belle e conosciute opere letterarie
"I
l Sabato", scritto da Abraham Joshua Heschel, rimane
una pietra miliare della saggistica ebraica. Uscito nei primi anni Settanta e tradotto in italiano da Elena Mortara
Di Veroli, è l'opera che ha diffuso al di là della cerchia degli addetti ai lavori composta da rabbini e teologi, studiosi e curiosi, i concetti basilari che si nascondono nell'osservanza del settimo
giorno. L'abilità di Heschel, che è stato per tanti decenni professore
di etica e mistica ebraica al Jewish Thelogical Seminary di New
York, è stata di aver descritto il messaggio rabbinico in maniera
chiara e semplice, iniziando un filone di letteratura biblica su temi
che fino ad allora non raggiungevano le grandi masse. E' a lui che
dobbiamo la divulgazione del concetto che "l'ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo", tale da fargli affermare "Lo spirito mitico si aspetterebbe che dopo aver fondato il cielo e la terra, D-o creasse un luogo sacro - una montagna
o una fonte sacra - sul quale erigere un santuario. Invece sembra
che per la Bibbia conti più di tutto la santità del tempo, il Sabato".
Su questa strada interpretativa Heschel descrive nei diversi capitoli dell'opera il concetto del Sabato ebraico inteso come "il dono più
prezioso che l'umanità abbia ricevuto dal tesoro di D-o". Da qui con
sensibilità e competenza, ricordiamo che l'autore proveniva da una
illustre famiglia ebraica ortodossa di grandi chassidim, imparen-
L'altro Zachòr
Lo Shabbat contrapposto ad Amalek,
ovvero due modi diversi di ricordare
tata con le più famose dinastie di Tzaddikim dell'Europa orientale, nelle diverse pagine coglie il significato sabbatico,
"quale giorno di astensione dal lavoro,
non è deprezzamento ma valorizzazione del lavoro, una divina esaltazione
della sua dignità. Ti asterrai dal lavoro
il settimo giorno, è il seguito del comandamento "Per sei giorni lavorerai e farai
tutta l'opera tua; ma il settimo giorno
è Sabato dinnanzi al Signore D-o tuo'.
Come ci viene comandato di osservare il
Sabato, così ci viene comandato di lavorare". Così riesce a trasmettere al lettore
il significato sabbatico nel concetto storico dell'uomo di ogni tempo
immerso nel travaglio quotidiano della società di appartenenza che
ritrova nello Shabbat "la nostra sorgente e il nostro punto d'arrivo…
giorno di indipendenza dalle condizioni sociali".
Nell'articolazione esistenziale della presenza di un giorno settimanale che pone unica la relazione Uomo-D-o, Heschel integra midrash e Bibbia, commento a narrazione, in un mosaico che esalta il
messaggio divino alla portata e alla comprensione del lettore. Tutta
l'opera è permeata da una visione dello Shabbat come intuizione
dell'eternità che viene offerta all'ebreo quale assaggio della vita
messianica, in cui ritrova la sua identità originaria.
J.D.R.
essendo i due in netta contrapposizione. Non possono, come dice
il Midrash, coesistere.
Torniamo alla citazione. "Gli rispose Moshè: Non si può paragonare un bicchiere di conditum (vino speziato) a un bicchiere di
aceto; tuttavia questo è un bicchiere e quello è un bicchiere. Ricorda per osservare e santificare il giorno dello Shabbàt come è
detto 'ricorda il giorno dello Shabbàt per renderlo sacro' e questo
[Amalèk] è ricordato per essere punito".
Forse, per approfondire, si potrebbe suggerire che nella sua risposta Moshè voleva delucidare che esistono due modalità di
zachòr-ricordo.
Ci sono alcune cose che si ricordano con piacere ed entusiasmo
ed è questo il tipo di ricordo da applicare allo Shabbàt. Altri ricordi vanno tenuti molto fortemente per il timore di non decadere in
un certo tipo di comportamento o di mentalità, ma sono ricordati
per essere evitati e quindi il ricordo pur essendo d'obbligo non è
piacevole ed entusiasmante.
Il Midrash sceglie l'esempio del vino speziato (una bevanda molto pregiata all'epoca) e l'aceto. E' ovvio che il vino è il liquido preferibile tra i due ed è quello che è consumato con piacere. A volte
però bisogna consumare l'aceto, come medicinale (come veniva
adoperato) o quant'altro, ma non è certo un'esperienza piacevole.
Il ricordo-zachòr dello Shabbàt è quello che si mette in atto con
entusiasmo, con gioia e con piacere. Il ricordo di Amalèk, d'altro
canto, lo si tiene per forza maggiore: bisogna ricordare anche che
c'è chi nega il Creatore e bisogna guardarsi dal cadere in quella
trappola.
Nella società odierna siamo più abituati a sentire lo "zachòr" legato al male, alla Shoah, che lo "zachòr" dello Shabbàt. E' chiaro
però che l'ebraismo vivrà sulla base di esperienze positive e ricordi
piacevoli. Mentre lo "zachòr" di Amalèk è anch'esso una mitzvà, è
opportuno tenere presente che ci ricorda cosa non fare. Lo "zachòr"
dello Shabbàt, invece, è quello positivo e quindi quello sul quale
dovrebbero concentrarsi la maggior parte delle nostre forze.
"Zachòr" per continuare ad esistere ebraicamente!
SHALOM HAZAN
Direttore di Chabad-Lubavitch di Monteverde
(Tempio Colli Portuensi, Gan Rivkà)
L'idea principale dell'articolo è adattata
dall'opera Likuté Sichòt del Rebbe di Lubavitch
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
"Z
achòr! - Ricorda!" Parola che conoscono in molti per
le connotazioni legate al ricordo del passato, alle
sofferenze subite dal popolo ebraico e soprattutto
alla Shoah. Questo "zachòr" è appunto molto conosciuto ma vi è anche un altro zachòr.
Narra un'antica fonte (Pirké deRabbì Eli'èzer): Moshè disse
"Ricorda ciò che ti fece Amalèk per la strada quando sei uscito dall'Egitto". Gli ebrei gli dissero: «Moshè Rabbènu, un verso
dice "zachòr-ricorda ciò che ti fece 'Amalèk" e un altro verso dice
"zachòr-ricorda il giorno dello Shabbàt per renderlo sacro"; come
potranno coesistere entrambi? Questo zachòr e quel zachòr?»
I maestri spiegano il senso della domanda. Effettivamente è
come se il Midrash dicesse che tra questi due ricordi vi è una
contraddizione di base. Lo Shabbàt rappresenta la fede in D-o
che ha creato il mondo in sei giorni e il settimo giorno per il riposo, come indicato nella Torà stessa e nella liturgia dello Shabbàt.
Amalèk, d'altro canto, rappresenta il negare la presenza divina
nella peggiore delle maniere, quella deliberata e voluta.
I precetti della Torà possono essere suddivisi in tre categorie generali quali quelli da mettere in atto concretamente, quelli legati
invece alla parola e quelli che rimangono nel mondo del pensiero.
Il ricordo, il precetto di "zachòr", appartiene a quest'ultima categoria visto che, a parte gli aspetti concreti dei relativi precetti,
l'invito è proprio a ricordare e quindi di mantenere in mente un
pensiero o, meglio, un modo di pensare. Da qui nasce il problema.
A quale di questi due "ricordi" bisogna dedicare il proprio pensiero, la propria concentrazione e meditazione? Bisogna dedicare
più energia a ricordare il Sign-re oppure a ricordare chi Gli si
contrappone?
Certo, bisogna ricordare Amalèk per poter cancellare il suo nome
(ovvero il suo effetto) ma alla fine ci si occupa di chi si contrappone a D-o! Inoltre, se ci si concentrasse su questo tipo di ricordo si
verrebbe sicuramente a minimizzare la concentrazione sull'altro
5
COPERTINA
Sabato: vietato lavorare.
Ma è un giorno proprio di riposo?
Bisogna chiarire il concetto di lavoro
faccia tutti i piani da solo senza l'intervento di un ebreo può essere
preso, e poi il complicato concetto del goy per lo shabbat.
Chi davvero abbia voglia di comprendere l'essenza di questo fantastico regalo divino, si sciolga da tutti questi concetti, dai dubbi e
dai dettagli, e si prepari a salire spiritualmente un gradino. Quelli
che seguono sono soltanto spunti di riflessione su un concetto così
F
iumi di inchiostro, lunghi trattati, interi libri ed articoli per
tentare di spiegare cosa sia lo Shabbat e quale sia il suo
significato più profondo. La verità è che se ne possono
tracciare linee guida e disegni sfocati, ma soltanto chi lo
celebra come D-o comanda (e stavolta non è un modo di dire) può
comprendere realmente perché i saggi parlano dello Shabbat come
di un dono che Hashem ha voluto fare all'uomo. Definirlo "il giorno
del riposo" - questa è l'espressione che si sente più spesso da chi
cerca di spiegare cosa sia il sabato ebraico - appare estremamente
riduttivo, almeno fintanto che non si capisca la vera accezione di
riposo per l'ebraismo.
Di Shabbat l'ebreo, dopo una dura settimana di lavoro, è costretto
a farsi chilometri a piedi se ad esempio non ha un tempio vicino
casa o dovrà farsi decine e decine di gradini a piedi se abita al
quarto o al quinto piano; dunque, non era questo il giorno del riposo? Non merita forse un lavoratore o una donna che abbia sgobbato per sei giorni, di prendere la macchina o l'ascensore? Prima
di rispondere, vediamo ancora qualche altro aspetto dello Shabbat
che non quadra ai più diffidenti. Di sabato ci caliamo in uno spirito
che viene considerato l'eccesso dell'anacronismo: nel 2014, nell'era
digitale, quella in cui i bambini insegnano ai grandi come usare gli
strumenti tecnologici che tutti hanno in casa, ci si astiene addirittura dall'utilizzare un interruttore per accendere la luce. Perché,
avevano forse l'elettricità i nostri avi quando D-o ordinò di rispettare lo Shabbat? Terzo ed ultimo punto da chiarire: come la si mette
con quegli escamotage, con quelle regole che sembrano aggirare
le norme più che rispettarle? A Roma non si può trasportare ma a
Yerushalaim si; le chiavi di casa possono essere trasportate solo
se diventano parte essenziale di una cinta, in modo che se si levasse soltanto una chiave, si spezzerebbe la catena; l'ascensore che
Quando l'"altro" entra
in casa di Shabbat
I non ebrei, alcuni anche personaggi
famosi, che sono chiamati a svolgere
lavori che gli ebrei non eseguono
per rispetto del riposo sabbatico
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
G
6
eneralmente un ebreo non può chiedere ad un non
ebreo di compiere alcuni tipi di lavori creativi (melachot) che halachicamente sono vietati a lui stesso durante lo Shabbat. Tuttavia esistono contesti e realtà
halachiche dove il lavoro di un goy di shabbat è permesso, non in
virtù di un raggiro della halachà, ma proprio perché la logica della
normativa ebraica lo permette.
Elementi che permettono il lavoro svolto da un non ebreo durante
lo Shabbat e le feste sono per esempio il tipo di contratto con il
quale il non ebreo è inquadrato, l'assenza diretta di un beneficio
per il lavoro che il non ebreo svolge di Shabbat, il tipo di lavoro
che egli compie, se vietato dalla Torà o per decreto rabbinico: insomma molte sono le logiche e le riflessioni halachiche che possono portare all'esistenza di quello che in yiddish veniva chiamato
lo "shabbos goy", il goy di Shabbat. Quindi per poter assumere
uno shabbos goy dobbiamo per forza di cose porre domande ad
un rabbino. Guardando alla storia degli shabbos goym scopriamo
nomi interessanti e personaggi famosi di grande livello che per
una parte della loro vita hanno lavorano tra le pieghe della santità
vasto che è bene approfondire con l'aiuto di un rabbino e con lo
studio dell'Halachà, l'insieme di leggi pratiche che regolano la vita
di ogni ebreo.
Un concetto fondamentale per comprendere lo Shabbat è quello della Menuchà, del riposo; se pensiamo ad un uomo o ad una
donna che svolgono lavori pesanti fisicamente, come il contadino
o l'operaio, cogliamo subito quale sensazione di sollievo possano
trovare astenendosi dal lavoro, ma per un notaio che ogni giorno prende la macchina per recarsi in ufficio, o per un politico con
l'autista, il sabato potrebbe rivelarsi addirittura più impegnativo
degli altri giorni. Questo avviene perché il riposo dello Shabbat è
prima di tutto un riposo spirituale e psicologico; è un calarsi in una
dimensione distante dalla materia, un lasciarsi alle spalle i problemi legati al mondo materiale, per poi riprenderli all'inizio della
del giorno dello Shabbat.
Il generale Colin Powell, Segretario di Stato americano dal 2001
al 2005 è stato uno shabbos goy durante i suoi anni giovanili,
così come il politico italo americano Mario Cuomo, governatore di
New York dal 1979 al 1982, il regista Martin Scorsese e persino il
grande Elvis Presley.
In una realtà americana ed in special modo newyorkese dove i
confini tra i quartieri italiani, ebraici, irlandesi fino agli anni del
1970 erano netti eppure così deboli l'osmosi culturale ed i punti di
incontro tra ebrei e non ebrei hanno prodotto anche questa intimità quotidiana della quale lo shabbos goy è un prodotto. Perché
di fatto lo shabbos goy non è solo una dimostrazione halachica
di riflessione ed influenza rabbinica rispetto ad alcune esigenze
pubbliche di sicurezza o di gestione del riscaldamento di una sinagoga o di un luogo di culto, bensì lo shabbos goy è un'intima
presenza che gode la fiducia totale della comunità che lo assume
e che dà a lui, di Shabbat, pieni poteri sulla cosa pubblica ebraica,
sui locali comunitari, sul bene comunitario stesso.
Sono certo che nella memoria di molti ebrei italiani, specie di
quelli nati in piccole o medie comunità, esiste l'immagine dello
shabbos goy-portiere-manutentore-aiutante che apriva o apre il
cancello elettronico di Shabbat, che accende il riscaldamento del
Tempio, che conosce tutti ed è conosciuto da tutti in una osmosi
affettiva che va ben oltre le competenze rabbiniche.
Forse lo shabbos goy è il vero punto di contatto tra una realtà
ebraica ed una realtà non ebraica, perché ci si incontra quando la
prima chiede aiuto e la seconda offre il proprio lavoro ben cosciente di avere un ruolo che seppur tecnico sale in alto, molto in alto.
P. P. P.
Le 39 Melachot, i lavori proibiti di sabato
1 Arare
2 Seminare
3 Mietere
4 Formare covoni
5 Trebbiare
6 Ventilare (le biade)
7 Selezionare
8 Setacciare
9 Macinare
10 Impastare
11 Cuocere
12 Tosare
13 Sbiancare
14 Pettinare filati greggi
15 Tingere
16 Filare
17,18,19 Operazioni di tessitura
20 Separare in fili
21 Fare un nodo
22 Disfare un nodo
23 Cucire
24 Strappare
25 Tendere trappole o cacciare
26 Macellare
27 Scuoiare
28 Conciare pelli
29 Levigare pelli
30 Rigare
31 Tagliare secondo forma
determinata
32 Scrivere
33 Cancellare
34 Costruire
35 Demolire
36 Accendere il fuoco
37 Spegnere il fuoco
38 Dare l’ultimo colpo di martello
a un oggetto di nuova
costruzione
39 Portare oggetti da una
proprietà privata a una
pubblica (o viceversa)
fare, non lo può fare oggi, come non poteva farlo nell'antichità, quando lo schiavo era
considerato un oggetto senza alcun diritto.
È davvero così difficile cogliere la grandezza
del concetto sabatico?
Nonostante tutte le splendide spiegazioni
sociali e spirituali che possiamo trarre dalle
lezioni dei maestri sullo Shabbat, sarebbe
comunque una mancanza di serietà non ricordare che la prima ragione per cui gli ebrei
debbano rispettare l'astensione sabatica da
ogni opera, è che si trova scritto sulla Torah.
A questo non si sfugge; si possono ricercare
tutte le ragioni, dalle più profonde alle più
superficiali, ma i saggi insegnano "Naasè ve
nishmà" fai, osserva, e soltanto dopo cerca
di capire e approfondisci. Passando quindi
all'atto pratico, alla base dell'osservanza dello Shabbat vi è il concetto di Melachà, cioè l'opera da cui ci si deve
astenere. Nella Torah scritta si legge ‫ל ֹא ַתעֲ ֶש ׂה כָ ל ְמ ָלאכָ ה‬, non farai nessuna opera, ma che cosa si intenda per opera e quali siano
le regole pratiche per rispettare lo Shabbat in modo corretto, si
scopre soltanto attraverso lo studio dell’Halachà, parte fondamentale della Torah orale. Le "attività" (Melachot) da cui ci si deve astenere di sabato sono 39 e sono strettamente legate alla costruzione
del Mishkan, il Santuario costruito nel deserto che conteneva le
Tavole della Legge; da queste, la tradizione orale ha poi sviluppato le minuziose regole per vivere lo Shabbat in maniera corretta
anche ai giorni d'oggi. È evidente che con il passare dei secoli i
Maestri abbiano dovuto affrontare la questione del progresso e
dello stile di vita moderno e dove si può si agevola l'osservanza,
ma chi pensa di poter giudicare le decisioni rabbiniche con la razionalità di chi non ha mai studiato i lunghi trattati di Mishnà, è
davvero fuori strada, tanto che è impossibile in questo stesso articolo, addentrarsi nel merito delle Halachot di Shabbat.
Chiunque voglia provare in ogni caso ad immergersi nell'atmosfera sacra del settimo giorno, si renderà conto che davanti a quella
sensazione di libertà e di Menuchà, ogni dubbio sulla sensatezza
del rispetto del sabato sfuma per dare spazio ad una sola grande
verità: che Shabbat è il miglior regalo che D-o potesse fare all'uomo e alla donna, perché ne hanno entrambi un grande bisogno. Al
giorno d'oggi più che mai.
MICOL ANTICOLI
ANNGIGLI LAB
RE - INVENT YOURSELF
Bat Mitzvà
ANNGIGLI LAB
ROMA - Via Cola Di Rienzo, 267 - Tel. 06 3210220
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
settimana successiva con più energia e più
grinta, perché è questo che fa l'osservanza
dello Shabbat: ricarica la mente e lo spirito.
Nonostante l'ebraismo veda di buon grado
l'innovazione e lo sviluppo delle tecnologie,
non si può nascondere che queste rappresentino - oltre a delle componenti fondamentali del nostro quotidiano - delle distrazioni
incessanti e insistenti. Si pensi ad esempio
alla voce della TV a tavola. Quella bellissima giornalista racconta notizie interessanti
e aiuta ad informarsi sui fatti di cronaca, ma
quali storie in più racconterebbe un figlio se
fosse spenta? Quanti pensieri, riflessioni e
discorsi vengono interrotti ogni giorno dallo squillo del telefono o dalla suoneria dei
messaggi a cui non sappiamo resistere? In
quel giorno scompare magicamente quella
sensazione di dovere verso le schiavitù imposte da ogni società
di ogni tempo.
L'uomo è arrivato a dominare la natura, tanto da poterla distruggere e non è raro che qualcuno superi i limiti della civiltà con
sentimenti di onnipotenza e pensando di realizzare o distruggere qualsiasi cosa si voglia. Ecco, lo Shabbat è anche lo strumento attraverso il quale l'ebreo riconosce D-o come Creatore del
Mondo e come Detentore di tutto ciò che l'uomo ha soltanto in
prestito, comprese la creatività e tutte le abilità fisiche e intellettive. Questo non significa però che il lavoro abbia scarso valore
nella concezione ebraica; al contrario, il lavoro e la fatica sono
un diritto e un dovere della persona, la rendono valorosa e ognuno deve dare il massimo durante tutti i sei giorni, a patto che il
settimo ci si fermi per ricordare che le persone devono essere in
grado di gestire le attività e di controllarle, perché se è il lavoro
a prendere il sopravvento sulla vita dell'uomo, questa potrebbe
diventare un'ossessione e sgretolare quanto di buono e genuino
c'è intorno ad esso.
È interessante inoltre, come lo Shabbat sia stato forse il primo
elemento di bilanciamento sociale della Storia: tutta la settimana
ognuno ha il proprio ruolo all'interno della società, chi impiegato,
chi datore di lavoro, chi famoso, chi anonimo, chi ricco e chi povero, ma di Shabbat si torna ad essere tutti uguali. Si mette da parte
il possesso, la materia, e tutto ciò che resta è l'aspetto spirituale,
lo studio, gli affetti. Di Shabbat il re non può dire al suddito cosa
7
COPERTINA
Un solo popolo, un solo Shabbat
È il motto del movimento “Shabbat Israelit”,
che con motivazioni più sociali che religiose vuole
riunire attorno alla stessa tavola per il kiddush
famiglie israeliane di laici e religiosi
“E
sembra un Sabato qualunque uno Shabbat israeliano, il peggio sembra essere passato”…
Potrei iniziare questo articolo parafrasando questa canzone pop italiana di Sergio Caputo e la cosa
avrebbe il suo senso perché il 24 ottobre 2014 per la seconda volta, dopo un anno, il progetto "Shabbat Israelit" trova di nuovo uno
spazio di espressione. Molte sono le associazioni che hanno reso
reale il progetto, dalle organizzazioni rabbiniche modern orthodox
come Bet Hillel, alla organizzazione Iachad che lavora per diminuire ed abbattere le distanze tra il mondo religioso e quello laico, tra
hilonim e datiiim.
Come si abbattono i confini in una società così radicalizzata come
quella israeliana? Si abbattono a tavola, perché come per tutti i
figli del Mediterraneo il cibo è il primo veicolo di incontro. A tutti i
livelli sociali, più di 6000 famiglie si sono sedute insieme lo scorso
anno per celebrare una cena di Shabbat condivisa, per dividere
un kiddush, per incontrarsi in una cornice certamente tradizionale
ma con l'approccio di una intera gamma di colori ebraici diversi dal
religioso al laico, con tutto quello che esiste tra le due definizioni.
"Un solo popolo, un solo shabbat" questo è il motto del movimento "Shabbat Israelit", per il quale il senso dello shabbat condiviso
sembra avere scopi sociali molto più forti di quelli religiosi. Non
ci si incontra per fare in modo che più persone conoscano ed apprezzino lo Shabbat ma ci si incontra per sfatare miti, pregiudizi,
dicerie che scorrono a fiumi nel solco che separa i religiosi dai non
religiosi e ci si incontra di Shabbat in quanto valore e momento
culturale, storico, spirituale e tradizionale comune.
Materialmente la costruzione di questi ponti sociali passa per gli
inviti che ognuno dei partecipanti deve inviare all'intera società
che lo circonda, dal collega di lavoro al cugino lontano, sfruttando
questa occasione per mostrarsi gli uni agli altri in una dimensione
conviviale e rilassata, senza fronti ed eserciti schierati. Lo stesso
Rav Harashi David Lau ha definito lo "Shabbat Israelit" come "uno
L'Havdalà: i riti e la storia
della cerimonia che conclude
il Sabato
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Per distinguere e separare la fine
del giorno festivo dall’inizio
di quello lavorativo
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C
ome l’entrata dello Shabbat deve
essere accompagnata da determinati riti (l'accensione delle candele e il Kiddush), così anche la sua
uscita, con una cerimonia chiamata Havdalà.
Havdalà, in ebraico significa "separazione"
proprio perché separa lo Shabbat dai giorni
feriali (dal verbo badàl: dividere; separare);
è un rito che comprende quattro berachot:
la prima sulla coppa del vino "Borè Perì Ha
Gafen”, la seconda su delle erbe profumate
“Borè minè vesamin”, la terza sulla luce del
fuoco “Borè meorè ha esh” e l’ultima sulla
divisione fra Israele e gli altri popoli, la Berachà Ha Mavdil (che distingue).
L'origine dell'Havdalà si trova nei primi
versi del libro di Bereshit, quando H. crea
una luce primordiale prima dello Shabbat
dei valori morali più grandi perché abbatte divisioni tra diversi
luoghi sociali, costruisce unione ed avvicina i cuori del popolo
ebraico. Un'occasione per l'unità della società israeliana, perché
non esiste forza più grande dell'unità e per questo invito le famiglie israeliane ad invitare i vicini ed i conoscenti che abitano nei
pressi e di non indugiare". Colpiscono, nelle parole del rav Lau,
alcune riflessioni che distanziano in parte il concetto di "Shabbat
Israelit" da quello dello Shabbat Project: anche per rav Lau il primo
obiettivo è la società israeliana che deve beneficiare dello Shabbat
come incontro sociale, prima ancora che la trasmissione spirituale
dello Shabbat. Bisogna anche notare che rav Lau propone di invitare i vicini e gli amici locali in modo tale che nessuno sia costretto
a guidare di Shabbat per condividere la cena del Venerdì. Ma non
solo i rabbini hanno benedetto lo “Shabbat Israelit”, inviti apartitici fioccano come neve ed in questo modo di fronte allo stesso
tavolo si incontrano i parlamentari di Yesh Atid con quelli di Meretz e di HaBait HaYehudi, come se in Italia ad un annuale pranzo
domenicale Renzi vada a casa della Santanchè. Pare che una volta
Achad Haam (Asher Zvi Hirsch Ginsberg) uno dei padri del Sionismo abbia detto: “Più che il popolo ebraico ad osservare lo Shabbat è stato lo Shabbat che ha preservato il popolo ebraico." Con
“Shabbat Israelit” possiamo dire che lo Shabbat prova a salvare
tutta la società israeliana dal rischio di incomunicabilità.
PIERPAOLO PINHAS PUNTURELLO
per separarla dalle tenebre. Adamo si accorge di questa luce solo dopo lo Shabbat
e attraverso il rito che diventerà poi l'Havdalà si separa da questa luce e si prepara a
rientrare nel mondo della produzione, proclamando con l'accensione del fuoco e la
rispettiva Berachà che grazie allo Shabbat
vorrà portare avanti l'opera della creazione
per tutta la settimana, come voluto da D.
I Maestri spiegano che questa separazione
fra luce e tenebre non corrisponde esattamente alla distinzione del giorno dalla notte,
ma ha tutt’altro significato: “D. vide che gli
empi non sarebbero stati degni di godere
della luce e perciò la pose in disparte per i
giusti, in vista del mondo futuro". Le tenebre
per tanto non rappresenterebbero la notte,
ma il buio rimasto nel mondo terrestre dopo
che D. ha tolto quella luce destinata ai giusti
nell'Olam Abbà. Secondo la tradizione ebraica un po’ di questa luce tornerebbe nel cuore
dell’uomo durante lo Shabbat.
Esistono due tipi di Havdalà: l'Havdalà
nella Tefillà che si recita la sera di shabbat nella quarta benedizione dell'Amidà
e l'Havdalà sul calice di vino che prevede
la lettura delle quattro berachot. In base
alle parole di Rambam, il rito dell'Havdalà
non richiede atti specifici; è sufficiente un
riconoscimento verbale della differenza
fra lo Shabbat e gli altri giorni: secondo il
Talmud Bavlì infatti, originariamente l'Havdalà consisteva solo in un ringraziamento
a D. per aver separato la luce dalle tenebre,
in seguito sono stati introdotti i diversi riti
del vino, delle erbe profumate, ecc.
Prima di recitare le quattro berachot, è uso
ricordare e pregare il profeta Elia affinché
venga ad annunciare l'arrivo del Mashiach:
"Io, primo a Siòn, annuncerò: Eccoli qua.
E darò a Gerusalemme un annunciatore"
(Isaia 41°, 27). Il profeta non giungerebbe
mai di Venerdì perché interromperebbe la
preparazione dello Shabbat, ecco perché
questa preghiera va recitata al termine di
quest'ultimo.
Le persone che hanno la possibilità di farlo dovrebbero preparare il Melavè Malkà,
il commiato dalla regina, un pasto per accomiatarsi dallo Shabbat come fosse una
regina.
GIORGIA CALÒ
Un giorno di riposo rispettato dagli ebrei di 121 paesi
S
abato 25 ottobre, gli ebrei di
circa 121 paesi diversi, si sono
uniti per rispettare insieme lo
Shabbat. L'idea di intraprendere questa esperienza è nata un anno fa
in Sudafrica, dove gli ebrei di diverse
comunità si sono riuniti per osservare
insieme, anche per la prima volta nella
vita, un unico Shabbat. Questa iniziativa,
che nel progetto pilota dello scorso anno
ha raccolto un gran numero di adesioni,
nasce da Shabbos Project, un movimento che si basa su cinque fondamenti:
l'unione, il potere dello Shabbat, un movimento sociale, un'esperienza intensa,
uno shabbat. L'insieme di questi princîpi
mirano a far sentir parte integrante di un
unico popolo ogni ebreo prescindendo
dalle divisioni e visioni ideologiche e politiche per un lasso di tempo limitato ma
intenso, in cui ognuno può apprezzare e
vivere l'atmosfera suggestiva dello Shabbat vivendolo così come si è mantenuto
nel corso degli anni, spezzando il ritmo
monotono della quotidianità e della tecnologia che lo caratterizza.
In tutti i paesi coinvolti si sono svolte delle attività per donne, ragazze, uomini e
bambini per prepararsi ad accogliere nel
miglior modo questo shabbat: preparazione delle challot, lezioni di Torah, Kabalat shabbat nei Batè haknesset, seudot di
shabbat e havdalot-concerto: insomma,
tutto ciò che ogni singolo ebreo dovrebbe
sempre fare per accogliere lo shabbat ma
moltiplicato per migliaia di persone. Un
momento in cui riflettere, meditare, risvegliare la propria anima ebraica, ricaricarsi
delle energie spese durante la settimana
e riscoprire anche solo il piacere dello stare con la propria famiglia
attorno alla tavola di shabbat. Questo è stato un momento in cui
ognuno ha potuto dare una "aggiunta" al proprio shabbat anche
solo compiendo una mitzvà in più rispetto al solito. Per questo
evento, il movimento Shabbos Project ha ideato un sito internet
(www.theshabbosproject.org) in cui, oltre ad avere informazioni e
dettagli su questa iniziativa, sullo shabbat in genere e sugli eventi organizzati
in tutti i paesi che hanno preso parte a
questa manifestazione, permette anche
di poter essere d'aiuto nel poter portare questo shabbat nelle proprie città e
altrove, dando la possibilità a chiunque
di diventare un affiliato con il compito
di pubblicizzare questo progetto in più
luoghi possibili, un ospitante a cui viene data la possibilità di ospitare una o
più persone durante questo shabbat, per
poter compiere la mitzvà dell'hachnasat
orchim, oppure una guida: una persona
che "prende l'incarico" di aiutare un altro
ebreo che non l'ha mai fatto, ad osservare lo shabbat.
Anche l'Italia ha partecipato attivamente
a questo evento: non solo le grandi realtà
ebraiche di Roma e Milano si sono mobilitate attivamente nell'organizzazione di
iniziative rivolte agli iscritti delle proprie
comunità, come cicli di lezioni di ebraismo, pasti di shabbat nei diversi templi
e diffusione sui social network di video
"promozionali" in cui diversi personaggi
di spessore hanno invitato i propri correligionari ad osservare questo shabbat, ma
anche le piccole comunità si sono unite
nel prendere parte all'evento. Questa iniziativa ha dato modo di dimostrare che
Am Israel, il popolo d'Israele, non è unito
e solidale solo nei momenti di allerta in
cui è coinvolta Israele, ma ha dato la possibilità di dimostrare l'unione di un solo
popolo sotto un'unica identità ebraica,
spingendosi oltre le barriere ideologiche
e le distanze fisiche.
YAEL DI CONSIGLIO
Foto: Rebecca Mieli
Shabbat Project, ovvero tutti
insieme appassionatamente
La grande infornata delle Challot
n occasione dello “Shabbat Project”
del scorso 24 ottobre, evento che
ha coinvolto le Comunità Ebraiche
di oltre 212 tra città e paesi del
mondo, è stato organizzato un incontro per preparare insieme le Challot.
Si è tenuto all'interno del Palazzo della Cultura, e hanno collaborato grandi e piccini, le Scuole della Comunità
Ebraica di Roma, l'ADEI, le Moròt, ed è
intervenuto il Rabbino Capo Rav Di Segni. Sandra Sabatello ha portato la sua
esperienza per insegnare le delicate
procedure della preparazione, dall’importanza del setaccio, alla separazione
delle farine, dall’ordine in cui devono
essere aggiunti gli ingredienti, alla
creazione degli intrecci più disparati.
La Challa, simbolo della donna, del riposo, della fine della settimana, ma soprattutto del dono che le madri ebree
di tutto il mondo vogliono regalarsi e
regalare alle proprie famiglie, è un elemento irrinunciabile per la tradizione
dello Shabbat, una tradizione che in
questo giovedì di fine ottobre è stata
trasmessa con gioia ai bambini delle
nostre scuole. Un pomeriggio per respirare tutti insieme l'aria di questa
iniziativa mondiale e per condividere
lo spirito di questo "Shabbat Project"
che è davvero entrato nel cuore di tutti noi.
REBECCA MIELI
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I
Non è un vero Shabbat se non c'è il pane a treccia
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MEDIO ORIENTE
Il terrorismo esiste da anni,
eppure non lo si vuole riconoscere
È una belva feroce che non si ferma con la trattativa politica. La povertà, il disagio,
l'oppressione, l’ingiustizia sono tutte scuse: chi uccide civili vuole solo scatenare la paura e il terrore
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J
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ohn Kerry ha fantasticato, per poi dichiararsi pentito, sul
possibile nesso fra il conflitto israelo-palestinese e il terrore
dell'ISIS. E le fantasie di un ministro degli Esteri americano
hanno il loro peso. In questo caso, Kerry ha fatto un bel regalo ai terroristi, ha commesso un'imprudenza senza logica e senza ragione. Non si è accorto che il terrorismo dell'ISIS va dalla Siria
all'Iraq, dall'Afghanistan allo Yemen, dalla Nigeria alla Libia, che il
suo programma è la conquista del mondo a un califfato islamico, in
cui Israele è solo un pezzetto della Ummah islamica da annettere
al califfato. Che questo abbia a che fare qualcosa col problema
politico di Israele e Palestina ogni mente normale vede che non
c'entra niente. Se qualcuno chiedesse se gli piace la formula "due
stati per due popoli" a Abu Bakhr al Baghdadi, il leader dei tagliateste, gli indurrebbe
una crisi di riso. Ciò che
desta più stupore è che
anche Tzipi Livni sia caduta preda della stessa
allucinazione di Kerry:
“la questione Isis non
si risolve, ha detto, senza affrontare il problema palestinese". Boh?
Quale dei problemi è
rilevante per Isis rispetto a questa questione?
Quello della sparizione
di Israele, suppongo, e
di tutti gli ebrei, ma non
subito: si capisce che
oggi sono più rilevanti le altre battaglie in corso, le teste da tagliare, i confini dello Stato islamico da allargare, la vittoria in Siria
e in Iraq.
In realtà la difficoltà di sciogliere ambedue questi nodi, e non essi
soltanto, è purtroppo legata all'araba fenice del terrorismo, e non
c'è nessun altro nesso sul campo. Si tratta di risolvere due casi di
terrorismo, uno legato a un tema più religioso, l'altro religioso-territoriale. Per il resto, solo pensare che la conquista del Califfato
Universale sia condizionata al conflitto israelo-palestinese, ovvero
che se quest'ultimo trovasse una soluzione allora le bandiere nere
smetterebbero di sventolare, ha qualcosa di patetico. In questa
misera proposizione dobbiamo tuttavia riconoscere un importante
stimolo intellettuale: è ora di identificare che cosa sia il terrorismo,
di darne una definizione internazionale, di imparare a combatterlo.
L'occidente non sa, non può vedere il terrorismo. La mente occidentale si perde e si confonde quando vediamo atti di terrore
nonostante siano secoli che infesta il nostro territorio, l'Europa.
Esso non ha avuto sempre la stessa faccia, anzi, si è modificato
sensibilmente a partire dagli anni ‘70. Prima, nel diciannovesimo
e nel ventesimo secolo il terrorismo ha avuto un aspetto più mirato, personalistico, persino romantico, anche se non certo per le
povere vittime. Le Brigate Rosse miravano a personaggi, naturalmente innocenti, ma che erano chiaramente identificabili, per il
loro ruolo, il loro mestiere, la loro posizione socio-intellettuale con
il sistema da loro odiato. Giudici, generali, banchieri, poliziotti,
sindacalisti, politici, tutti portavano il segno della loro folle ossessione, la distruzione del capitalismo. Nel passato anche i rivoluzionari russi e i patrioti irlandesi avevano mirato a chi odiavano, e
non avevano teso, come oggi, a terrorizzare indiscriminatamente il
passeggero dell'autobus, il giornalista, l'avventore. Al loro tempo,
russi e irlandesi potevano lamentare la miseria della loro condizione di oppressi, la miseria delle masse che i giovani con atti di
terrorismo affermavano di volerle liberare. Non erano né di destra
né di sinistra: i terroristi russi non furono seguiti dai rivoluzionari
alla Lenin, più simpatia ebbe la sinistra, anche recentemente, per
gli irlandesi, ma rimase aperto un dibattito sui mezzi usati. Marx e
Engels condannarono l'uso del terrore. I giovani idealisti terroristi
tuttavia erano ammirati per il loro coraggio, i loro obiettivi erano
chiari. Questo ha influenzato la confusione sul terrorismo anche
islamista e contemporaneo. I terroristi diventarono "Compagni che
sbagliano".
Dopo la seconda guerra mondiale il terrorismo indossò vesti estreme di ogni tipo: gli assassini di Walter Rathenau nel 1922 erano
i precursori del movimento nazista ma molto
più avanti ne abbiamo
visti tanti comunisti,
come appunto le BR o la
banda Baader Mainhof.
Nel secolo scorso cominciò
a
diventare
difficile capire se il terrorismo era di destra
o di sinistra e presto il
terrorismo etnico e religioso sopravanzò quello
comunista o fascista,
o nazionalista, e ruppe
tutti gli schemi. Nessuno infatti fu più in grado
di stabilire se all'origine, come i terroristi proclamavano, c'era una
condizione umana e sociale intollerabile, se si stava cercando di
colpire un tiranno o solo un nemico (ci furono pochissimi tentativi
di uccidere Hitler e Mussolini, e nessuno di colpire Stalin). Non
furono i regimi totalitari a essere attaccati ma i loro successori: lo
racconta Walter Laqueur, il migliore analista del terrore, parlando
della Spagna, dei Paesi Baschi, di Grecia, Germania, Italia. Qui il
terrorismo arrivò dopo la fine dei regimi, non contro i regimi. Il terrorismo dunque, ha spesso tentato di presentarsi come reazione
alla cattiveria umana, ma non è mai vero: anche la povertà non
presenta un nesso evidente col terrore, moltissimi dei terroristi
musulmani contemporanei sono cresciuti in ambienti che hanno
consentito loro di emanciparsi e studiare, sia nei loro luoghi di
origine (pensiamo a Bin Laden, di una ricca famiglia saudita) che
nelle terre di emigrazione (Ahmed Sheikh, assassino di Daniel Peral, nato a Londra ricco e colto). I nostri terroristi italiani, tedeschi,
sono in genere appartenenti alla classe media.
Più avanti, il quadro si fa del tutto evidente quando si va al terrorismo islamista contemporaneo nel suo insieme, molto più che
una pulsione sociale: l'islamista terrorista si vede come l'eroe del
nostro tempo, combattente per una società nuova, le pulsioni evidenti sono quella religiosa e psicologica, la ricerca dell'avventura,
il fascino della vita del tempo vittorioso di Maometto, il misticismo
da film di cappa e spada del travestimento, le bandiere, i mitra, le
scimitarre, i pick up, i cavalli, le bandiere nere al vento, il terrore
dipinto sul volto della loro prossima vittima. Lo stesso vale per i
terroristi palestinesi, la fascia verde intorno alla testa, le adunate
di massa, l'illusione che il nemico terrorizzato da tanta determinazione scapperà come un coniglio di fronte alla potenza virile della
rivoluzione terrorista di massa di Hamas, l'esaltazione dei cortei
venerdì 24 ottobre un giovane palestinese è stato
ucciso dalla polizia mentre
lanciava bombe molotov,
non caramelle, sui passanti
a Gerusalemme. L'amministrazione Obama ha fatto
sapere che "esprime le sue
più sentite condoglianze
alla famiglia". Un giornalista, Matt Lee dell'AP ha chiesto al suo portavoce Jen Psaki se fosse
appropriato porgere le condoglianze del presidente americano a
un uomo ucciso mentre stava portando un attacco violento a civili.
"Il fatto che stesse lanciando bombe molotov non ne fa un terrorista, come dice l'amministrazione israeliana?", ha chiesto Lee, "non
siete d'accordo con questo?". Psaki ha risposto misteriosamente:
"No non lo siamo". Il giornalista ha insistito sul fatto che il giovane
era stato seppellito con la fascia verde di Hamas, ma Psaki ha detto che non aveva niente da aggiungere.
E' una presa di posizione irresponsabile, che alla fine nega ogni
protezione internazionale contro
il terrorismo nel momento che
essa è invece necessaria in tutto
il mondo.
Le conseguenze politiche di
questo mancato riconoscimento dell'esistenza del terrore, la
sua vaghezza nella definizione
devono essere prese di petto
una volta per sempre. Prendiamo l'ultimo caso a Gerusalemme; un giovane si butta con la
sua auto su un gruppo di cittadini che scendono dal tram,
li schiaccia percorrendo tutta
la pensilina, uccide una neonata, ferisce sette persone, di
cui una è poi morta, una bella
ragazza che aveva solo la colpa
di esser scesa dal tram. Un film che mostra l'auto che si avventa
sui passanti non lascia l'ombra di dubbio sulla determinazione a
uccidere: il terrorista arriva a tutta velocità e anzi accelera sul
corpo delle persone. Il giovane terrorista è stato ucciso. Gerusalemme est si è riempita di manifesti col viso dello "Shahid" il
martire rivendicato come tale nella sua guerra contro gli ebrei,
Hamas e la Jihad lo esaltano come jihadista eroico. Intanto la
sua famiglia, che issa la bandiera di Hamas sulla casa, sostiene
tuttavia che si è trattato di un incidente automobilistico in modo
da accusare Israele di assassinio, e questo mentre si dava vita a
una manifestazione di esaltazione dell'atto eroico di terrore. E’
il solito doppio sistema palestinese, da una parte terrorista e in
ogni sua parte dedito alla criminalizzazione di Israele, dall'altra
assecondato nel giocare la carta della disponibilità alla trattativa,
in realtà negata ad ogni tentativo. Il risultato è di nuovo devastante: come può Israele fidarsi e cedere territori a Gerusalemme, o poco lontano dall'aeroporto, ovunque si possa prevedere
un pericolo decisivo alla sicurezza? E' certamente una domanda
molto semplice e diretta, ma ci parla in modo altrettanto diretto
del terrorismo per quello che è: un' arma micidiale che non può
essere placata politicamente. L'errore è pensare che si tratti di un
problema di povertà, di disagio, di oppressione, niente di tutto
questo. Qui sta il nesso fra Isis e terrore palestinese. E non è
certo quello fra soluzione dell'uno e dell'altro problema, per carità: c'è un elemento imperialista, razzista, totalitario nell'uno e
nell'altro, un rifiuto di condividere, la verità sta da un parte sola
per diritto divino.
FIAMMA NIRENSTEIN
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
che in Europa inneggiano
contro ogni logica a Gaza
e gridano morte agli ebrei.
C'è nella scelta terrorista
un poderoso elemento irrazionale che viene tuttavia
nutrito, è inutile illudersi,
da credenze religiose e anche da idee molto moderne, idee "verdi" di vita "secondo natura". Piace al nuovo selvaggio che odia il consumismo e
i costumi corrotti occidentali la ferocia intrinseca nell'Islam primigenio, quello delle armate a cavallo di Maometto che conquistano
il mondo nel VII secolo, quello dell'applicazione diretta e spietata
della sharia, la legge coranica: teste tagliate, nessuna pietà per i
traditori e gli infedeli che per loro colpa si frappongono fra i musulmani e il disegno di purificare il mondo col califfato, mani mozzate,
donne rapite, vendute, stuprate. Sul giornale dell'ISIS c'è persino
una spiegazione teologica di questa schiavitù sessuale inflitta alle
poverine: tenendole soggette e miserande si evita, tramite l'uso
legale della donna (perché è ammesso secondo loro prendere
una schiava sessuale), di tradire
la moglie o le mogli con amanti,
proibite dalla sharia.
L'odierno terrorismo è larghissimo territorialmente, indiscriminato negli obiettivi, il reclutamento molto vasto e soddisfacente da Parigi a Londra. Le
risorse del moderno terrorismo
sono enormi, lo si ottiene con rapimenti e petrolio, ma soprattutto il Qatar è uno degli stati che
fornisce fondi senza fine; per
anni ha ospitato Hamas a casa
sua, e quanto all'ISIS benché faccia parte della coalizione che dovrebbe batterlo, molti analisti lo
ritengono, con la Turchia (anch'essa parte della coalizione) di fatto
simpatetici verso il movimento che, come piace al Qatar, è sunnita
e destabilizzante abbastanza da creare spazi allo staterello che ha
dalla sua petrolio e Al Jazeera, con sede a Doha.
Mai si è trovata una definizione chiara di terrorismo, perché "il tuo
terrorista può essere il mio combattente per la libertà", perché gli
organismi internazionali sono di fatto governati da maggioranza
islamiche e terzomondiste, perché la questione degli obiettivi è
molto controversa: una bomba che fa saltare per aria duecento soldati americani a riposo in caserma in Libano (Hezbollah), non è un
terrorista perché a essere colpiti sono soldati, e non civili? Difficile
davvero stabilire che si tratta di un attacco legittimo. Per Hamas
poi, ogni neonato israeliano è un soldato di domani, e quindi un
obiettivo legittimo, anche se poi il suo statuto rivela che di fatto è
un obiettivo legittimo perché è ebreo, e la sua Carta stabilisce che
bisogna uccidere tutti gli ebrei.
Il fatto è che l'immensa guerra senza definizione di cui siamo di
fatto l'oggetto è irriconoscibile ai nostri occhi confusi e spaventati.
Intanto cerchiamo di evitare di avere a che fare col tema "Islam",
per paura che questo ci collochi su un fronte razzista islamofobico. Quando Obama dichiara, dopo l'ennesima decapitazione, che è
chiaro che il problema non è l'Islam, semplicemente mette il mondo su una pista sbagliata, e di conseguenza non trova le strategie
corrette. Siamo inondati di bugie in questa guerra contro il terrore:
vogliamo pensare che la Turchia sia un ottimo alleato, che l'Iran ci
può dare una mano mentre gli ayatollah sono la maggiore fonte di
terrorismo mondiale, con l'aiuto degli hezbollah.
La politica poi costringe a passi addirittura controproducenti:
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MEDIO ORIENTE
Difendere lo status quo è la sola soluzione
Israele non si fida a cedere il controllo di Giudea e Samaria a un'Autorità Palestinese
che vede dominata da spinte estremiste, e non abbandonerà il Golan ai jihadisti
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
I
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nevitabilmente l'analisi politica del Medio Oriente è segnata
dal succedersi di eventi tumultuosi e confusi, o almeno non
facilmente leggibili dall'esterno. Si pensi solo quest'anno al
fallimento della trattative fra Israele e Autorità Palestinese
dovuta alla pretesa di quest'ultima di avere le sue pretese soddisfatte in partenza, senza concedere nulla in cambio; alla costituzione del governo unitario fra Fatah e Hamas; al tentativo di
colpo di stato di Hamas; al rapimento dei tre ragazzi israeliani
connesso come si è capito poi al progetto di uno scontro generalizzato con Israele, una nuova “intifada” in cui rientrava anche il
tentativo di golpe; alla guerra provocata da Hamas e perduta poi
rovinosamente; alla decisione
di Abbas di abbandonare la
linea “americana” delle trattative per rivolgersi all'Onu,
con il contemporaneo rafforzamento dell'alleanza con Hamas.
Ampliando un po' lo sguardo,
si pensi alla rottura del fronte sunnita fra paesi che appoggiano più o meno apertamente il terrorismo (Turchia,
Qatar) e paesi che lo combattono; al crollo del potere
statale in Libia, Yemen ma
anche Iraq e Siria, al sorgere
di un Califfato o Stato Islamico
(ISIS) nel centro del loro territorio, al nuovo interventismo
(timido e di malavoglia) degli
Usa in questi territori, alla resistenza curda, premessa di
un nuovo stato autonomo, alla persistenza del progetto iraniano
di egemonia regionale e di armamento atomico, rispetto a cui
l'Occidente oscilla fra una debole resistenza e la tentazione di
un'alleanza. Ancora più lontano, gli islamisti sono all'offensiva in
Africa sub-sahariana, stanno riuscendo a respingere l'intervento
occidentale in Afghanistan, insidiano le province cinesi dell'Asia
Centrale. E' una situazione estremamente dinamica, instabile e
imprevedibile, il cui dato centrale è l'attacco di forze islamiste
(Isis, Fratellanza Musulmana, Turchia, Qatar, Iran, Hamas, Hezbollah), cui rispondono più che i paesi occidentali, forze locali
(Egitto, Arabia Saudita, Israele). Naturalmente questo non vuol
dire che gli appartenenti dei due schieramenti siano alleati, anzi
vi è spesso una concorrenza fra di loro che sfocia in aperta ostilità. In Medio Oriente non vale la regola per cui il “nemico del mio
nemico è mio amico” o che l' "amico del mio amico è mio amico”.
Turchia e Iran appoggiano entrambi Hamas, per esempio, e sono
violentemente antisraeliani; ma in Siria l'Iran appoggia Assad e
la Turchia vuole rovesciarlo; di conseguenza l'Iran è (abbastanza) nemico dello Stato Islamico (Isis), che è (abbastanza) nemico
di Assad, mentre la Turchia è (abbastanza) suo amico, anche se
gli Stati Uniti cercano di coinvolgerla nello schieramento che lo
combatte.
L'ambiguità è insomma la regola. E però la divisione fondamentale corre fra coloro che tengono a mantenere la situazione sotto
controllo, che magari sono islamisti a casa loro ma non vogliono
“esportare la rivoluzione”, come dei trozkisti musulmani, e quelli
che invece ritengono che il loro interesse consista nel sovverti-
re gli equilibri attuali, in genere per costruire una superpotenza
islamica di livello mondiale, naturalmente ciascuno pensando
che debba essere sotto il suo controllo, il che genera la concorrenza. Per farlo si tratta innanzitutto di unificare il mondo arabo,
islamizzandolo integralmente e quindi eliminando gli elementi
di modernità e poi di riaffermare il proprio potere all'esterno,
innanzitutto nei confini dove vi sono popolazioni miste, come i
Balcani, il Caucaso, l'Africa sub-sahariana, l'Europa - grazie alla
dissennata politica di aiuto all'immigrazione praticata dall'Unione e dai singoli stati - e innanzitutto Israele, la cui esistenza è vista come “umiliazione” del potere arabo (la parola è di Kerry). E'
uno schieramento cui si sono
alleati e che in qualche modo
hanno anche promosso l'amministrazione Obama e in parte l'Unione Europea, cercando
di sostituire i vecchi dittatori
più o meno laici (per quanto si
può esserlo nel mondo islamico) con la Fratellanza Musulmana e assumendo la Turchia
di Erdogan come modello di
“democrazia islamica”. Questo schieramento è accaduto
qualche anno fa, sotto lo slogan di “primavera islamica”;
ora è chiaro che le potenze occidentali se ne sono in parte
pentite e per esempio hanno
smesso di cercare di far cadere Assad. Ma alcuni elementi
restano in piedi, come l'ostilità al regime militare egiziano
leader dei paesi che difendono lo status quo e colpevole di aver
rovesciato la Fratellanza Musulmana che guidava invece l'Egitto
nel fronte “trotzkista”. O come il persistente tentativo di stringere un'alleanza strategica con l'Iran, nonostante la sua volontà
chiara di non rinunciare all'armamento nucleare e alla continuazione della sua azione sovversiva e bellicista non solo contro Israele ma anche nella Penisola Araba (Yemen e Bahrein) e altrove.
Lo stesso schema spiega la situazione di Israele. Il quale vuole
preservare lo status quo per la semplice ragione che non vede
alternative pacifiche. Israele non si fida a cedere il controllo di
Giudea e Samaria ad un'Autorità Palestinese che vede dominata
da spinte estremiste, aperta ai terroristi di Hamas, tentata essa
stessa di riprendere a organizzare direttamente l'attività terrorista come fece Arafat dopo il 2000, comunque intenta a spargere
odio e violenza contro Israele al suo interno e all'esterno. In particolare in questo momento di turbolenza estrema Israele sa di
non poter cedere né il Golan, né la Valle del Giordano, né le alture
che sovrastano il centro del Paese, perché se lo facesse si ritroverebbe i problemi di Gaza “moltiplicati per venti volte”, come ha
detto il ministro della Difesa Ya'alon. Peraltro Israele non intende
rioccupare Gaza neppure per eliminare Hamas, come ha dimostrato fermando l'operazione di questa estate, come era successo
con quella del 2009. Ritiene che nonostante la macchina da guerra e il terrorismo di Hamas sia preferibile cercare di neutralizzare
la sua minaccia bloccandolo dal di fuori che occupando un territorio in cui gli abitanti ostili sono un milione e mezzo e i terroristi
decine di migliaia, ben armati e preparati. E tanto meno ritiene
opportuno eliminare l'Autorità Palestinese e rioccupare la Giudea e la Samaria; tanto che il governo israeliano si oppone alla
costruzione di nuovi insediamenti oltre alla linea verde, pur difendendo la “crescita naturale” di quelli che ci sono. Perfino per
quanto riguarda il Monte
del Tempio, le tombe dei
patriarchi a Hebron e altri
luoghi sensibili la politica
israeliana è di difendere lo
status quo.
Chi si oppone a questa linea sono Hamas, Fatah e
naturalmente il governo
dell'Autorità
Palestinese
che compongono assieme,
alleati all'amministrazione
americana, ai paesi europei, al Vaticano, ai pacifisti e progressisti di tutto il
mondo, che vorrebbero forzare Israele a cedere tutta
la Giudea e Samaria, che
giudicano, senza alcuna
base giuridica già attribuiti
ai palestinesi (inutile dire qui che gli accordi di Oslo firmati da
entrambe le parti non contengono questa attribuzione e che non
vi sono strumenti giuridici internazionali che definiscano un “territorio palestinese”, per la buona ragione che un'entità palestinese prima di Oslo non c'è mai stata). E' una politica avventurista
e insensata, che porterebbe al rischio concreto e attuale della
distruzione di Israele. Per citare solo i fatti più evidenti, i “confini
del '67” (in realtà linee armistiziali del '49) non sono militarmente
difendibili, esporrebbero Gerusalemme, Tel Aviv, l'aeroporto internazionale e tutto il centro del paese agli stessi problemi che
oggi ha Sderot; la ricollocazione del mezzo milione e passa di
abitanti al di là della linea
verde, il 10% della popolazione sarebbe economicamente insopportabile; le
forze terroriste vedrebbero
il ritiro come una vittoria
strategica e attaccherebbero immediatamente dalle nuove posizioni, come
hanno fatto da Gaza e dal
Libano.
La soluzione dei due stati
forse potrebbe essere possibile in futuro, se il Medio
Oriente e l'Autorità Palestinese (inclusa la sua società
civile) cambiassero profondamente. Ma non potrà
essere mai disegnata sulle
linee del '49, senza condannare Israele alla distruzione. L'Europa e l'amministrazione Obama sono anche in questo caso alleati ai “rivoluzionari islamici”
senza occuparsi delle conseguenze delle loro scelte. Ma Israele,
per fortuna, non ha la minima vocazione al suicidio. E continuerà
nella sola politica saggia in questo momento, la difesa dello status quo.
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NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
È PIÙ DI UNA COMPAGNIA AEREA, È ISRAELE
13
MEDIO ORIENTE
L’Europa e il Medio Oriente:
una politica estera di tante parole
e zero azioni
Mentre a Londra si vota quasi all’unanimità
per lo Stato di Palestina, nulla si fa per fermare
la crescita di Hamas che con nuovi finanziamenti
miliardari si preparerà ad una nuova guerra
contro Israele
N
on sono del tutto d’accordo con chi sostiene che la crescita dell’antisemitismo/antisionismo avvenga soprattutto a livello dell’opinione pubblica europea. Che una
crescita “dal basso” vi sia è certamente vero ed è testimoniato dalle statistiche (sebbene queste vadano sempre prese
con le pinze, poiché dipendono fortemente dal tipo di domande
poste), ma sono convinto che la massima responsabilità ricada
sul cinismo, la pochezza, la viltà delle classi dirigenti europee e
occidentali che sarebbero ben liete di liberarsi dell’“ostacolo” rappresentato da Israele, senza rendersi conto che quell’“ostacolo” è
anche una delle poche barriere rimaste a difendere il crollo generale. Il Parlamento inglese ha riconosciuto lo stato di Palestina con
soli dodici voti contrari, ascoltando senza fiatare la dichiarazione
di un parlamentare secondo cui la diffusione dell’antisemitismo
in Europa è causata soltanto dalle azioni di Israele. Una simile
percentuale corrisponde davvero ai sentimenti della popolazione
inglese? Difficile crederlo. Ma – certo – di questo passo saranno
questi atti, e non quelli del governo israeliano, a diffondere un
crescente antisemitismo di massa.
Il Parlamento inglese ha riconosciuto uno stato di Palestina. Quale? La “Palestina” è oggi composta di due pezzi, l’uno “moderato”
che comunque nega a Israele il diritto di considerarsi uno stato
ebraico (mentre riconosce tale diritto ai tanti stati islamici esistenti) e un altro pezzo governato da un’organizzazione che è stata
ufficialmente dichiarata “terroristica”. È questa formazione a dir
poco ambigua che dovrebbe essere considerata come uno stato?
Con quali istituzioni, con quali garanzie di governo democratico
e, soprattutto, con quali intenzioni nei confronti della pacificazione del Medio Oriente? Fino a che un simile messaggio – e cioè
che questa formazione, includente Hamas e quindi comprendente
la sua legittimazione, può essere considerata uno stato degno di
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Dott. ELISABETTA PEROSINO
14
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questo nome – poteva
venire da qualche partito, da qualche gruppo
estremista, da qualche
stato islamico radicale, era un conto; ma
se essa viene dal Parlamento di un paese
considerato come una
culla della democrazia
occidentale, assortita
di affermazioni sconsiderate sull’antisemitismo cui nessuno ha
opposto obiezioni, non
c’è da stupirsi che il camino dell’antisemitismo sia stato alimentato da una poderosa dose di legna asciutta.
Al Cairo è stata convocata una conferenza per la ricostruzione di
Gaza dove si è parlato di una somma necessaria di quattro miliardi
di dollari che pare siano levitati rapidamente a cinque e mezzo.
Come se non bastasse, gli Stati Uniti hanno promesso un finanziamento di più di duecento milioni di dollari e l’Unione Europea
di 450 milioni di euro. Forse anche Israele avrebbe avuto bisogno
di un aiuto per i danni subiti dall’aggressione e per una guerra
non voluta, ma lasciamo perdere. Quel che è assolutamente incredibile è che un simile fiume di denaro venga concesso senza la
minima contropartita e senza alcuna garanzia. Chi lo gestirà? Sarà
Hamas? Con quali garanzie? Magari per ricominciare a scavare
tunnel verso Israele? È stupefacente la larghezza di mezzi che si
scopre l’Unione Europea in questi casi, mentre invita tutti gli stati
a stringere la cinghia e a praticare la più dura austerità, il che
stimola lo sviluppo di movimenti estremisti e che mirano alla dissoluzione della stessa Unione Europea. È stupefacente la rapidità
con cui vengono decretate sanzioni per il conflitto russo-ucraino e
si parla persino di spostare truppe, certamente con ottime ragioni.
Ma perché tanto disinteresse per il dilagare del califfato dell’ISIS e
del rischio molto concreto che i suoi successi portino all’emergere
di altri nuclei di califfato, per esempio in Libia, ovvero proprio al di
sotto della frontiera meridionale dell’Unione Europea?
Ancora una volta l’antisemitismo (oggi nelle vesti di antisionismo)
è il sintomo di una pulsione autodistruttiva dell’Europa e in generale di tutto l’Occidente. Troppi fanno finta di non vedere – per
cecità? per incoscienza? in malafede? – che Israele è uno dei pochi bastioni rimasti a difendere proprio l’Occidente e, in primis
l’Unione Europea. Si fa finta di considerare i fotomontaggi di San
Pietro sovrastato dalla bandiera del califfato come una barzelletta. Ma quando si diffondevano gli stessi fotomontaggi anni fa,
quando ancora queste forme di radicalismo islamico sembravano
confinate a movimenti clandestini, era già irresponsabile ridere.
Figuriamoci oggi, quando si è in presenza di uno stato dotato di un
territorio che ha una consistenza definita e una forza militare temibile. E cosa si dirà se – come è purtroppo incredibilmente possibile
– Baghdad cadesse nelle mani delle truppe dell’ISIS? L’ignoranza
storica ha raggiunto livelli tali che nessuno ricorda che proprio Baghdad è stata per secoli la capitale del califfato musulmano (quantomeno della sua branca più importante, l’altra era in Spagna)?
Ma le classi dirigenti europee continuano a occuparsi di conti pubblici, di strozzare le economie meridionali nella morsa di un’austerità suicida, tagliano e tagliano anche su quei fattori che possono perpetuare la trasmissione dell’identità culturale europea
(l’istruzione), votano per il riconoscimento dello stato palestinese
e patrocinano la delegittimazione di Israele. Si perdono in un mare
di chiacchiere e di riunioni peggio che inconcludenti. Ancora una
volta “dum Romae consulitur Saguntum expugnatur”; che speriamo non si debba declinare: mentre nelle capitali occidentali ci si
consulta, Baghdad cade.
GIORGIO ISRAEL
Il terrorismo si vince
affrontandolo e non scappando
Per fermare la minaccia terroristica
non è necessario ridurre le libertà individuali,
è necessaria invece la cooperazione
delle strutture investigative
Affermazioni così semplicistiche, fatte senza minimamente accennare al problema del traffico d’armi, che gira, ad esempio, intorno
e nel nostro paese, in modo assolutamente incontrollato, sono un
insulto per il lettore. Ma trovo offensivo, per chiunque abbia buonsenso, se non una minima cognizione di quella che una volta si
chiamava educazione civica, affermare che la vittoria dell’Isis, nella raccolta di manovalanza terroristica, si possa contrastare solo
introducendo misure riduttive della libertà personale.
Questo tema è strettamente legato non solo al dramma dell’immigrazione clandestina, ma certamente anche alla necessità di una
politica di intelligence, che non abbia solo codici comuni ma che
sia profondamente condivisa dai paesi che hanno deciso di combattere l’Isis, senza se e senza ma.
Bisogna forse ricordare quanto e come si investisse in questi settori ai tempi della guerra fredda? Ricorrere agli esempi del passato,
nell’era di Google, farebbe ridere, se non fosse inquietante. Ora,
certo, non ci si può limitare ad una guerra fatta di spie e di codici,
ma nessuno può negare di avere strumenti molto più sofisticati di
allora; con i quali, se coordinati fra loro, ci si potrebbe garantire il
contrasto della promozione del terrore via web. Sarebbe molto efficace introdurre forme di cooperazione più penetranti e articolate,
sia pure con tempi più lunghi, che arrivino ad incidere nel tessuto
socio culturale dei paesi con cui si collabora.
Interventi di cooperazione che, almeno in quelle nazioni in cui modelli culturali indichino il valore perno, di una civiltà occidentale o
no, in quello della vita, vanno riviste e condivise le modalità di lavoro: l’abisso è scavato da chi insegna che morire e uccidere quante più persone è salvifico della propria anima contro chi per salvare
una vita investe sotto tutti gli aspetti in primis dando a questo
termine ”vita” un'espressione valoriale a parametro di qualunque
altra declinazione di libertà.
Non credo sia un problema di libertà, impedire la circolazione sul
web di immagini con padri che lapidano le figlie, o assassini che
tagliano le gole a persone colpevoli di esistere, sono scelte: scelte
di cui non si sente discutere in Italia, troppi presi a capire se la
Leopolda è un garage o una stazione.
Questo governo è entrato in carica facendo un’affermazione perentoria sul rientro dei due Marò. Dal 22 febbraio, data del giuramento è passato qualche giorno, ma sembra che anche questo
Natale i Marò lo faranno nella nostra Ambasciata a Mumbai. Un
governo così autoreferenziale e centripeto, ha la possibilità di leggere questa realtà e varare misure di politica estera in grado di
contribuire, quanto meno, a combattere un esercito di tagliagole
improvvisati ma dalle lame affilatissime? Un governo che è battuto solo dal Presidente Obama per la impercepita pregnanza delle
strategie geopolitiche, preoccupati solo nell’occupazione di poltrone, ma mai dall’elaborazione di programmi strategici.
Tutto ciò, fa temere che il silenzio di quel padre con la figlia colpita a morte in braccio, non abbia parlato a chi aveva il dovere e il
compito di ascoltare.
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NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
I
n questi giorni ho visto la foto di un padre con una figlia in
braccio, che correva verso un dove qualcuno la potesse richiamare in vita, e ho sentito il silenzio del dolore, ma ho anche
percepito quasi un senso di rassegnazione, di fronte all’avanzata della teoria dell’omicidio come metodo della politica da parte
dell’Isis. E, a mio modesto avviso, cosa ancora più grave, ho letto
articoli allarmati di persone che temono che, per tutelare la sicurezza dei cittadini, occorra mettere a repentaglio il sottile limite
che separa la sicurezza dalla libertà della persona.
Come molti, mi sono chiesta se chi scrive queste cose abbia la
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Israele o Berlino?
La sfida del budino
Lo scontrino della spesa di un israeliano emigrato
a Berlino riapre il dibattito sul ‘caro vita’
e sul futuro dei giovani nello Stato ebraico
S
ucco d'arancia, pane, pasta, uova e l'equivalente tedesco
del "Milky", un budino al cioccolato con panna di cui vanno
ghiotti i bambini - e molti adulti - israeliani. È cominciata
così la sfida di un giovane israeliano trasferitosi a Berlino
che ha pubblicato su Facebook lo scontrino della spesa fatta in un
supermercato della capitale tedesca, invitando i compatrioti rimasti
a casa a trovare questi prodotti allo stesso prezzo in patria. Una
sfida ardua, perché per portare a casa la stessa spesa, in Israele si
può spendere anche tre volte di più.
E tanto è bastato per rilanciare in Israele la questione del costo della
vita, che già tre anni fa aveva spinto
decine di migliaia di israeliani a occupare per mesi con tendopoli improvvisate le strade e le piazze del paese,
chiedendo affitti e prezzi più bassi,
salari più alti e una maggiore distribuzione della ricchezza.
La sfida del "Milky" non ha ancora riempito molte piazze, ma ha scatenato
polemiche, soprattutto perché è stata
lanciata con un invito esplicito ai giovani israeliani a lasciare il loro paese.
L'autore è il 25enne Naor Narkis, ex
ufficiale dell'esercito e laureato in economia, che vive da qualche
mese a Berlino e impartisce consigli agli israeliani desiderosi di
trasferirsi in Germania tramite la sua pagina di Facebook intitolata "Olim leBerlin" un'espressione che rovescia il concetto di "aliyah"
- salita - termine solitamente utilizzato per indicare l'emigrazione
ebraica verso Israele.
Lasciare Israele è sempre stata un'azione malvista nello Stato ebraico, quasi un tradimento. Lasciare Israele, come negli ultimi anni
hanno fatto migliaia di giovani, per andare a vivere addirittura in
Germania, nella capitale di quello che fu il Terzo Reich è addirittura impensabile e offensivo, soprattutto per quelle generazioni che
hanno un ricordo più vivo dell'Olocausto.
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"Mi fa pena chi non ricorda la Shoah e abbandona Israele per un
budino", ha tuonato il ministro dell'Agricoltura Yair Shamir. Anche il
ministro delle Finanze Yair Lapid, pur riconoscendo che in Israele il
costo della vita è alto, ha definito la protesta "anti-sionista".
In una serie di articoli e interviste, Narkis si è difeso dicendo di
amare Israele ma di non potersi permettere di viverci. Deluso dal
fallimento della protesta del 2011 l'ex ufficiale dice di agire per il
bene del paese e spera che lo spettro di un esodo da Israele spaventi la leadership e spinga finalmente il governo ad agire per creare
una società più equa. "Chi ha creato condizioni ideali per i ricchi e
catastrofiche per i giovani non dovrebbe parlare di sionismo", ha
scritto in un articolo per il quotidiano Yedioth Ahronoth.
La pagina "Olim leBerlin" ha raccolto una valanga d'improperi, ma
anche 20.000 "like" e tante foto di israeliani che, con un cartello in
mano, chiedono al cancelliere tedesco Angela Merkel di concedergli un
permesso di soggiorno in Germania.
Anche se il fenomeno della crescente
comunità israeliana a Berlino fa molto rumore, si tratta di una realtà ancora limitata - forse poco più di 3.000
persone trasferitesi lì stabilmente.
Secondo l'ufficio centrale di statistica,
l'emigrazione da Israele è ai minimi
storici, e coinvolge una percentuale
della popolazione molto più bassa
che nella maggior parte dei paesi sviluppati. La differenza tra il numero di cittadini che lascia il paese e
quelli che tornano a viverci è scesa a circa 2.200 nel 2013, mentre
nei decenni precedenti si attestava intorno a 10.000-15.000 l'anno,
ha spiegato al quotidiano Haaretz Sergio Della Pergola, demografo
dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Allo stesso tempo, sempre
più ebrei europei, anche italiani, scelgono di trasferirsi in Israele,
creando un flusso netto positivo per lo Stato ebraico.
Dunque, la "protesta del Milky" ha fatto solo molto rumore per nulla?
Forse. Rimangono però i sondaggi che ogni anno puntualmente indicano che un terzo dei giovani israeliani si trasferirebbe all'estero
se avesse i mezzi per farlo e un visto per l'Europa o gli Stati Uniti.
Rimane lo stupore per il fatto che una piccola provocazione lanciata
sui social network possa scatenare un tale vespaio e provocare reazioni scomposte anche da parte di alte cariche dello Stato. Si tratta
di un segnale d'insicurezza da parte dello Stato, una dimostrazione
della falsa coscienza di una leadership che non fa nulla per risolvere
il problema.
Allo stesso tempo, la protesta è il segnale di un profondo disagio,
che va ben oltre le questioni economiche, vissuto da una fetta importante della popolazione. Sempre di più la gioventù laica della
classe media vede Israele come un paese che offre poche prospettive per il futuro. Mentre l'istruzione universitaria, il lavoro e la casa
rimangono un'incognita, le uniche certezze sembrano essere la fine
delle speranze di pace; periodici conflitti, piogge di missili e ondate
di terrorismo; una sempre maggiore influenza degli ultraortodossi e
dei coloni nella politica e nella società e il consolidamento del potere
economico nelle mani di pochi oligarchi.
Questo segnale di disagio proviene da studenti, giovani ricercatori, dai potenziali creatori della prossima start-up di successo, da
insegnanti, infermieri, tecnici e impiegati. Viene da coloro che si
assumono la responsabilità di difendere Israele durante tre anni di
servizio militare obbligatorio e poi nelle riserve per i successivi decenni delle loro vite. E proprio perché proviene dal cuore produttivo
e vitale del paese, si tratta di un segnale d'allarme che Israele non
può permettersi d'ignorare.
ARIEL DAVID
Uomini ed attrezzature mediche
per contrastare il diffondersi del virus
“M
assima priorità
per la sicurezza nazionale
degli
Stati
Uniti” secondo Obama; “un fallimento internazionale” per le
Nazioni Unite. La diffusione del
virus Ebola costituisce uno dei
temi in cima alle agende internazionali, specie dopo i primi
casi fuori dal continente africano. Anche Israele segue attentamente l’evolversi della questione, con il duplice intento di
collaborare alla lotta al virus e di
prevenire il contagio all’interno
dei suoi confini.
Sul primo fronte, all’inizio di ottobre, Mashav, l’Agenzia israeliana per lo Sviluppo della Cooperazione Internazionale, ha mandato tre cliniche mobili in Africa
occidentale per fronteggiare l’elevato rischio di infezione dal virus. L’azione è stata varata su impulso del Segretario Generale
delle Nazioni Unite, del Direttore Generale dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) e di varie organizzazioni israeliane
ed internazionali, con il fine di prevenire la diffusione di quella
che sembra essere diventata una vera e propria pandemia.
Le cliniche sono state prodotte in Israele e ricostruite sulla base
delle Linee Guida dettate dall’OMS; ad esse è stato legato uno
staff di medici esperti che si sono subito impegnati ad istruire il
personale locale sulle modalità di procedura. Questo contributo
ha seguito quelli già effettuati nelle settimane precedenti, quando un team di medici è stato inviato in Camerun e un equipaggiamento di emergenza è stato fornito alla Sierra Leone.
IsraAID, organizzazione no-profit fondata nel 2001, ha poi mandato due squadre di medici esperti in Sierra Leone e in Liberia.
La prima rientra in un programma per fronteggiare lo stress e le
paure che accompagnano una simile epidemia. La seconda squadra si sta raccomandando con i residenti sull’igiene personale a
scopo precauzionale.
Per quanto riguarda i rischi sul territorio israeliano, finora non
sono stati riscontrati casi di Ebola, giusto qualche falso allarme.
Tuttavia, il premier Netanyahu, visti i rischi potenziali di un contagio, ha effettuato numerose riunioni con i Ministri di Salute,
Interni, Esteri e Trasporti, oltre ai rappresentanti della Polizia e
dell’Autorità degli Aeroporti. In un discorso ad inizio ottobre ha
Prof. Silvestro Lucchese
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NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Anche Israele è in guerra
contro Ebola
poi dichiarato l’intenzione di rafforzare la preparazione per fronteggiare una possibile diffusione ed ha comunicato alla stampa
che sono divenuti più capillari i monitoraggi sui viaggiatori in
arrivo in Israele da Liberia, Sierra Leone e Guinea.
Il persistere dell’allarme ha portato il premier israeliano ad intervenire pubblicamente più volte sul tema. Ha così sottolineato
che “Israele è pronto a chiudere il possibile ingresso di persone
affette da Ebola. È una piaga globale e stiamo cooperando con
altri Paesi per proteggere i nostri confini.
Speriamo che ciò non sarà necessario, ma ci stiamo preparando
ad ogni eventualità”. Gli ha fatto eco il Direttore Generale del
Ministero della Salute Arnon
Afek: “il nostro sistema sanitario sta monitorando la situazione ed è in contatto con esperti
di tutto il mondo.
Stiamo migliorando la preparazione per essere in grado di
affrontare l’eventuale arrivo di
malati di ebola in Israele”.
Anche il direttore dell’aeroporto
Ben Gurion Shmuel Zakai è intervenuto, spiegando che sono
in corso simulazioni sui passeggeri in arrivo da zone a rischio:
vengono sottoposti a domande
mirate, isolamento, trattamenti medici preliminari, evacuazione
ed infine, se necessario, trasferimento in ospedale.
DANIELE TOSCANO
17
ITALIA
Andamento gettito
otto per mille 2014
L'
otto per mille è una quota
dell'imposta IRPEF che viene
ripartita, in base alle scelte dei
contribuenti, tra lo Stato ed alcune confessioni religiose, firmatarie di
specifiche Intese, quali: la Chiesa Cattolica, la Chiesa Evangelica Valdese, la Chiesa
Evangelica Luterana, le Assemblee di Dio
in Italia, la Chiesa cristiana avventista del
Settimo Giorno e l'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane.
Ai sensi della legge che formalizza la sua
intesa con lo Stato, l'UCEI si impegna a perseguire gli interessi collettivi con le risorse
finanziarie ad essa concesse. Infatti, la quota dell'otto per mille devoluta all'UCEI viene destinata al finanziamento delle scuole
ebraiche e delle case di riposo per anziani,
nonché ai corsi di formazione per insegnanti, ai programmi per conoscere Israele, ai
progetti di salvaguardia della memoria e del
patrimonio storico e culturale della storia
ebraica, oltre a importanti iniziative sociali
per aiutare popolazioni in difficoltà (è stato
ad esempio il caso del terremoto a L’Aquila
o lo tsunami nelle Filippine). In base al resoconto sulla distribuzione dei fondi riferita
al 2011, le attività finanziate dall’Ucei comprendevano anche il Roma Kolnoa Festival,
il Centro estivo ebraico di Ostia e diversi
progetti a sostegno della memoria e contro
razzismo ed antisemitismo.
Secondo i dati statistici pubblicati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, negli
ultimi anni la quota dell’otto per mille ripartita a favore dell’Ucei, è progressivamente
aumentata.
Nel 2008 (redditi del 2004) l’Ucei ottenne
60.920 firme (su un totale di 40 milioni di
contribuenti), e gli venne destinata la cifra
di 3,8 milioni di euro (pari allo 0,37% del
totale delle scelte espresse e lo 0,34% del
totale delle somme erogate). Situazione rimasta sostanzialmente stabile nei due anni
successivi. Nel 2011 vi è stato un leggero
incremento, con lo 0,39% di attribuzione
delle scelte espresse valide ed importi erogati all’Ucei pari allo 0,36% del totale, per
4,6 milioni di euro.
Nel 2013, su un totale di 41 milioni e mezzo
di contribuenti, l’Ucei ha raccolto 79.860 firme, incassando nella ripartizione dei fondi
5,2 milioni di euro, pari allo 0,41% del totale
della ripartizione.
Leggermente migliore l’andamento dell'otto
per mille del 2014 (redditi del 2010): 81.457
firme per l'UCEI, lo 0,43% dei fondi, pari a
5,4 milioni di euro.
Molto interessante il dato geografico che
disegna l’identikit dei firmatari a favore
dell’Ucei.
La Regione più ‘generosa’ è la Lombardia
(con 18.876 firme), a seguire Lazio (11.722),
Veneto (9.300), Emilia Romagna (8.800),
Piemonte (7.600), Toscana (5.700), ultime
Valle d’Aosta (274), Basilicata (233) e Molise (90).
L'otto per mille è una fonte di finanziamento
Cinque per mille: un finanziamento
in aiuto delle organizzazioni no profit
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
I
18
Sono poche però quelle che raccolgono cifre importanti
e pochissime quelle ebraiche
n occasione della presentazione della dichiarazione dei redditi oltre alla scelta dell’otto per mille, da pochi anni dal 2006, il contribuente può devolvere il 5 per mille dell'imposta sul reddito delle
persone fisiche, a finalità di sostegno di particolari enti no profit,
di finanziamento della ricerca scientifica, universitaria e sanitaria, alle
associazioni sportive dilettantistiche, ad attività per la valorizzazione
e la promozione dei beni culturali e paesaggistici.
Il cinque per mille è una forma di finanziamento che non comporta
oneri aggiuntivi al contribuente, dal momento che questi, tramite
la compilazione dell’apposita sezione nella dichiarazione dei redditi, sceglie semplicemente la destinazione di una quota del proprio
IRPEF.
L’elenco degli Enti no profit che beneficiano del cinque per mille è
lunghissimo, migliaia di piccoli e grandi organizzazioni sperano ogni
anno di ricevere una piccola quota di questo finanziamento.
Al primo posto (l’ultimo dato disponibile è il 2012) l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, che ha raccolto 55,7 milioni di euro;
seguono: Emergency (10,3 milioni); Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro (8,2); Medici senza frontiere (8,1); Comitato italiano
per l'Unicef (5,3); Ail - Associazione italiana contro le leucemie, linfomi e mieloma (5,1); Fondazione Centro San Raffaele (5,1); Fondazione
Umberto Veronesi (4,6).
La quasi totalità degli enti riceve però cifre molto più modeste, di
alcune decine di migliaia di euro, se non anche di meno: è difficile
infatti farsi conoscere dal contribuente, raccogliere la sua fiducia ed
ottenerne la firma. In questa situazione si trovano le 19 le organizza-
Con l’otto per mille tutti
più ricchi… o quasi
Su 41,5 milioni di contribuenti l’otto per
mille è così ripartito: solo il 45,7% esprime
una scelta per la destinazione dell’otto per
mille della sua dichiarazione dei redditi;
il 53,8% dei contribuenti (pari ad oltre 22
milioni) non esprime alcuna preferenza.
Dal 2008 ad oggi il gettito dell’otto per
mille ha ‘arricchito’ quasi tutti:
• lo Stato è passato da 99 milioni di euro
a 170 milioni (+72%);
•la Chiesa Cattolica da 928 milioni di
euro ad oltre 1 miliardo (+13%);
•l’Unione Chiese Cristiane Avventiste
del 7° giorno da 1,8 milioni di euro a 2,2
milioni (+22%);
• l’Assemblee di Dio in Italia da 778 mila
euro a 1,4 milioni (+80%);
• la Chiesa Evangelica Valdese da 6,9 milioni di euro a 40,8 milioni (+500%);
• la Chiesa Evangelica Luterana in Italia
da 2,5 milioni di euro a 4 milioni (+60%);
• l’Unione Comunità Ebraiche Italiane da
3,8 milioni di euro a 5,4 milioni (+42%).
fondamentale per le comunità ebraiche italiane che permette di gestire ed organizzare
importanti aspetti della vita comunitaria, ed
il suo aumento, seppur modesto ma graduale, mostra una più diffusa sensibilità ed attenzione nei confronti dell'ebraismo italiano
a livello nazionale.
CARLOTTA LIVOLI
zioni ebraiche italiane che – riconosciute come onlus – partecipano al
cinque per mille, alcune con risultati lusinghieri.
Di seguito l’elenco aggiornato al 2012:
• Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizi Sociali (Roma): 976 firme, per una somma raccolta di 67.759 euro;
• Cdec - Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea: 354 firme, pari a 26.430 euro;
• Comunità ebraica di Torino: 212 firme, per 17.000 euro;
• Comunità Ebraica di Roma: 224 firme, per 11.320 euro;
• Fondazione per la scuola della Comunità ebraica di Milano: 118 firme, per 10.649 euro;
• Casa famiglia e Centro ebraico italiano "Giuseppe e Violante Pitigliani" (Roma): 160 firme, per 9.700 euro;
• Fondazione Keren Kayemeth LeIsrael - Fondo nazionale ebraico Italia: 147 firme, per 9.186 euro;
• Comunità ebraica di Venezia: 156 firme, per 7.468 euro;
• Comunità ebraica di Trieste: 96 firme, per 6.666 euro;
• Fondazione cultura ebraica (Casale Monferrato): 40 firme, per 5.700
euro;
• Comunità ebraica di Bologna: 53 firme, per 5.600 euro;
• Comunità ebraica di Genova; 92 firme per 4600 euro;
• O.S.E. Italia - Organizzazione sanitaria ebraica assistenza all'infanzia: 61 firme, per 3.500 euro;
• Fondazione per i beni culturali ebraici in Italia (Roma): 22 firme per
1.700 euro;
• Centro ebraico di Monteverde (Roma): 44 firme, per 1.500 euro;
• Comunità ebraica di Ferrara: 27 firme, per 1.480 euro;
• Fondazione museo ebraico di Bologna: 5 firme, per 442 euro;
• Rete Eco Rete degli ebrei contro l'occupazione (Torino): 8 firme, per
429 euro;
• Fondazione Elio Toaff per la cultura ebraica: 6 firme, per 221 euro.
I falsi eroi
che piacciono
alla generazione
dei nuovi storici
e qualcuno ha mai pensato che l’ideologia comunista è crollata sotto
l’implosione dell’Unione Sovietica,
ebbene, si ricreda. La maggior parte di chi è passato attraverso quella storia
sanguinosa, ha cercato di riciclarsi nascondendo il proprio passato sotto una presentazione di se stesso come una parte della
propria vita non fosse mai esistita. La parola magica, che ha ripulito le biografie di
politici, intellettuali, artisti è stata ‘democrazia’. Erano tutti, nel dopoguerra, democratici, l’essere stati comunisti per almeno
40 anni veniva ignorato, via le tessere del
partito, via le firme sotto la propaganda più
vistosa, se qualcosa occorreva ammettere,
allora la colpa era dello stalinismo, il marxismo-comunismo era salvo, “difesa della
democrazia” lo definivano. Poi saltò tutto in
aria, l’Urss ritornò ad essere la Russia – anche se con un nuovo zar al Cremlino, dopo la
breve pausa libertaria di Yelstin – le ‘democrazie popolari’ europee si liberavano dalla
schiavitù dei regimi comunisti, insomma,
l’Europa era cambiata, la via verso i valori
veri della democrazia sembrava obbligata.
Ma il virus affascinante, che in ogni generazione miete vittime sull’altare della dittatura
travestita da democrazia, continua a propagarsi ancora oggi, a babbo comunista morto,
Museo della Shoah
aggiudicati i lavori.
"Si inizia a gennaio"
Sarà un consorzio guidato dal costruttore
Cerasi a realizzare il Museo della Shoah a
Villa Torlonia. È il risultato emerso dalll'apertura delle buste per la gara d'appalto,
avvenuta lo scorso 4 novembre, a cui
hanno partecipato 24 aziende. Il vincitore
ha offerto 13 milioni e 299 mila euro. "Con
l'aggiudicazione provvisoria della gara spiega Paolo Masini, assessore alla Infrastrutture - è stato compiuto un altro passo
avanti importante. Il nostro impegno è di
accelerare i passaggi per l'avvio dei lavori
in coincidenza con la commemorazione
del 27 gennaio, mentre sotto il profilo della
legalità, grazie anche alla collaborazione
con il prefetto Pecoraro, manterremo alta
la vigilanza sulla correttezza di tutti i passaggi e sul sistema dei subappalti".
questa volta nelle vesti di un relativamente
giovane ricercatore, tale Marco Albertaro,
che approda sulle pagine de La Stampa, le
meno adatte per ospitare un articolo in lode
di Jean-Paul Sartre, con un articolo che dimostra in modo esemplare l’assunto che
apre queste mie note, e che rivela magistralmente l’ideologia che guida l’autore.
Il filosofo francese viene lodato in termini così entusiasti per il fatto che 50 anni
fa rifiutò il Premio Nobel, perché “voleva
mantenersi libero da qualsiasi legame con
il potere”, ricorda il nostro laudatore. Ma
gli anni precedenti, quelli dell’occupazione
nazista, si guarda bene dal citarli, è come
se non fossero mai esistiti. Eppure negli
ultimi anni ci sono state in Francia moltissime discussioni sulle responsabilità degli
intellettuali che avevano flirtato con l’occupante nazista. E Sartre era uno di questi.
Ma Albertaro non ne è a conoscenza, o gli
fa comodo non esserlo, se scrive “un’intransigenza innata, che non gli ha mai permesso di accettare il minimo compromesso
con il potere stabilito”. Bum! Ma qui arriva
il bello, tanto da ritenere che Sartre sia servito al nostro per arrivare ai tempi attuali,
una chiave per esaltare un altro “eroe” che
sicuramente fa parte del firmamento degli
eroi moderni che piacciono al nostro giovane ricercatore, approdato non si sa come a
un grande giornale nazionale. Scrive infatti
“il grande studioso di letteratura comparata che ha messo la propria voce al servizio
di numerose cause… sempre alla continua
ricerca della verità ..”.
Chi è questo nuovo eroe? Ma Edward
Said, chi sennò, uno degli odiatori di Israele più celebrato, già membro del direttivo
dell’Olp, si definiva cristiano palestinese,
ma era vissuto sempre in Usa dove insegnava alla prestigiosa Columbia University, “un influente maestro di pensiero, ma
anche formidabile polemista, sempre capace di rovesciare il punto di vista comune,
mai propenso ad accettare l'opinione che
sembra così ovvia da essere considerata un
'fatto'“. Così lo definiva Wlodek Goldkorn
sull’Espresso nel novembre 2007. Perché
Said piaceva anche in ambiente ebraico, si
definiva come uno ‘sempre nel posto sbagliato’, e questa espressione, sicuramente
attraente, era piaciuta, eliminando – anche
per lui, come per Sartre – le altre parti della sua vita che avrebbero rivelato un altro
Said, quello che, forte della sua statura
intellettuale, poteva permettersi di portare il proprio figlio, ancora un ragazzino, in
Israele per insegnargli come si lanciano le
pietre contro i soldati di Tzahal. Peccato
che una fotografia lo abbia immortalato per
sempre in quella posizione, mentre con in
mano una pietra gli mostrava come effettuare il lancio. Era pur sempre un docente,
anche se non alla Columbia. Sono questi
gli eroi che piacciono alle nuove generazioni di ricercatori storici. Li guida l’eterna
ideologia che prepara l’avvento dei sistemi
dittatoriali, quelli che continuano a vedere
il nemico nella democrazia israeliana e l’amico nei regimi autoritari. Non essendoci
più fogli con il simbolo della falce e martello, scomparsi dalle edicole per mancanza
di acquirenti, approdano sui giornali che
un tempo avremmo definito liberali.
ANGELO PEZZANA
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
S
Personaggi di cui si
dimenticano gli aspetti
problematici e l’uso
della violenza
PERIZIE E VINTAGE RESTYLING
19
FOCUS
Chi sei popolo di Israele?
L’amore verso gli altri è la grande responsabilità
collettiva che ricade su tutti gli ebrei
S
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
empre più spesso gli Ebrei si
sentono perseguitati e terrorizzati.
Da ebreo spesso mi chiedo il
motivo di questa sofferenza senza
fine. Alcuni credono che le atrocità della
seconda guerra mondiale sarebbero
inconcepibili ai giorni nostri. Eppure
vediamo con quanta facilità e asprezza
si stia ricreando la situazione che ha
preceduto l'olocausto; sempre più spesso
e sempre più apertamente si sente gridare
“Hitler aveva ragione”. Ma c'è speranza.
Possiamo invertire questa tendenza e per
questo è necessario prendere coscienza
del quadro generale.
20
Dove ci troviamo e da dove veniamo
L'umanità si trova ad un incrocio. La
globalizzazione ci ha resi interdipendenti
ma, allo stesso tempo, odio e alienazione
aumentano tra le persone. Questa
situazione, insostenibile e decisamente
esplosiva, ci impone di decidere quale
direzione dovrà prendere l'umanità. Ma
per capire come noi, il popolo Ebraico,
siamo coinvolti in tutto questo, dobbiamo
tornare al passato, quando tutto ebbe
inizio.
Il popolo di Israele si formò circa 4000
anni fa nell'antica Babilonia. Babilonia
era una civiltà fiorente e il suo popolo
si sentiva interconnesso e unito. Com’è
scritto nella Torah, “Tutta la terra aveva
un medesimo linguaggio e usava le stesse
parole” (Genesi 11:1).
Il loro legame si rafforzava sempre più ma
al contempo cresceva anche il loro ego.
Cominciarono a sfruttarsi l’un l’altro e
infine ad odiarsi. Così, mentre i Babilonesi
si sentivano connessi, tra di loro aumentò
l’alienazione a causa dell’ego crescente.
Di conseguenza i Babilonesi si sentivano
tra l’incudine e il martello e cominciarono
a cercare una soluzione alla loro
difficile situazione.
Due soluzioni alla crisi
La ricerca di una soluzione portò a due
opinioni contrastanti. La prima, quella di
Nimrod, il re di Babilonia, era naturale e
istintiva: la dispersione. Il re sosteneva
che quando le persone sono lontane tra
loro non litigano. La seconda soluzione
era quella di Abramo, un famoso saggio
babilonese dell’epoca. Egli sosteneva che,
in base alla legge della Natura, la società
umana era destinata a unirsi e quindi si
impegnò a unire i Babilonesi, a dispetto e
al di sopra dell’ego crescente.
In breve il metodo di Abramo prevedeva
l’unione delle persone al di sopra del loro
ego. Quando cominciò a divulgare questo
suo metodo tra i suoi conterranei “migliaia
e decine di migliaia di persone si riunirono
intorno a lui, e… instillò questo principio
nei loro cuori”, scrive Maimònide (Mishneh
Torah, Parte 1). Il resto del popolo scelse
il metodo di Nimrod, la dispersione, come
fanno i vicini litigiosi che cercano di
evitarsi a vicenda. Queste persone che si
dispersero divennero nel tempo ciò che
oggi chiamiamo “la società umana”.
Soltanto ora, dopo circa 4000 anni,
cominciamo a capire chi aveva ragione.
Le Radici del Popolo di Israele
Nimrod costrinse Abramo e i suoi
discepoli ad abbandonare Babilonia ed
essi si stabilirono nella terra che ora
conosciamo come “la terra di Israele”.
Essi lavorarono per costruire unione e
coesione in base al principio “ama il tuo
prossimo come te stesso”, si unirono al
di sopra dei loro ego e così scoprirono “la
forza dell’unione”, l’energia nascosta della
Natura. Ogni sostanza consiste di due
forze opposte, connessione e separazione,
e queste forze si equilibrano a vicenda.
Ma la società umana si evolve usando
solo la forza negativa, l’ego. In base al
piano della Natura è necessario che noi,
coscientemente, compensiamo la forza
negativa con quella positiva, l'unione.
Abramo scoprì la saggezza che porta
all'equilibrio, oggi noi la chiamiamo “la
saggezza della Kabbalah”.
Israele significa diretti al Creatore
I discepoli di Abramo si definirono
Ysrael (Israele) per via del loro desiderio
di andare Yashar El (diretti a Dio, il
Creatore). Essi desideravano scoprire la
forza di unione della Natura, in modo da
riequilibrare l’ego che si ergeva tra loro.
Grazie alla loro armonia si ritrovarono
immersi nella forza di unione, la forza
superiore, la forza radice della realtà.
Oltre a questa scoperta il popolo di
Israele apprese anche che nel corso dello
sviluppo umano gli altri Babilonesi, quelli
che seguirono il suggerimento di Nimrod,
disperdendosi nel mondo, e che sono
poi divenuti l'attuale umanità, avrebbero
anch’essi dovuto raggiungere l’unione.
Questa contraddizione tra il popolo
d’Israele, formatosi attraverso l’unione,
e il resto dell’umanità, formatasi come
conseguenza della separazione, è sentita
persino ai nostri giorni.
Esilio
I discepoli di Abramo, cioè il popolo
di Israele, attraversarono molte lotte
interiori. Ma per quasi 2000 anni la loro
unione prevalse e fu il fattore che tenne
insieme le persone. Infatti i loro conflitti
ebbero un unico scopo, quello di far
aumentare l’amore tra loro. Tuttavia,
circa 2000 anni fa, l’ego scoppiò tra
loro a una tale intensità che essi non
riuscirono a mantenere la loro unione.
Odio immotivato ed egoismo proruppero
e imposero loro la via dell’esilio. Questo
esilio, più che un esilio dalla terra fisica di
Israele, è esilio dall’unione. L’alienazione
all’interno della nazione di Israele causò la
loro dispersione tra le nazioni.
Tornando al presente, oggigiorno
l’umanità si trova in uno stato analogo a
quello degli antichi Babilonesi: uno stato
di interdipendenza, da una parte, odio e
alienazione dall’altra. E, visto che siamo
completamente interdipendenti in questo
nostro “villaggio globale”, il metodo di
Nimrod che prevede la divisione non è più
praticabile. Ora è necessario adottare il
metodo di Abramo: questo è il motivo per
cui gli ebrei, che applicarono il metodo
di Abramo connettendosi, ora devono
ritrovare la loro unione e insegnare
il metodo della connessione all'intera
umanità. E se non lo faremo di nostra
spontanea volontà, le nazioni del mondo ci
costringeranno a farlo con la forza.
A tale proposito è interessante leggere
le parole di Henry Ford, fondatore
della casa automobilistica Ford e noto
antisemita, nel suo libro The International
Jew - The world’s foremost problem
(L’ebreo internazionale - Il problema
più importante del mondo): “La società
ha una grande rivendicazione nei suoi
confronti (l’ebreo): che egli… inizi ad
Alla base dell'antisemitismo
Dopo migliaia di anni, passati nel
tentativo di costruire una società umana
di successo usando il metodo di Nimrod,
le nazioni del mondo stanno iniziando
a comprendere che la soluzione ai loro
problemi non è tecnologica, né economica
o militare. Inconsciamente sentono
che la soluzione sta nell’unione,
che il metodo di connessione esiste
tra la gente di Israele e quindi
riconoscono che dipendono dagli
Ebrei. Per questo biasimano gli
Ebrei, perché essi possiedono la
chiave della felicità del mondo.
Così, quando la nazione di
Israele cadde dall’altezza morale
dell’amore per gli altri, tra le
nazioni del mondo iniziò l’odio
nei confronti di Israele. E così,
tramite l’antisemitismo, le nazioni
del mondo ci spronano a svelare
il metodo della connessione. Rav
Kook, il primo rabbino capo di
Israele, fece riferimento a questo fatto
affermando “Amalek, Hitler e così via ci
risvegliano alla redenzione” (Essays of
the Raiah - Saggi del Raiah, Vol. 1).
Ma il popolo di Israele non sa di possedere
la chiave della felicità del mondo e che
la vera origine dell’antisemitismo sta nel
fatto che gli Ebrei portano dentro di loro il
metodo della connessione, la chiave della
felicità, la saggezza della Kabbalah, ma
non la rivelano a tutti.
Il dovere di svelare la Saggezza
Mentre il mondo geme sotto la pressione
di due forze contrapposte, la forza globale
di connessione e la forza di repulsione
dell’ego, stiamo ripiombando nella
stessa situazione esistente nell’antica
Babilonia prima della sua rovina. Ma
oggi non possiamo separarci gli uni
dagli altri per sedare i nostri rispettivi
ego. L’unica opzione è lavorare per la
nostra connessione, per la nostra unione.
Dobbiamo aggiungere la forza positiva
nel mondo, la quale bilancerà la forza
negativa dell’ego.
Il popolo di Israele, che discende da quegli
antichi Babilonesi che seguirono Abramo,
deve mettere in pratica la saggezza
della connessione, cioè la saggezza della
Kabbalah. E’ necessario che esso sia
d’esempio per l’intera umanità e quindi
diventi una “luce per le nazioni”.
Le leggi della Natura stabiliscono che
raggiungeremo tutti uno stato di unione.
Ma esistono due vie per raggiungerla: 1)
una via lastricata di sofferenze a livello
mondiale (guerre, catastrofi, epidemie e
disastri naturali) o 2) una via che porti
al graduale riequilibrio dell’ego, la via
lungo la quale Abramo condusse i suoi
discepoli. E quest’ultima è quella che noi
suggeriamo.
L'Unione è la soluzione
È scritto nel Libro dello Zohar “Tutto si
basa sull’amore” (Porzione VaEtchanan),
dato che “ama il tuo prossimo come
te stesso” è la legge fondamentale
della Torah ed è anche l’essenza del
cambiamento che la saggezza della
Kabbalah offre all’umanità. È un dovere
per il popolo Ebraico unirsi allo
scopo di condividere il metodo di
Abramo con l'intera razza umana.
Secondo Rav Yehuda Ashlag,
autore del commentario Sulam
(La scala) del Libro dello Zohar,
“È responsabilità della nazione
di Israele qualificare se stessa e
tutte le persone del mondo... per
svilupparsi fino ad assumere la
responsabilità del sublime lavoro
dell'amore verso gli altri, che è la
scala che porta allo scopo della
Creazione.” Se facciamo questo,
troveremo le soluzioni a tutti
i problemi del mondo, incluso
l'antisemitismo.
MICHAEL LAITMAN
* Su concessione dell’autore. Articolo
pubblicato sul New York Times il 20
settembre, su El Mundo il 28 settembre
e sul Jewish Telegraph Newspaper
il 3 ottobre u.s. Michael Laitman è
professore di Ontologia, ha conseguito
un dottorato in Filosofia e Kabbalah e
una specializzazione in Bio-cibernetica
medica. E’ stato il discepolo prediletto
e l’assistente personale di Rav Baruch
Ashlag (RABASH). Ha pubblicato oltre
40 libri, tradotti in molte di lingue.
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
adempiere… all’antica profezia per cui
per suo tramite tutte le nazioni della terra
dovrebbero essere benedette”.
21
FOCUS
Oltre i conflitti
“L
La creazione del mondo
e la missione del popolo ebraico
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
a vita e la morte ho posto
davanti a te [...] scegli dunque
la vita...” (Devarim 30, 15-19
).
Gli ebrei sono l’unico popolo
che simbolicamente fa iniziare la storia
con la Genesi. L’inizio sottolinea l’unità
del genere umano affinché nessuno possa
dire: «Mio padre è meglio del tuo». La
rivelazione che fa del popolo ebraico «un
popolo di sacerdoti» (‘am kohanim), al
servizio di D-o e dell’umanità, non impone
la rivelazione mosaica al resto del genere
umano. Nessuno è tenuto a fare propria la
cultura ebraica. E’ sufficiente che ognuno
rispetti le leggi etiche fondamentali, che
valgono per ognuno. I giusti fra le nazioni,
non sono meno cari a D-o dei giusti fra gli
ebrei. Nel commento all’Esodo, gli angeli
vorrebbero unirsi a Israele nel canto,
ma Dio, madre e padre di ogni essere
vivente, lo vieta. Coloro che annegano nei
flutti sono anch’essi figli suoi. L’appello
di Abramo ad abbandonare la sua terra,
per dare ascolto all’anima e al cuore è
anche un viaggio interiore. Nella logica
del pensiero biblico la differenza di Israele
sottolinea l’unità del genere umano e il
valore di ogni cultura. «Settanta persone»
discesero in Egitto, e settanta sono per la
Bibbia i confini che separano le nazioni.
È un aspetto dell’Ebraismo che limita
l’espansione all’esterno ai danni di altri
popoli, privilegiando la memoria e il tempo.
In ogni generazione, il racconto dell’Esodo
dovrebbe essere commentato come se
la liberazione riguardasse proprio quella
generazione. (Talmud, Pesachim, 116b). La
scelta tra la morte e la vita riguarda ogni
momento. La voce che annulla il comando
di sacrificare il figlio, esisteva nella mente
divina prima che il mondo fosse stato
creato.
22
L’inizio nell’universo ebraico significa che
l’altro non ha il ruolo di comparsa, non è
riducibile alle nostre proiezioni. Esiste in
sé e per sé. Il comandamento biblico di
amare il prossimo ha qui un suo preciso
significato. Poiché D-o ha creato l’uomo a
sua immagine e somiglianza, nello sguardo
dell’altro è la Divinità che si annuncia e
viene incontro. L’offesa contro l’umanità
è un oltraggio all’immagine divina. È per
l’amore verso la Divinità, madre e padre
di ogni vivente, che il sentimento della
compassione deve essere esteso a ogni
creatura.
Sei millenni di calendario sono il simbolo
di un inizio in cui il prima è rappresentato
da un’origine comune e dove la patria è
il mondo intero e la terra appartiene al
Signore. L’inizio cui si richiama l’Ebraismo
per celebrare il nuovo anno è ciò da cui ha
preso corpo il tutto. È impegnativo anche
nei rapporti con la natura e ha un valore
ecologico. In questa prospettiva i figli
non appartengono ai genitori, sono il più
prezioso dei doni.
Contro possibili fraintendimenti sul senso
da dare a un comandamento spesso
disatteso, Ben Azzai non esita a rintracciare
nel passo biblico sulla storia della famiglia
umana («Questo è il libro delle generazioni
dell’uomo») il fondamento di ogni cosa. La
parola acher, che in ebraico significa altro,
si compone di tre lettere che fungono da
acrostico. La alef indica l’achariut con cui si
intende il sentimento della responsabilità;
la chet sta per chaver e chevratiut con cui
si indicano l’amico e l’amicizia. Solo se
questi due aspetti del comportamento sono
stati introiettati l’altro diventa una persona
e non una mera proiezione. Chi nella
prima infanzia e nell’adolescenza non ha
sperimentato il valore dell’amicizia, avrà poi
difficoltà a vivere una relazione che non sia
meramente utilitaristica e di provare gioia
per la sola presenza di una persona cara.
Le benedizioni che D-o rivolge a Israele
non escludono le altre nazioni. Il patriarca
Abraham è capostipite di popoli e nazioni
che in lui sono benedette. Ishma’el
(Ismaele), suo primogenito, è nella
tradizione ebraica il capostipite dei popoli
arabi e islamici. ’Esau (Esaù), primogenito
di Itzchaq, il secondo dei patriarchi,
è il capostipite dei popoli cristiani.
La consonante h di Abraham, quinta
dell’alfabeto, è il segno di una presenza
divina che avvolge l’intero mondo.
Trasferitasi dalla moglie Sarai (che diventa
Sarah) al marito, dopo la terribile prova cui
ha fatto fronte, la duplice h di Abraham
e di Sarah è il segno di un rinnovamento
che appartiene al mondo. Anche nella
tragedia, l’Ebraismo non ha mai negato
ai suoi oppositori la loro umanità. Non era
stato Abraham a mettere in discussione
il diritto divino a distruggere Sodoma se
vi erano dieci giusti? Ishma’el ed ’Esau,
fratelli carnali dei patriarchi di Israele,
sono nel Midrash i simboli dell’Islam e del
Cristianesimo.
Poiché non è consentita la
rappresentazione per immagini, la
tradizione ebraica ricorre a una figura
astratta in cui sono simbolicamente
rappresentati i fori attraverso cui l’uomo
ascolta, vede e respira. Proiettando su uno
schermo sotto forma di cerchi e cerchietti
gli occhi, i fori nasali e le orecchie, si
ottiene l’immagine di un candelabro a sette
braccia. Espressione di una proiezione
simbolica del volto, il candelabro sta
a indicare i legami indissolubili che
uniscono il genere umano di cui Israele
si è posto storicamente e religiosamente
come testimone. Le due mani poste sulla
fronte dei figli con l’indice e il medio,
l’anulare e il mignolo rispettivamente uniti
corrispondono alle quattro lettere del Nome
impronunciabile.
Nonostante le persecuzioni, l’Ebraismo
è riuscito a conservarsi e rinnovarsi
perché non è mai chiuso in se stesso.
Anche nei momenti più difficili della sua
storia non ha mai smesso di pensarsi in
termini universali oltre che specifici e
particolari. La stagione degli ebrei spagnoli
fu il risultato di un incontro con la civiltà
islamica, pur all’interno di una condizione
di subalternità in cui non mancarono
la paura, l’angoscia e le persecuzioni.
L’esplosione di creatività degli ebrei che
uscivano dai ghetti, dopo l’emancipazione,
fu il risultato di un incontro creativo con la
cultura circostante, per quanto doloroso e
carico di ambiguità.
Sin dalla loro apparizione sulla scena
storica gli ebrei sono in cammino. La
terra è una promessa che si trasfigura
nella nostalgia di un ritorno al futuro in
cui realizzare le speranze mancate e le
aspirazioni del passato più antico e recente.
Nell’umorismo ebraico la patria può essere
un violino, più facile da portare con sé in
caso di abbandono forzato. Per parafrasare
il poeta Heinrich Heine, il violino è come
la Torah, «una patria portatile». Si può
trasportare con sé in una piccola valigia.
Non è un peso e non ingombra. Rispetto al
pianoforte lo si può portare in una piccola
valigia, come la Torah, il talleth e i tefillin,
non ingombra.
storia più antica. Il posto della patria è
stato preso da un Libro rinnovato nei suoi
significati di generazione in generazione.
Il passato idealizzato è trasfigurato in
un programma di rinnovamento che
investe ogni aspetto della vita. Nella
mistica è il mondo intero che vive in
questa attesa. Nel canto gioioso di
Lekhah Dodì con cui si accoglie la sposa
mistica, rappresentata dallo Shabbath,
è possibile sperimentare come certezza
un frammento di futuro messianico. La
parentela semantica delle parole galuth
e gheullah è per i mistici della Qabbalah
anche una parentela di sostanza. Di
fronte alla tragedia delle persecuzioni
il più oppresso dei popoli sa di essere
interiormente più libero dei suoi
oppressori. Nonostante le apparenze,
sono i persecutori e gli oppressori a non
essere liberi, perché si sono staccati dalla
fonte primaria dell’Essere. Il D-o “che si
nasconde” è tale solo nella confusione
prodotta dallo smarrimento e dal
dolore. In realtà D-o non è mai
assente, anche se in questa presenza
non vi è ormai più nulla delle
teofanie trionfali con cui lo spirito
ingenuamente religioso ne aveva
cercato i segni.
Il rapporto che l’Ebraismo intrattiene
con la Terra non è di appropriazione,
né di saccheggio, né di dominio. La
Terra non attribuisce il nome al popolo,
ma viceversa è il popolo che dà un
nome a una terra di cui è custode. La
memoria della condizione straniera
nella schiavitù, è un appello rivolto
al futuro che assume il sentimento
di estraneità come valore costitutivo
dell’essere umano contro la tentazione
regressiva dell’idolatria nazionalistica
e statalistica. La condizione straniera,
come ripete con insistenza il Devarim, è
una condizione ontologica che prescinde
dalla condizione materiale e dalla sovranità.
In questa logica, la libertà non si misura
sul potere che si ha sugli altri. Quella è la
libertà del Faraone che conduce il mondo
alla catastrofe. Non è una questione di
territorio o di provenienza. Abraham
è un ebreo (’ivrì) perché è altrove non
nel senso fisico e materiale del termine,
ma con la mente e con lo spirito. Il suo
orizzonte mentale è una giustizia rivolta a
tutta l’umanità e che si estende al mondo
animale e vegetale. La responsabilità
verso il creato è assoluta e la terra è solo in
affidamento. Questo concetto esplosivo è
la grande vera sfida che Israele, rinascendo
come nazione sovrana, lancia al mondo. Se
ci si pensa bene, sta qui uno dei significati
reconditi del rifiuto di cui è oggetto da
destra e da sinistra.
DAVID MEGHNAGI
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
La vita nella diaspora non è stata
solo una valle di lacrime. Diaspora ed
esilio non sono sinonimi. L’immagine
della Sukkah, la capanna in cui
dimorarono gli ebrei nel deserto, non
è un’immagine di perdita, ma di una
presenza di vita che nessuna realtà
statuale potrebbe mai surrogare.
Per i padri fondatori, il sionismo voleva
dire recupero di un più antico passato
nazionale che riportava gli ebrei dentro
la storia. La valorizzazione della Bibbia
rispetto al Talmud rientra in questo
quadro perché racconta una teodicea
dentro la storia. Il Talmud colloca i
personaggi biblici fuori dalla storia, li
trasforma in figure archetipiche e in
metafore di un discorso situato fuori
dal tempo storico, valido in ogni epoca.
Che un evento raccontato nel Midrash
si svolga due o tremila anni fa ha poca
importanza.
L’obiettivo del Midrash è di attualizzare
il testo biblico e i suoi insegnamenti.
La drammatizzazione delle ansie della
comunità, la gestione delle angosce e
delle paure collettive, la loro sublimazione
sono funzionali al rinnovamento della
vita comunitaria e alla costruzione di
un futuro possibile. L’immagine del
ritorno conservata nella liturgia è stata
caricata, generazione dopo generazione,
di significati nuovi che hanno reso
possibile il rinnovamento dell’esistenza.
Il ritorno è anche pentimento, riparazione
e restaurazione dell’anima. Nella visione
messianica tornare a Gerusalemme
è un ritorno al futuro. Combinando le
immagini di un passato idealizzato con
la speranza in un futuro diverso per
l’umanità intera, l’Ebraismo si è rinnovato
nei secoli conservando i legami con la
23
MONDO
Inaugurato a Varsavia il Museo
della storia ebraica in Polonia
I nazisti annientarono il 90%
dei 3,3 milioni di ebrei polacchi
I
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
presidenti della Polonia Bronislaw
Komorowski e di Israele Reuvin
Rivlin, insieme ad alcuni sopravvissuti all'Olocausto (tra cui Roman Polanski) hanno partecipato alla
cerimonia ufficiale di inaugurazione del
nuovo museo multimediale che racconta la storia di 1.000 anni di vita ebraica
in Polonia.
Parlando in ebraico, Rivlin – al suo
primo viaggio all’estero come Capo di
Stato – ha detto: "Quando sei un Ebreo,
anche se non sei nato in Polonia, il
nome stesso di 'Polonia' suscita timore
e ansia nel tuo cuore". "Questo paese
– ha ricordato Rivlin – è stato un luogo
di creazione dello spirito della nazione
ebraica e – ahimè! - è anche il più grande cimitero ebraico. Qui è nata la città
ebraica (shtetl) ma qui è stata anche uccisa, e gli ebrei sono stati chiusi a chiave nei ghetti ma non hanno mai smesso
di lottare, fino a quando non sono stati
assassinati da tedeschi nazisti. "
"Anche se gli ebrei sono stati strappati
dalla Polonia – ha concluso –, è difficile
se non impossibile strappare la Polonia
agli ebrei. Non si può cancellare una
storia così ricca e dolorosa allo stesso
tempo".
Il presidente polacco Komorowski si è
detto convinto che il museo contribuirà a rimuovere falsità e distorsioni nel
modo in cui i polacchi e gli ebrei vedono l'un l'altro, e in tal modo contribuirà
alla costruzione di nuove relazioni tra le
due nazioni la cui vita e culture si sono
intrecciati per secoli.
L'edificio che ha già aperto al pubblico
24
nell'aprile 2013, in occasione del 70esimo anniversario dell'insurrezione del ghetto di Varsavia contro i nazisti, attirando 400mila
visitatori, è una struttura in vetro, costruita sul luogo dove c'era
il ghetto. Di fronte, il Monumento agli Eroi, dove nel 1970 il cancelliere tedesco Willy Brandt si inginocchiò per chiedere perdono
per le violenze inflitte dal regime nazista durante la guerra.
Il nuovo museo, che vuole ricordare la cultura ebraica anche e
soprattutto "prima" del ghetto, ha una superficie di 4mila metri
quadri ed è diviso in otto sale tematiche. E' stato realizzato su progetto degli
architetti finlandesi Rainer Mahlamaeki e Ilmar Lahdelma, scelto tra oltre
100 candidati. "Polin" – questo il nome
del museo ("Polonia" e "Riposati qui" in
ebraico) è un museo "narrativo", secondo la direttrice dei programmi Barbara
Kirshenblatt–Gimblett. In altre parole,
cerca di rievocare il passato grazie a
delle installazioni multimediali e a delle scene di vita o dei paesaggi urbani
ricostituiti. Sponsorizzato da donatori
privati, da fondazioni tedesche, dal governo polacco dalla città di Varsavia e
dall'Ue, il progetto è costato 50 milioni
di euro.
La facciata in vetro del nuovo museo
è come divisa in due da una "frattura",
esattamente davanti al monumento agli
eroi del ghetto.
I nazisti annientarono il 90% dei 3,3
milioni di ebrei che componevano la comunità ebraica anteguerra in Polonia.
In più, rasero al suolo Varsavia, in una
furia distruttiva con cui i curatori del
museo hanno dovuto fare i conti anche
in termini di reperti da esporre.
Del primo periodo di presenza ebraica
in Polonia restano oggi una selezione di
lapidi funerarie, una collezione di monete e poco di più. Così il museo fa ampio
ricorso al multimedia e anche alle riproduzioni, come quella di una sinagoga
del 18esimo secolo, una copia del luogo
di culto ebraico della cittadina di Gwozdziec: parte della memoria che il nuovo
museo di Varsavia vuole ricostruire, più
che mettere in mostra.
La storia emblematica di Umberto
Vorchheimer che ha lottato anni per
riottenere la cittadinanza italiana
N
EW YORK – Si è spento a Filadelfia il 1° ottobre scorso
in seguito ad una operazione a cuore aperto per sostituire la valvola aortica, l’81enne Umberto Vorchheimer.
Milanese trapiantato a Filadelfia, la sua scomparsa segna un grave lutto non solo per la moglie Carol, le due figlie Ellen
Mandelberg e Shoshana Siegelman e i suoi cinque nipoti Laura,
David, Elisha, Aaron e Sara, ma anche per i tanti ebrei italiani
costretti dalle leggi razziali del Duce a scappare all’estero, di cui
fu vero pioniere.
L’ex dirigente della General Electric in pensione era finito sulle
prime pagine dei giornali nel 2009, quando, dopo anni di inutili
tentativi, era riuscito ad ottenere da Roma il riconferimento della
cittadinanza rubatagli dai fascisti nel ‘39, in quanto ebreo. Primo
di una serie di anziani ebrei italiani – tra cui la 91enne Stella Levi,
sopravvissuta ad Auschwitz dove perse i genitori Miriam e Jehuda – che usarono il suo precedente per farsi valere al ministero
degli Interni, dopo anni di penosi dinieghi (la Levi riottenne la
cittadinanza nel 2011).
L'odissea di Vorchheimer inizia nel febbraio del 1933 a Milano,
dove l'unico figlio di Vittorio Felice - facoltoso commerciante di
origine tedesca trasferitosi in Italia nel 1912 e dal 1936 cittadino
italiano - vede la luce in un bell’appartamento in via Visconti di
Modrone. Tre anni più tardi la serena esistenza della sua famiglia
va in frantumi.
«Nel giro di pochi mesi mia madre morì di cancro a 31 anni», mi
confidò Vorchheimer nel 2008, durante il suo braccio di ferro con
la burocrazia romana - Mussolini ci revocò la cittadinanza e papà
fu costretto a svendere per poche lire ai fascisti il suo negozio di
cappelli in corso Venezia». Dopo un pellegrinaggio tra Liguria e
Svizzera, dove frequenta la scuola e viene accudito dall'adorata
nonna materna Omi, nel maggio 1940 deve dire addio all'Italia.
«Il giorno del mio settimo compleanno nonna mi disse che sarei
partito per New York insieme a papà, mentre lei avrebbe raggiunto i suoi figli a Buenos Aires», mi spiegò nella stessa intervista.
L'ultimo giorno di scuola, quando un compagno gli grida dietro
«l'America perderà», lui non capisce di cosa stia parlando. Dopo
aver ritirato il visto al consolato americano di Napoli, padre e fi-
glio si recano al cimitero
Maggiore di Milano per
dire addio alla moglie e
madre: «Papà recitò sottovoce il Kaddish, mentre
io deposi una pietra sulla
tomba».
Salpano per l'America da
Genova a bordo del transatlantico S.S. Rex e al loro arrivo a New York vengono accolti da
zio Julius, tratto miracolosamente in salvo da Dachau dal fratello Vittorio Felice verso la metà degli anni ‘30, proprio in quanto
“parente diretto di un cittadino italiano”. Ma un decreto in data
15/12/1939 emanato da Vittorio Emanuele III su proposta di Mussolini revocherà «ad ogni effetto» la loro cittadinanza italiana.
Da quando, anni fa, seppe che Usa e Italia avevano introdotto la
doppia cittadinanza, Vorchheimer non si è dato pace anche se
mille cavilli burocratici hanno rischiato di far naufragare il suo
sogno. «Mi domando come sarebbe stata la mia vita se non mi
avessero cacciato dall'Italia - mi disse un giorno -. Milano è la mia
città, un buon posto per crescere e diventare vecchi».
In un’altra occasione aveva riflettuto sui tanti ebrei italiani esuli
all’estero, meno fortunati di lui. «Chissà quanti di loro sono morti in terre lontane senza poter mai correggere quell'ingiustizia»,
aveva detto. Come Giorgina DeLeon Vitale, 83enne ebrea torinese emigrata in Connecticut, stroncata da un tumore al seno dopo
una annosa e inutile lotta per riavere il passaporto italiano.
L’amarezza ha accompagnato anche la vita di Vorchheimer Senior
fino alla morte: «Papà era un uomo infelice, non l'ho mai visto
ridere». Nell’adottiva America, invece, lui si costruisce una nuova
vita. Si laurea, diventa un attivista contro la guerra del Vietnam
e come i suoi coetanei va pazzo per Bob Dylan, i Beatles e Pete
Seeger. Più tardi diventa pilota dell’aereonautica al servizio dello
Strategic Air Command e intenta causa alla Central High School,
il più antico liceo pubblico d’America allora solo maschile, che si
rifiuta di iscrivere la figlia Susan. Dopo ben 8 anni di contenzioso
stravince, in una sentenza giudicata “storica” negli annali della
pubblica istruzione Usa.
“Umberto era un ebreo progressista”, lo ricorda l’amico Richard
Juliani, “insieme ad un gruppo di noi aveva fondato una delle
prime Chavurah, o Underground Synagogue, le sinagoghe senza
rabbino e senza muri nate in America tra la fine degli anni '60 e i
primi anni '70, come alternativa egalitaria e progressista alle istituzioni ebraiche giudicate troppo formali e ingessate”.
ALESSANDRA FARKAS
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Quegli ebrei fuggiti dall’Italia
ma con l’Italia nel cuore
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MONDO
Una storia di coraggio
Malala Yousafzai è una ragazza pakistana
che lotta da sola contro l'intolleranza
e l'oscurantismo dei talebani.
È stata insignita del premio Nobel per la pace
I
l 10 ottobre 2014 è stata una giornata storica: Malala Yousafzai,
Pakistana di soli 17 anni, è diventata la più giovane vincitrice
del premio Nobel per la pace, premio che riceverà il 10 Dicembre a Oslo insieme all'indiana Kailash Satyarthi. La motivazione
del comitato di Oslo per il Nobel è stata: "per la loro lotta contro
l'oppressione dei bambini e dei giovani e
per il diritto alla loro istruzione ... e di non
essere sfruttati economicamente".
L'attività di Malala è cominciata a soli 11
anni, quando, con coraggio e rischio della
vita, ha scritto su un blog della BBC, descrivendo la vita quotidiana sotto il regime del talebani in Pakistan e criticando la
loro politica che non rispetta i diritti delle
donne e dei bambini negando loro la possibilità di studiare.
Malala è nata in una famiglia in cui il padre, preside di scuola, l'ha incoraggiata a
studiare e dove la parola "educazione" era la più sentita in casa. Il 9
ottobre 2012, ritornando sull'autobus da scuola, è stata fermata da
due talebani, che identificandola come Malala Yousafzai, le hanno
sparato tre proiettili alla testa ed al collo, riducendola in gravi condizioni. Inizialmente è stata ricoverata in un ospedale militare in Pakistan e successivamente trasferita in un ospedale di Birmingham
in Inghilterra. Il 15 ottobre, per la prima volta dopo essere stata col-
pita, ha aperto gli occhi, e le sue prime parole sono state: "grazie
per essere ancora viva". Poco tempo dopo è ritornata studiare e a
continuare la sua lotta. Il giorno in cui compiva 16 anni ha parlato alle Nazioni Unite a New York, pronunciando queste parole: "un
bambino, un insegnante, un libro ed una penna possono cambiare il
mondo". L'11 ottobre 2013, ha incontrato il
presidente degli USA Barack Obama e la
sua famiglia alla Casa Bianca, ed è stata
ringraziata per il suo impegno.
A Malala sono state assegnate varie onorificenze come il premio Sakharov, per
la libertà di pensiero, è stata ospitata al
Parlamento Europeo e le è stata conferita
la cittadinanza onoraria in Canada, assegnata anche a leader come Nelson Mandela ed il Dalai Lama. Inoltre per il "Time
Magazine" nel 2013 è stata una delle 100
persone più influenti nel mondo. Ha pubblicato un libro autobiografico "Io sono Malala", che è diventato un
best seller.
Il suo sogno sarebbe stato quello di essere medico, ma per la sua
attività in giro per il mondo e per la possibilità di ispirare le persone,
ha deciso di continuare la sua missione politica in favore della libertà e dell'educazione. Per Malala il cielo è il solo limite.
YAARIT RAHAMIM
CENTRO EBRAICO
ITALIANO
“IL PITIGLIANI”
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
LA DOMENICA PASSALA CON NOI
Per i bambini dai 3 ai 10 anni
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DOMENICHE DI EBRAISMO
A BOTTEGA CHI CI STA…?
TEATRO
Per tutti coloro che vogliono
scoprire tutto
sulle feste ebraiche,
ebraismo ed ebraico
con corsi di lingua
Giornate divertenti
con attività, giochi,
gite, baby parking,
orari flessibili
e tanto altro ancora…
Spettacolo,
merenda
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inerente il testo
Dalle 10:30 alle 15:30
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
Dalle 8:30 alle 20:00
Ore 11:00
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
7 DICEMBRE: A bottega chi ci sta…? + Domeniche di Ebraismo = Aspettando Channukkà
14 DICEMBRE: A bottega chi ci sta…? + Teatro = Ester e il disastro di Channukkà
21 DICEMBRE: A bottega chi ci sta…? + Domeniche di Ebraismo = È arrivata Channukkà
Per info e prenotazioni: Giorgia Di Veroli – [email protected]
Via Arco de’ Tolomei, 1 - Roma tel. 06.5897756 - www.pitigliani.it
Patrick Modiano, un Nobel
per le identità sul confine
di sicuro di risulta del tutto estraneo a Patrick Modiano è invece
l'anagrafe di una qualsiasi Comunità o Congregazione. Forza, che
abbiamo vinto un altro Nobel. Non è così, infatti. La letteratura
non tollera semplificazioni né banalizzazioni. La letteratura parla
sempre d'altro, e dunque dell'altro presente nelle nostre vite. C'è
l'altro alle origini dell'universo e ne costituisce l'essenza, parla a
noi servendosi di noi.
Si procede dunque come la psicoanalisi di Jacques Lacan, che Modiano sente profondamente congeniale. Per lo scrittore l'altro più
assoluto è la Francia occupata dopo la disfatta del 1940, gli altri
sono i genitori. Nato nel 1945, Patrick viene battezzato nel settembre 1950. Il padre, Albert Modiano
è un ebreo di origini greco-egiziane-italiane. La madre, Louisa Colpijn, un'attrice fiamminga. Albert
ha un passato ambiguo, è riuscito
a non farsi registrare come ebreo
dalle autorità di Vichy, è sopravvissuto grazie al mercato nero e forse
ha lavorato per la Gestapo. E forse
ha salvato alcuni partigiani. Doppio
e triplo gioco, chissà. Non si occupa
del figlio, gli dedicherà solo qualche ora di passaggio nell'atrio delle
grandi stazioni. Anche Louisa non
ha tempo, lo affida ai nonni materni. Il fiammingo è la madrelingua di
Patrick. Nasce un fratello, che muore ancora bambino.
C'è però un amico fraterno, Georges Perec. Un grandissimo della
moderna letteratura francese, erede di una storia peggiore. Nato
ebreo nel 1936, poi battezzato per sottrarlo alla furia nazista. Il padre è ferito mortalmente in combattimento, la madre assassinata
ad Auschwitz. Ecco due scrittori angosciati e disorientati dalla dicotomia tutta europea "ebreo-non ebreo". Parlare di ricerca di identità risulta banale per definizione, quando si tratta di ebrei che
sono ebrei in modo molto deviante, e che opporrebbero strenua
resistenza ad ogni tentativo di immobilizzarli dentro confini precisi. Ma leggiamo la motivazione proposta dall'Accademia di Svezia:
l'opera di Modiano merita il premio "Per l'arte della memoria con la
quale egli ha fatto riapparire i destini più inafferrabili e svelato il
mondo delle vite vissute sotto l'occupazione.". Ci lamentiamo spesso dell'Italia, però Fleur Pellerin, ministro francese della Cultura
nel più acclamato dei ministeri, legge poco, non ha tempo, non
sapeva nulla di Modiano. L'Accademia manda spesso messaggi
cifrati, mentre le sue scelte che talvolta arrivano del tutto inaspettate, ed è il caso di Modiano, seguono una logica ferrea. Decisione
fulminante, esemplare. Il messaggio è tutt'altro che cifrato: nella
storia recente, l'occupazione è una ed una soltanto, non c'è neppure bisogno della maiuscola. L'occupazione coincide con Parigi e la
Francia 1940-1945, e basta, con buona pace di quelli che amano
confondere "occupazione" con amministrazione di territori nell'attesa di un trattato definitivo di pace.
PIERO DI NEPI
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
A
Patrick Modiano basterebbero due titoli, Rue des Boutiques Obscures (1978) e Dora Bruder (1997). In Via delle
Botteghe Oscure, proprio nel centro storico di Roma e
a un passo dal quartiere antico degli ebrei romani, Modiano ha abitato per davvero in anni ormai lontani. Ecco dunque
la vicenda di un uomo che si fa chiamare Guy Rolland, ma non sa
nulla del suo passato e non conosce neppure la sua vera, originaria
identità. Lavora per un'agenzia di investigazioni private, non deve
far altro che fare il proprio mestiere quando il proprietario se ne
va in pensione a Nizza e lo nomina titolare. Guy si mette al lavoro,
arriva fino a Bora Bora in Polinesia, passa da Roma. Non approda a
nulla. E' destinato a non conoscere niente di sé. Dora Bruder invece è un nome che compare tra gli annunci di richiesta informazioni
su persone scomparse. Però si tratta di una pagina di Paris-Soir del
31 dicembre 1941. Dora ha quindici anni, e chiaramente è ebrea.
Il 26 maggio 1978 Modiano, scrupoloso fino all'ossessione, scrive
a Serge Klarsfeld, un cacciatore di nazisti temuto quanto e più di
Simon Wiesenthal. Klarsfeld ha raccolto il libro della memoria della Shoah in Francia. Più di 70.000
nomi. Luoghi, persone, atmosfere
avvolti nella penombra. Modiano
vuole impedire che dalla penombra
si scivoli nell'oblio. Esattamente
come Proust, sa che la parola scritta
cerca e trova il tempo perduto. Ma
il tempo perduto nel suo caso non
è la Belle Epoque, bensì la notte e
le nebbie della Francia occupata per
cinque anni, la Francia di Petain e
Laval, della Gestapo e dei collaborazionisti.
Di romanzi Modiano ne ha pubblicati finora 29, e ha sceneggiato 8 film.
Uno è assolutamente straordinario e
giustamente celebre. Lacombe Lucien di Louis Malle (1974) trasforma
in immagini la corruzione morale
assoluta che il regime di Vichy ha
consegnato alla Francia del dopoguerra. Il romanzo Une jeunesse è portato sugli schermi nel 1983 dal regista israeliano Moshe
Mizrahi. Rende esplicito il legame di ogni ebreo "nato dopo" con
un passato sfuggente e con la propria giovinezza, che da questo
passato è segnata. Ma nella vicenda, ovviamente, di ebrei non si
parla. Se si vuole davvero rivelare qualcosa di Patrick Modiano e
dei suoi libri è meglio prendere lo spunto risalendo la corrente,
all'indietro, come lui stesso ha sempre fatto fin dal suo primo romanzo del 1968, Place de l’Etoile. Proiettarsi su qualcun altro, e in
qualcun altro.
Dunque neppure questa volta Philip ce l'ha fatta. A vincere il Nobel, naturalmente. E forse è meglio così. Dichiaratamente ateo,
Philip Roth disorienta tuttora la nomenklatura. Non pochi, infatti,
negano la patente di leale e reale ebraicità all'autore del Lamento di Portnoy e di Operazione Shylock. Invece Patrick Modiano lo
hanno immediatamente arruolato d'ufficio. Gli ebrei più liberal non
si sono lasciati sfuggire l'occasione, neanche in Israele. Ma è l'occasione sbagliata.
Certamente Patrick Modiano ha qualcosa di profondamente ebraico, e cioè la ricerca angosciosa del chi sono io? e del sé. Tanto più
inquietante in chi è nato dopo, ma rivela comunque una storia personale di "testimone del non-provato" (un concetto che dobbiamo a
Raffaella Di Castro e al suo bel libro del 2008). Nelle foto, quello di
Patrick Modiano è un volto che evoca famiglie ben conosciute nelle diaspore e in Israele. E anche nella storia della Shoah. Ciò che
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LIBRI
Da Modillano a Modiano
La genealogia di una grande famiglia
sparsa per il mondo che annovera
il Premio Nobel per la Letteratura
Patrick Modiano
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
O
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gni 2 anni si incontrano in qualche
parte del mondo: la prima volta fu
a Firenze su iniziativa di Guido Modiano, e poi Milano, Napoli, Tel Aviv,
Salonicco, Venezia, Parigi; il prossimo anno
sarà Washington. I Modiano sono una grande famiglia che abita in tutto il mondo – USA,
Messico, Italia, Francia, Grecia, Turchia – ed ha
compreso nomi illustri del panorama intellettuale mondiale: uno per tutti Patrick Modiano,
recentemente insignito del Premio Nobel per
la letteratura, figlio
del francese Albert
e dell’attrice fiamminga Louisa Colpijn. Malgrado fosse un grandissimo
romanziere, non si
aspettava di ricevere tale onorificenza,
conferita “per l’arte
della memoria con
la quale ha evocato
i destini umani più
inafferrabili e svelato la vita reale durante l’Occupazione”. Di lui
scrive il giornalista Mario Modiano z.l., che purtroppo è scomparso l’anno scorso, ma ha fatto
in tempo a consegnare ai posteri la pubblicazione in proprio della genealogia della sua famiglia, realizzata ad Atene nel 2000 in inglese:
“Hamehune Modillano. The Genealogical Story
of the Modiano Family from 1570 to our days”
in cui si annoverano circa 1700 membri in 400
anni di storia.
Le prime notizie della famiglia Modiano si riferiscono ad un certo rabbino Samuel Modillano
che, alla fine del XVI secolo, dall’italiana Modigliana (vicino a Forlì), va nella Salonicco dominata dagli Ottomani. Il volume, frutto di una ricerca durata oltre dieci anni, descrive le origini
del cognome, tra Salonicco, Livorno e Modigliana, parla dei rabbini Samuel Isaac, Joseph Isaac
e Joseph Samuel e poi illustra i vari rami della
famiglia con dovizia di particolari e riproduzioni
di alberi genealogici per rendere più semplice
la comprensione dei vari rami familiari. L’autore
nella prefazione ci avverte che non si tratta della storia esaustiva della famiglia Modiano, impresa titanica considerate le sue ramificazioni,
ma del tentativo di colmare alcune lacune nella
ricerca delle proprie radici. “Lo racconterai ai
tuoi figli” è uno degli impegni più importanti
nella tradizione ebraica che i genitori devono mettere in pratica nei confronti del proprio
passato e del proprio futuro: Mario Modiano ha
consegnato ai propri discendenti uno strumento fondamentale per aiutarli nella ricerca della
propria identità e per stimolarli verso nuove ricerche nella galassia familiare dei Modiano.
SILVIA HAIA ANTONUCCI
A cena dalla Regina
Rutu Modan
Giuntina, p.32 € 15
Con tocco lieve e divertito l’autrice, l’israeliana Rutu Modan, ci coinvolge nell’avventura della protagonista Nina. Monella e rossa di capelli, un po’ Pippicalzelunghe, Nina non rispetta le regole che le impartiscono i genitori, soprattutto quando è l’ora dei pasti: “Mangia
con la bocca chiusa” ,“stai dritta”, la rimproverano, fin quando un
araldo con tanto di marsina le recapita un invito dalla Regina d’Inghilterra. Nina, molto preoccupata, arriva a corte, viene presentata
alla Regina e invitata a sedersi a tavola… Che cosa succederà? Farà
una figuraccia? O sarà la Regina a ritrovare la spontaneità, ormai
frenata da regole troppo rigide? Rutu Modan, illustratrice fumettista, nel racconto gioca sul rovesciamento delle regole e su come i
bambini riescano a farci vedere il mondo con i loro occhi magicamente…
Maschio e femmina Dio li creò
La donna nell’ebraismo
AA.VV.
Sovera edizioni p. 144 € 12
Un libro sul ruolo della donna, scritto da sole donne, “Maschio e
femmina Dio li creò” è una accurata ricerca nelle varie fonti rabbiniche, fatta per rispondere alle numerose domande sui pregiudizi
nei riguardi della donna nell’ebraismo. Dopo la rivoluzione femminista anche l’ebraismo è stato sottoposto a forti critiche. Il libro si
apre con la presentazione del Rabbino Capo Riccardo Di Segni e si
susseguono gli approfondimenti delle autrici su diverse questioni:
dalla creazione dell’uomo e della donna alla benedizione del mattino, dai tre precetti della donna, alla sua voce, all’insegnamento,
alla redenzione fino ad arrivare al ruolo delle filosofe ebree del Novecento come Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt e Jeanne
Hersch. Prezioso.
“Non era una donna, era un bandito”
Rita Rosani una ragazza in guerra
Livio Isaak Sirovich
CIERRE edizioni, p.400 €18
La figura di Rita Rosani, maestra ventitreenne uccisa per mano
nazifascista nel 1944, viene ricordata in questa preziosa biografia,
basata su rapporti epistolari e sugli atti dei processi a carico dell’assassino della donna. L’autore, Livio Sirovich, nel libro descrive altre
due persone, il cui destino inevitabilmente si intreccia con quello di
Rita: il fidanzato Kubi, che sarà internato prima nel campo di concentramento in Calabria e in Abruzzo per poi trovare la morte ad
Auschwitz e il colonnello Ricca, reduce di Russia. Scappata dai pogrom, Rita con la famiglia si rifugia in Veneto. Divenuta partigiana
in una unità autonoma, verrà uccisa il 17 settembre 1944 sul Monte
Comun, a nord di Verona durante uno scontro a fuoco. A Rita, unica
donna morta in combattimento, medaglia d’oro al valor militare e
l’intitolazione di due strade, una a Trieste e l’altra a Verona.
Sinagoghe in Italia
Franco Bonilauri - Vincenza Maugeri
Mattioli 1885, p.160 € 16
In Italia la bimillenaria presenza ebraica è dimostrata da significative tracce storiche in diverse città e nei piccoli centri, dove le comunità ebraiche si radicarono. L'elemento più rappresentativo è la
Sinagoga, da sempre punto di riferimento per ogni ebreo e il luogo
sacro per eccellenza. Gli autori, Franco Bonilauri e Vincenza Maugeri, con questa opera offrono un prezioso aiuto a chiunque voglia
scoprire quei luoghi così importanti per l'ebraismo. La guida è arricchita dalla prefazione di rav Alberto Sermoneta, da una introduzione generale sulla storia degli ebrei italiani con dettagliate schede
di approfondimento e dalla descrizione delle Sinagoghe con note
storiche. Il tutto corredato da splendide foto.
A cura di JACQUELINE SERMONETA
Il miracolo della rinascita
G
eneralmente le autobiografie di
personaggi in vita rischiano di
apparire noiose perché c'è sempre il rischio che l'autore cada
nella tentazione di autoelogiarsi o di trasformare la sua vita in una serie ininterrotta di epiche e clamorose vicende, più
romanzate che reali.
Non è il caso del libro scritto
da Israel Meir Lau (rabbino
capo di Israele dal 1993 al
2003 e attuale presidente
dell'Istituto Yad Vashem di
Gerusalemme), un libro - e
non sono solito usare aggettivi elogiativi per nessuna
recensione - di una sconvolgente bellezza, e di una
tale profondità da lasciarmi
spesso senza fiato.
"Dalle ceneri alla storia" è il
racconto di un bambino di
otto anni che - come scrive
lo stesso Lau - dopo essersi "laureato all'università di
Buchenwald", dopo essere miracolosamente sopravvissuto alla Shoah (che ha distrutto tutta la sua famiglia lasciandolo orfano),
dopo essere stato nascosto in un sacco dal
'fratello-custode', giunge in Israele senza
saper leggere una lettera di ebraico e da
qui inizia un lungo percorso di studio ma
soprattutto di riaffermazione della propria
identità ebraica. Il piccolo Lau è cosciente
di rappresentare una famiglia di rabbini da
36 generazioni e sa che il padre, rav Moshe Haim, consapevole della tragedia che
si stava abbattendo sugli ebrei dell'est Europa, ha affidato la salvezza e l'educazione del piccolo Israel al fratello maggiore
Naftali. E Naftali, tra mille insidie, riuscirà
nell'impresa di salvare il fratello dal campo
di sterminio, di portarlo nel nascente stato
di Israele e di seguirne gli
studi rabbinici.
Impossibile raccontare un
libro che è il racconto di un
uomo che nell'arco della sua
vita, negli incontri privati e
in quelli ufficiali con i leader del mondo (Fidel Castro,
Obama, Clinton, Gorbaciov, Clinton, il re Hussein
di Giordania, il presidente
egiziano Mubarak, Nelson
Mandela, la regina Elisabetta, i pontefici Giovanni Paolo
II e Ratzinger) ha sempre
avuto a cuore la ricostruzione dell'ebraismo che i
nazisti tentarono di distruggere: si trattasse di recuperare un vecchio sefer torà,
di portare matzot (pane azzimo) dove non
si celebrava più Pesach, di riaccendere la
fiamma dell'ebraismo nei cuori di ebrei che
erano soli e abbattuti dal dolore. Una campagna di ricostruzione umana e culturale,
degli ebrei e dell'ebraismo, che Israel Lau
ha condotto prendendo forza dal suo stesso
dolore ma che ha trovato insegnamento dai
suoi Maestri (rav Itzhak Yedidya Frenkel,
rav Josef Kahaneman, rav Shlomo Zalman
Auerbach, rav Menachem Mendel Schneerson) e nell'azione del primo capo rabbino di
Israele, Itzhak Halevi Herzog, che durante
la seconda guerra mondiale cercò più volte
inutilmente di incontrare papa Pio XII, per
chiedere alla Chiesa un intervento in difesa
degli ebrei. Solo alla fine del conflitto Pio XII
riceverà Herzog che gli chiederà di consentire ai conventi e alle associazioni cattoliche
di rilasciare i bambini ebrei che erano stati
nascosti dalle autorità ecclesiali. Alla fine
dell'incontro tra il papa e il rabbino capo di
Israele - ricorda rav Lau - Herzog chiese di
andare immediatamente in un mikve.
Sono tantissimi gli aneddoti e gli incontri
che Israel Lau raccoglie, racconta, dimostrando che dietro l'apparente quotidianità, vi è un disegno segreto, uno scopo ultimo, una immanente presenza divina che
riesce a dare un senso al dolore, all'abbandono, alla precarietà che solo chi ha vissuto la Shoah ha provato.
E' un libro profondamente 'religioso', non
perché lo sia l'autore, ma perché afferma
la fede nella bontà dell'uomo, e soprattutto
l'ottimismo che l'eredità che il popolo ebraico tramanda di generazione in generazione da migliaia di anni, non si interromperà
mai, nonostante e al di là dei nostri nemici.
E' un libro prezioso - arricchito nella versione italiana dalle prefazioni di rav Riccardo
Di Segni, Shimon Peres e Elie Wiesel - che
dovrebbero leggere soprattutto gli adolescenti, spesso combattuti da un senso di
incertezza e precarietà. Lau ci racconta che
la vita è lotta, è impegno, studio, amore per
la propria famiglia e per i propri Maestri e
che davanti a noi c'è la responsabilità "che
la fiaccola della tradizione ebraica non si
spenga". Solo in questo modo un piccolo
bambino indifeso - quello che appare nella copertina del libro - ha potuto, partendo
dalle ceneri della distruzione, arrivare ad
essere protagonista della storia del popolo
ebraico e dello stato di Israele.
G. K.
‘Dalle ceneri alla storia’
Israel Meir Lau
Gangemi Editore
431 pp. 25 €
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Israel Meir Lau in un libro autobiografico racconta la sua incredibile
storia di bambino sopravvissuto alla Shoah, ma anche la ferrea
volontà di ricostruire un ebraismo orgoglioso di se stesso
29
LIBRI
Dan Segre, viaggiatore
della conoscenza
Quei finanzieri eroi
e Giusti tra le Nazioni
Una sorta di testamento spirituale è il suo ultimo libro
"Storia dell'ebreo che voleva essere eroe", pubblicato nei
giorni in cui è venuto a mancare
Severino racconta la storia degli uomini delle
Fiamme Gialle protagonisti di azioni umanitarie
per salvare ebrei e perseguitati dal nazismo
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
V
30
ittorio Dan Segre è deceduto alla fine di settembre, all'
età di 92 anni. Nelle stesse settimane è uscita la sua
ultima opera "Storia dell'ebreo che voleva essere eroe",
edito da Bollati Boringhieri. Va detto subito che è un libro scritto con indubbia maestria. E' vero che si tratta di un'autobiografia, ma è altrettanto vero che è verosimile a un romanzo che
si legge fluidamente, senza pause.
Con la penna brillante di sempre, Dan Segre, oltre a darci l'idea
delle tante esperienze professionali vissute - militare dell'esercito
britannico, giornalista, diplomatico e docente universitario - riesce a coinvolgerci nei tanti temi di riflessione suggeriti nelle quasi
trecento pagine del libro. Vuoi che la cornice sia Venezia o Gerusalemme, Bellaggio o Sde
Boker, trapela dalle righe
la ricerca dell'autore verso
risposte esistenziali, frutto di una vita spesa senza
mai tirare il fiato. Così le vicende scritte divengono lo
spunto di dinamiche sociali, storiche ed umane, che
vanno al di là del contesto
specifico spazio-tempo in
cui si svolgono. L'autore si
serve del dialogo per comunicare idee e riflessioni
su ciò che lo circonda. E'
una tecnica che funziona,
che dà ritmo e leggerezza
alla lettura. La stessa descrizione lucida degli incontri avuti con i vari interlocutori, che siano colleghi
o amici, viene impreziosita
sempre da una sensibilità linguistica che seduce il lettore. Intimità
e storia, pubblico e privato divengono così, grazie alla vena magica dell'autore, un tutt'uno. Le stesse persone che incontriamo, da
Jeff a Daud da Samira fino a Vantor incarnano lo specchio con cui
si confronta Segre per disquisire dalla politica a temi più spirituali:
dalle annose questioni della storia di Israele con il mondo arabo ai
temi teologici dell'aldilà e della reincarnazione. Ma, soprattutto,
bisogna sottolineare che è un libro scritto a cuore aperto, perché
Segre non lesina di esternare il lato umano della sua personalità. Affetti e sensazioni, percezioni intime e rivelazioni private che
sono descritte con eleganza e senza reticenze. Forse tutto ciò è
dettato dal momento di profonda riflessione, in cui l'autore sente con l'avanzare della malattia la voglia di mettere per iscritto
suggestioni metabolizzate e maturate per un'intera vita. E sono
la testimonianza di un uomo dai molteplici interessi, curioso del
mondo e delle culture che lo animano. Perché Segre, oltre ad essere stato un viaggiatore incallito, per professione e per piacere, con
un’identità che scorre sul binario Italia-Israele, si rivela con questa
opera un esploratore interiore della propria coscienza. Questa ansia di conoscenza pervade tutto il libro e lo accompagna in tutte
le vicissitudini della sua vita. Va ringraziato per averci lasciato,
per l’ennesima volta, dopo una carriera costellata di soddisfazioni,
l’ennesimo scritto piacevole e pieno di spunti. A dimostrazione di
un degno atto finale di un protagonista del giornalismo italiano
che lascia la scena con un acuto indimenticabile.
JONATAN DELLA ROCCA
“I
l contrabbandiere di uomini” e “Un anno sul Monte Bisbino” (entrambi Carlo Delfino Editore) sono alcune delle
preziose opere di ricostruzione e documentazione storica
del capitano della Guardia di Finanza Gerardo Severino,
Direttore del Museo Storico e Comandante del Centro Studi Storici
e Beni Museali del Corpo. Nel “Contrabbandiere di uomini” l’autore ha reso legittimo onore al giovane Giovanni Gavino Tolis, alla cui memoria il Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano
ha conferito, nel 2010, una Medaglia d’Oro al Merito Civile. Nato in
Sardegna nel ‘19, Tolis crebbe secondo
i principi della tradizione cattolica locale e della dottrina fascista imperante in
quegli anni, votando la sua vita, fin da
bambino, alle fiamme gialle. L’entrata in
guerra lo vede in servizio presso Ponte
Chiasso, comandato a reprimere le attività illegali di traffico ed espatrio, già
intensificatesi dopo l’emanazione delle
leggi razziali. Sarà la firma dell’armistizio a rappresentare la svolta fatale nella
sua vita. Coerente con i suoi alti principi
di umanità, rispetto e solidarietà verso il
prossimo, si unirà alle formazioni partigiane delle Fiamme Gialle, fino all’epilogo avvenuto con l’arresto e la tragica
fine a Mauthausen, del dicembre ’44.
“Un anno sul Monte Bisbino” ha lo scopo di ricordare “l’oscuro finanziere sardo” vittima dell’attentato fascista: Salvatore Corrias. Il giovane, nato nel 1909
in una piccola comunità di pastori ed
agricoltori del cagliaritano, rimasto ben
presto orfano del padre, crebbe facendo propri gli insegnamenti del tempo,
soprattutto quelli legati alla tradizione
rurale e all’esempio patriottico che molti
uomini di quelle terre avevano fino ad allora incarnato. Raggiunta
l’età per la leva Salvatore lascia la Sardegna per il continente per
indossare la divisa da finanziere. Da quel momento la sua biografia
si legherà strettamente alle vicende storiche del nostro Paese, che
lo vedranno approdare sulle sponde del lago di Como con l’ordine di
presidiare il delicato confine montano italo-svizzero.
Grazie alla puntuale ed appassionata ricostruzione storica dell’autore è possibile comprendere come lo scoppio del secondo conflitto
prima e la firma dell’Armistizio poi, siano stati gli eventi che più
profondamente hanno inciso sulla vita dei quei luoghi. Se prima di
allora il Monte Bissino era stato l’avamposto della lotta contro il contrabbando, sia di valuta che di merci, dopo il settembre del ’43 sarà
la “caccia all’uomo” l’attività più praticata dal regime, nonostante
fosse già in tragico declino. Fu proprio a questo punto che le qualità
umane degli individui emergendo fecero la differenza. Così avvenne per il giovane finanziere il quale, violando il giuramento e gli
ordini della Repubblica Sociale, sfidando fascisti e tedeschi, abbracciò la lotta partigiana di liberazione aiutando ebrei, antifascisti, ex
prigionieri, uomini e donne in fuga dal regime a trovar rifugio oltre
confine. L’epilogo di tale vicenda umana è stato fatale ed eroico,
doveroso da illuminare e ricordare, per un uomo, il finanziere sardo
Salvatore Corrias, che non voleva essere un eroe, ma che da eroe è
morto, “Giusto tra le Nazioni”.
J.S.
A colloquio con lo scopritore
dei misteri di Roma
o incontrato Roy Doliner al Ghetto di Roma e durante l'intervista numerose persone hanno interrotto il nostro colloquio per salutarlo: dopo vent'anni che Roy vive a Roma
è perfettamente integrato nella comunità ebraica.
Nei suoi scritti ci sono numerosi elementi riguardanti il Midrash, il
Talmud e la Kabala; vi sono pubblicazioni con correlazioni tra Kabala ed alcune opere famose che sono in Vaticano (Cappella Sistina) e
riceve incarichi come guida particolarmente edotta sui misteri delle
storie vaticane.
Roy sostiene che nella sua vita vi sono state tante combinazioni
e coincidenze che lo hanno portato a Roma, la penultima fermata
prima dell'ultima tappa, l'Aliah in Israele.
Dove è nata la tua curiosità e la passione per la storia di Roma ed il
tuo amore per la scrittura?
Io sono nato e cresciuto a Brooklyn nel quartiere italo-americano,
l'Italia fa parte del mio DNA; parlavo sempre con i nonni di tutti i
miei amici italiani e la cultura italiana la conosco fin da bambino.
Ho avuto sempre ampia apertura mentale, anche se non sono nato
in una famiglia religiosa ebraica, andavo molto di più spesso nelle
chiese con tutti i miei amici italiani cattolici che nella sinagoga. Ho
lavorato a New York city in corsi universitari di storia dell'arte come
interprete per sordi: la storia dell'arte era il loro argomento preferito. Ho svolto questi corsi in cinque delle università più importanti
di New York, avrei potuto prendere la laurea almeno cinque volte.
In questo modo ho raggiunto una notevole formazione culturale e,
senza rendermene conto, ho iniziato una strada che mi avrebbe portato a Roma. Da teenager nella mia prima vacanza in Italia mi sono
sentito subito a casa, già parlavo italiano anche se limitatamente.
Un'altra tessera del puzzle si è aggiunta anni fa, quando Rav Hazan
di Habad mi ha chiesto di fare da guida a visitatori religiosi poiché
ero l'unico ebreo a Roma di lingua madre inglese che conosceva la
storia dell'arte e la storia di Roma antica da un punto di vista ebraico; tale incarico ha avuto molto successo ed i miei clienti sono aumentati perché chiamato da tutti gli amici dei miei clienti.
Perché nei tuoi libri sulla storia dell'arte e di Roma, usi elementi
della Kabala?
Grazie ai miei studi di Talmud, Kabala e Midrash, ho imparato a
pensare a tanti livelli allo stesso tempo: ogni lettera, ogni parola ed
ogni frase ha tanti significati. La comprensione dell'arte è un dono
di Dio; con questa affermazione si riesce a vedere l'arte a tanti livelli
nello stesso tempo e queste informazioni non sono disponibili nel
corso normale della storia dell'arte.
Nel tuo libro "Il disegno segreto, i segreti della Sistina", parli del rapporto fra la Cappella Sistina e la Kabala. Lo puoi spiegare?
Facendo la guida in Vaticano, anche dentro la Cappella Sistina, a
volte di notte quando c'è poca gente, avevo tempo anche per me
stesso per studiare gli affreschi di Michelangelo e così ho scoperto
negli affreschi segreti e messaggi. Anche 30 anni prima di Michelangelo, dentro ogni affresco del Rinascimento, i grandi artisti fiorentini nascondevano nelle loro opere tanti messaggi con simboli
segreti. Firenze era la culla di studi del Talmud, del Midrash e della
Kabala, condivisi tra ebrei e cattolici. L'arte rinascimentale fiorentina è "permeata" di ebraismo, e pertanto una persona della Firenze
rinascimentale vedeva tanti significati come li vedo io che ho una
formazione simile alla loro, mentre una persona senza questa formazione molto speciale guarda un affresco e vede solo i colori senza
capire.
Perché hai deciso di scrivere il libro "Caravaggio una luce nelle tenebre"; che cosa è la luce, e che cosa sono le tenebre?
Questo libro è stato per me un grandissimo onore. Quattro anni fa a
Roma c'è stata la mostra più importante nel mondo sul Caravaggio.
Il Professor Claudio Strinati, grandissimo storico dell'arte, ha lavorato tanti anni per riuscire ad organizzare questo mega mostra sulle
opere di Caravaggio. In genere in una mostra ci sono solo tre o quattro quadri di Caravaggio, in questa vi erano ventisei capolavori. Per
questa occasione mi avevano commissionato un nuovo libro sui segreti di Caravaggio, libro che è divenuto il "best seller" della mostra
dopo il catalogo e sono state vendute tutte le copie. Caravaggio non
era fiorentino, non era uno studioso di ebraismo come Michelangelo
e nei suoi dipinti non ci sono segreti ebraici. Però Caravaggio simboleggia con tutta la sua vita un concetto Kabalistico e Talmudico,
con il cuore umano diviso in due parti: Yetzer Hatov (inclinazione
a fare il bene), e Yetzer Hara (inclinazione a fare il male). In noi
quest'altalena dura tutta la vita, perché non vince mai un'inclinazione o l'altra, ci sono sempre alti e bassi: a volte facciamo cose buone,
e facciamo "Averot", pecchiamo, per cose sbagliate impulsive. ÈAnche la vita di Caravaggio era cosi, oscillava dalla luce alle tenebre. La
luce nella sua vita (Yetzer Hatov) era quando lui si comportava da
angelo, quando dipingeva, era positivo; "Yetzer Hara" invece, quando lui non stava nel suo studio, girava nel mondo, faceva a botte,
era fuori controllo. Nella sua arte c'è molto più buio che luce, come
purtroppo nel mondo e il mondo di Caravaggio era cosi; la luce si
trova solo nelle tante scintille di luce nelle sue opere.
Vedi il tuo lavoro di scrittore come una missione?
C’è stato un film tanti anni fa "The Blues Brothers", loro dicono: "we
are in mission from God". Siamo tutti "Shlihim" (inviati), per lo più
non consapevoli; anche io non ero consapevole fino ad ora, poi finalmente ho capito la mia missione.
Cosa puoi raccomandare ad un scrittore che sta all'inizio della carriera?
Dobbiamo avere un rapporto serio con le pagine e le parole. Dobbiamo avere appuntamenti seri con noi stessi, come se fossimo in
un ufficio ed avere delle scadenze. Come è scritto nel "Pirke Avot",
nel Talmud: "devi fissare" un tempo preciso per studiare Torah, così
dobbiamo fissare un appuntamento preciso con la nostra scrittura.
L'altra cosa è sorprendere sia i lettori che te stesso e devi fare sempre due passi davanti al tuo lettore.
A CURA DI YAARIT RAHAMIM
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
H
Incontro con Roy Doliner
31
CINEMA
Trent’anni di carriera
dei Fratelli Coen
Prossimamente su Sky
la serie televisiva Fargo
A
ndrà in onda su Sky durante l’inverno la miniserie vincitrice dell’Emmy e presentata in anteprima europea al
RomaFictionFest Fargo ispirata al film del 1996 vincitore di diversi Oscar scritto e diretto dai Fratelli Coen.
Uno show televisivo di grandissima qualità, interpretato da Billy
Bob Thornton, Allison Tolman e Martin Freeman proposto al pubblico nell’anno in cui Joel e Etan Coen festeggiano i loro ‘primi’
trent’anni di carriera.
Era, infatti, il 1984 quando lo humour noir di Blood Simple – Sangue Facile debuttò, conquistando immediatamente l’attenzione
della critica di tutto il mondo. Un inizio folgorante per i due cineasti di Minneapolis che ci hanno regalato dei grandi film come
Mr.Hula Hoop, Il grande Lebowski, L’uomo che non c’era, Il Grinta, Burn after reading solo per citarne alcuni. Un cinema insolito,
intelligente, ricco di humour di cui proprio i due Fratelli sono,
paradossalmente, meno consapevoli. “Razionalmente è difficile
staccarci da quello che siamo, perché non conosciamo altro da
noi stessi”, dicono i due fratelli. “Il nostro cinema, dunque, ri-
flette problematiche più ampie che sono espressione della nostra
visione del mondo. Forse talora c’è un po’ di pessimismo, anche
se non ne siamo del tutto 'sicuri'”.
Joel e Etan Coen sono attualmente al lavoro sul nuovo film Hail,
Cesar! La cui uscita è prevista nel 2015, interpretato da George
Clooney (con cui avevano realizzato l’indimenticabile Fratello,
dove sei?) Scarlett Johansson e Ralph Fiennes. Come sempre,
guardano alla loro carriera con pacatezza, senza tradire grandi entusiasmi “Qualcuno dice che il nostro cinema sia diviso tra
commedie e pellicole più drammatiche: la realtà è che noi siamo
solo vagamente al corrente di quale siano le une e quali le altre”
Spiega Etan: “Ad essere onesti succede tutto in maniera casuale
e noi seguiamo l’ordine dettato dalle esigenze finanziarie che ci
consentono, alla fine, di riuscire a mettere su un film prima di un
altro, trovando le produzioni adatte. Non si tratta di una scelta
cosciente, ma di una serie di coincidenze dettate dai soldi e dalla
disponibilità degli attori. Negli anni non abbiamo mai avvertito
una dose maggiore di pressione rispetto al passato. Sinceramente
non abbiamo mai percepito nessuna pressione particolare nel nostro lavoro. Le aspettative che ci sono per quello che ci riguarda
sono le stesse che ogni persona può vivere nel suo quotidiano. Noi
cerchiamo sempre di fare del nostro meglio”.
Il loro cinema ha spesso parlato di ebraismo come, nel caso, di A
Serious Man e Joel Coen conclude “Essere ebrei è stato sempre
una parte molto importante delle nostre identità. Ma poiché lo siamo da sempre è difficile dire quanto l’ebraismo abbia influenzato
il nostro lavoro e, in particolare, i nostri ultimi film. Probabilmente
se Michelangelo Antonioni fosse nato e cresciuto a Minneapolis
avrebbe fatto film come i nostri.”
MARCO SPAGNOLI
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
infoline>06.43251954
32
Allestimenti eventi con buffet dolci e salati
Dolci per shabbath • Kiddushim per i Templi
Torte e pasticceria tradizionale e monoporzioni
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Conoscersi e sposarsi:
Simantov ti aiuta a trovare l’anima gemella
allo shtetl al mondo globalizzato: con questa frase si
può sintetizzare il lavoro di “Simantov® international”
(in ebraico “buon segno”). Nella civiltà yiddish, infatti,
capitava spesso che si organizzassero incontri tra single
dei diversi villaggi ebraici; oggi questo processo viene riprodotto
su larga scala, coinvolgendo gli ebrei di tutto il mondo. Simantov
® international è nata nel 1975 a Strasburgo, in Francia, come associazione con lo scopo di far conoscere giovani ebrei desiderosi
di un matrimonio ebraico. Inizialmente si rivolgeva solo ai più religiosi, riprendendo la tradizione dello Shidduch, diffuso presso gli
ebrei dell’Europa orientale, e coinvolgeva la Francia e i Paesi limitrofi (Germania, Svizzera, Belgio). Nei suoi primi anni ha riscosso
molto successo, diventando, nel 1985, anno in cui è stata rilevata
dall’ebreo di origine colombiana Josè Weber, una vera e propria
azienda, con i suoi molteplici collegamenti, come la partnership
con le Maccabiadi europee del 2015. Da quel momento ha ampliato il suo raggio d’azione
a quasi tutta l’Europa e poi al
resto del mondo, rivolgendosi
a tutti gli ebrei e non solo ai
religiosi.
Dal 1975 a oggi ha contribuito
a formare più di 500 coppie;
ogni mese una o due coppie
nascono grazie a Simantov.
L’organizzazione si ramifica
in gran parte del mondo: ha
clienti in Europa Occidentale
ed Orientale, in Sudamerica,
negli Stati Uniti, in Israele, in
Australia, a Hong Kong, a Singapore. Non sono mancati matrimoni
particolari, come quello tra una ragazza siberiana e un uomo francese. Si rivolge a chi ha dai 21 ai 50 anni, ma il messaggio è indirizzato a tutti coloro che vogliono costruire una famiglia ebraica.
È Rachel (che preferisce mantenere anonimo il cognome), la proprietaria della società, a raccontare in un’intervista a Shalom attività e progetti di Simantov. Lei ha ereditato due anni fa il suo ruolo
da Weber, che continua a svolgere la funzione di direttore. Rachel
racconta la sua storia, che ritiene emblematica per comprendere
l’attività della sua azienda.
Di origine estone, di bell’aspetto, tre titoli accademici, quattro lingue parlate
fluentemente, ma, superati i
trent’anni, era ancora single.
I genitori le propongono di
rivolgersi a Simantov: nonostante lo scetticismo, accetta di effettuare un incontro
con Weber e gli espone i
criteri con cui sceglierebbe
il suo uomo ideale; dopo
un paio di tentativi andati a
vuoto che sembravano confermare la sua impressione, trova però
l’amore della sua vita, con cui sta insieme da cinque anni. Lei stessa è rimasta sorpresa dall’efficienza di questo sistema:
“La storia talmente buffa
è che un uomo di più di 60
anni (Weber) sapeva meglio
di me di che tipo di uomo
avessi bisogno” ha concluso
Rachel il suo racconto.
“Ognuno è unico”: Simantov parte da questo presupposto per raggiungere il suo
obiettivo. Effettuano quindi
colloqui molto approfonditi
con i propri iscritti, in modo
da capire quali sono le caratteristiche di ciascuno e, conseguentemente, i partner più compatibili, perché non mirano ad unire individui uguali, ma chi abbia dei tratti complementari. Non usano
computer, formule o algoritmi, ma svolgono un’attenta analisi di
ciascun profilo come attività preliminare.
L’auspicio di Rachel è quello di ampliare la sua attività anche all’Italia, le cui comunità ebraiche finora sono state coinvolte solo marginalmente, in modo da rafforzare anche qui i matrimoni ebraici.
D. T.
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
D
È un'organizzazione internazionale
che sul modello del tradizionale shidduch,
organizza occasioni di incontro per giovani e adulti
33
ROMA EBRAICA
Camminata silenziosa:
più forte di qualsiasi museo
N
on è stato possibile farla proprio il 16 Ottobre per via
dei Moadim, ma non poteva mancare l’annuale camminata silenziosa con i sopravvissuti per ricordare la
deportazione del 16 Ottobre 1943.
L’evento quest’anno ha avuto una sfumatura diversa: si è parlato infatti di vita, di speranza, di affetto, in memoria di David
Di Veroli, deportato a Fossoli e poi ad Auschwitz e in memoria
di Mario Limentani, deportato a Mauthausen e scomparso di recente.
Nonostante il freddo moltissime persone si sono unite al corteo
e hanno camminato intorno al ghetto ascoltando il lungo elenco
di nomi di persone strappate dalle loro case, dai loro affetti, da
una vita normale dalla furia e dalla violenza nazi-fascista. Dopo
la proiezione di un emozionante video, realizzato da Daniel Di
Porto, curatore dell’evento da ben quattro anni, il corteo si è radunato all’interno del Tempio Maggiore, accompagnato dal coro
dei bambini.
“Riusciremo mai a realizzare un museo della Shoà qui a Roma? E’
doloroso sentire le persone che parlano di questo progetto come
qualcosa che ha a che fare solo con i soldi, quando in realtà è una
cosa che riguarda tutti i cittadini italiani”. Queste sono state le
parole di Marcello Pezzetti, ma fondamentale è stato l’intervento
del Rabbino Capo rav Di Segni : “La Shoà è il nostro lutto, noi
non abbiamo bisogno di musei per ricordarla, ne hanno bisogno
gli altri. Questo sabato leggeremo la Parashà di Noah e del diluvio universale: dopo il diluvio Noah e la sua famiglia sono usciti
dall’arca e hanno trovato un mondo distrutto da ricostruire, ecco
i sopravvissuti si sono ritrovati alla fine della guerra a dover ricostruire la memoria con la loro testimonianza.”
Tra lacrime e sorrisi e la commozione negli occhi dei sopravvissuti, la Comunità ha dimostrato che non esiste una sola data
per ricordare la deportazione, la memoria va portata avanti ogni
giorno.
GIORGIA CALÒ
Un premio
per gli imprenditori
web altruisti
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Si terrà a Roma il 3 dicembre
in una serata di gala, l’Internet
Entrepreneurs Prize.
Nato su iniziativa della Conferenza
dei Rabbini Europei premia
le migliori eccellenze
34
L
a religione nella sfera pubblica è
spesso pensata come uno stile di
vita arcaico e lontano dalla ricerca. In realtà niente potrebbe essere più lontano dalla verità, lo dimostra
ad esempio l’impegno della Conferenza
dei Rabbini Europei (CER) che fra gli altri
promuove ogni anno la consegna Internet
Entrepreneurs Prize. Si tratta di un riconoscimento che vuole premiare con un
sostegno economico l'eccellenza e l'innovazione delle imprese digitali e del web, che
siano però animate da uno spirito sociale
e da una filosofia che si avvicini al princi-
pio ebraico del 'Tikkun Olam' - riparare il
mondo.
Una nuova generazione di giovani imprenditori nel settore di internet e delle start-up
digitali è infatti in crescita in tutto il mondo, aprendo la strada a innumerevoli applicazioni di successo che hanno un enorme
potenziale. La maggioranza di questi imprenditori sono motivati esclusivamente
dal lucro, dal desiderio di guadagno e poco
riflettono sul valore sociale di un bene o
servizio; quelli mossi da una motivazione
più altruistica sono pochi e trovano difficoltà ad essere riconosciuti e premiati: la
solidarietà e l’altruismo sono poco redditizi. Perciò i rabbini europei vogliono con
questo premio coltivare una generazione
di imprenditori di talento e altruisti.
Quest’anno la cerimonia di premiazione si
svolgerà a Roma il 3 dicembre all’Ara Pacis, in una serata di gala, alla presenza dei
rappresentati del mondo politico, intellettuali, studiosi delle nuove tecnologie e VIP.
La Conferenza dei rabbini europei riunisce
più di 700 leader religiosi di tutto il continente. Fondata nel 1956 su iniziativa del
Rabbino capo del Regno Unito Sir Israel
Brodie, al fine di rilanciare le comunità
ebraiche distrutte in Europa, l'organizzazione è gestita da un comitato permanente
di 35 membri che si riunisce due volte l'anno, in una delle capitali europee. I membri
del Comitato permanente sono, in generale, i Rabbini capo delle più importanti città
europee e giudici rabbinici. La conferenza
generale del Rabbinato si riunisce una volta ogni due anni per discutere questioni di
grande importanza per la comunità ebraica
mondiale. La conferenza è stata progettata
per difendere i diritti religiosi degli ebrei in
Europa, ed è diventata la voce del giudaismo per il continente europeo.
Attualmente il presidente del CER è il rabbino capo di Mosca, Pinchas Goldschmidt,
che ha ricoperto il ruolo di presidente del
Comitato permanente per oltre dieci anni
e uno dei due vice presidenti è il rabbino
capo di Roma Rav Riccardo Di Segni.
Il vincitore e tutti i concorrenti sono invitati alla serata di presentazione di gala, che
si tiene ogni anno in una capitale europea
e a cui partecipano parlamentari, rappresentanti delle Istituzioni Locali, opinion
makers e membri della CER.
Alla scoperta del Museo ebraico: quei foglietti
che raccontano una terribile storia
Le ricevute per la raccolta dei 50 chili d’oro
Straordinari filmati risalenti
agli anni ‘20 delle famiglie
Di Segni e Della Seta
L
o scorso 5 Ottobre, in occasione di
"Domeniche di carta: la voce della
storia", giornata di apertura straordinaria degli istituti archivistici
italiani, si è svolta, all'interno dell'Istituto
Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario,
la cerimonia di proiezione di una serie di
bobine cinematografiche amatoriali, contenenti scene di vita quotidiana di due famiglie ebraiche del 1923. L'evento è stato
organizzato in collaborazione con il Centro
Sperimentale di Cinematografia-Cineteca
Nazionale e il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MIBACT). I
negativi sono stati girati da Salvatore Di Segni, conservati da Paolo Della Seta, e completamente restaurati e catapultati nell'era
digitale dall'ICRCPAL. Inoltre, risultano essere anche gli unici filmati ritraenti momenti della quotidianità degli ebrei italiani prima delle leggi razziali. La romantica scena
di un matrimonio, una giornata ad Anzio,
un'allegra scampagnata con tanto di pasticcini e una curiosa scena girata in montagna, con i numerosi membri della famiglia
ripresi nel tentativo di sciare. I filmati, seppur amatoriali, vennero girati con la pellicola di 35 millimetri, un formato professionale
costosissimo, davvero raro per l'epoca, ma
che contemporaneamente rende le bobine
un materiale preziosissimo per la sua unicità. Una testimonianza storica incredibile,
uno scenario ebraico ma inquadrato in un
contesto tutto italiano, in cui le due famiglie
medioborghesi, non sembrano percepire
ancora le terribili vicende che quindici anni
dopo li avrebbero catapultati nella realtà
delle leggi razziali. Durante l'evento sono
intervenuti Maria Cristina Misiti, direttore
dell'ICRCPAL, Michele Sarfatti, direttore
del CDEC, Claudio Della Seta, Fabrizio Della Seta, Fabio Isman, Mario Musumeci del
Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale, Marcello Pezzetti, direttore del Museo Nazionale della Shoah e Rafi
Erdreich, Consigliere e direttore dell'Ufficio
Affari Pubblici e Politici dell'Ambasciata
d'Israele. Le bobine verranno conservate
presso gli archivi della fondazione Centro di
Documentazione Ebraica Contemporanea
(CDEC), all'interno del Museo Yad Vashem
e presso il Museo Nazionale della Shoah.
REBECCA MIELI
N
el Museo Ebraico di Roma, nella Sala dedicata alla storia della
Comunità
dall'Emancipazione
ai nostri giorni, dove è oggi allestita la Mostra temporanea “Il Teatro di
Alessandro Fersen”, a ridosso delle splendide vetrate che all’inizio degli ’80 furono
realizzate da Eva Fisher, si trovano delle
teche contenenti quelli che a prima vista
sembrano solo decine di fogli, foglietti e diversi documenti. Quei fogli rappresentano
la memoria di due momenti estremamente
dolorosi e importanti nella storia di tante famiglie della Comunità ebraica di Roma.
Molti di questi fragili foglietti, sono infatti
le matrici, o meglio le ricevute della donazione di oggetti in oro che gli ebrei romani
fecero piegandosi al ricatto dell’Ufficiale nazista e alla richiesta di 50 Kg d’oro.
Nonostante lo scioglimento del Partito Fascista, le leggi razziali, nell’estate del 1943,
erano ancora in vigore. Dopo l’armistizio e
la frettolosa fuga da Roma del Re e del capo
del Governo Badoglio le forze militari italiane prive di ordini e riferimenti non riuscirono ad opporsi alle truppe tedesche e Roma
cadde velocemente sotto il controllo nazista.
Alla fine del Settembre 1943 Kappler a cui il
comando nazista di Roma faceva riferimento, convocò presso la Villa Wolkonsky non
lontano da Via Tasso, il Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane
Dante Almansi e Ugo Foà, Presidente della
Comunità Ebraica di Roma. Fu allora che
Kappler fece l’esosa richiesta di raccogliere
in sole 36 ore, 50Kg d’oro minacciando altrimenti la deportazione degli ebrei romani.
Il Vaticano, indignato e solidale, si rese disponibile a prestare alla Comunità ebraica
di Roma l’oro eventualmente mancante, ma
non fu necessario perché ne fu raccolto più
di quanto richiesto: gli ebrei di Roma già
provati da anni di difficoltà, guerra e privazioni, si privarono di fedi nuziali, monete
d’oro, catenine e ricordi.
I foglietti esposti al Museo sono proprio le
matrici delle ricevute per la raccolta dell’oro,
sulle ricevute esposte nella teca del Museo,
i nomi dei tanti donatori, compresi anche
quelli che poi all’alba del Sabato 16 ottobre
di 71 anni fa, furono comunque deportati.
Tra i documenti nella teca del Museo vi è
anche la circolare che la mattina del 16 ottobre i nazisti distribuirono agli oltre 1000
ebrei deportati, con le istruzioni su ciò che
avrebbero potuto portare con loro durante il
viaggio: istruzioni da eseguire meticolosamente in soli venti minuti, radunare tutta la
famiglia, portare documenti di identità, viveri, soldi, gioielli o valori, biancheria ed un
solo bagaglio a mano. Fra le diverse avver-
tenze, si ricordava anche beffardamente, di
chiudere a chiave il proprio appartamento.
Questi pochi fogli esposti al Museo Ebraico,
rappresentano davvero due diversi momenti di un autunno drammatico per la storia
della Comunità ebraica di Roma, la raccolta
dell’oro e la razzia del 16 ottobre che ogni
anno gli ebrei di Roma sentono il dovere di
ricordare.
Termino ricordando le righe che mio nonno Sergio Tagliacozzo, che purtroppo non
ho potuto conoscere, e che amava scrivere
poesie, scrisse a proposito del 16 ottobre e
del ritorno di sua madre (la mia bisnonna
Tosca) dai campi di concentramento:
"Eppoi il 16 ottobre ricordate
che Roma fu colpita dal terrore
quante e quante famiglie rovinate
e quanti sopraffatti dal dolore.
16 ottobre è solo una tragedia
tu mi dirai ch’è un fatto ch’è successo
a queste colpe qui non si rimedia
colpa a chi ha fatto e colpa a chi ha permesso!! […]
Ricordo il giorno ch’è tornata mamma
che credevamo morta e seppellita
si concludeva per noi tutti un dramma
e un’esperienza dura della vita.
Me la ricordo che mi pare ora
bella, vestita chiara ed entusiasta,
co’ un sorriso materno che innamora
e una voglia di vivere rimasta.
E lei sembrava un inno alla vittoria
con quel viso abbronzato e mai dipinto
e dimostrava quasi per la storia
che alla fine chi ha ragione ha vinto. […]"
Sergio Tagliacozzo
SARAH TAGLIACOZZO
ASSOCIAZIONE
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
L’“Associazione Daniela Di Castro
Amici del Museo Ebraico di Roma”
è nata per aiutare il Museo Ebraico
di Roma nella tutela, conservazione,
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
[email protected]
Tel. 334 8265285
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Quando ritorna
la memoria
35
ROMA EBRAICA
Il Tallet
di mio padre
“Wahavienu leZion beRinnà".
“Riportaci a Zion con Gioia”.
Una storia familiare
che ha del miracoloso
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
N
36
el Talmud è scritto che nella vita
nulla succede per caso e nulla accade se non perché noi stessi ci
rendiamo in qualche modo artefici
degli eventi o non ne creiamo i presupposti
perché essi accadano. Per questo, fatti incredibili ed inverosimili possono sembrarci
tali a prima vista, perché in effetti non sono
altro che il risultato dei nostri consapevoli
o inconsapevoli interventi. Come sarebbe
altrimenti possibile comprenderne il significato, se non attribuendolo a misteriosi ed imperscrutabili fenomeni di magia? Può infatti
accadere per questo che nel naturale e monotono scorrere del tempo singoli personaggi e situazioni casuali, distanti tra loro anche
nello spazio, vengano tuttavia fatalmente a
contatto. Quando ciò accade, semplici episodi personali, prima totalmente avulsi l’uno
dall’altro, si riaccordano con pazienza pezzo
dopo pezzo, proprio come le tessere sparse
di un puzzle che ritrovano ordinatamente il
proprio giusto spazio, arrivando poi a delineare e a dar forma ad un quadro completo
e definito che non avremmo mai neppur immaginato un giorno di poter vedere e toccare
con mano. Spesso, come dicevo, i protagonisti di queste incredibili storie non si sono
mai conosciuti e nemmeno mai incontrati
tra loro, ma hanno ugualmente contribuito,
ognuno per proprio conto e quasi mai volontariamente, a modificarne il corso naturale,
spingendole a diventare esperienze uniche
ed affascinanti per il solo fatto di essere casualmente capitati nel posto giusto al momento giusto.
La filosofia araba è portata a spiegare questi
accadimenti con una sola parola: maktub.
E' scritto! Definendo così ermeticamente il
destino di ciascuno di noi come un fatto già
stabilito e preordinato dall'Alto e dal quale
nessuno può prescindere o sfuggire. Chi invece come me crede che nella logica dei gesti ci sia qualcosa di Divino e di trascendente, è portato a ritenere che con la scelta delle
proprie azioni sia possibile condizionare la
propria vita e quella degli altri, determinando per questo cambiamenti epocali e direi in
qualche caso anche miracolosi.
Quella che sto per raccontare è verosimilmente una storia come queste che non ha
però per protagonista un eroe e nemmeno
un'eroina, né un miracolato, né l'artefice di
un accadimento magico, ma è l'incredibile
storia, il tragitto di un oggetto sacro, un prezioso manto di preghiera, un Tallet di seta.
Quello di mio padre. Colui che lo aveva così
finemente tessuto e ricamato a Tripoli, quasi
centocinquanta anni fa, aveva probabilmente già stabilito quale sarebbe stato il suo meraviglioso destino.
Tripoli 1915: uno Shabbat di Febbraio di
quell'anno. Bar Mitzva di papà Roberto. Slà
el Kbira (Tempio Maggiore). Nonno Alfonso, alla fine della Amidà di Musaf, benedice
commosso il proprio figlio con il suo Tallet.
Se ne copre il capo, tenendo tra le dita due
dei quattro Zizziot degli angoli e poi, poggiando le lunghe mani nodose da ebanista
sul capo del suo primogenito, recita in ebraico le parole antiche della Benedizione così
cariche di sacralità e di solennità che, partendo dalle labbra, arrivano direttamente
dal cuore all'anima: “Che H. ti benedica e ti
protegga, Faccia risplendere il Suo Volto su
di te e ti custodisca, Volga H. il Suo sguardo
su di te e ti infonda la Pace”.
Alla fine, di questo rituale, le urla festose
delle donne avvolte nei loro sgargianti barracani di seta, si levano dal matroneo in
segno di gioia mentre spruzzi di essenza di
fiori d'arancio e acqua di rose vengono sparsi
nell'aria per la gioia di tutti e dell'olfatto. Da lì
a un po' di anni, il Tallet che era stato fino ad
allora del nonno, passò di dritto a mio padre,
che ne fece uso per tutto il resto della sua
vita. Giunse in Italia, assieme a tutto il resto
dei bagagli della famiglia, via nave da Tripoli, nel 1948, destinazione Eretz Israel, dove
però non riuscì più ad arrivare, ma questa è
un'altra storia. Papà continuò ad indossarlo
durante i tanti Shabbatot della sua lunga vita vissuta a Roma, benedicendo a sua volta
nei giorni solenni tutti noi figli ed in seguito
anche i tanti nipoti che nel frattempo avevano reso la nostra famiglia più numerosa.
Passano gli anni ed il giorno del mio matrimonio con Barbara è finalmente in arrivo. I
preparativi preliminari scorrono con allegria, ma anche con fatica, fino a che, in un
torrido pomeriggio di Luglio, sotto la Kup-
pà come vuole la tradizione, davanti a due
Rabbanim, gli sposi pronunciano il fatidico
sì sotto al grande Tallet di papà. Alle nostre
spalle, i rispettivi genitori poggiano le loro
mani sul capo degli sposi, assecondano con
commozione e qualche lacrima le parole della Berachà che ci viene impartita dal Cantore. Purtroppo dopo pochissimi anni da quel
giorno, dopo una breve malattia, papà ci
lasciò per sempre. Era la Vigilia di Shavuot.
Noi figli, tutti stretti intorno a nostra madre,
vedevamo amici e parenti avvicendarsi in
casa amorevolmente e senza sosta, in quelle
tristissime prime ore dopo la sua dipartita.
Venivano a farci visita dimostrandoci il loro
sincero affetto e la loro partecipazione al nostro grave lutto. A causa della ricorrenza di
Shavuot, il funerale fu ritardato di due giorni,
durante i quali le visite di condoglianze non
si interruppero mai, anzi si intensificarono,
cosa che oltre a darci un grande conforto, ci
faceva sentire meno soli, amati e coccolati e
placava in effetti un po’ di quell’enorme dolore che sentivamo dentro.
Arrivò quindi il giorno più terribile, quello
del funerale. Durante quelle poche, ma interminabili ore, in casa si respirava una fortissima tensione, mentre le persone addette
facevano con zelo quanto necessario per
preparare nostro padre, secondo la Tradizione, verso il suo ultimo viaggio. Per questo,
il Rabbino che dirigeva i rituali ci chiese di
consegnar loro il Tallet di papà, nel quale
sarebbe stato avvolto per sempre. In quei
frangenti, ognuno di noi si era ritagliato il
proprio spazio tra le stanze della casa, da
dove poter osservare e seguire in silenzio
lo svolgere delle cose. Uno dei miei fratelli,
seduto accanto a me nella stessa camera,
raccogliendo la richiesta del Rabbino, andò
verso un armadio e ne tirò fuori una custodia
di velluto blu, con sopra ricamato in oro un
grande Maghen David e gliela porse. In quel
preciso momento, uno di quegli avvenimenti inspiegabili di cui parlavo prima, si stava
per delineare e definire ed infatti, afferrata
d'istinto quella custodia di velluto e stringendola al petto come a proteggerla, mi fece
dire al Rabbino, in una immediatezza quasi
automatica: No!! Quel Tallet lo avrei tenuto
io in ricordo di mio padre. E così gliene porsi
subito un altro.
Conservai da allora in casa mia quello scialle prezioso, senza mai più utilizzarlo, fino a
quando, qualche anno dopo, per un moto di
nostalgia, decisi di ricordare mio padre indossandolo durante le preghiere del nostro
giorno più sacro, lo Yom Kippur. Aprii la custodia blu, slacciando i suoi due bottoni di
madreperla e ne tirai fuori il manto di seta
centenario per controllarne lo stato. Mi resi
subito conto però, che lungo le ripiegature si
erano venute creare delle lacerazioni che ad
una semplice pressione delle dita si aprivano
vistosamente come carta velina. Ripiegai il
tutto con delicatezza estrema e lo riposi di
nuovo nel suo sacchetto di velluto, facendo
cui è la responsabile, "udite udite!!”, della
cura e la ricerca di oggetti provenienti dalla
Diaspora ebraica nel Mondo. Come non parlarle allora del nostro Tallet, della sua storia
e della volontà di donarlo al suo Museo? E
così, durante un suo successivo viaggio a
Roma, Gioia venne a trovarci a casa per visionare il manto. Lo srotolammo assieme
con estrema cura, stendendolo poi sul pavimento. Rivedendolo così adagiato dopo tanti
anni, mi resi di nuovo conto della sua affascinante bellezza e delle enormi dimensioni,
mentre con commozione i miei occhi attenti
seguivano ogni suo dettaglio, ogni suo particolare e le dita, sfiorando delicatamente la
seta, seguivano invece quelle sue eleganti
striature d'argento, i piccoli fiocchi laterali
ed in fine quella larga fascia a protezione del
collo, sulla quale si intravedeva a malapena
una scritta in ebraico ricamata ton sur ton.
Gioia lo osservò anch'essa con attenzione,
fotografandolo da ambo i lati e poi, riavvolto
di nuovo con egual cura, lo portò via con sé,
destinazione Jerushalaim. In quel momento il
destino si stava rimettendo in moto; quasi tutti gli elementi del puzzle erano ora in buona
parte al loro posto, ma non ancora del tutto.
Passati forse tre o quattro mesi da quell'incontro, ricevetti da Gioia un'altra bellissima
notizia. Il Museo d'Israele, accettava definitivamente il nostro Tallet tra le sue Collezioni
di reperti antichi, avendolo riconosciuto un
manufatto prezioso e di grande interesse
storico-artistico, testimone dell'antica Cultura e dell'Arte ebraica di Libia. Ancor più
emozionante fu poi per noi l'apprendere poco tempo dopo che il Tallet di nostro padre
Roberto Avraham Arbib z'L', sarebbe stato
esposto definitivamente, da lì a poche settimane, in una teca del Museo. Una gioia, ed
un orgoglio infiniti per noi tutti, figli, nipoti
e pronipoti compresi, era già stato l'aver appreso quella fantastica notizia che ora potevamo aggiungere all'irrefrenabile desiderio e
alla curiosità di arrivare al più presto a Gerusalemme per ammirare il manto e vedere
dove e come era stato esposto.
Da tanti anni oramai, la nostra famiglia trascorre in Israele, quasi tutta riunita, la festa
di Pesach ed anche quel 2014-5774, non ha
URTISTI E RICORDARI A ROMA TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO
Foto di Frédéric Brenner
Il Dipartimento Beni e Attività Culturali e il Centro di Cultura Ebraica stanno organizzando per la fine di novembre un evento su urtisti e ricordari a Roma attraverso interviste, documenti ed immagini. Info su data e location: [email protected] 06.5897589
fatto eccezione. Appena arrivati chiamai
Gioia per telefono e le chiesi, quando fosse
stato possibile andare da lei al Museo. Fissammo un giorno e, con quella stessa agitazione e quell'ansia identiche solo a quelle già
provate quando, alla fine del Liceo controllavamo nelle bacheche i risultati degli esami,
arrivammo finalmente davanti all'ingresso
del Museo a Gerusalemme. Gioia era lì che
ci aspettava assieme ad un fotografo ed una
curatrice, in attesa di condurci davanti alla
teca. L'ansia provata fino a poco prima si
trasformò immediatamente in una profonda
commozione ed una gran voglia di piangere
e di cantare l'Hallel e Bar-Yochay. Rimasi a
guardare e riguardare incantato quel manto
che così bene ricordavo e sotto al quale decine e decine di volte avevo sentito le grandi
mani di mio padre poggiate sul mio capo. Un
oggetto della nostra famiglia, un pezzo della
nostra storia era ora lì, perfettamente composto su di un lungo busto di legno, per farsi
ammirare da tutti.
Mentre l’ultimo piccolo tassello di questa incredibile storia stava per trovar posto nell’unico spazio ancora rimasto vuoto, mi avvicinai al vetro della teca, incuriosito da quelle
scritte didascaliche bilingue che erano state
apposte sul vetro, in ebraico ed in inglese e
lessi: Prayer swall (tallit) Tripoli-Lybia, late
19th- early 20th century Silk, metal thread Gift
of Eliyahu, Moshe, Ever, Aliza, Ariel Arbib Rome. In memory of their father, Avraham
Roberto Arbib, Liturgical phrase woven on
the neck band “Bring us to Zion rejoicing”.
Il mio inglese, se pur accettabile, non comprendeva ancora nel mio vocabolario la parola “rejoicing”. Mi avvicinai quindi a Gioia
e guardandola negli occhi, gliene chiesi il significato. Mi rispose prontamente: “Ci ricondurrai a Zion con Gioia”. La fissai incredulo
per qualche istante e, rimettendo insieme in
un interminabile attimo tutte le idee, urlai
dunque con meraviglia: "Con Gioia? Allora è
con te…?! Sei tu la Gioia di cui parla la frase ricamata". Fu subito chiaro dunque, che quello
era l'incredibile epilogo ed il destino oramai
definitivamente compiuto, scritto già molto
più di un secolo prima sul collo del Tallet.
Un destino che in tanti e dopo tanto tempo,
abbiamo probabilmente contribuito, ciascuno per proprio conto a realizzare e a portare
a compimento. Abbracciai Gioia commosso
e la ringraziai ancora una volta per ciò che
aveva reso possibile, ma sul Taxi che mi riportava a Tel Aviv, riflettendo su tutto ciò che
era stato, mi resi conto che avevo finalmente
davanti a me il "puzzle" completo e la totale
visione d'insieme di una storia alla quale non
mi fu difficile attribuire qualcosa di miracoloso. Questa è dunque la storia di un Tallet
centenario e delle sue lunghe e straordinarie
peripezie. Ora e per ancora moltissimi anni,
riposerà proprio lì, dove da sempre, ostinatamente aveva voluto arrivare: Har Zion. Il
Monte Sion!
ARIEL ARBIB
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
attenzione a ricoprire bene i lunghi Zizziot.
Per tanto, per quell’anno e per tutti i successivi, continuai ad usare il mio Tallet abituale.
Passati ancora diversi anni da quell'episodio,
mi arrivò voce che al Museo ebraico di Roma
si stava allestendo una sezione dedicata alla
Storia e alla Cultura ebraica tripolina. In quel
periodo, la Direttrice del Museo era la nostra
cara e amatissima amica Daniela Di Castro,
z'L' e proprio a lei mi rivolsi per sapere se
fosse stato possibile far dono al Museo del
famoso Tallet, perché trovasse posto in una
vetrina della nuova sezione. Quando però
visionammo assieme il manto, ci rendemmo
conto che non sarebbe stato possibile esporlo se non dopo un inevitabile intervento
che eliminasse tutte le smagliature e le lacerazioni che si erano venute a creare per il
passare degli anni. Daniela mi indirizzò per
questo ad un laboratorio specializzato nella
salvaguardia proprio dei tessuti antichi ed al
quale mi rivolsi subito dopo, consegnando il
Tallet per le dovute cure. L'esperto, prima di
procedere, ci tenne però a precisare che dopo il trattamento, non avrei più potuto usare
lo scialle, se non per esporlo o per conservarlo, ma mai più per farne l'uso per cui era
stato creato. Me lo riconsegnò, dopo lunghi
mesi di lavoro, avvolto in un tubo di cartone,
perfetto e senza più quelle cicatrici del tempo che lo avevano compromesso e deturpato.
Così rimase, in un angolo della nostra casa
per ancora tantissimo tempo perché intanto
la vetrina del Museo ebraico di Roma, che
avrebbe dovuto ospitarlo, si era già riempita
di tanti altri reperti e manufatti che avevano
tolto spazio al nostro Tallet. Sembrava, ancora una volta, che un destino imperscrutabile
avesse deciso per lui qualcosa di diverso e
che quella quindi, non dovesse essere la sua
destinazione finale.
Arrivando ai giorni nostri, durante una cena di famiglia, ebbi l'occasione di sedermi
vicino un'altra adorabile e cara amica, Gioia
Perugia che vive a Gerusalemme, per di più
divenuta parte della nostra famiglia per via
di un matrimonio tra suo fratello e una nostra nipote. Discorrendo assieme di tutto un
po' mi spiegò, tra le altre cose, che lavorava
presso il Museo d'Israele a Gerusalemme di
37
ROMA EBRAICA
INSIDE OUT.
Dentro casa, fuori nel mondo
Il 23 novembre al Palazzo della Cultura la tradizionale
kermesse enogastronomica ‘Gusto Kosher’, promosso
da Lebonton Catering. Attesi oltre 3.000 visitatori
T
orna anche quest’anno a Roma, domenica 23 novembre
2014, al Palazzo della Cultura in Via del Portico d’Ottavia,
GUSTO KOSHER: l'evento di Lebonton Catering in collaborazione con il Creativity Lab ICPO dedicato ai saperi e ai
sapori della tradizione enogastronomica ebraica, dall’antico al contemporaneo. Il tema del 2014 è INSIDE OUT. Dentro casa, fuori nel
mondo. Nato quattordici anni fa come degustazione di etichette kosher d'eccellenza, dal 2010 Gusto Kosher è cresciuto diventando un
evento enogastronomico e culturale. Nel 2013 quasi 5000 persone
hanno preso parte, nel cortile del Palazzo della Cultura, alle degustazioni in 9 ore di manifestazione, per la quale sono stati cucinati
40 kg di ceci, 30 kg di cous cous, 50 kg di concia, 1500 polpettine di
carne con sedano e cannella, 3000 pizzarelle con il miele.
Lo scorso anno Gusto Kosher ha affrontato il tema Roma/Tel Aviv.
Sacro e Profano con l’obiettivo di mettere in contatto e a confronto
due mondi culinari che hanno radici comuni ma espressioni distanti. L’edizione 2014 ‘INSIDE OUT. Dentro casa, fuori nel mondo' porta
avanti la riflessione sulla cucina ebraica come espressione - da un
lato - di tradizioni antiche e sapori semplici che sanno di casa e di
famiglia e - allo stesso tempo - complice la dispersione geografica e
i continui movimenti migratori che hanno sempre caratterizzato la
storia degli ebrei, come manifestazione di numerose contaminazioni che fanno della trazione culinaria ebraica una delle più eclettiche
e internazionali sulla scena.
“Molte delle festività ebraiche si celebrano in tavola, con menù che
prevedono pietanze speciali e abbinamenti particolari. - spiega Gio-
Quando il restauro
è un'arte
Lo spiega Claudio Bracci
che ha trasformato
una passione in lavoro
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
“È
38
iniziato tutto per gioco quando studiavo alla Ort. Dopo
scuola, il pomeriggio, andavo
in negozio da mio cugino che
si occupava di quadri e restauro. Così ho
imparato l'arte del restauro, diventata poi il
mio lavoro e, soprattutto, una grande passione”, così inizia la storia di Claudio Bracci, noto restauratore romano. Tra i suoi lavori più importanti, la restaurazione di una
trave ritrovata dentro San Pietro in Vincoli
in cui c'era un'incisione che riportava la donazione da parte di un cardinale dell'intera
capriata sopra il tetto che risale al 1500 con
marchio papale.
Le restaurazioni più sentite emotivamente
sono quelle eseguite per la Comunità Ebraica di Roma, a cui appartiene. “Man mano
che passavano gli anni – ci racconta – mi
sono occupato dell'Aron Ha Kodesh del Tempio Spagnolo e del Tempio Askenazita sito
in via Balbo”. Una storia, invece, che merita
maggiore riguardo è quella della cosiddetta “sedia di Eliahu Ha'Navi”: “lavorando in
Comunità, molto spesso passavo davanti al
vanni Terracina di Lebonton Catering – Oggi la trazione culinaria
ebraica è un ricco melting pot, è un’ibridazione di profumi e sapori
che racconta il tentativo, la necessità e il piacere di aprirsi al mondo,
pur rimanendo fedeli alla propria casa.”
Domenica 23 novembre saranno due le tavole rotonde di Gusto
Kosher 2014 ispirate al tema INSIDE OUT: Ebraismo e social eating: l’ospitalità 2.0 è l’incontro per esplorare le nuove tendenze
del mangiare sociale, per raccontare la scelta di chi apre la propria
casa privata al mondo, dalle cene clandestine ai supper clubs, dai
guerilla restaurants ai cooking party, e per scoprire che la tradizione ebraica è, tutto sommato, un caso di social eating ante litteram;
Cucina ebraica: elogio del senza, del low cost e degli avanzi è
l’appuntamento dedicato al “cucinare senza”, per necessità o come
forma di espressione e di estro, così che lo scarto diventa gourmet.
Tra le novità 2014 anche una esposizione sul tema Il design in cucina. Progetti da Israele, una selezione di alcuni interessanti e nuovi
progetti di industrial design legati alla cucina, a cura di studenti
diplomati nelle migliori accademie di design in Israele.
Infine le conferme: il Book corner a cura della libreria Kiryat Sefer
e il Kids corner con l’appuntamento Parannanza e Pannolini dedicato ai temi che ruotano intorno ai bambini e ai genitori.
Tra le novità di quest’anno c’è anche l’anteprima di sabato 15
novembre alle ore 20.00 presso Il Pitigliani, in collaborazione con
Marco Lombardi e Kolno’a Festival, per una cena Cinegustologica
e Kosher, un percorso gastronomico di quattro portate abbinate a
quattro film israeliani d’autore.
deposito e, un giorno, notai
una sedia delle milot semidistrutta. Ironia della sorte,
uno dei componenti della
Società dei Compari aveva
bisogno di una sedia da donare per le milot. Decidemmo
di ristrutturarla, scoprendo
poi che si trattava realmente
della sedia di Eliahu Ha'Navi
risalente al 1700 circa, di origine romana, decorata con
un grande Maghen David. Le
condizioni, però, erano critiche: mancava un bracciolo
e la doratura era coperta da
porporina e vernice. Sono
stato felice di riuscire nel mio
lavoro, ridando nuovamente
valore a quell'oggetto importante e riportandolo al suo uso originario.”
Il lavoro del restauratore, infatti, può portare anche a scoperte storiche sensazionali: è il caso del restauro dei portoni del
Tempio Maggiore. Claudio Bracci ha infatti
ritrovato i resti dei sigilli posti dagli ufficiali tedeschi nel periodo dell’occupazione
di Roma nel 1943, apposti per la chiusura
del Tempio. Per non rovinarli o toccarli,
Claudio ha inserito delle placche di plexiglass che lasciano vedere la rimanenza
della ceralacca, mantenendo vivo il ricordo. “Quando lavori sul restauro cerchi di
capire che cosa stai facendo
e toccando e molto spesso si
ritrovano cose molto importanti per la storia, cose che
ti danno soddisfazione a prescindere dal discorso economico”, ci confida lui.
L'ultimo lavoro importante
che gli è stato affidato, ci
racconta, è il portone di Palazzo Costaguti: “anche qui
ho avuto modo di scoprire
che la parte dietro risale al
1600. Il mio lavoro è stato,
quindi, di riportare l'oggetto
a quelle che erano le sue origini, eliminando tutti gli influssi di cose messe sopra di
esso in un secondo tempo”.
Ma un restauratore deve avere anche uno
spiccato estro creativo: “In un grande attico del centro ho inserito delle cornici sul
contorno delle finestre, facendo diventare
il panorama di Roma un vero e proprio quadro. Nello stesso palazzo ho rivestito anche
l'interno dell'ascensore, facendolo diventare un'opera d'arte”.
Sicuramente, il restauro è un lavoro che
dona molte soddisfazioni a chi lo esegue.
Senza i restauratori molti oggetti del passato sarebbero andati irrimediabilmente
distrutti.
MIRIAM SPIZZICHINO
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Una rubrica, scritta
per i giovani, utile anche
agli adulti per conoscere
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di figli e nipoti.
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di Rav Roberto Di Veroli
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16
17
20.00 Adei Wizo
e Marco Lombardi
Prenotazione obbligatoria:
[email protected]
-----------------------------------------------
17.00 Le Palme
Si gioca: Tombola, Memory e ...
DOMENICA tanto altro
-----------------------------------------------
21.00 IL Pitigliani
Incontro con Gavriel Levi: Qual
L U N E D I era la Torà del Baal Shem Tov?
Introduzione al Chassidismo
-----------------------------------------------
18
18.00 Centro di Cultura Ebraica
Libreria Kiryat Sefer
M A R T E D I Lezione con Yarona Pinhas:
Il pensiero chassidico di Rabbi
Nachman di Breslav
Lezione a pagamento.
Posti limitati. Prenotazione
obbligatoria: 06.45596107
-----------------------------------------------
19
10.00 Adei Wizo
Vittorio Della Rocca
19.00 Medicina e Shoah
Centro di Cultura Ebraica – UCEI
Fondazione Museo della Shoah
Casa della Memoria e della
Storia, Via di San Francesco di
Sales, 5 Presentazione del libro:
“Non vi ho dimenticati”
di Alberto Israel.
Intervengono con l’Autore:
Silvia Marinozzi, Sami Modiano,
Marcello Pezzetti, Fabio Gaj.
Modera: Roberto Coen
ADEI WIZO
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
Lunedì 17 e 24 novembre ore 15.00 in
sede incontri di burraco e corso di
burraco per principianti con insegnante.
40
23
Giovedì 20 novembre ore 9.00/10.30 corso
base di lingua ebraica con la Prof. Luisa
Basevi (un incontro a settimana di 1 ora e ½)
Disponibilità limitate. Info e costi in sede:
065814464 - 3246388500
PROVINI TALENT SHOW
Hai tra i 5 e i 18 anni? Ti piace ballare,
recitare, cantare in duetto o in coro oppure sai suonare uno strumento musicale?
Tira fuori il tuo talento e donalo agli altri!!!
Iscriviti al più presto al talent show ARTISTI IN ERBA che ADEI WIZO e ASILI ISRAELITICI RAV ELIO TOAFF stanno organizzando per lunedì 9 febbraio 2015
al Teatro Orione di Roma.
INnfo su partecipazioni e provini:
Lezione di challot e pillole
di Torah: preparazione del pane
dello Shabat con lezione di Torah
tenuta dalla Prof.ssa Ruky Levi
Info e prenotazioni in sede:
065814464 - 3246388500
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10/13 E 15/18 IL Pitigliani
Creatività al femminile:
DOMENICA mostra di Danièle Sulewic,
pranzo e laboratori manuali
per tutti con stoffe, collage
e materiali da riciclo
Info e prenotazioni: Micaela Vitale
17.00 Le Palme
26
Scherzi e risate
Pomeriggio di cabaret
-----------------------------------------------
16.30 Adei Wizo
Un libro al mese: il gruppo
MERCOLEDI commenterà il libro "L'inizio di
Lezione di Torah e pensiero
MERCOLEDI ebraico a cura di Rav Chajm
17.00 Le Palme
30
qualcosa di bello" di Lizzie Doron.
Ed. Giuntina
-----------------------------------------------
10.00/19.00 Adei Wizo
Sala delle Colonne del Palazzo
DOMENICA della Cultura Gran Bazar
di Chanukkà. Consueto
appuntamento con lo shopping in
vista delle festività.
02
DICEMBRE
17.30 Istituto della
Enciclopedia Italiana
M A R T E D I Palazzo Mattei di Paganica, Sala
Igea - Piazza della Enciclopedia
Italiana, 4
ADEI WIZO: 065814464
[email protected]
ASILI RAV ELIO TOAFF: 065803668 - asili.
[email protected]
IL PITIGLIANI
Ancora posti disponibili per i nostri corsi
Martedì 25 novembre e 9 dicembre dalle
ore 17.00 alle ore 19.00 appuntamento con
il corso di arte insieme a Cesare Terracina
30 novembre dalle ore 10.00 alle ore 14.00
seminario Feldenkrais con Irene Habib
Gruppo Ghimel:
OGNI GIOVEDì DALLE 16.30
con Davide Spagnoletto
ed Elisabetta Anticoli Moscati
Programmi educativi:
Lunedì 17 novembre ore 17.00, lezione
di teatro, movimento e percussioni con il
corpo insieme al gruppo israeliano Derech
04
GIOVEDI
Presentazione del volume: Isaac
Orobio de Castro – Prevenciones
divinas contra la vana idolatría de
las gentes. Edizione critica, con
introduzione, note di commento
e riassunti parafrasi in italiano a
cura di Myriam Silvera
Relatori: Massimo Bray, Riccardo
Di Segni, Anna Foa. Presiede:
Tullio Gregory. Sarà presente la
curatrice Info: 06.68982233 [email protected]
-----------------------------------------------
16.30 Le Palme
In cucina con
Giuliana Astrologo
SHABAT SHALOM
Parashà: Hayei Sarà
Venerdì 14 NOVEMBRE
Nerot Shabath: h. 16:32
Sabato 15 NOVEMBRE
Mozè Shabath: h. 17:34
--------------------------------------------------Parashà: Toledot
Venerdì 21 NOVEMBRE
Nerot Shabath: h. 16.26
Sabato 22 NOVEMBRE
Mozè Shabath: h. 17.29
--------------------------------------------------Parashà: Vayetzè
Venerdì 28 NOVEMBRE
Nerot Shabath: h. 16.23
Sabato 29 NOVEMBRE
Mozè Shabath: h. 17.25
--------------------------------------------------Parashà: Vayshlach
Venerdì 5 DICEMBRE
Nerot Shabath: h. 16.21
Sabato 6 DICEMBRE
Mozè Shabath: h. 17.24
Haketzev per tutti dai 6 ai 10 anni
Domenica 23 novembre, domenica 7 e 14
dicembre dalle 10.30 alle 15.30:
domeniche di ebraismo per tutti i bambini
dai 3 ai 10 anni con corso di lingua tenuto
da insegnante madrelingua
Domenica 14 dicembre ore 11.00
spettacolo teatrale per bambini (3-10
anni) Da "Ester e il disastro di channukkà",
DI J. Sutton Ed. Giuntina, 2014.
Con Graziano Sonnino. Regia di Giordana
Moscati Info: Giordana e Simona
A bottega chi ci sta? Tutte le domeniche
di dicembre dalle 8.30 alle 20.00
Prenotazione obbligatoria
Info: Giorgia Di Veroli educazione@
pitigliani.it
SAVE THE DATE: concerto di
Channukkà – sabato 20 dicembre
NASCITE
Dana Buccilli di Fabio e Ines Di Neris
MATRIMONI
Lucian Lior Marcovici – Diletta Perugia
Angelo Sonnino – Chiara Di Segni
Rebecca, Laura Gabriella Gai di Massimo, David e Giorgia Vivanti
Jonathan Funaro di Simone e Marika Efrati
AUGURI
Nathan, Chaim Moresco di Emanuele e Dora Piperno
Rafael, Moshè Moscati di Cesare e Micol Nahon
Mazal tov a Simone Funaro e Marika Efrati per la nascita di Jonathan. Auguri alla famiglia, in particolare al nonno Ugo Funaro,
custode del Liceo ebraico.
È nato Nathan Moresco. Auguri ai genitori Emanuele Moresco e
Dora Piperno, consigliere della CER.
Alisa Batia Besso di Ugo e Gaia Piperno
Gioele Calò di Alberto e Roberta Spizzichino
Sarah Enrica Moscati di Emanuele e Loredana Scarfò
Alessio Settimio Moscati di Emanuele e Loredana Scarfò
Alessandro Della Seta di Fabrizio e Gaia Pitigliani
Andrea Livoli di Alberto e Alessia Di Nepi
Flavia Sed O Piazza di Samuel e Virginia Pavoncelli
Angelo Terracina di Alessandro e Dafna Sonnino
Cesare Terracina di Alessandro e Dafna Sonnino
Alberto Funaro di Elio e Clelia Astrologo
Jonathan Di Veroli di Umberto e Letizia Caviglia
Simone Di Veroli di Cesare e Anna Zimmardi
Daniel Del Monte di Maurizio e Sara Di Segni
Ludovica Sonnino di Angelo e Barbara Zarfati
Gady Claudio Di Capua di Adolfo e Stefania Efrati
Noa Milano di Stefano e Dalida Sassun
LA TOP TEN DELLA LIBRERIA
KIRYAT SEFER
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9
10
HALACHA’ ILLUSTRATA
di Moise Levi ed Levi
MASCHIO E FEMMINA DIO LI CREO’
di AA VV ed Sovera
IL BRACCIALETTO
di L.Levi, ed E/O
GIUDA DI AMOS
di Amos Oz ed Feltrinelli
LA MATRIARCA
di G.B. Stern ed Sonzogno
LA VIA DI FUGA
di F. Fubini ed Mondadori
HO DORMITO NELLA CAMERA DI HITLER
di T. Tenenbom ed Bollati Boringhieri
IL PATTO DI ABRAMO
di Menachem Artom ed Belforte
SUL SACRIFICIO
di Moshe Halbertal ed Giuntina
IL VANGELO DEI BUGIARDI
di N. Alderman, ed Nottetempo
I migliori auguri a Cesare Moscati e Micol Nahon, insegnante
della scuola elementare ebraica, per la nascita di Rafael.
Mazal tov ad Angelo Sonnino e Chiara Di Segni, custode della
scuola media ebraica, per il loro matrimonio.
Lo scorso 27 agosto 2013 - 1 Elul 5774 è nata Greta, Ilanit di
Joseph Matalon e Laura Raccah. Auguri dalla redazione.
Gioele Calò ha celebrato il suo Bar Mizvà. Auguri al festeggiato,
alla famiglia, in particolare alla mamma Roberta Spizzichino, insegnante della Scuola elementare ebraica.
LA DEPUTAZIONE RINGRAZIA
Un affettuoso ultimo saluto al nostro amico Settimio Di Porto,
fedele sostenitore della Deputazione Ebraica da oltre 90 anni.
A Giacomo Terracina, il più piccolo sostenitore della Deputazione Ebraica un caloroso ringraziamento per il tenero gesto manifestato in occasione di Rosh Ha-Shanà.
Il Presidente ed il Consiglio della Deputazione Ebraica ringraziano Yohan Benjamin e Nicole Rachel Fadlun per la donazione
effettuata in occasione delle loro Nozze. Ai neosposi, da sempre
amici e attivi sostenitori della Deputazione, un grandissimo Mazal Tov per un futuro ricco di gioie e felicità.
Il Presidente della Deputazione Ebraica e il Consiglio desiderano
ringraziare Fabrizio dell'Ariccia e Alberto Mieli che in occasione delle loro nomine a Hatan Torà ed a Hatan Bereshith hanno
deciso di devolvere quanto destinato ai loro regali all'aiuto di
sei famiglie in gravi difficoltà della nostra Comunità. A Fabrizio
ed ad Alberto, amici sempre sensibili, con riconoscenza e gratitudine un sincero e affettuoso Mazal Tov. Inoltre, desiderano
ringraziare anche tutti gli altri Hatanim Torà e Bereshit che in
occasione delle loro nomine hanno destinato le offerte all'Ente.
RINGRAZIAMENTI
La Scuola Vittorio Polacco ringrazia per le generose offerte Janet
Di Nepi, già assessore alle Scuole della nostra Comunità, e Mario Di Segni la cui donazione è stata fatta in memoria del padre
Angelo z.l. La loro generosità ha permesso ad alunni in stato
di bisogno di frequentare con serenità il nuovo anno scolastico.
CI HANNO LASCIATO
Marco Calò 07/09/1934 - 04/10/2014
Caterina Del Giorno ved. Kalowski 18/08/1929 – 16/10/2014
Letizia Della Torre ved. Di Nepi 11/03/1928 – 06/10/2014
Velia Di Porto ved. Moscati 02/02/1920 – 10/10/2014
Elvira Piperno ved. Terracina 12/02/1914 – 15/10/2014
Ester Tagliacozzo ved. Allegri 01/09/1931 – 21/10/2014
Rosetta Sermoneta Ajò 19/04/1926 – 25/09/2014
IFI
00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A
TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
BAR-BAT MIZVÀ
41
ROMA EBRAICA
Berto l’edicolante
B
La vendetta
erto tirò su le saracinesche dell'edicola, raccolse i pacchi
dei giornali e li trascinò all'interno.
L'aria era frizzante e il cielo limpido. Prometteva di essere
una bella giornata. Tagliò i lacci dei pacchi, dispose i quotidiani sul banco e appese fuori espositori e riviste. Poi finalmente
sedette e respirò a pieni polmoni. L'odore della carta stampata lo
inebriò come sempre. Quell'effluvio lo aveva sedotto da bambino e
aveva segnato il suo destino. Lasciò scorrere lo sguardo sulla strada ancora sonnolenta. Di lì a poco sarebbe iniziato il caos ma c'era
ancora tempo. Si versò un caffè dal thermos e cacciò dalla borsa il
cornetto che aveva preso sotto casa.
Sette meno un quarto. La signora Rosy era in ritardo. Come sempre al pensiero di quella donna elegante e piena di sussiego gli
scappò un sorriso. Il fatto è che di lei conosceva certe insospettabili vicende…
La vide da lontano. Finì il caffè, ripose quel che restava del cornetto sotto il banco e si sporse in avanti. Lei ora era di fronte a lui.
“Ciao Berto. Come va?”
“A gonfie vele, come sempre... Messaggero e Settimana Enigmistica...?”
Lei fece un cenno distratto e cercò le monete nel borsellino.
“Hai sentito che casino?”
Il giornalaio la fissò incerto.
“Qui è tutto un casino…”
“Parlo di Gaza… Quei porci maledetti hanno bombardato di nuovo.”
Berto annuì guardingo. Non voleva misurarsi di prima mattina su
un terreno tanto scivoloso.
“Beh” disse “speriamo che finisca presto.”
“Non finirà” replicò quella inviperita, “li vogliono uccidere tutti.
Vogliono completare il genocidio.”
Berto trasse un profondo respiro e serrò forte i pugni. Genocidio a
casa sua non era mai stata una parola qualunque. Suo padre, pace
all’anima sua, era ebreo ed era sfuggito per caso alla retata del 16
Ottobre. I nonni non erano stati altrettanto fortunati.
“Se solo Hamas la finisse di tirare i suoi missili…” provò a dire.
“Non finirebbe uguale… Quelli hanno fiutato il sangue e non mol-
leranno la presa. Sono cani rabbiosi…”
“Sarà… Ma torti e ragioni non sono mai tutti da una parte” provò
ancora a quietarla Berto, porgendole i giornali.
“Ce l’hanno nel sangue. Sono viscidi e crudeli. Quello che hanno
subito da Hitler ora lo infliggono a quei poveri bambini.”
Berto si contenne ma dentro schiumava rabbia.
“Non ha senso confondere il governo di Israele con gli ebrei in
generale!”
“Si vede che tu di ebrei non ne conosci… Lasciatelo dire: sono
tutti uguali. E poi scusa, se da che mondo è mondo tutti li perseguitano, una ragione ci sarà pure!”
Era troppo!
Berto la squadrò acido mentre un’idea maligna gli baluginava per
la mente
“A volte ci si sbaglia sulla gente…”
“Io non mi sbaglio!”
“Ah no?” disse lui vago, chinandosi a raccogliere una vecchia rivista e infilandola non visto fra Messaggero e Settimana Enigmistica.
La vide andare via con quella sua aria un po’ altera da signora di
periferia, stretta nel suo abitino bon ton.
Povera imbecille pensò e si mise a ridere come un bambino.
Pensava al momento in cui lo sguardo di lei si sarebbe posato su
quella rivista che a lui era capitata fra le mani e che aveva nascosto agli occhi di chiunque. La posa in cui la signora Rosy era
ritratta era di quelle che non possono essere fraintese.
“A volte ci si sbaglia sulla gente…” ripeté fra sé.
E non smise di ridere.
MARIO PACIFICI
Gan Eden
NOVEMBRE 2014 • CHESHVAN 5775
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LETTERE AL DIRETTORE
voce lettori
La
dei
La famiglia di Marco Calò z.l, ringrazia
Egregio Direttore,
la moglie Franca, i figli Luciano, Elisabetta, Lidia, Giorgio, i fratelli Pallino, Giorgio, Peppe, le sorelle Fatina, Rossana, Fiorina, Rina,
le cognate Graziella, Marina, Adriana, Lisa, Rosetta, Settimia, i
nipoti Chantal, Diletta, Sarah, Michal, Samuel, Ever, Massimo,
Gabriel, Benedetta, Rebecca, Michal, Marco, tutti i nipoti da parte
degli zii e le zie, ringraziano i parenti, gli amici e i colleghi che con
parole, calore e affetto hanno accompagnato la perdita e sostenuto nel dolore per il marito, il padre, il nonno, lo zio e l'amico
MARCO CALO’ Zezè.
Un grazie allo staff medico dell’Ospedale
Sentitamente ringraziamo l'ospedale israelitico, nello specifico il
reparto di medicina del terzo piano, il personale tutto, medici e
infermieri che hanno accudito nostro padre con infinito amore e
dedizione.
Emma, Angelo, Cesare e Alberto Limentani
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Giacomo Kahn Direttore responsabile
Edoardo Amati
Rebecca Mieli
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Fiamma Nirenstein
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Segretaria di
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HATAN BERESHIT: David Zahar Gerbi
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ERRATA CORRIGE
Andrea Di Veroli è stato Hatan Bereshit del Tempio della Casa di
Riposo e non Cesare Limentani come erroneamente segnalato
nello scorso numero di Shalom.
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
Possiamo parlarne con leggerezza, anche perché certamente
non è precipitata nell’indigenza. Prende possesso della sua
scrivania al posto di comando più prestigioso del giornalismo
planetario nei primi giorni di settembre 2011. Jill Abramson è
la prima donna a occupare la poltrona di direttore del New York
Times. E’ anche una upper class jewish woman. Riceve a valanga complimenti, congratulazioni, panegirici. Nel suo piccolo,
l’establishment ebraico si sforza di essere planetario anche lui. E
così anche dall’Italia parte il coro: evviva, è uno dei nostri. Anzi,
delle nostre. Fired, che nel mondo anglosassone sta per licenziato/licenziata in tronco, dall’editore in persona il 14 maggio 2014,
con 5 anni di anticipo (sulla pensione). Adesso ha 61 anni e annuncia una start-up che si occuperà di giornalismo. E tte pareva.
Astenersi da commenti beneauguranti.
Smokéd
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n. 2857 del 1° settembre 1952
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Visto si stampi 5 novembre 2014
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