ISRAELE i S e s s a n t ’a n n i l ruolo della lingua Tr a i d e n t i t à n a z i o n a l e e i d e n t i t à r e l i g i o s a I l 60° anniversiario della nascita dello Stato d’Israele in Italia è stato legato, in buona parte, alle polemiche connesse alla scelta della Fiera del libro di Torino di celebrarne la ricorrenza. Molti hanno giustamente rilevato che le modalità delle proteste sono state incongrue e improprie, quando non fortemente ideologizzate. La notazione non comporta, com’è ovvio, sottovalutare la portata della questione palestinese, che è altra cosa. Semplicemente in quella sede i temi di riflessione erano, secondo lo statuto peculiare di ogni letteratura, collegati alla sfera politica in modo indiretto. Il che non significa che si sarebbe trattato di un approccio meno impegnativo e qualificante. Il neoebraico La riflessione sul fatto, oggettivamente singolarissimo, che una lingua, il neoebraico, nata per motivi ideali (e in parte ideologici) si sia trasformata in un idioma parlato da milioni di persone merita di per sé attenzione da parte di tutti coloro che ritengono la cultura un valore. Simili considerazioni sono un ulteriore indice di una peculiarità ebraica impossibile da presentarsi come semplice ritorno all’antico. Rispetto alla dimensione territoriale, il pensiero sionista ha potuto prospettare la retorica del ritorno alla terra dei padri; tuttavia nessuno si è trovato nelle condizioni di proclamare un ripristino della lingua degli antenati: al di là di palesi somiglianze, troppo evidenti erano le differenze lessicali, grammaticali e sintattiche. Un vecchio Immigranti ebrei su una nave diretta in Palestina. IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2008 289 detto sionista esprimeva il sogno di poter comprare un biglietto ferroviario in ebraico. La frase indica come, fin dal principio, il rinnovamento dell’antica lingua fosse connesso sia all’idea di costruzione di una società a maggioranza ebraica, sia all’accettazione delle dinamiche di modernizzazione della vita del popolo d’Israele. Non sorprende perciò il fatto che il progetto culturale di Eliezer Ben Yehuda (il padre dell’ebraico moderno) fosse, a fine Ottocento, avversato dalla maggior parte dei custodi ufficiali della tradizione ebraica che lo giudicavano un tentativo di profanare la lingua sacra. Sull’altro versante, non va neppure dimenticato che l’opuscolo simbolo del sionismo politico, Der Judenstaat di Thoedor Herzl (1896), fosse, appunto, scritto in tedesco. Sta di fatto che, ormai da molti decenni, le due dimensioni prima citate si sono pienamente realizzate, cosicché, senza un riferimento a esse, resta preclusa ogni comprensione dell’esistenza ebraica contemporanea. Rimane fuori discussione che la presenza di una cultura israeliana estesa dal lessico quotidiano fino a elabo- razioni letterarie e saggistiche faccia parte del patrimonio attuale dell’intero ebraismo. Si potrebbe giungere ad affermare che, colta sotto il profilo culturale, l’equazione antisionismo = antisemitismo, spesso strumentalizzata in modo indebito, abbia qui una sua piena ragion d’essere. In altri termini, non riconoscere il significato della cultura israeliana per l’intera realtà ebraica mondiale equivale a compiere una negazione mossa da pregiudizi inaccettabili. In relazione alla fiera torinese, prese di posizione come quelle assunte da Gianni Vattimo, un tempo maestro del «pensiero debole», attestano più che altro un debole pensare. Oz, Yehoshua, Appelfeld, Grossman, Shalev sono i nomi più noti di una vivacissima produzione letteraria che esprime il sentire della nazione israeliana, una realtà da sempre immersa in un contesto internazionale e interno ricco di tensioni. Essi sono i capofila di una serie di scrittori molto nutrita, ora in buon numero leggibili anche in italiano.1 Sul fronte della saggistica o della produzione scientifica, l’inglese può essere strumento sufficiente per comprendere quanto succede in Israele; tuttavia sul piano della comprensione del vissuto il passaggio attraverso la lingua ebraica rimane insostituibile: la letteratura resta tutt’ora mezzo fondamentale per comprendere le società. Ciò è particolarmente vero per paesi – e Israele è tra questi – in cui è consentito, grazie all’opzione di fondo a favore dei valori democratici, esprimere una pluralità di orientamenti. Gli ebrei israeliani e quel li del la diaspora L’attenzione riservata alla cultura ebraico-israeliana porta con sé almeno due ordini di fattori interni alla realtà originaria dello Stato d’Israele: il rapporto tra gli ebrei israeliani e quelli della diaspora e il confronto tra ebrei e arabi palestinesi. L’esame di questi snodi avrebbe prodotto, anche in relazione alla fiera torinese, riflessioni pertinenti e avrebbe messo in rilievo ombre e non solo luci. Andiamo all’origine: la dichiarazione d’indipendenza d’Israele nelle righe iniziali ricorda i pionieri che, oltre ad aver fatto rifiorire il deserto han- 290 IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2008 no fatto rivivere l’ebraico. Tuttavia è ovvio che il cuore della dichiarazione è altrove, esattamente nel passo in cui si afferma che: «Lo Stato d’Israele sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati di tutti i paesi della diaspora; promuoverà lo sviluppo del paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; sarà basato sui principi di libertà, giustizia e pace preconizzati dai profeti d’Israele; promuoverà la piena uguaglianza sociale e politica di tutti i suoi cittadini, senza distinzione di razza, credo o sesso». Queste poche righe esprimono istanze tanto qualificanti quanto eterogenee e di difficile composizione reciproca. In esse si colgono: l’affermazione della natura ebraica dello stato, la secolarizzazione dell’antico linguaggio messianico (cf. la riunione degli esiliati della diaspora), la posizione di centro (allora numericamente assai piccolo) dello stato appena proclamato rispetto all’ebraismo mondiale, il bisogno imprescindibile della neonata nazione di godere dell’appoggio della popolazione ebraica mondiale, il carattere democratico dello stato, fatto che, tra l’altro, comporta al proprio interno l’esistenza di minoranze etniche, linguistiche e religiose dotate di pari diritti. Questi aspetti hanno trovato corrispondenza anche sul piano linguistico. In Israele è stato compiuto uno sforzo altamente qualificante per far imparare l’ebraico ai nuovi immigrati. Il sistema dell’ulpam ha fatto apprendere quella lingua a milioni di persone ebree e non ebree. Nei primi decenni di vita dello stato, l’insegnamento dell’ebraico moderno costituì un fattore d’integrazione fondamentale al fine di amalgamare ebrei provenienti da molte decine di paesi al fine di renderli israeliani. Non solo, l’apprendimento della lingua si è esteso anche a una componente crescente di ebrei che, pur non risiedendo stabilmente in Israele, vi compiono soggiorni di studio o di lavoro o lo visitano con regolarità. Mediamente perciò le giovani generazioni di ebrei della diaspora conoscono l’ebraico molto di più dei loro genitori. Quanto valeva per la società, può dirsi anche per lo stato: non solo l’ebraico fu subito proclamato lingua ufficiale, ma si costituì anche un organo volto a far sì che gli indispensabili ag- giornamenti del lessico godessero del crisma dell’ufficialità. I neologismi in genere nascono all’interno della società, alcuni hanno fortuna, altri, a poco a poco, tramontano, né è sempre facile comprendere l’eterogeneità di simili destini. È, per esempio, difficile sapere chi abbia introdotto in italiano la non bella parola «badante»; sta di fatto che, al giorno d’oggi, essa si è affermata in modo tale da farle perdere il suono sgradevole che la contraddistingueva all’inizio: il termine è diventato sostanzialmente neutro. La Gazzet ta uf ficiale del la lingua In Israele, in linea di principio, le cose non starebbero così. Su tutte le questioni riguardanti la grammatica, l’ortografia, la terminologia e la traslitterazione fa testo quanto decide l’Accademia della lingua ebraica (mimata sul modello centralistico francese) che pubblica i risultati dei suoi studi sulla Gazzetta ufficiale. Tuttavia sul piano pratico, nonostante il fatto che l’Accademia operi con forza di legge, la sua influenza reale è limitata. Le sue decisioni sarebbero vincolanti per gli organi istituzionali e le strutture scolastiche statali; nei fatti, gran parte delle sue indicazioni non vengono accolte. Non a caso, specie a partire dagli anni novanta, lo sviluppo dei dizionari d’uso corrente diretti ad attestare la lingua ebraica reale sono diventati, nei fatti, una fonte di autorità alternativa rispetto a quella ufficiale. Il ricorso all’Accademia sembrava consegnare l’ebraico a una specie di neosacralità secolarizzata in senso nazionalistico e dal canto loro, le dinamiche socioculturali si sono incaricate di relativizzare quel marchio sacrale. L’ultimo decennio del XX secolo ha prodotto un mutamento significativo nella società israeliana. Per compensare la crescita percentuale della componente araba all’interno dello stato, le autorità hanno favorito l’ingresso di varie centinaia di migliaia di ebrei russi. In questo caso il rigore legato alla «legge del ritorno» è stato assai stemperato. Perciò non solo per questa via sono entrati in Israele molti non ebrei, ma è stata attenuata anche la funzione integrativa dell’ebraico. Nell’ordine dei fatti nello stato ebraico il russo è diventato una lingua parlata e anche scritta – sia nelle pubblicazioni sia nei cartelli: nulla di ufficiale, ma molto di reale. Paradossalmente proprio la volontà di salvaguardare la natura ebraica dello stato è stata perciò un fattore che ha accentuato la pluralità linguistica. L’originaria opzione democratica che non introduceva alcuna discriminazione di razza, religione, sesso o lingua ha condotto a proclamare anche l’arabo lingua ufficiale d’Israele. Tuttavia anche qui nella società le dinamiche sono diverse. La componente ara- I festeggiamenti per il 60° dello Stato d’Israele sono l’occasione per tornare sul tema dell’identità nazionale, anche a fronte del permanere di gravi episodi d’intolleranza. Affrontare il tema della lingua ebraica è una chiave importante per cogliere l’identità religiosa e nazionale di un popolo. ba israeliana, circa un sesto della popolazione, ha il diritto alla propria lingua, al proprio sistema scolastico e così via. Nelle dinamiche sociali però le cose sono paritetiche. Nessun arabo israeliano può ignorare l’ebraico; ma non è vero il contrario. Teoricamente il sistema scolastico dovrebbe porre ogni ebreo israeliano nelle condizioni di sapere l’arabo; in pratica però non è così. Come sempre è la parte più debole a doversi conformare alla maggioranza e non viceversa. Una tendenza etno-nazionalistica Bruno Segre ha raccontato più volte che nella scuola di pace di Nevè Shalom – Wahat al-Salem2 (qui il bi- linguismo è d’obbligo) il primo dibattito che si instaurava tra gli studenti che provenivano da scuole ebraico-israeliane e quelli che frequentavano scuole arabo-israeliane era intorno alla lingua. Le due scolaresche erano venute lì per conoscersi, per far emergere i reciproci pregiudizi e superarli, insomma per dialogare. Tuttavia alla fine si era costretti a scegliere di comunicare in ebraico, lingua conosciuta da ogni arabo, mentre gli studenti ebrei non garantivano neppure la comprensione dell’arabo. L’esempio parla da sé. Una recente indagine statistica ha chiesto a un campione della popolazione ebraica e araba dello Stato d’Israele quali fossero le principali modalità d’identificazione con il proprio collettivo. Erano stati messi in campo tre parametri: religione, nazionalità/etnia, cittadinanza. Sono emersi i seguenti risultati: per la parte ebraica le percentuali sono state: 24,1% (religione); 42,5% (nazionalità/etnia), 29,8% (cittadinanza); per gli arabi israeliani rispettivamente: 47,6%; 25,9%; 24,1%.3 Gli esiti indicano la presenza di una forte tendenza entnico-nazionalistica da parte ebraica e una posizione subordinata sia dell’antica componente religiosa, sia del moderno parametro della cittadinanza. Per gli arabi israeliani si manifesta invece un forte radicamento nella dimensione religiosa. In questo dato giocano sicuramente fattori legati agli attuali processi di re-islamizzazione; tra essi un ruolo va assegnato anche al carattere paradigmatico e sacrale dell’arabo coranico, imprinting permanente di ogni dimensione sia liturgica sia letteraria. Si potrebbe concludere che le dinamiche sociali, stando alle quali si è costretti a parlare la lingua dell’altro, rafforzano, per converso, il valore connesso al fatto che, quando si rivolgano a Dio, gli arabi israeliani impiegano la forma antica e sacra del loro attuale idioma quotidiano. Piero Stefani 1 Cf. Regno-att. 12,2007,375. Cf. ivi. S. DELLA PERGOLA, Israele e Palestina: la forza dei numeri, Il Mulino, Bologna 2007, 108. 2 3 IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2008 291