Imprenditorialità privata e trasformazione dell’Opera italiana nell’Ottocento* STEFANO BAIA CURIONI** Abstract Tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta dell’Ottocento il sistema di produzione e di distribuzione dell’Opera italiana conosce una profonda e sostanziale trasformazione da un sistema produttivo artigianale, privo del diritto di autore, a un sistema produttivo moderno, autoriale e industriale. La ricostruzione del ruolo degli editori musicali, e in particolare di Ricordi, consente una reinterpretazione delle ragioni della trasformazione, e una riflessione sulle caratteristiche dell’azione di mediazione culturale svolta dalle imprese private all’interno di tale trasformazione. Parole chiave: Opera italiana, Editori musicali, trasformazione dei sistemi di produzione artistica, diritto d’autore, mediazione culturale, industria culturale Between 1840 and 1880, the italian Opera production system is transformed. From a handicraft system without any form of copyright protection, it became a modern cultural industry. The consideration of the music publishers’ role, and particularly of the firm Ricordi, lead to a reinterpretation of the reasons of the transformation of the art production system and a reflection upon the characteristics of cultural mediation provided by private enterprises in this process. Key words: Italian Opera, music publishers, arts production system, intellectual property rights, cultural mediation, cultural industries 1. Premessa In che termini è possibile interpretare la trasformazione di un sistema di produzione artistica? Cosa implica una trasformazione dell’arte in senso moderno, intendendo con questo la ristrutturazione simultanea delle pratiche, delle forme di concettualizzazione dell’arte, e dei sistemi di produzione e distribuzione delle * ** Questa ricerca è stata condotta all’interno di un progetto del centro ASK dell’Università Bocconi di Milano. Per ogni riferimento archivistico relativo alla storia Ricordi si rimanda al volume da me redatto e in corso di pubblicazione sulla Storia della Ricordi e della Musica operistica italiana. Associato di Storia Economica - Università di Milano “L. Bocconi” e-mail: [email protected] sinergie n. 82/10 76 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA opere? Quali vie accompagnano il crescente peso dei mercati, l’industrializzazione e l’intima trasformazione funzionale delle produzioni artistiche nel cruciale periodo che si estende dagli ultimi due decenni dell’Ottocento alla prima guerra mondiale? Tali sono le domande che hanno orientato questa ricerca dedicata all’evoluzione del sistema di produzione operistica italiana nel XIX secolo. Il “caso” della musica operistica italiana presenta molti dei sintomi caratteristici della modernizzazione dei principali sistemi di produzione europei, pur essendo tipizzata da un peculiare ruolo degli editori. Anche in altre nazioni europee gli editori musicali hanno svolto una parte crescente nella modernizzazione tardo ottocentesca (Escudier in Francia, Breitkopf e Haertel in Germania, giusto per fare degli esempi1), ma le case editrici Ricordi, Lucca, Sonzogno hanno svolto in Italia, pur con diverse modalità, un ruolo del tutto particolare per influenza, dimensione quantitativa e anche qualitativa. La storia di queste case editrici musicali, la ricostruzione delle loro lotte, dei loro conflitti legali, delle loro alleanze e strategie, in particolare nel caso di Ricordi, certamente la realtà imprenditoriale dominante, offre un contributo significativo sia alla comprensione della natura delle istituzioni culturali, sia al ripensamento del ruolo di mediazione (selezione e gestione dei processi di riproduzione culturale) all’interno dei sistemi di produzione artistica. Più in particolare è possibile osservare che l’azione degli editori musicali contribuisce “riflessivamente” alla modificazione delle condizioni di esistenza della musica operistica. La mediazione editoriale non si risolve in un mero trasferimento fisico e tecnico, ma esercita una pressione destinata nel tempo a trasformare la natura stessa dell’opera d’arte. In questo senso le indicazioni che si ottengono dal caso italiano possono essere considerate anche come un contributo alla critica della nozione di “mediazione” culturale e di mercato. Dal punto di vista teorico la comprensione e l’interpretazione di questo caso richiedono l’introduzione di concetti mutuabili da discipline e ambiti di ricerca differenziati. In primo luogo l’idea, elaborata in particolare da Howard Becker, della natura eminentemente collettiva della creazione artistica2. In apparenza questa indicazione sembrerebbe prevalentemente diretta a demolire la nozione romantica dell’artista, intesa come genio creatore isolato, per enfatizzare l’evidenza delle molteplici reti di collaborazione che si attestano attorno al lavoro dell’artista, definendo un ambiente produttivo e creativo dal quale la singola opera d’arte non può prescindere. Reti che garantiscono l’approvvigionamento dei materiali e delle tecnologie disponibili per le realizzazioni, che elaborano i modi di rappresentare e diffondere le opere, che saldano le relazioni di committenza e di acquisto, che formano gli ambienti di ricerca e di elaborazione intellettuale cui gli artisti stessi, ma anche i 1 2 Christensen T., “Public music in private spaces. Piano - Vocal Scores and the Domestication of Opera”, in Music and the culture of print, ed. Van Orden K., Garland, New York, 2000, pp. 67-93. Becker H., Art Worlds, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1982. STEFANO BAIA CURIONI 77 mediatori d’arte, fanno riferimento per orientare le loro scelte e i loro gusti3. La prospettiva di Becker introduce, quindi, come dimensione critica dell’indagine, il problema di rappresentare il contesto collettivo all’interno del quale le opere d’arte acquisiscono la loro forma e la loro intelleggibilità. Becker parla di “arts worlds” intesi come sistemi che includono tutto l’insieme di operatori e di istituzioni preposte alla gestione dei processi di produzione, distribuzione e riconoscimento delle opere che si chiamano “arte”, nelle loro reciproche relazioni, e sono rintracciabili in forme diverse nei diversi contesti storici. I sistemi dell’arte che egli definisce possono estendere le loro influenze anche ai contenuti e alle dimensioni espressive delle opere di cui garantiscono l’esistenza e la condivisione, ma, nella loro essenza, funzionano come catene produttive e distributive, come insiemi fungibili di risorse di volta in volta messe al servizio di forme d’arte la cui “origine” può anche trovare le sue sorgenti e i suoi modi in ambiti esterni al sistema stesso4. In modo sensibilmente diverso Pierre Bourdieu definisce il “campo dell’arte” come la forma storicamente unica, assunta da un sottoinsieme sociale che si forma, a partire dalla metà dell’Ottocento in avanti, sotto la spinta di una istanza di autonomizzazione e differenziazione rispetto ad altri campi sociali. Il “campo” dell’arte moderna si costituisce, in questa visione, come fatto specifico della modernità, come un sistema di mediazione gerarchizzato, le cui frontiere sono definite da una esplicita alterità rispetto ai settori tradizionali della produzione economica e i cui contenuti sono prodotti e selezionati, facendo riferimento alla formazione di ondate successive di “avanguardie” apparentemente indipendenti da qualunque logica di mercato e rispondenti invece a pure istanze di ricerca artistica e filosofica5. I mondi delle arti di Becker sono insiemi istituzionali, professionali e sociali, sedimentati storicamente nel lungo periodo, che svolgono una funzione di mediazione e di distribuzione delle risorse nei confronti di forme e modi di arti che operano in reciproca competizione verso un pubblico di fruitori o di acquirenti. 3 4 5 Becker H., Faulkner R.R., Kirshenblatt-Gimblett B., Art from start to finish, The University of Chicago Press, Chicago, 2006. L’attenzione ai mondi dell’arte ha poi anche posto in luce la dimensione spaziale e geografica. L’enfasi posta sulle popolazioni e sulle attività che circondano lo specifico dell’arte si è trasferita in una crescente attenzione alla loro distribuzione e gerarchizzazione spaziale e in un’attenzione crescente alle condizioni che ne garantiscono lo sviluppo nei diversi luoghi e tempi. In questa visione lo spazio, nella sua complessità, esercita un influsso specifico, indipendente e riconoscibile attraverso processi di concentrazione delle attività artistiche all’interno di certi quartieri e di certe città. Processi che a loro volta rispondono a qualità degli spazi, a politiche sociali dichiarate o informali, ai modi di pianificare lo sviluppo delle città. Sul punto la letteratura è molto ampia. Cfr. Scott A.J., The cultural economy of cities. Essays on the geography of image-producing industries, SAGE Publication, London, 2000. Bourdieu P., Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Saggiatore, Milano, 2005. 78 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA Nella prospettiva di Bourdieu, invece, l’avvento del campo dell’arte - forma di mediazione storicamente unica - risponde a una trasformazione del senso dell’arte stessa (che si connette a una filosofia e a una riflessione critica sui propri mezzi espressivi). La trasformazione dei “modi” e del “senso” dell’arte procede dunque simultaneamente come un unico processo, dando forma alle ambiguità e alle contraddizioni che caratterizzano drammaticamente le arti moderne. Introdotta l’idea di una necessaria saldatura tra il cambiamento dei sistemi di produzione e la trasformazione della natura e del senso dell’arte, un ulteriore livello analitico è posto dal problema di concettualizzare il cambiamento nei sistemi delle arti, ovvero di comprendere i modi in cui le arti si trasformano, si modificano, si innovano, si estinguono o nascono. La convergenza tra le prospettive della storia sociale della scienza (Kuhn) e quelle della teoria istituzionale dell’arte (Danto, Dickie) tende a indicare che la trasformazione delle arti, l’irruzione di nuovi stili, il declino o la risorgenza di specifiche forme d’arte, debba essere intesa principalmente come il risultato di un gioco istituzionale, che procede per incrementi o per rotture paradigmatiche a seconda dell’abilità degli attori - o della loro fortuna nel catalizzare una sufficiente massa critica di consensi6. La storia delle arti in questa prospettiva si presenta come un gigantesco processo di oblio e selezione, le cui regole non hanno davvero, o necessariamente, a che fare con la qualità delle opere in sé, o con un “telos” narrativo o funzionale che connette una forma d’arte alla storia complessiva della civiltà, ma con le capacità organizzative e comunicative degli artisti e dei loro sostenitori, con i limiti dei paradigmi conoscitivi, con le forme e gli assetti delle istituzioni. In questa suggestiva prospettiva le opere d’arte migliori - ammesso che abbia senso il concetto - non sono necessariamente quelle che hanno fatto la storia dell’arte, molte altre sono probabilmente esistite per poi finire nell’oblio, senza che il loro artefice sia stato in grado di catalizzare l’attenzione collettiva. La questione della poeticità, della qualità intrinseca dell’opera, della sua autenticità, vengono sostanzialmente dissolte nella nuvola delle infinite possibilità combinatorie e dal molteplice gioco di vincoli posto dalle resilienze istituzionali, ideologiche, semantiche dei diversi contesti. Questa prospettiva, particolarmente dominante oggi, in particolare nella relazione con le arti contemporanee, pone un problema fondamentale nel senso che simultaneamente introduce la possibilità di un’infinita estensione del concetto di arte (qualunque oggetto è potenzialmente “arte”), ma nello stesso tempo ne elimina la specificità (non vi è una nozione condivisa di cosa sia “arte”). La forza insistente di una simile aporia rinnova oggi l’esigenza di elaborare, su basi diverse da quelle di un tempo, il senso della specificità dell’arte rispetto ad altre forme espressive e insieme, per ovvia conseguenza, di ripensare i modi della sua trasformazione storica. 6 Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Il Mulino, Bologna, 1979; Danto A.R., “The artworld”, Journal of Philosophy, 61, 1964,pp. 571-584; Dickie G., “Defining Art”, American Philosophical Quarterly, 6, 1969, 253-256; Dickie G., Art and the aestethic, Cornell University Press, Ithaca, 1974; Danto A.R., After the end of Art, Princeton, Bollingen, 1996. STEFANO BAIA CURIONI 79 Senza pretendere di sciogliere domande di portata così ampia, il lavoro che si presenta in questa sede tiene conto della loro presenza e si pone l’obiettivo di impostare la storia istituzionale e sociale del sistema dell’arte come la storia del modo, sempre imperfetto, in cui la “differenza” dell’arte, la sua specificità, sono garantite nel mutare dei contesti. La storia degli editori musicali ottocenteschi, e in particolare di Ricordi, è un caso significativo proprio in questa direzione: gli editori sono stati infatti gli attori attorno cui è, letteralmente, ruotata una radicale trasformazione degli assetti produttivi del sistema di produzione della musica operistica in Italia, ma anche, nello stesso tempo, i perni della riedificazione stilistica e poetica che ha prodotto lo specifico dell’arte dell’Opera italiana nel secondo Ottocento e la sua caratterizzazione nel contesto musicale mondiale. Il fatto che aziende private, industriali e mercantili abbiano tenuto questo ruolo, svolgendo un lavoro che ha fatto coincidere in Italia il risorgimento musicale e l’industrializzazione della musica, rende particolarmente interessante la ricostruzione del caso. 2. Lo spazio e il tempo Non è indifferente che tutte le case editoriali che han fatto la storia dell’Opera italiana siano state milanesi e che la principale di esse, quella fondata da Giovanni Ricordi, abbia cominciato a operare nella Milano napoleonica e della restaurazione. L’introduzione della musica a stampa è un’innovazione italiana seicentesca, che viene imitata con efficacia in Europa nel corso del Settecento. Ai primi dell’Ottocento il primato italiano in questa attività è un ricordo lontano, i principali centri di produzione di musica a stampa nella penisola, Venezia e Napoli, seguiti da Milano e Firenze, sono popolati essenzialmente da “stampatori” e copisti che svolgono un ruolo marginale nella scena teatrale7. Il sistema di produzione delle opere ruota attorno alle figure degli impresari teatrali, imprenditori di ventura chiamati a gestire gli “edifici” e le stagioni teatrali nelle diverse città italiane. Gli impresari di stagione in stagione commissionano, anche grazie a reti di alleanze nobiliari, nuove opere, che di norma sono precipitosamente composte e adattate nelle settimane precedenti alla prima stagionale. I compositori, pagati per la scrittura, anticipano le parti manoscritte dell’opera in corso di composizione in modo da consentire le prove ed eventualmente procedere agli adattamenti necessari. La partitura finale, di proprietà dell’impresario o del teatro committente, è quindi copiato a mano nelle diverse 7 Antolini B.M., Dizionario degli editori musicali italiani 1750-1930, ETS, Pisa, 2000; Antolini B.M., Nuove acquisizioni sull’editoria musicale in Italia 1800-1920, Canoni Bibliografici. Contributi italiani al Convegno Internazionale IALM - IASA, Perugina, 1-6 settembre 1996, 2001. RASH R. ed., Music publishing in Europe 1600-1900, BWV, Berlin, 2005. 80 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA sezioni strumentali e di canto. Questo servizio di copiatura è svolto dai copisti, musicisti in grado di estrarre le sezioni strumentali a partire dalla partitura completa - ma anche di adattarle in caso di bisogno (ad esempio quando l’estensione vocale del cantante era inadeguata) - e poi di produrre delle riduzioni (di norma canto e pianoforte) per la vendita domestica8. Sovente, in cambio di un pagamento molto contenuto dell’azione di copiatura a mano, il copista acquista dall’impresario la possibilità o il privilegio di stampare le riduzioni successive dell’opera e di venderle al pubblico in caso di successo. Per quanto cominci a diffondersi la pratica dilettantistica del pianoforte e del canto nel privato delle case nobiliari e alto borghesi, il pubblico è principalmente interessato al teatro e all’opera nuova in cartellone ogni anno. Le vendite delle riduzioni a stampa sono quindi residuali rispetto agli incassi del teatro, non tali da destare le attenzioni degli impresari, il cui interesse è piuttosto quello di risparmiare sui costi (altrimenti certi) della copiatura delle parti. Il compositore, pagato alla consegna dell’Opera, non ha, e per diversi decenni dell’Ottocento non pretende, alcun diritto sui suoi successivi utilizzi. Si forma così tra i primi anni dell’Ottocento e la fase centrale della Restaurazione - in coincidenza con una forte diffusione di nuovi teatri nelle medie città italiane - una popolazione di copisti-stampatori di musica, che costruiscono le loro attività come cellule minori, parzialmente parassitarie e meramente funzionali del sistema di produzione teatrale9. Giovanni Ricordi, ex violinista di un teatro di marionette, avvia con difficoltà la sua attività di copista e stampatore al teatro Carcano nel 1808. In apparenza è uno come tanti altri, ma i fatti della sua vita dimostreranno che il suo destino sarà molto diverso. Cambierà sistema e il sistema circostante, formerà giovani che poi saranno suoi acerrimi competitori, sarà esempio da imitare , da riverire e da temere. Milano, in quegli anni, prima come capitale Cisalpina e poi come capoluogo del dominio austriaco, è un fervente centro culturale. I suoi editori sono numerosi, attivi, ambiziosi, il suo teatro è già considerato uno dei più importanti della penisola. Il distretto degli editori milanesi è in contrada S. Margherita, non lontano dalla Scala, ed è proprio lì che Ricordi installa negozio e laboratorio. Dal punto di vista musicale Milano è viva, anche se non come i grandi capoluoghi musicali Napoli e Venezia, ma, non più di un decennio dopo l’apertura del negozio Ricordi, la città è investita da una moda musicale che trasforma la sua scena; il pubblico impazzisce per Rossini, la cui stella sembra offuscare i successi della generazione precedente di compositori, come Fernando Paer e Simone Mayr; la pratica strumentale, soprattutto pianistica, si diffonde nelle case patrizie e borghesi della città. In questo contesto Ricordi matura la sua impresa. Altri stampatori sono nati poco prima o poco dopo di lui, ma nessuno mostra la sua vocazione “editoriale” e industriale. Giovanni Ricordi è silenzioso, non parla e non scrive molto di sé e mai 8 9 Rosselli J., L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dell’Ottocento, EDT, Torino, 1985 [1984]. Sorba C., Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, Il Mulino, Bologna, 2001. STEFANO BAIA CURIONI 81 delle ragioni delle sue scelte. Per comprendere le motivazioni della sua innovazione occorre partire dalle sue operazioni concrete. Vuole essere un editore, non uno stampatore. Non è il mercato della stampa a interessarlo, per quanto gli acquisti milanesi siano promettenti, non sono sufficienti, il mercato è piccolo, la domanda più intensa è concentrata su pochi autori. Ciò nonostante Ricordi apre filiali a Firenze, Roma e poi a Londra nel 1825. Quel che gli interessa è piuttosto il teatro, un luogo in cui deve farsi largo a dispetto, o con il favore, degli impresari. Nessuno fa come lui, a parte Francesco Lucca, anch’egli musicista un po’ spiantato che Ricordi accoglie in azienda come litografo e che, dopo qualche anno, si trasforma - sempre a Milano - nel suo più autentico e accanito rivale. Milano e la sua editoria letteraria rappresentano quindi le culle i cui si forma l’ideologia e la visione degli editori che faranno storia nell’Opera italiana. 3. Archivi e diritti Lucca e Ricordi si somigliano per molti aspetti e anche per questo rivaleggiano aspramente, anche per vie legali, accusandosi reciprocamente di pirateria e di lesioni delle norme locali sulle privative e privilegi editoriali. Rispetto al rivale Ricordi, però, sembra più consapevole e critico e si distingue almeno su tre fronti: a. nella cura mostrata per le componenti tecniche e per la qualità della musica a stampa prodotta nelle sue officine; b. nella precoce attenzione all’acquisto di interi archivi di partiture - dopo quello della Scala è il turno di Artaria e Carulli - in modo da aumentare il proprio catalogo e diventare un riferimento sempre più esclusivo per il mercato domestico della musica10; c. nell’attiva partecipazione alla “battaglia” per instaurare un nuovo regime legislativo sul diritto d’autore. Tra queste evidenze forse quella più lampante per mostrare la partecipazione di Ricordi alla vita del distretto editoriale milanese è quella relativa al diritto d’autore. Il dibattito sul tema del diritto d’autore in campo musicale, che si prolunga dagli anni Quaranta fino alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, è infatti parte di un fronte ampio che riguarda tutta l’industria editoriale, e a cui partecipano con particolare intensità i principali editori milanesi anche in virtù delle caratteristiche avanzate della legge francese che gli austriaci non hanno ritenuto di modificare. I Ricordi combattono in prima fila, con Antonio Stella e altri grandi editori letterari, tenendo le posizioni più radicali a favore di un rigido controllo del diritto d’autore. Intervengono sistematicamente sulla Gazzetta Musicale, il giornale aziendale, arrivando a denunciare il “comunismo” di chi, per principio o per interesse, si oppone alla diffusione di questo orientamento: Tito Ricordi presenterà una relazione alla conferenza di Bruxelles, premessa allo storico trattato di Berna, e il figlio Giulio 10 Francesco Lucca è partito da pochi anni (1816) quando Ricordi si muove in questi acquisti, che risalgono ai primi anni Venti. 82 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA sarà tra i fondatori della prima società di raccolta collettiva dei diritti in Italia, la SAE (poi divenuta SIAE). L’impegno dell’editore in questi dibattiti legislativi, cui poi si associa anche Giuseppe Verdi, rinforzato da una pervicace attività di acquisto di nuovi archivi di spartiti e di diritti11, è considerato dalla letteratura un segnale dell’importanza della progressiva formazione della legge sul diritto d’autore per la trasformazione del sistema di produzione e distribuzione dell’Opera in Italia. In coincidenza con l’affermazione della ditta Ricordi, infatti, il sistema dell’opera italiana cambia in modo rivoluzionario. Da un mondo non autoriale, dominato dagli impresari teatrali, da un elevato ritmo di produzione di nuove opere, dalla prevalenza di sistemi canonici di rappresentazione ed esecuzione, si passa a un mondo decisamente autoriale in cui il compositore è il “creatore” celebrato e riconosciuto, a un ritmo meno elevato di produzione e alla nascita di un “repertorio” di successi replicato con frequenza di anno in anno, a messe in scena curate direttamente dal compositore e imposte alle diverse produzioni, a un mondo dominato dagli editori, che hanno preso il posto centrale prima occupato dagli impresari. Diritti d’autore e concentrazione dei diritti sembrano quindi le grandi armi che hanno condotto all’affermazione degli editori, Ricordi in testa, e a una trasformazione “forzata” del sistema di produzione operistica. Ma le cose non sono andate proprio così. Il percorso di formazione di una legislazione italiana e internazionale relativa al diritto d’autore è molto accidentato. Lo stesso Ricordi, poco prima di aprire il dibattito sul tema, non esita ad agire piratando e copiando la musica dei rivali. Ancora negli anni Novanta le lettere di Giulio indicano con chiarezza che il diritto non riesce a essere davvero tutelato, e che anzi la ragione per cui vale la pena di tenere aperte filiali lontane e commercialmente poco redditizie (Roma, Napoli, Palermo) è precisamente quella di avere la possibilità di intercettare e minacciare azioni. Ma vale assai più la minaccia, e quindi le spese legali conseguenti, che la causa in sè. Insomma, almeno fino alla seconda metà degli anni Novanta il diritto non c’è, esso è incerto, non è adeguatamente sostenuto sul piano giudiziario. Ma Ricordi e i suoi colleghi editori sono a quel punto già da almeno un decennio il riferimento di una scena italiana profondamente cambiata. Non diversa la conclusione riguardo agli archivi acquisiti. La non difendibilità effettiva dei diritti rende piuttosto controversa la loro valorizzazione economica. Inoltre, soprattutto per il grande archivio Lucca, che avviene in un tempo in cui comunque la transizione del sistema operistico è compiuta, esistono evidenze che mostrano l’impossibilità di farlo fruttare. Insomma, 11 Mentre partecipa a questi veementi dibattiti Giovanni Ricordi, seguito poi dai figli, comincia ad accumulare archivi di partiture e di diritti, incorporando altre aziende minori, corteggiando gli autori più celebri, a partire da Rossini, e poi Bellini, Donizetti, Verdi e concludendo negli anni Ottanta con Puccini e con l’acquisto, costoso, dell’archivio della ditta rivale Lucca, che gli porta in scuderia anche Wagner. STEFANO BAIA CURIONI 83 più che il coronamento di un trionfo sembra per molti aspetti un affare andato ben peggio di quanto ci si aspettava. Lotta per il diritto d’autore e concentrazione degli archivi non sono quindi le cause della trasformazione, semmai i segnali della stessa. Sono segnali della vocazione industriale ed editoriale di Ricordi, della sua profonda convinzione - più volte esplicitata - che l’opera d’arte sia un prodotto per un mercato e che debba remunerare il proprio sistema di mediazione, risalendo fino all’atto creativo. Sono segnali che parlano di una intonazione di fondo del cambiamento e del modo di interpretarlo da parte di Ricordi che attraverso di essi si posiziona. Nei confronti di quale elemento della scena musicale italiana avviene questo posizionamento? 4. Verdi e Ricordi: la costruzione della musica italiana Gli anni Quaranta dell’Ottocento sono indubbiamente un punto di svolta. Il sistema editoriale milanese sta entrando in crisi, l’Austria accentua sospettosità e vincoli, la competizione degli editori che operano in altri stati si fa sentire. In questi stessi anni si va però affermando la prospettiva di uno sviluppo industriale del settore. Cosa fa Ricordi, distinguendosi da Lucca, fin negli anni Quaranta? a. comincia, come si è visto, ad assumere forti posizioni a favore del diritto d’autore, rinunciando a esporsi in episodi flagranti di pirateria; b. avvia un’azione critica piuttosto accesa nei confronti della situazione musicale della penisola sulle colonne della Gazzetta Musicale. Una critica direttamente rivolta al sistema teatrale tradizionale, ricca di afflati nazionalistici che sembra rivelare un nesso più che occasionale con i testi mazziniani sulla musica usciti in quegli anni, e che poi continua nel tempo trasformandosi in una sorta di leitmotiv educativo della casa; c. incontra Verdi e incomincia a competere con altri editori come Lucca per avere un ruolo privilegiato nella relazione con il maestro, il quale si avvia con l’Oberto nel 1839. Queste azioni corrispondono alle ragioni che producono un’alleanza indissolubile tra Verdi e Ricordi, e indicano con ogni evidenza i più profondi motivi di mutamento per l’opera italiana. Pur avendo presente il rischio di cadere in posizioni agiografiche, è davvero difficile sottostimare gli effetti dell’incontro tra il grande editore e il, seppur ancor giovane, grande compositore. Dagli anni Quaranta in poi, con la morte di Donizetti, l’Opera italiana entra, per opinione comune della musicologia, in una fase di profonda e duratura crisi e sterilità di ispirazione che si prolunga fino all’avvento della Giovane Scuola negli anni Ottanta. L’ambiente produttivo tradizionale operante nelle diverse città della penisola, continua a mantenere la capacità di produrre nuove opere ogni stagione, ma ripetitività e canonicità fanno sentire i loro effetti. 84 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA Il nuovo è altrove: è Verdi, che si distingue progressivamente dai suoi coevi sia per qualità musicale ed espressiva, sia in modo ancor più marcato, per il successo straordinario di pubblico12. È Verdi ciò che viene chiesto dalle platee dei teatri di tutta Italia, le sue opere nuove e quindi quelle di repertorio nel progredire di una identificazione e mitopoiesi collettiva di straordinarie dimensioni: chi ha Verdi ha progressivamente i teatri di tutta Italia, ed è Ricordi a vincere la partita. L’analisi dei contratti relativi alle opere verdiane gestiti dalla casa è chiara in proposito: nel periodo preunitario, dal ’39 al ’60 incluso, Ricordi negozia 36 composizioni operistiche. Tra queste, 27 prevedono una corresponsione prefissata e un impegno di capitale, mentre 9 sono contrattualizzate senza impegni prefissati e sono quindi prive di rischi editoriali. Tra le 27 remunerate ben 19 sono di Verdi: delle 24 opere che Verdi compone dal 1839 al 1859, 20 sono contrattualizzate da Ricordi. I rischi che la casa assume in tutto il ventennio - ovvero i compensi garantiti agli autori - ammontano a 322.724 lire austriache di queste 282.000 (oltre l’87%) sono concentrate sulle opere di Verdi. In una prima fase, fino al 1847, il comportamento di Verdi pare simile a quello tradizionale, compone freneticamente (sono i suoi famosi “anni di galera”), rispondendo a committenze che vengono dagli impresari: Merelli a Milano, Guillaume a Napoli, Mocenigo di Venezia e Ricordi secondo tradizione acquisisce le opere dagli impresari stessi (da Merelli per antico contratto con la Scala). Dal 1847 in poi però la situazione cambia e Verdi darà le sue opere direttamente a Ricordi, senza passare dagli impresari, e riducendo progressivamente il ritmo della composizione. Si tratta di un passaggio significativo. Perché Verdi interrompe la prassi, da decenni consolidata, di affidare il proprio lavoro a un impresario? Sul piano pratico la risposta sembra ovvia: gli impresari rappresentano un elemento aggiuntivo della catena di mediazione, ma non danno valore. Verdi è già abbastanza noto nel paese e non ha più bisogno del loro favore per essere rappresentato, semmai è il contrario. Sono gli impresari che si contendono il repertorio di Verdi per riempire i loro teatri. Affidare la partitura al singolo impresario significa sottomettersi a eventuali rapporti e accordi locali relativi a privilegi di copia, inoltre nessun impresario è in grado di sostenere la gestione complessiva della distribuzione di un’opera importante sul territorio e all’estero. A questo scopo esistono gli editori milanesi, e tra di essi uno in particolare: Ricordi. 12 Budden J., Le Opere di Verdi, vol. 3, EDT, Torino, 1985, 1986, 1988; Bianconi L., Pestelli G. (a cura di), Storia dell’Opera Italiana IV: il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, EDT, 1987. Della Seta F., “Italia e Francia nell’Ottocento”, in Storia della musica a cura della Società italiana di Musicologia, EDT, Torino, 1993. Bianconi L., Il teatro d’opera in Italia, Il Mulino, Bologna, 1993. STEFANO BAIA CURIONI 85 Tab. 1: Contratti per le opere di Verdi 1839 1842 1843 1844 1847 1848 1850 1851 1852 1852 1855 1857 1857 1858 1861 1865 1867 1869 1872 1881 1883 1887 Oberto Nabucco I Lombardi Ernani I due Foscari Alzira Luisa Miller Giovanna d’Arco Macbeth Gerusalemme La Battaglia di Legnano Stiffelio Rigoletto La Traviata Il Trovatore I vespri siciliani Aroldo Simon Boccanegra Un ballo in maschera La forza del destino Macbeth (riformato) Don Carlos La forza del destino (con varianti) Aida Simon Boccanegra (nuovo) Don Carlos (rinnovato) Otello Verdi Merelli impresario Scala Mocenigo presidente spettacoli Fenice Verdi Guillaume impresario Napoli Merelli impresario Scala Verdi Fonte: Archivio Storico Ricordi Libroni dei contratti Messo in questa condizione di privilegio dalla scelta di Verdi, Ricordi rinforza il proprio ruolo imponendo, nei propri contratti, clausole che gli consentono un controllo progressivo delle pratiche e dei palinsesti dei teatri che intendono noleggiare l’opera. Ricordi impone la clausola del ritiro degli spartiti se egli non dovesse essere soddisfatto delle prove e del modo di condurre la produzione, sceglie i cantanti e il maestro concertatore, definisce la scenografia, e influenza direttamente la composizione e la numerosità dell’orchestra. I cantanti, se vogliono lavorare, devono piacere a Ricordi, e così anche i gestori dei teatri. Inoltre, progressivamente, se i teatri vogliono Verdi devono anche prendere altri compositori della scuderia. Le condizioni per la trasformazione del sistema sono così in atto. Si tratta ora di riflettere sui motivi profondi del legame tra editore e compositore. Al piano pratico si affianca infatti una dimensione culturale più profonda. Quando Giovanni Ricordi incontra il giovane Verdi al tempo dell’Oberto è già uno degli editori importanti della città e della penisola. Il contratto con la Scala, i rapporti di fiducia con Bellini e Donizetti, hanno fatto della casa un riferimento. 86 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA Ma non è l’unico. Sempre a Milano, Francesco Lucca si sta muovendo con aggressività e, forse per primo, ha avviato la pratica di commissionare opere direttamente ai compositori. Anche Lucca cerca Verdi, lo fa con intensità, sua moglie, l’abile Giovannina, cercherà di commuoverlo anche con le lacrime, ma Verdi non si lascia convicere, è vero, gli cede un’opera, l’Attila, ma in definitiva sceglie Ricordi. Diversi motivi possono aver influenzato la decisione di Verdi: la visione modernista del mestiere editoriale, la competenza teatrale, il credito economico legato alle sue dimensioni e l’aggressività mercantile, ma tutte queste caratteristiche non mancavano anche al rivale. Plausibilmente essi sono stati integrati da ragioni più profonde che riguardano i rapporti con l’arte operistica in sé. I Ricordi sono portatori di un progetto che esplicitamente congiunge due elementi rilevanti: - l’idea che sia necessaria una riqualificazione dell’arte operistica, dalle composizioni agli ascolti passando per la gestione dei teatri e delle produzioni. Una riqualificazione o meglio una rifondazione che recupera l’istanza di onorare la tradizione musicale italiana anche nella prospettiva dell’affermazione del canone risorgimentale; - l’idea che questa riqualificazione passi attraverso il diritto d’autore, ovvero la difesa delle intenzioni creative e dei diritti economici del compositore e attraverso il successo commerciale delle produzioni. L’opera d’arte è innanzi tutto qualificata in questa prospettiva come “prodotto per un mercato”, come fatto inerentemente economico e artistico/espressivo, senza contraddizioni tra questi termini, anzi, la qualità dell’arte sta proprio nella sapiente - e industrialmente ripetibile - cortocircuitazione tra il sapere creativo e il suo pubblico. L’insieme di queste condizioni è il credo dei Ricordi (Giovanni, Tito I, Giulio, e forse anche l’ultimo della dinastia, Tito II) essi si battono per mantenere queste posizioni, per difendere la possibilità della loro coerenza, per edificare con esse un nuovo modo di concepire l’opera. Verdi, da parte sua, è suggestionato da un’analoga esigenza. Non parla, se non per accenni, nelle sue lettere, delle ragioni profonde che animano la sua opera. A differenza di Wagner su di essa non teorizza sull’opera, ma certo, soprattutto dalla seconda metà degli anni Sessanta, è consapevole della necessità di mettere a tema l’Opera come forma artistica e come campo espressivo e tecnico. La sua risposta è meno letteraria e più pratica e si traduce negli accenni alla “parola scenica” e soprattutto nella continua evoluzione della sua ricerca in cui si mescolano in modo peculiare tradizione, ricerca di efficacia, senso della verosimiglianza e dell’attendibilità. Nello stesso tempo, sempre il progetto artistico di Verdi non si disgiunge mai da una sensibilità economica, diciamo anche di una acribia amministrativa nella gestione delle proprie economie, che trovano in Ricordi un sostegno difficilmente sostituibile. STEFANO BAIA CURIONI 87 L’unione di questi due progetti dai primi anni Quaranta agli anni Sessanta, crea le basi per il cambiamento: la presenza e la produttività di Verdi sono la dimostrazione che la visione di Ricordi non solo è realistica, ma anche straordinariamente azzeccata e vincente. La concentrazione delle attese del pubblico sulle opere di Verdi, anche dovuta al particolare “plesso” culturale e politico del Risorgimento, non fa altro che accelerare il percorso e scavare un solco incolmabile tra le dimensioni, la ricchezza e il prestigio della Casa e quelle dei concorrenti. L’unione di queste due traiettorie, entrambe caratterizzate da una dimensione espressiva e da una dimensione economica, rappresenta il nucleo qualitativo, culturale e nello stesso tempo “energetico” della trasformazione in senso moderno del “piccolo” mondo della musica operistica in Italia. Un mondo nuovo che mostra, però, in poco tempo, le nuove contraddizioni che questa prima modernizzazione gli impone. 5. Contraddizioni e crisi nell’egemonia In un ventennio, tra la schiumante e impotente invidia dei suoi competitori, Ricordi diventa l’editore largamente egemone della scena musicale italiana e uno degli editori importanti della scena europea. Nella visione fin qui prevalente il personaggio più fulgido della Casa, colui che interpreta pienamente il senso e la pratica della condizione egemonica da essa raggiunta, è Giulio Ricordi, esponente della terza generazione della dinastia di imprenditori. La sua azione non è avvolta dall’“aura” prestigiosa e vagamente indecifrabile del fondatore, non conosce le ombre che si allungano sulle fragilità del padre, ma è, generalmente, ricordata come potente, inconfondibile, quasi rinascimentale. A diciott’anni, dopo qualche turbolenza scolastica, si arruola come bersagliere volontario nell’ultima guerra di Indipendenza (1859) poi, solo tre anni dopo rientra a Milano per sposare la nobildonna Giuditta Brivio, matrimonio che segna la transizione cetuale della famiglia. Giulio è un personaggio pubblico, consigliere comunale nel 1885, protagonista (anche interessato) di battaglie per la sistemazione dei difficili bilanci della Scala, è colui che in un certo senso porta a compimento la traiettoria socialmente ascendente della famiglia, l’eroe alto borghese che riassume le capacità di essere artista, imprenditore e amministratore, mecenate, ufficiale pubblico, patriota e romantico. Sotto la sua reggenza si compie il passaggio di consegne da Verdi a Puccini, un miracolo di maestria comunicazionale e di controllo del sistema, si smussano le contrapposizioni con Wagner e con la musica tedesca (è lui stesso a inviare Puccini a Bayeruth e a commissionargli una revisione dei Meistersinger), e la produzione operistica italiana torna a splendere su scala globale, come del resto la produzione pucciniana tra riferimenti orientali e statunitensi rivela con facilità13. 13 Budden J., Puccini, Carocci, Roma, 2005 [2002]; Schickling D., Giacomo Puccini. La vita e l’arte, Felici, Pisa, 2008. 88 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA Ma un’osservazione attenta, condotta attraverso l’esame delle sue carte più intime, rivela un quadro significativamente diverso. Le prime difficoltà implicite nel paradigma istitutivo dell’arte operistica moderna le sperimenta già il padre Tito I. Dopo gli anni Sessanta Giuseppe Verdi rallenta drammaticamente la scrittura e aumenta le pretese economiche, la Casa ha bisogno di alternative, ma non le trova. Giulio stesso cura l’apertura verso mondi musicali nuovi, contribuendo alla fondazione della Società del Quartetto, mentre cerca vanamente nuove stelle. Tra l’Unità d’Italia e il 1880 la Ricordi negozia ben 76 contratti, per un impegno economico più che doppio rispetto al fortunato ventennio precedente. Verdi, costosissimo, con sette contratti cattura quasi 200.000 lire entro il 1875, ma negli stessi anni gli altri venti più importanti arrivano a quotare e costare quasi altrettanto. Ricerca artistica ed economia mostrano segnali di tensione. Nei cinque anni successivi autori come Ponchielli (5 contratti per 90.000 lire), Carlos Gomes (2 contratti per 55.000 lire), Filippo Marchetti (40.000 per un contratto costosissimo acquisito pur di strappare l’autore alla scuderia Lucca, dopo il successo dell’opera Ruy Blas), non sembrano in grado di risolvere il problema. Nascono a questo punto violenti conflitti con Verdi, che non si ritiene sufficientemente appoggiato dalla Casa, e Tito I considera con serietà l’ipotesi di vendere l’azienda a un compratore internazionale. Non se ne farà nulla, ma il problema di tenere insieme “qualità e ricerca artistica” e sostenibilità economica resta centrale. Dal 1881 al 1892 è ancora Verdi a dominare la scena con contratti per 240.000 lire, seguito da molto lontano da un gruppo formato da Ponchielli, Massager, Fianchetti e Puccini, il quale sta muovendo, guidato assiduamente da Giulio, i primi passi per la costruzione del proprio mito. Solo la riuscita “operazione Puccini” tampona le difficoltà, ma si rivela una soluzione di breve termine. La storia del successo di Puccini è molto diversa da quella di Verdi, meno univoca e spontanea, molto più debitrice all’azione sapiente di Giulio. Il giovane Verdi è prolifico, scrive molte opere in pochi anni, tutte e quasi entusiasticamente accette, è disciplinato e pur vivendo grandi e contrastati amori è socialmente protetto dalla suo temperamento ostico e dalla condizione di vedovanza. Puccini è più insicuro, geniale e sensuale, disordinato nei suoi comportamenti, impiega tre anni a comporre l’Edgar l’opera che segue la sua prima (le Willis) avendo modesti risultati. Ma Giulio Ricordi è in quel momento all’apice della sua fama e il successo dell’Otello di Verdi gli offre la possibilità di influenzare le scelte di cartellone di tutta Italia. Chi vuole Otello deve prendere anche un’opera del giovane Puccini. Ricordi non è l’unico editore a usare il potere di ricatto, ma data la sua dimensione la forzatura è percepita, denunciata con livore, anche se in generale subita (condurrà alla rottura con gli impresari Corti gestori della Scala). Nello stesso tempo Giulio, essendo egli stesso buon compositore (sotto lo pseudonimo di Burgmein), entra profondamente nel processo creativo del compositore, nel lavoro dei librettisti (Illica tra tutti), nelle mediazioni e nei ripensamenti riguardo a soggetti, temi, modi, scritture, sceneggiature. Giulio si pone come il grande mediatore, colui che STEFANO BAIA CURIONI 89 garantisce l’equilibrio esatto tra la qualità artistica e la dimensione di mercato dell’opera, realizza e garantisce con la sua persona ciò che il progetto della sua casa con Verdi aveva istituito nel sistema musicale moderno italiano. Ma il suo tentativo è effimero e alla fine il rapporto, quasi filiale, con Puccini, si trasformerà in una ragione di profonda amarezza. Già ai primi del Novecento, dopo la Tosca, il compositore di Lucca non sembra all’altezza del progetto di Ricordi: sul piano umano, per le sregolatezze comportamentali e sentimentali del compositore, e sul piano musicale, con il fallimento della Butterfly (pubblico e critica), ma anche del rapporto culturale e artistico tra i due. Insomma l’ipotesi progettuale che la famiglia Ricordi ha interpretato per tre generazioni, lanciando una sfida che ha catalizzato l’intero setttore dell’editoria musicale e ha orientato la trasformazione istituzionale e stilistica dell’opera italiana, mostra segnali di profonde contraddizioni interne, che non riguardano solo il rapporto con gli artisti, ma si riflettono in altri ambiti strategici di gestione dell’azienda e dei suoi rapporti con i propri portatori di interesse. Riducendo all’essenziale: le questioni che rivelano la difficoltà di tenere insieme, non solo “culturalmente”, ma anche gestionalmente e politicamente, il sistema sono quattro. a. La prima riguarda il rapporto con i teatri e con il sistema pubblico di finanziamento dei teatri. L’equilibrio tra eccellenza espressiva e successo economico praticato da Ricordi deve far affidamento su un implicito sistema di sostegni per la manutenzione e gestione dei teatri. Prima dell’Unità queste risorse sono garantite ai teatri dagli impresari e da maggiorenti o autorità locali. Dopo l’Unità si sprigionano crescenti tendenze, prima a centralizzare l’onere del contributo e poi a negare che lo Stato debba avere un ruolo per sostenere intrattenimenti privati. Questa scelta, che si concretizza dal 1868 in avanti, mette in crisi tutto il sistema teatrale della penisola riducendo le risorse disponibili e quindi anche la possibilità di sostenere allestimenti di qualità. Si apre un confronto duro e complesso. Su questo punto Verdi rassegnerà le sue dimissioni da parlamentare. Ricordi poggerà tutta la sua campagna su questo come membro della giunta comunale di Milano. Le incertezze regolative ed economiche conseguenti ai dibattiti danno fiato a strategie concorrenziali alternative, come quelle di Edoardo Sonzogno, un altro editore milanese che si presenta sulla scena dagli anni Settanta. Sonzogno, a differenza di Lucca non imita Ricordi, ma vi si oppone con un modello frontalmente differente: punta sui giovani, sui nuovi autori, scopre Mascagni e Leoncavallo, fa l’editore ma anche il gestore diretto di teatri a Milano e altrove, escludendo le opere di Ricordi dai palinsesti. Insomma la sua presenza impone a Ricordi stesso di investire (controvoglia) in particolare sulla Scala, determinando un decadimento ulteriore degli impresari e una riduzione del giro d’affari complessivo della casa in Italia. Ma la questione dei teatri resta irrisolta e produce - proprio a Milano - un esito problematico quando il referendum del 1901 vede 11.240 milanesi su 18.908 votanti e 56.000 aventi diritto, dichiararsi contrari a qualunque forma di finanziamento comunale alla 90 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA Scala, una sconfitta politica pesante, che vede la fine del sogno di Ricordi un teatro “pubblico” e ricco. b. La seconda riguarda i problemi gestionali e di delega interna. Casa Ricordi è di gran lunga dominante sulla scena italiana, importante in Europa nonostante Verdi si sia riservato di negoziare i propri contratti anche con altri editori, soprattutto in Francia, significativa nel mondo. Ha uno stabilimento cospicuo che chiede frequenti rinnovi e ampliamenti, che è percepito come il segno della qualità editoriale della casa, filiali in molte città italiane e nelle principali capitali musicali europee. Si tratta di un impero di grande complessità, di cui mancano evidenze contabili sistematiche, ma in cui si può rintracciare qualitativamente il segno di una certa difficoltà economica. Il mercato editoriale e dei noleggi teatrali è ampio, ma i conti delle filiali tornano poco. Roma, Napoli, Palermo, Firenze devono essere tenute aperte soprattutto perché consentono di sorvegliare eventuali lesioni dei contratti di noleggio, messe in scena poco accurate, gestioni inadeguate, diffusione di copie illecite, ma non sono quasi mai in utile, anzi sono sovente malati da curare. Lo stesso, anche con più evidenza, vale per le filiali internazionali di Parigi, Londra e poi Lipsia. Giulio e poi suo figlio Tito II sono spesso in movimento a sorvegliare, elogiare, punire, ma si sente che il compito è impari e vi è una difficoltà nel trovare responsabili a cui dare significative deleghe. Con ogni evidenza uno dei centri di profitto più continui è rappresentato dallo stabilimento e questo è sempre tenuto - salvo brevi e infruttuosi tentativi da un membro della famiglia, prima lo stesso Giulio, poi il figlio Tito, poi il nipote Manuele, che continuerà nel lavoro fino alla seconda guerra mondiale. Per il resto le carte raccontano di molti tentativi e molti licenziamenti, anche duri, ma anche di successi, uno dei quali è la crescita di due personaggi: il napoletano Piero Clausetti e Renzo Valcarenghi. Essi si fanno le ossa nelle filiali al sud e saranno destinati a reggere i destini novecenteschi dell’azienda avendo qualità polari: più artista ed esperto di musica il Clausetti, più rigido amministratore e uomo di numeri il Valcarenghi. c. La terza è determinata invece dal rapporto con gli azionisti. L’acquisto dell’archivio Lucca, alla vigilia degli anni Novanta, ha implicato una ristrutturazione della compagine sociale di Ricordi, con l’ingresso della famiglia Strazza, discendenti della moglie del fondatore della Lucca e di nuovi soci. La crisi deflattiva degli anni Novanta colpisce duramente il settore teatrale, già in difficoltà da tempo sul piano dei finanziamenti pubblici, la redditività dell’azienda è lontana dall’essere soddisfacente. Giulio deve combattere un senso di sfiducia crescente, nonostante gli incredibili successi che la casa sta ottenendo sul piano artistico. Il gigante sembra fragile, e l’amarezza di Giulio nei confronti delle famiglie in consiglio si fa sempre più palpabile fino a sfociare in una aperta minaccia di dimissioni nel 1895. La difficoltà di tenere insieme il sistema si riflette nelle tensioni con gli azionisti e la famiglia. d. L’episodio forse più drammatico e rivelatorio in questo senso è però costituito dalla crisi familiare e dinastica che separa il padre Giulio dal figlio Tito II. Una delle caratteristiche importanti della casa è stata, oltre alla coerenza della STEFANO BAIA CURIONI 91 missione culturale ed editoriale, anche la continuità dinastica. Giulio, completamente dedito alla prima, fallisce o subisce una cruciale sconfitta nella seconda. Tito II, ingegnere, musicista anch’egli e uomo di teatro, comincia presto in azienda e si occupa dello stabilimento produttivo. Le lettere personali tra loro (sono rimaste solo quelle di Giulio) sono una drammatica mescolanza di affetto, speranza, delusione, disistima. Tito ha uno stile di gestione meno esatto di quel che il padre auspica, è meno attento alle regole e alle spese, in compenso è affascinato dalle avanguardie musicali e letterarie, dalle sperimentazioni dannunziane, dalle prospettive industriali offerte dalle innovazioni tecnologiche, il cinema e la fonografia in testa. Giulio non lo riconosce nelle sue qualità e arriva infine a espellerlo dall’azienda - questo pochi anni prima di morire ipotizzando addirittura una fusione con il rivale di sempre Sonzogno. Tito II pretenderà la gestione per ragioni statutarie alla morte del padre ma sarà di fatto licenziato dopo meno di due anni dal consiglio che si affiderà ai dioscuri Giulio Valcarenghi e Clausetti. Con Tito si estingue non solo la continuità dinastica alla guida dell’impresa, ma anche la possibilità che la Ricordi assuma un ruolo nella nascente industria della riproduzione industriale della musica e dell’immagine in Italia. La gestione successiva tenterà infatti di mantenere i principi “sacri” che hanno fatto grande la casa in un contesto però profondamente cambiato, la cui trasformazione è già avvistata ai tempi di Giulio. Mentre questi, infatti, è impegnato con Puccini, la musica colta europea cambia: a partire dalle avanguardie, che si manifestano negli ambienti viennesi e tedeschi e rapidamente si diffondono in Francia e nella stessa compagnie dei “dannunziani”, la musica diventa “colta”, si trasforma e perde progressivamente il rapporto con il pubblico più largo. Il mercato, il pubblico, non possono più essere il “giudice autentico” della qualità artistica, come Giulio aveva visto accadere con Verdi. “Se è arte non è per tutti, se è per tutti non è arte” dirà in quegli anni Schoemberg. L’arte musicale si “ritira” nelle avanguardie, mentre i consumi musicali si espandono e l’opera si trasforma in un genere tra altri, perdendo il ruolo di sintesi sinestetica che aveva guadagnato nei decenni precedenti. Nelle cose, nel mondo, più ancora che all’interno della casa, l’equilibrio tra la dimensione economico industriale e la ricerca di qualità espressiva dell’arte, a suo tempo garantito dalle persone di Verdi e Giovanni Ricordi e poi ancora - in modo più voluto e pensato - da Puccini e Giulio Ricordi, si rompe in modo definitivo. 6. Alcune conclusioni Alla fine di questo complesso percorso musicologico e imprenditoriale, due sono le indicazioni che si stagliano in modo più significativo. Il teatro d’opera muta dunque progressivamente senso, luogo, pelle, in un paesaggio all’interno del quale non si possono identificare moventi o attori “strettamente” economici, che si confrontano con tensioni “strettamente” musicologiche, nel contesto di dinamiche univocamente sociologiche o politiche, ma 92 IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA una convergenza complessa di intese e intenzioni tra due individui, la cui complicità di valori e percezioni è saldata da una componente ideale, ideologica e discorsiva. a. L’arte operistica e il mondo che la circonda, la media e la istituisce cambiano dunque insieme, assumendo in modo difficilmente prevedibile, una collocazione e una peculiare, problematica, centralità culturale nella scena artistica e nella sensibilità dell’Italia, che entra nella Belle Epoque. Questo processo, ancorché molto difficile da qualificare e soprattutto quantificare, non significa solo che l’arte musicale include logiche industriali ed esplicitamente mercantili (orientate ad un mercato degli ascolti) nel suo sistema produttivo e nel suo statuto; né che essa vada guadagnando gradi di libertà e modernità espressiva in funzione dei gusti di un nuovo pubblico; significa piuttosto che si produce una trasformazione del “senso” dell’opera come arte, attraverso il recupero congiunto di entrambe queste dimensioni. Sia nel momento della sua fruizione che nel momento della sua strutturazione come sistema di conservazione, distribuzione e valorizzazione. La trasformazione dei sistemi culturali non deve essere dunque concepita in modo unilaterale, non è mai solo istituzionale o solo culturale ma avviene in un processo di successivi atti istitutivi che, a partire da posizioni apparentemente dogmatiche, ristrutturano il campo di esistenza delle arti congiungendo la dimensione artistica e quella istituzionale. Nel caso dell’Opera italiana moderna questa posizione è riassunta dall’idea che la qualità della ricerca artistica e il fatto che l’arte sia considerata essenzialmente un prodotto per un mercato degli ascolti, possano andare insieme in modo definitivo. Questa idea non si produce nel mondo musicale come un’importazione da altri settori o ambienti, ma matura e si avvera in modo rivoluzionario all’interno del sistema musicale, nella congiunzione tra il progetto di Verdi e quello di Ricordi, e ne determina l’evoluzione lungo l’arco della modernità. Questa idea, identificando l’atto artistico essenzialmente in un prodotto, ne sancisce la ri-producibilità ovvero l’industrializzabilità, molto prima che le tecnologie ponessero il problema dell’autenticità e del valore, e anticipando i tempi in cui questi problemi si sono posti in altri campi. b. L’istituzione culturale, in questo caso un impresa privata, non solo è chiamata a gestire la multidimensionalità implicita nel valore simbolico dell’arte, muovendosi in una prospettiva nella quale sono inclusi molti portatori di interesse. Ricordi, e in modo simile i suoi principali concorrenti, si occupa non a caso di archivi, teatri, musicisti, conservatori, scuole, concerti, negozi, ma anche della diffusione della musica, di opinione pubblica musicale, ecc. insomma di tutto il sistema della musica. Non è quindi solo portatrice di una straordinaria complessità, cui si somma il problema di valutare, quantificare e internalizzare (nel marchio, nella reputazione ed eventualmente nei prezzi) un valore che è anche pubblico e immateriale, ma è anche necessariamente partecipe di un processo di mediazione che è direttamente partecipe della natura e dell’esistenza stessa dell’arte, delle sue condizioni di esistenza, di accettabilità, di riconoscibilità, di sostenibilità. STEFANO BAIA CURIONI 93 Una partecipazione profonda, ineludibile che ha decisive conseguenze sulle sue performance e dovrebbe averne anche sulle scelte del suo management. In questo senso la storia dell’Opera italiana acquisisce uno straordinario significato, in quanto mostra come un’arte e un sistema dell’arte si sono simultaneamente trasformati in un rivoluzionario processo istitutivo: un terremoto nel quale l’impresa editoriale che ha condotto il gioco, raggiungendo per questo l’egemonia nel mondo dell’Opera italiana, è rimasta intrappolata, vincolata dalle contraddizioni non pensate e non viste del sistema da essa stessa creato. Bibliografia ANTOLINI B.M., Dizionario degli editori musicali italiani. 1750-1930, ETS, Pisa, 2000. ANTOLINI B.M., Nuove acquisizioni sull’editoria musicale in Italia 1800-1920, Canoni Bibliografici. Contributi italiani al Convegno Internazionale IALM - IASA, Perugina, 1-6 settembre 1996, 2001. BAIA CURIONI S., “I processi di produzione del valore nei musei”, Aedon, n. 2, 2008. BECKER H, FAULKNER R.R., KIRSHENBLATT-GIMBLETT B., Art from start to finish, The University of Chicago Press, Chicago, 2006. 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