Imprenditorialità privata e trasformazione dell`Opera italiana nell

Imprenditorialità privata e trasformazione
dell’Opera italiana nell’Ottocento*
STEFANO BAIA CURIONI**
Abstract
Tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta dell’Ottocento il sistema di produzione e di
distribuzione dell’Opera italiana conosce una profonda e sostanziale trasformazione da un
sistema produttivo artigianale, privo del diritto di autore, a un sistema produttivo moderno,
autoriale e industriale. La ricostruzione del ruolo degli editori musicali, e in particolare di
Ricordi, consente una reinterpretazione delle ragioni della trasformazione, e una riflessione
sulle caratteristiche dell’azione di mediazione culturale svolta dalle imprese private
all’interno di tale trasformazione.
Parole chiave: Opera italiana, Editori musicali, trasformazione dei sistemi di produzione
artistica, diritto d’autore, mediazione culturale, industria culturale
Between 1840 and 1880, the italian Opera production system is transformed. From a
handicraft system without any form of copyright protection, it became a modern cultural
industry. The consideration of the music publishers’ role, and particularly of the firm Ricordi,
lead to a reinterpretation of the reasons of the transformation of the art production system
and a reflection upon the characteristics of cultural mediation provided by private enterprises
in this process.
Key words: Italian Opera, music publishers, arts production system, intellectual property
rights, cultural mediation, cultural industries
1. Premessa
In che termini è possibile interpretare la trasformazione di un sistema di
produzione artistica? Cosa implica una trasformazione dell’arte in senso moderno,
intendendo con questo la ristrutturazione simultanea delle pratiche, delle forme di
concettualizzazione dell’arte, e dei sistemi di produzione e distribuzione delle
*
**
Questa ricerca è stata condotta all’interno di un progetto del centro ASK dell’Università
Bocconi di Milano. Per ogni riferimento archivistico relativo alla storia Ricordi si rimanda
al volume da me redatto e in corso di pubblicazione sulla Storia della Ricordi e della
Musica operistica italiana.
Associato di Storia Economica - Università di Milano “L. Bocconi”
e-mail: [email protected]
sinergie n. 82/10
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
opere? Quali vie accompagnano il crescente peso dei mercati, l’industrializzazione e
l’intima trasformazione funzionale delle produzioni artistiche nel cruciale periodo
che si estende dagli ultimi due decenni dell’Ottocento alla prima guerra mondiale?
Tali sono le domande che hanno orientato questa ricerca dedicata all’evoluzione
del sistema di produzione operistica italiana nel XIX secolo.
Il “caso” della musica operistica italiana presenta molti dei sintomi caratteristici
della modernizzazione dei principali sistemi di produzione europei, pur essendo
tipizzata da un peculiare ruolo degli editori. Anche in altre nazioni europee gli
editori musicali hanno svolto una parte crescente nella modernizzazione tardo
ottocentesca (Escudier in Francia, Breitkopf e Haertel in Germania, giusto per fare
degli esempi1), ma le case editrici Ricordi, Lucca, Sonzogno hanno svolto in Italia,
pur con diverse modalità, un ruolo del tutto particolare per influenza, dimensione
quantitativa e anche qualitativa.
La storia di queste case editrici musicali, la ricostruzione delle loro lotte, dei loro
conflitti legali, delle loro alleanze e strategie, in particolare nel caso di Ricordi,
certamente la realtà imprenditoriale dominante, offre un contributo significativo sia
alla comprensione della natura delle istituzioni culturali, sia al ripensamento del
ruolo di mediazione (selezione e gestione dei processi di riproduzione culturale)
all’interno dei sistemi di produzione artistica. Più in particolare è possibile osservare
che l’azione degli editori musicali contribuisce “riflessivamente” alla modificazione
delle condizioni di esistenza della musica operistica. La mediazione editoriale non si
risolve in un mero trasferimento fisico e tecnico, ma esercita una pressione destinata
nel tempo a trasformare la natura stessa dell’opera d’arte.
In questo senso le indicazioni che si ottengono dal caso italiano possono essere
considerate anche come un contributo alla critica della nozione di “mediazione”
culturale e di mercato.
Dal punto di vista teorico la comprensione e l’interpretazione di questo caso
richiedono l’introduzione di concetti mutuabili da discipline e ambiti di ricerca
differenziati.
In primo luogo l’idea, elaborata in particolare da Howard Becker, della natura
eminentemente collettiva della creazione artistica2. In apparenza questa indicazione
sembrerebbe prevalentemente diretta a demolire la nozione romantica dell’artista,
intesa come genio creatore isolato, per enfatizzare l’evidenza delle molteplici reti di
collaborazione che si attestano attorno al lavoro dell’artista, definendo un ambiente
produttivo e creativo dal quale la singola opera d’arte non può prescindere.
Reti che garantiscono l’approvvigionamento dei materiali e delle tecnologie
disponibili per le realizzazioni, che elaborano i modi di rappresentare e diffondere le
opere, che saldano le relazioni di committenza e di acquisto, che formano gli
ambienti di ricerca e di elaborazione intellettuale cui gli artisti stessi, ma anche i
1
2
Christensen T., “Public music in private spaces. Piano - Vocal Scores and the
Domestication of Opera”, in Music and the culture of print, ed. Van Orden K., Garland,
New York, 2000, pp. 67-93.
Becker H., Art Worlds, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1982.
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mediatori d’arte, fanno riferimento per orientare le loro scelte e i loro gusti3.
La prospettiva di Becker introduce, quindi, come dimensione critica
dell’indagine, il problema di rappresentare il contesto collettivo all’interno del quale
le opere d’arte acquisiscono la loro forma e la loro intelleggibilità.
Becker parla di “arts worlds” intesi come sistemi che includono tutto l’insieme
di operatori e di istituzioni preposte alla gestione dei processi di produzione,
distribuzione e riconoscimento delle opere che si chiamano “arte”, nelle loro
reciproche relazioni, e sono rintracciabili in forme diverse nei diversi contesti
storici. I sistemi dell’arte che egli definisce possono estendere le loro influenze
anche ai contenuti e alle dimensioni espressive delle opere di cui garantiscono
l’esistenza e la condivisione, ma, nella loro essenza, funzionano come catene
produttive e distributive, come insiemi fungibili di risorse di volta in volta messe al
servizio di forme d’arte la cui “origine” può anche trovare le sue sorgenti e i suoi
modi in ambiti esterni al sistema stesso4.
In modo sensibilmente diverso Pierre Bourdieu definisce il “campo dell’arte”
come la forma storicamente unica, assunta da un sottoinsieme sociale che si forma, a
partire dalla metà dell’Ottocento in avanti, sotto la spinta di una istanza di
autonomizzazione e differenziazione rispetto ad altri campi sociali. Il “campo”
dell’arte moderna si costituisce, in questa visione, come fatto specifico della
modernità, come un sistema di mediazione gerarchizzato, le cui frontiere sono
definite da una esplicita alterità rispetto ai settori tradizionali della produzione
economica e i cui contenuti sono prodotti e selezionati, facendo riferimento alla
formazione di ondate successive di “avanguardie” apparentemente indipendenti da
qualunque logica di mercato e rispondenti invece a pure istanze di ricerca artistica e
filosofica5.
I mondi delle arti di Becker sono insiemi istituzionali, professionali e sociali,
sedimentati storicamente nel lungo periodo, che svolgono una funzione di
mediazione e di distribuzione delle risorse nei confronti di forme e modi di arti che
operano in reciproca competizione verso un pubblico di fruitori o di acquirenti.
3
4
5
Becker H., Faulkner R.R., Kirshenblatt-Gimblett B., Art from start to finish, The
University of Chicago Press, Chicago, 2006.
L’attenzione ai mondi dell’arte ha poi anche posto in luce la dimensione spaziale e
geografica. L’enfasi posta sulle popolazioni e sulle attività che circondano lo specifico
dell’arte si è trasferita in una crescente attenzione alla loro distribuzione e
gerarchizzazione spaziale e in un’attenzione crescente alle condizioni che ne garantiscono
lo sviluppo nei diversi luoghi e tempi. In questa visione lo spazio, nella sua complessità,
esercita un influsso specifico, indipendente e riconoscibile attraverso processi di
concentrazione delle attività artistiche all’interno di certi quartieri e di certe città. Processi
che a loro volta rispondono a qualità degli spazi, a politiche sociali dichiarate o informali,
ai modi di pianificare lo sviluppo delle città. Sul punto la letteratura è molto ampia. Cfr.
Scott A.J., The cultural economy of cities. Essays on the geography of image-producing
industries, SAGE Publication, London, 2000.
Bourdieu P., Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Saggiatore,
Milano, 2005.
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
Nella prospettiva di Bourdieu, invece, l’avvento del campo dell’arte - forma di
mediazione storicamente unica - risponde a una trasformazione del senso dell’arte
stessa (che si connette a una filosofia e a una riflessione critica sui propri mezzi
espressivi). La trasformazione dei “modi” e del “senso” dell’arte procede dunque
simultaneamente come un unico processo, dando forma alle ambiguità e alle
contraddizioni che caratterizzano drammaticamente le arti moderne.
Introdotta l’idea di una necessaria saldatura tra il cambiamento dei sistemi di
produzione e la trasformazione della natura e del senso dell’arte, un ulteriore livello
analitico è posto dal problema di concettualizzare il cambiamento nei sistemi delle
arti, ovvero di comprendere i modi in cui le arti si trasformano, si modificano, si
innovano, si estinguono o nascono. La convergenza tra le prospettive della storia
sociale della scienza (Kuhn) e quelle della teoria istituzionale dell’arte (Danto,
Dickie) tende a indicare che la trasformazione delle arti, l’irruzione di nuovi stili, il
declino o la risorgenza di specifiche forme d’arte, debba essere intesa
principalmente come il risultato di un gioco istituzionale, che procede per incrementi
o per rotture paradigmatiche a seconda dell’abilità degli attori - o della loro fortuna nel catalizzare una sufficiente massa critica di consensi6. La storia delle arti in
questa prospettiva si presenta come un gigantesco processo di oblio e selezione, le
cui regole non hanno davvero, o necessariamente, a che fare con la qualità delle
opere in sé, o con un “telos” narrativo o funzionale che connette una forma d’arte
alla storia complessiva della civiltà, ma con le capacità organizzative e comunicative
degli artisti e dei loro sostenitori, con i limiti dei paradigmi conoscitivi, con le forme
e gli assetti delle istituzioni. In questa suggestiva prospettiva le opere d’arte migliori
- ammesso che abbia senso il concetto - non sono necessariamente quelle che hanno
fatto la storia dell’arte, molte altre sono probabilmente esistite per poi finire
nell’oblio, senza che il loro artefice sia stato in grado di catalizzare l’attenzione
collettiva. La questione della poeticità, della qualità intrinseca dell’opera, della sua
autenticità, vengono sostanzialmente dissolte nella nuvola delle infinite possibilità
combinatorie e dal molteplice gioco di vincoli posto dalle resilienze istituzionali,
ideologiche, semantiche dei diversi contesti.
Questa prospettiva, particolarmente dominante oggi, in particolare nella
relazione con le arti contemporanee, pone un problema fondamentale nel senso che
simultaneamente introduce la possibilità di un’infinita estensione del concetto di arte
(qualunque oggetto è potenzialmente “arte”), ma nello stesso tempo ne elimina la
specificità (non vi è una nozione condivisa di cosa sia “arte”). La forza insistente di
una simile aporia rinnova oggi l’esigenza di elaborare, su basi diverse da quelle di
un tempo, il senso della specificità dell’arte rispetto ad altre forme espressive e
insieme, per ovvia conseguenza, di ripensare i modi della sua trasformazione storica.
6
Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Il Mulino, Bologna, 1979; Danto
A.R., “The artworld”, Journal of Philosophy, 61, 1964,pp. 571-584; Dickie G., “Defining
Art”, American Philosophical Quarterly, 6, 1969, 253-256; Dickie G., Art and the
aestethic, Cornell University Press, Ithaca, 1974; Danto A.R., After the end of Art,
Princeton, Bollingen, 1996.
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Senza pretendere di sciogliere domande di portata così ampia, il lavoro che si
presenta in questa sede tiene conto della loro presenza e si pone l’obiettivo di
impostare la storia istituzionale e sociale del sistema dell’arte come la storia del
modo, sempre imperfetto, in cui la “differenza” dell’arte, la sua specificità, sono
garantite nel mutare dei contesti.
La storia degli editori musicali ottocenteschi, e in particolare di Ricordi, è un
caso significativo proprio in questa direzione: gli editori sono stati infatti gli attori
attorno cui è, letteralmente, ruotata una radicale trasformazione degli assetti
produttivi del sistema di produzione della musica operistica in Italia, ma anche, nello
stesso tempo, i perni della riedificazione stilistica e poetica che ha prodotto lo
specifico dell’arte dell’Opera italiana nel secondo Ottocento e la sua
caratterizzazione nel contesto musicale mondiale.
Il fatto che aziende private, industriali e mercantili abbiano tenuto questo ruolo,
svolgendo un lavoro che ha fatto coincidere in Italia il risorgimento musicale e
l’industrializzazione della musica, rende particolarmente interessante la
ricostruzione del caso.
2. Lo spazio e il tempo
Non è indifferente che tutte le case editoriali che han fatto la storia dell’Opera
italiana siano state milanesi e che la principale di esse, quella fondata da Giovanni
Ricordi, abbia cominciato a operare nella Milano napoleonica e della restaurazione.
L’introduzione della musica a stampa è un’innovazione italiana seicentesca, che
viene imitata con efficacia in Europa nel corso del Settecento. Ai primi
dell’Ottocento il primato italiano in questa attività è un ricordo lontano, i principali
centri di produzione di musica a stampa nella penisola, Venezia e Napoli, seguiti da
Milano e Firenze, sono popolati essenzialmente da “stampatori” e copisti che
svolgono un ruolo marginale nella scena teatrale7.
Il sistema di produzione delle opere ruota attorno alle figure degli impresari
teatrali, imprenditori di ventura chiamati a gestire gli “edifici” e le stagioni teatrali
nelle diverse città italiane. Gli impresari di stagione in stagione commissionano,
anche grazie a reti di alleanze nobiliari, nuove opere, che di norma sono
precipitosamente composte e adattate nelle settimane precedenti alla prima
stagionale. I compositori, pagati per la scrittura, anticipano le parti manoscritte
dell’opera in corso di composizione in modo da consentire le prove ed
eventualmente procedere agli adattamenti necessari. La partitura finale, di proprietà
dell’impresario o del teatro committente, è quindi copiato a mano nelle diverse
7
Antolini B.M., Dizionario degli editori musicali italiani 1750-1930, ETS, Pisa, 2000;
Antolini B.M., Nuove acquisizioni sull’editoria musicale in Italia 1800-1920, Canoni
Bibliografici. Contributi italiani al Convegno Internazionale IALM - IASA, Perugina, 1-6
settembre 1996, 2001. RASH R. ed., Music publishing in Europe 1600-1900, BWV,
Berlin, 2005.
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
sezioni strumentali e di canto. Questo servizio di copiatura è svolto dai copisti,
musicisti in grado di estrarre le sezioni strumentali a partire dalla partitura completa
- ma anche di adattarle in caso di bisogno (ad esempio quando l’estensione vocale
del cantante era inadeguata) - e poi di produrre delle riduzioni (di norma canto e
pianoforte) per la vendita domestica8. Sovente, in cambio di un pagamento molto
contenuto dell’azione di copiatura a mano, il copista acquista dall’impresario la
possibilità o il privilegio di stampare le riduzioni successive dell’opera e di venderle
al pubblico in caso di successo. Per quanto cominci a diffondersi la pratica
dilettantistica del pianoforte e del canto nel privato delle case nobiliari e alto
borghesi, il pubblico è principalmente interessato al teatro e all’opera nuova in
cartellone ogni anno. Le vendite delle riduzioni a stampa sono quindi residuali
rispetto agli incassi del teatro, non tali da destare le attenzioni degli impresari, il cui
interesse è piuttosto quello di risparmiare sui costi (altrimenti certi) della copiatura
delle parti.
Il compositore, pagato alla consegna dell’Opera, non ha, e per diversi decenni
dell’Ottocento non pretende, alcun diritto sui suoi successivi utilizzi. Si forma così
tra i primi anni dell’Ottocento e la fase centrale della Restaurazione - in coincidenza
con una forte diffusione di nuovi teatri nelle medie città italiane - una popolazione di
copisti-stampatori di musica, che costruiscono le loro attività come cellule minori,
parzialmente parassitarie e meramente funzionali del sistema di produzione teatrale9.
Giovanni Ricordi, ex violinista di un teatro di marionette, avvia con difficoltà la
sua attività di copista e stampatore al teatro Carcano nel 1808. In apparenza è uno
come tanti altri, ma i fatti della sua vita dimostreranno che il suo destino sarà molto
diverso. Cambierà sistema e il sistema circostante, formerà giovani che poi saranno
suoi acerrimi competitori, sarà esempio da imitare , da riverire e da temere.
Milano, in quegli anni, prima come capitale Cisalpina e poi come capoluogo del
dominio austriaco, è un fervente centro culturale. I suoi editori sono numerosi, attivi,
ambiziosi, il suo teatro è già considerato uno dei più importanti della penisola.
Il distretto degli editori milanesi è in contrada S. Margherita, non lontano dalla
Scala, ed è proprio lì che Ricordi installa negozio e laboratorio. Dal punto di vista
musicale Milano è viva, anche se non come i grandi capoluoghi musicali Napoli e
Venezia, ma, non più di un decennio dopo l’apertura del negozio Ricordi, la città è
investita da una moda musicale che trasforma la sua scena; il pubblico impazzisce
per Rossini, la cui stella sembra offuscare i successi della generazione precedente di
compositori, come Fernando Paer e Simone Mayr; la pratica strumentale, soprattutto
pianistica, si diffonde nelle case patrizie e borghesi della città.
In questo contesto Ricordi matura la sua impresa. Altri stampatori sono nati poco
prima o poco dopo di lui, ma nessuno mostra la sua vocazione “editoriale” e
industriale. Giovanni Ricordi è silenzioso, non parla e non scrive molto di sé e mai
8
9
Rosselli J., L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano
dell’Ottocento, EDT, Torino, 1985 [1984].
Sorba C., Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, Il Mulino, Bologna,
2001.
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delle ragioni delle sue scelte. Per comprendere le motivazioni della sua innovazione
occorre partire dalle sue operazioni concrete. Vuole essere un editore, non uno
stampatore. Non è il mercato della stampa a interessarlo, per quanto gli acquisti
milanesi siano promettenti, non sono sufficienti, il mercato è piccolo, la domanda
più intensa è concentrata su pochi autori. Ciò nonostante Ricordi apre filiali a
Firenze, Roma e poi a Londra nel 1825. Quel che gli interessa è piuttosto il teatro,
un luogo in cui deve farsi largo a dispetto, o con il favore, degli impresari.
Nessuno fa come lui, a parte Francesco Lucca, anch’egli musicista un po’
spiantato che Ricordi accoglie in azienda come litografo e che, dopo qualche anno,
si trasforma - sempre a Milano - nel suo più autentico e accanito rivale. Milano e la
sua editoria letteraria rappresentano quindi le culle i cui si forma l’ideologia e la
visione degli editori che faranno storia nell’Opera italiana.
3. Archivi e diritti
Lucca e Ricordi si somigliano per molti aspetti e anche per questo rivaleggiano
aspramente, anche per vie legali, accusandosi reciprocamente di pirateria e di lesioni
delle norme locali sulle privative e privilegi editoriali. Rispetto al rivale Ricordi,
però, sembra più consapevole e critico e si distingue almeno su tre fronti:
a. nella cura mostrata per le componenti tecniche e per la qualità della musica a
stampa prodotta nelle sue officine;
b. nella precoce attenzione all’acquisto di interi archivi di partiture - dopo quello
della Scala è il turno di Artaria e Carulli - in modo da aumentare il proprio
catalogo e diventare un riferimento sempre più esclusivo per il mercato
domestico della musica10;
c. nell’attiva partecipazione alla “battaglia” per instaurare un nuovo regime
legislativo sul diritto d’autore.
Tra queste evidenze forse quella più lampante per mostrare la partecipazione di
Ricordi alla vita del distretto editoriale milanese è quella relativa al diritto d’autore.
Il dibattito sul tema del diritto d’autore in campo musicale, che si prolunga dagli
anni Quaranta fino alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, è infatti parte di un
fronte ampio che riguarda tutta l’industria editoriale, e a cui partecipano con
particolare intensità i principali editori milanesi anche in virtù delle caratteristiche
avanzate della legge francese che gli austriaci non hanno ritenuto di modificare. I
Ricordi combattono in prima fila, con Antonio Stella e altri grandi editori letterari,
tenendo le posizioni più radicali a favore di un rigido controllo del diritto d’autore.
Intervengono sistematicamente sulla Gazzetta Musicale, il giornale aziendale,
arrivando a denunciare il “comunismo” di chi, per principio o per interesse, si
oppone alla diffusione di questo orientamento: Tito Ricordi presenterà una relazione
alla conferenza di Bruxelles, premessa allo storico trattato di Berna, e il figlio Giulio
10
Francesco Lucca è partito da pochi anni (1816) quando Ricordi si muove in questi
acquisti, che risalgono ai primi anni Venti.
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
sarà tra i fondatori della prima società di raccolta collettiva dei diritti in Italia, la
SAE (poi divenuta SIAE).
L’impegno dell’editore in questi dibattiti legislativi, cui poi si associa anche
Giuseppe Verdi, rinforzato da una pervicace attività di acquisto di nuovi archivi di
spartiti e di diritti11, è considerato dalla letteratura un segnale dell’importanza della
progressiva formazione della legge sul diritto d’autore per la trasformazione del
sistema di produzione e distribuzione dell’Opera in Italia.
In coincidenza con l’affermazione della ditta Ricordi, infatti, il sistema
dell’opera italiana cambia in modo rivoluzionario. Da un mondo non autoriale,
dominato dagli impresari teatrali, da un elevato ritmo di produzione di nuove opere,
dalla prevalenza di sistemi canonici di rappresentazione ed esecuzione, si passa a un
mondo decisamente autoriale in cui il compositore è il “creatore” celebrato e
riconosciuto, a un ritmo meno elevato di produzione e alla nascita di un “repertorio”
di successi replicato con frequenza di anno in anno, a messe in scena curate
direttamente dal compositore e imposte alle diverse produzioni, a un mondo
dominato dagli editori, che hanno preso il posto centrale prima occupato dagli
impresari.
Diritti d’autore e concentrazione dei diritti sembrano quindi le grandi armi che
hanno condotto all’affermazione degli editori, Ricordi in testa, e a una
trasformazione “forzata” del sistema di produzione operistica.
Ma le cose non sono andate proprio così.
Il percorso di formazione di una legislazione italiana e internazionale relativa al
diritto d’autore è molto accidentato. Lo stesso Ricordi, poco prima di aprire il
dibattito sul tema, non esita ad agire piratando e copiando la musica dei rivali.
Ancora negli anni Novanta le lettere di Giulio indicano con chiarezza che il diritto
non riesce a essere davvero tutelato, e che anzi la ragione per cui vale la pena di
tenere aperte filiali lontane e commercialmente poco redditizie (Roma, Napoli,
Palermo) è precisamente quella di avere la possibilità di intercettare e minacciare
azioni. Ma vale assai più la minaccia, e quindi le spese legali conseguenti, che la
causa in sè. Insomma, almeno fino alla seconda metà degli anni Novanta il diritto
non c’è, esso è incerto, non è adeguatamente sostenuto sul piano giudiziario.
Ma Ricordi e i suoi colleghi editori sono a quel punto già da almeno un decennio
il riferimento di una scena italiana profondamente cambiata. Non diversa la
conclusione riguardo agli archivi acquisiti.
La non difendibilità effettiva dei diritti rende piuttosto controversa la loro
valorizzazione economica. Inoltre, soprattutto per il grande archivio Lucca, che
avviene in un tempo in cui comunque la transizione del sistema operistico è
compiuta, esistono evidenze che mostrano l’impossibilità di farlo fruttare. Insomma,
11
Mentre partecipa a questi veementi dibattiti Giovanni Ricordi, seguito poi dai figli,
comincia ad accumulare archivi di partiture e di diritti, incorporando altre aziende minori,
corteggiando gli autori più celebri, a partire da Rossini, e poi Bellini, Donizetti, Verdi e
concludendo negli anni Ottanta con Puccini e con l’acquisto, costoso, dell’archivio della
ditta rivale Lucca, che gli porta in scuderia anche Wagner.
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più che il coronamento di un trionfo sembra per molti aspetti un affare andato ben
peggio di quanto ci si aspettava.
Lotta per il diritto d’autore e concentrazione degli archivi non sono quindi le
cause della trasformazione, semmai i segnali della stessa. Sono segnali della
vocazione industriale ed editoriale di Ricordi, della sua profonda convinzione - più
volte esplicitata - che l’opera d’arte sia un prodotto per un mercato e che debba
remunerare il proprio sistema di mediazione, risalendo fino all’atto creativo. Sono
segnali che parlano di una intonazione di fondo del cambiamento e del modo di
interpretarlo da parte di Ricordi che attraverso di essi si posiziona. Nei confronti di
quale elemento della scena musicale italiana avviene questo posizionamento?
4. Verdi e Ricordi: la costruzione della musica italiana
Gli anni Quaranta dell’Ottocento sono indubbiamente un punto di svolta.
Il sistema editoriale milanese sta entrando in crisi, l’Austria accentua sospettosità
e vincoli, la competizione degli editori che operano in altri stati si fa sentire. In
questi stessi anni si va però affermando la prospettiva di uno sviluppo industriale del
settore.
Cosa fa Ricordi, distinguendosi da Lucca, fin negli anni Quaranta?
a. comincia, come si è visto, ad assumere forti posizioni a favore del diritto
d’autore, rinunciando a esporsi in episodi flagranti di pirateria;
b. avvia un’azione critica piuttosto accesa nei confronti della situazione musicale
della penisola sulle colonne della Gazzetta Musicale. Una critica direttamente
rivolta al sistema teatrale tradizionale, ricca di afflati nazionalistici che sembra
rivelare un nesso più che occasionale con i testi mazziniani sulla musica usciti in
quegli anni, e che poi continua nel tempo trasformandosi in una sorta di leitmotiv
educativo della casa;
c. incontra Verdi e incomincia a competere con altri editori come Lucca per avere
un ruolo privilegiato nella relazione con il maestro, il quale si avvia con l’Oberto
nel 1839.
Queste azioni corrispondono alle ragioni che producono un’alleanza
indissolubile tra Verdi e Ricordi, e indicano con ogni evidenza i più profondi motivi
di mutamento per l’opera italiana.
Pur avendo presente il rischio di cadere in posizioni agiografiche, è davvero
difficile sottostimare gli effetti dell’incontro tra il grande editore e il, seppur ancor
giovane, grande compositore.
Dagli anni Quaranta in poi, con la morte di Donizetti, l’Opera italiana entra, per
opinione comune della musicologia, in una fase di profonda e duratura crisi e
sterilità di ispirazione che si prolunga fino all’avvento della Giovane Scuola negli
anni Ottanta.
L’ambiente produttivo tradizionale operante nelle diverse città della penisola,
continua a mantenere la capacità di produrre nuove opere ogni stagione, ma
ripetitività e canonicità fanno sentire i loro effetti.
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
Il nuovo è altrove: è Verdi, che si distingue progressivamente dai suoi coevi sia
per qualità musicale ed espressiva, sia in modo ancor più marcato, per il successo
straordinario di pubblico12.
È Verdi ciò che viene chiesto dalle platee dei teatri di tutta Italia, le sue opere
nuove e quindi quelle di repertorio nel progredire di una identificazione e mitopoiesi
collettiva di straordinarie dimensioni: chi ha Verdi ha progressivamente i teatri di
tutta Italia, ed è Ricordi a vincere la partita.
L’analisi dei contratti relativi alle opere verdiane gestiti dalla casa è chiara in
proposito: nel periodo preunitario, dal ’39 al ’60 incluso, Ricordi negozia 36
composizioni operistiche. Tra queste, 27 prevedono una corresponsione prefissata e
un impegno di capitale, mentre 9 sono contrattualizzate senza impegni prefissati e
sono quindi prive di rischi editoriali. Tra le 27 remunerate ben 19 sono di Verdi:
delle 24 opere che Verdi compone dal 1839 al 1859, 20 sono contrattualizzate da
Ricordi. I rischi che la casa assume in tutto il ventennio - ovvero i compensi garantiti
agli autori - ammontano a 322.724 lire austriache di queste 282.000 (oltre l’87%)
sono concentrate sulle opere di Verdi.
In una prima fase, fino al 1847, il comportamento di Verdi pare simile a quello
tradizionale, compone freneticamente (sono i suoi famosi “anni di galera”),
rispondendo a committenze che vengono dagli impresari: Merelli a Milano,
Guillaume a Napoli, Mocenigo di Venezia e Ricordi secondo tradizione acquisisce
le opere dagli impresari stessi (da Merelli per antico contratto con la Scala).
Dal 1847 in poi però la situazione cambia e Verdi darà le sue opere direttamente
a Ricordi, senza passare dagli impresari, e riducendo progressivamente il ritmo della
composizione.
Si tratta di un passaggio significativo. Perché Verdi interrompe la prassi, da
decenni consolidata, di affidare il proprio lavoro a un impresario?
Sul piano pratico la risposta sembra ovvia: gli impresari rappresentano un
elemento aggiuntivo della catena di mediazione, ma non danno valore. Verdi è già
abbastanza noto nel paese e non ha più bisogno del loro favore per essere
rappresentato, semmai è il contrario. Sono gli impresari che si contendono il
repertorio di Verdi per riempire i loro teatri. Affidare la partitura al singolo
impresario significa sottomettersi a eventuali rapporti e accordi locali relativi a
privilegi di copia, inoltre nessun impresario è in grado di sostenere la gestione
complessiva della distribuzione di un’opera importante sul territorio e all’estero. A
questo scopo esistono gli editori milanesi, e tra di essi uno in particolare: Ricordi.
12
Budden J., Le Opere di Verdi, vol. 3, EDT, Torino, 1985, 1986, 1988; Bianconi L.,
Pestelli G. (a cura di), Storia dell’Opera Italiana IV: il sistema produttivo e le sue
competenze, Torino, EDT, 1987. Della Seta F., “Italia e Francia nell’Ottocento”, in Storia
della musica a cura della Società italiana di Musicologia, EDT, Torino, 1993. Bianconi
L., Il teatro d’opera in Italia, Il Mulino, Bologna, 1993.
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85
Tab. 1: Contratti per le opere di Verdi
1839
1842
1843
1844
1847
1848
1850
1851
1852
1852
1855
1857
1857
1858
1861
1865
1867
1869
1872
1881
1883
1887
Oberto
Nabucco
I Lombardi
Ernani
I due Foscari
Alzira
Luisa Miller
Giovanna d’Arco
Macbeth
Gerusalemme
La Battaglia di Legnano
Stiffelio
Rigoletto
La Traviata
Il Trovatore
I vespri siciliani
Aroldo
Simon Boccanegra
Un ballo in maschera
La forza del destino
Macbeth (riformato)
Don Carlos
La forza del destino (con varianti)
Aida
Simon Boccanegra (nuovo)
Don Carlos (rinnovato)
Otello
Verdi
Merelli impresario Scala
Mocenigo presidente spettacoli Fenice
Verdi
Guillaume impresario Napoli
Merelli impresario Scala
Verdi
Fonte: Archivio Storico Ricordi Libroni dei contratti
Messo in questa condizione di privilegio dalla scelta di Verdi, Ricordi rinforza il
proprio ruolo imponendo, nei propri contratti, clausole che gli consentono un
controllo progressivo delle pratiche e dei palinsesti dei teatri che intendono
noleggiare l’opera. Ricordi impone la clausola del ritiro degli spartiti se egli non
dovesse essere soddisfatto delle prove e del modo di condurre la produzione, sceglie
i cantanti e il maestro concertatore, definisce la scenografia, e influenza direttamente
la composizione e la numerosità dell’orchestra. I cantanti, se vogliono lavorare,
devono piacere a Ricordi, e così anche i gestori dei teatri. Inoltre, progressivamente,
se i teatri vogliono Verdi devono anche prendere altri compositori della scuderia.
Le condizioni per la trasformazione del sistema sono così in atto. Si tratta ora di
riflettere sui motivi profondi del legame tra editore e compositore. Al piano pratico
si affianca infatti una dimensione culturale più profonda.
Quando Giovanni Ricordi incontra il giovane Verdi al tempo dell’Oberto è già
uno degli editori importanti della città e della penisola. Il contratto con la Scala, i
rapporti di fiducia con Bellini e Donizetti, hanno fatto della casa un riferimento.
86
IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
Ma non è l’unico. Sempre a Milano, Francesco Lucca si sta muovendo con
aggressività e, forse per primo, ha avviato la pratica di commissionare opere
direttamente ai compositori. Anche Lucca cerca Verdi, lo fa con intensità, sua
moglie, l’abile Giovannina, cercherà di commuoverlo anche con le lacrime, ma
Verdi non si lascia convicere, è vero, gli cede un’opera, l’Attila, ma in definitiva
sceglie Ricordi.
Diversi motivi possono aver influenzato la decisione di Verdi: la visione
modernista del mestiere editoriale, la competenza teatrale, il credito economico
legato alle sue dimensioni e l’aggressività mercantile, ma tutte queste caratteristiche
non mancavano anche al rivale. Plausibilmente essi sono stati integrati da ragioni
più profonde che riguardano i rapporti con l’arte operistica in sé.
I Ricordi sono portatori di un progetto che esplicitamente congiunge due
elementi rilevanti:
- l’idea che sia necessaria una riqualificazione dell’arte operistica, dalle
composizioni agli ascolti passando per la gestione dei teatri e delle produzioni.
Una riqualificazione o meglio una rifondazione che recupera l’istanza di onorare
la tradizione musicale italiana anche nella prospettiva dell’affermazione del
canone risorgimentale;
- l’idea che questa riqualificazione passi attraverso il diritto d’autore, ovvero la
difesa delle intenzioni creative e dei diritti economici del compositore e
attraverso il successo commerciale delle produzioni. L’opera d’arte è innanzi
tutto qualificata in questa prospettiva come “prodotto per un mercato”, come
fatto inerentemente economico e artistico/espressivo, senza contraddizioni tra
questi termini, anzi, la qualità dell’arte sta proprio nella sapiente - e
industrialmente ripetibile - cortocircuitazione tra il sapere creativo e il suo
pubblico.
L’insieme di queste condizioni è il credo dei Ricordi (Giovanni, Tito I, Giulio, e
forse anche l’ultimo della dinastia, Tito II) essi si battono per mantenere queste
posizioni, per difendere la possibilità della loro coerenza, per edificare con esse un
nuovo modo di concepire l’opera.
Verdi, da parte sua, è suggestionato da un’analoga esigenza. Non parla, se non
per accenni, nelle sue lettere, delle ragioni profonde che animano la sua opera. A
differenza di Wagner su di essa non teorizza sull’opera, ma certo, soprattutto dalla
seconda metà degli anni Sessanta, è consapevole della necessità di mettere a tema
l’Opera come forma artistica e come campo espressivo e tecnico. La sua risposta è
meno letteraria e più pratica e si traduce negli accenni alla “parola scenica” e
soprattutto nella continua evoluzione della sua ricerca in cui si mescolano in modo
peculiare tradizione, ricerca di efficacia, senso della verosimiglianza e
dell’attendibilità.
Nello stesso tempo, sempre il progetto artistico di Verdi non si disgiunge mai da
una sensibilità economica, diciamo anche di una acribia amministrativa nella
gestione delle proprie economie, che trovano in Ricordi un sostegno difficilmente
sostituibile.
STEFANO BAIA CURIONI
87
L’unione di questi due progetti dai primi anni Quaranta agli anni Sessanta, crea
le basi per il cambiamento: la presenza e la produttività di Verdi sono la
dimostrazione che la visione di Ricordi non solo è realistica, ma anche
straordinariamente azzeccata e vincente. La concentrazione delle attese del pubblico
sulle opere di Verdi, anche dovuta al particolare “plesso” culturale e politico del
Risorgimento, non fa altro che accelerare il percorso e scavare un solco incolmabile
tra le dimensioni, la ricchezza e il prestigio della Casa e quelle dei concorrenti.
L’unione di queste due traiettorie, entrambe caratterizzate da una dimensione
espressiva e da una dimensione economica, rappresenta il nucleo qualitativo,
culturale e nello stesso tempo “energetico” della trasformazione in senso moderno
del “piccolo” mondo della musica operistica in Italia.
Un mondo nuovo che mostra, però, in poco tempo, le nuove contraddizioni che
questa prima modernizzazione gli impone.
5. Contraddizioni e crisi nell’egemonia
In un ventennio, tra la schiumante e impotente invidia dei suoi competitori,
Ricordi diventa l’editore largamente egemone della scena musicale italiana e uno
degli editori importanti della scena europea.
Nella visione fin qui prevalente il personaggio più fulgido della Casa, colui che
interpreta pienamente il senso e la pratica della condizione egemonica da essa
raggiunta, è Giulio Ricordi, esponente della terza generazione della dinastia di
imprenditori. La sua azione non è avvolta dall’“aura” prestigiosa e vagamente
indecifrabile del fondatore, non conosce le ombre che si allungano sulle fragilità del
padre, ma è, generalmente, ricordata come potente, inconfondibile, quasi
rinascimentale. A diciott’anni, dopo qualche turbolenza scolastica, si arruola come
bersagliere volontario nell’ultima guerra di Indipendenza (1859) poi, solo tre anni
dopo rientra a Milano per sposare la nobildonna Giuditta Brivio, matrimonio che
segna la transizione cetuale della famiglia. Giulio è un personaggio pubblico,
consigliere comunale nel 1885, protagonista (anche interessato) di battaglie per la
sistemazione dei difficili bilanci della Scala, è colui che in un certo senso porta a
compimento la traiettoria socialmente ascendente della famiglia, l’eroe alto borghese
che riassume le capacità di essere artista, imprenditore e amministratore, mecenate,
ufficiale pubblico, patriota e romantico.
Sotto la sua reggenza si compie il passaggio di consegne da Verdi a Puccini, un
miracolo di maestria comunicazionale e di controllo del sistema, si smussano le
contrapposizioni con Wagner e con la musica tedesca (è lui stesso a inviare Puccini
a Bayeruth e a commissionargli una revisione dei Meistersinger), e la produzione
operistica italiana torna a splendere su scala globale, come del resto la produzione
pucciniana tra riferimenti orientali e statunitensi rivela con facilità13.
13
Budden J., Puccini, Carocci, Roma, 2005 [2002]; Schickling D., Giacomo Puccini. La
vita e l’arte, Felici, Pisa, 2008.
88
IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
Ma un’osservazione attenta, condotta attraverso l’esame delle sue carte più
intime, rivela un quadro significativamente diverso.
Le prime difficoltà implicite nel paradigma istitutivo dell’arte operistica moderna
le sperimenta già il padre Tito I. Dopo gli anni Sessanta Giuseppe Verdi rallenta
drammaticamente la scrittura e aumenta le pretese economiche, la Casa ha bisogno
di alternative, ma non le trova. Giulio stesso cura l’apertura verso mondi musicali
nuovi, contribuendo alla fondazione della Società del Quartetto, mentre cerca
vanamente nuove stelle. Tra l’Unità d’Italia e il 1880 la Ricordi negozia ben 76
contratti, per un impegno economico più che doppio rispetto al fortunato ventennio
precedente. Verdi, costosissimo, con sette contratti cattura quasi 200.000 lire entro il
1875, ma negli stessi anni gli altri venti più importanti arrivano a quotare e costare
quasi altrettanto. Ricerca artistica ed economia mostrano segnali di tensione. Nei
cinque anni successivi autori come Ponchielli (5 contratti per 90.000 lire), Carlos
Gomes (2 contratti per 55.000 lire), Filippo Marchetti (40.000 per un contratto
costosissimo acquisito pur di strappare l’autore alla scuderia Lucca, dopo il successo
dell’opera Ruy Blas), non sembrano in grado di risolvere il problema.
Nascono a questo punto violenti conflitti con Verdi, che non si ritiene
sufficientemente appoggiato dalla Casa, e Tito I considera con serietà l’ipotesi di
vendere l’azienda a un compratore internazionale. Non se ne farà nulla, ma il
problema di tenere insieme “qualità e ricerca artistica” e sostenibilità economica
resta centrale.
Dal 1881 al 1892 è ancora Verdi a dominare la scena con contratti per 240.000
lire, seguito da molto lontano da un gruppo formato da Ponchielli, Massager,
Fianchetti e Puccini, il quale sta muovendo, guidato assiduamente da Giulio, i primi
passi per la costruzione del proprio mito.
Solo la riuscita “operazione Puccini” tampona le difficoltà, ma si rivela una
soluzione di breve termine.
La storia del successo di Puccini è molto diversa da quella di Verdi, meno
univoca e spontanea, molto più debitrice all’azione sapiente di Giulio. Il giovane
Verdi è prolifico, scrive molte opere in pochi anni, tutte e quasi entusiasticamente
accette, è disciplinato e pur vivendo grandi e contrastati amori è socialmente protetto
dalla suo temperamento ostico e dalla condizione di vedovanza. Puccini è più
insicuro, geniale e sensuale, disordinato nei suoi comportamenti, impiega tre anni a
comporre l’Edgar l’opera che segue la sua prima (le Willis) avendo modesti risultati.
Ma Giulio Ricordi è in quel momento all’apice della sua fama e il successo
dell’Otello di Verdi gli offre la possibilità di influenzare le scelte di cartellone di
tutta Italia. Chi vuole Otello deve prendere anche un’opera del giovane Puccini.
Ricordi non è l’unico editore a usare il potere di ricatto, ma data la sua dimensione
la forzatura è percepita, denunciata con livore, anche se in generale subita (condurrà
alla rottura con gli impresari Corti gestori della Scala). Nello stesso tempo Giulio,
essendo egli stesso buon compositore (sotto lo pseudonimo di Burgmein), entra
profondamente nel processo creativo del compositore, nel lavoro dei librettisti (Illica
tra tutti), nelle mediazioni e nei ripensamenti riguardo a soggetti, temi, modi,
scritture, sceneggiature. Giulio si pone come il grande mediatore, colui che
STEFANO BAIA CURIONI
89
garantisce l’equilibrio esatto tra la qualità artistica e la dimensione di mercato
dell’opera, realizza e garantisce con la sua persona ciò che il progetto della sua casa
con Verdi aveva istituito nel sistema musicale moderno italiano.
Ma il suo tentativo è effimero e alla fine il rapporto, quasi filiale, con Puccini, si
trasformerà in una ragione di profonda amarezza. Già ai primi del Novecento, dopo
la Tosca, il compositore di Lucca non sembra all’altezza del progetto di Ricordi: sul
piano umano, per le sregolatezze comportamentali e sentimentali del compositore, e
sul piano musicale, con il fallimento della Butterfly (pubblico e critica), ma anche
del rapporto culturale e artistico tra i due.
Insomma l’ipotesi progettuale che la famiglia Ricordi ha interpretato per tre
generazioni, lanciando una sfida che ha catalizzato l’intero setttore dell’editoria
musicale e ha orientato la trasformazione istituzionale e stilistica dell’opera italiana,
mostra segnali di profonde contraddizioni interne, che non riguardano solo il
rapporto con gli artisti, ma si riflettono in altri ambiti strategici di gestione
dell’azienda e dei suoi rapporti con i propri portatori di interesse.
Riducendo all’essenziale: le questioni che rivelano la difficoltà di tenere insieme,
non solo “culturalmente”, ma anche gestionalmente e politicamente, il sistema sono
quattro.
a. La prima riguarda il rapporto con i teatri e con il sistema pubblico di
finanziamento dei teatri. L’equilibrio tra eccellenza espressiva e successo
economico praticato da Ricordi deve far affidamento su un implicito sistema di
sostegni per la manutenzione e gestione dei teatri. Prima dell’Unità queste
risorse sono garantite ai teatri dagli impresari e da maggiorenti o autorità locali.
Dopo l’Unità si sprigionano crescenti tendenze, prima a centralizzare l’onere del
contributo e poi a negare che lo Stato debba avere un ruolo per sostenere
intrattenimenti privati.
Questa scelta, che si concretizza dal 1868 in avanti, mette in crisi tutto il sistema
teatrale della penisola riducendo le risorse disponibili e quindi anche la
possibilità di sostenere allestimenti di qualità. Si apre un confronto duro e
complesso. Su questo punto Verdi rassegnerà le sue dimissioni da parlamentare.
Ricordi poggerà tutta la sua campagna su questo come membro della giunta
comunale di Milano. Le incertezze regolative ed economiche conseguenti ai
dibattiti danno fiato a strategie concorrenziali alternative, come quelle di
Edoardo Sonzogno, un altro editore milanese che si presenta sulla scena dagli
anni Settanta. Sonzogno, a differenza di Lucca non imita Ricordi, ma vi si
oppone con un modello frontalmente differente: punta sui giovani, sui nuovi
autori, scopre Mascagni e Leoncavallo, fa l’editore ma anche il gestore diretto di
teatri a Milano e altrove, escludendo le opere di Ricordi dai palinsesti. Insomma
la sua presenza impone a Ricordi stesso di investire (controvoglia) in particolare
sulla Scala, determinando un decadimento ulteriore degli impresari e una
riduzione del giro d’affari complessivo della casa in Italia. Ma la questione dei
teatri resta irrisolta e produce - proprio a Milano - un esito problematico quando
il referendum del 1901 vede 11.240 milanesi su 18.908 votanti e 56.000 aventi
diritto, dichiararsi contrari a qualunque forma di finanziamento comunale alla
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
Scala, una sconfitta politica pesante, che vede la fine del sogno di Ricordi un
teatro “pubblico” e ricco.
b. La seconda riguarda i problemi gestionali e di delega interna. Casa Ricordi è di
gran lunga dominante sulla scena italiana, importante in Europa nonostante
Verdi si sia riservato di negoziare i propri contratti anche con altri editori,
soprattutto in Francia, significativa nel mondo. Ha uno stabilimento cospicuo che
chiede frequenti rinnovi e ampliamenti, che è percepito come il segno della
qualità editoriale della casa, filiali in molte città italiane e nelle principali capitali
musicali europee. Si tratta di un impero di grande complessità, di cui mancano
evidenze contabili sistematiche, ma in cui si può rintracciare qualitativamente il
segno di una certa difficoltà economica. Il mercato editoriale e dei noleggi
teatrali è ampio, ma i conti delle filiali tornano poco. Roma, Napoli, Palermo,
Firenze devono essere tenute aperte soprattutto perché consentono di sorvegliare
eventuali lesioni dei contratti di noleggio, messe in scena poco accurate, gestioni
inadeguate, diffusione di copie illecite, ma non sono quasi mai in utile, anzi sono
sovente malati da curare. Lo stesso, anche con più evidenza, vale per le filiali
internazionali di Parigi, Londra e poi Lipsia. Giulio e poi suo figlio Tito II sono
spesso in movimento a sorvegliare, elogiare, punire, ma si sente che il compito è
impari e vi è una difficoltà nel trovare responsabili a cui dare significative
deleghe. Con ogni evidenza uno dei centri di profitto più continui è rappresentato
dallo stabilimento e questo è sempre tenuto - salvo brevi e infruttuosi tentativi da un membro della famiglia, prima lo stesso Giulio, poi il figlio Tito, poi il
nipote Manuele, che continuerà nel lavoro fino alla seconda guerra mondiale. Per
il resto le carte raccontano di molti tentativi e molti licenziamenti, anche duri, ma
anche di successi, uno dei quali è la crescita di due personaggi: il napoletano
Piero Clausetti e Renzo Valcarenghi. Essi si fanno le ossa nelle filiali al sud e
saranno destinati a reggere i destini novecenteschi dell’azienda avendo qualità
polari: più artista ed esperto di musica il Clausetti, più rigido amministratore e
uomo di numeri il Valcarenghi.
c. La terza è determinata invece dal rapporto con gli azionisti. L’acquisto
dell’archivio Lucca, alla vigilia degli anni Novanta, ha implicato una
ristrutturazione della compagine sociale di Ricordi, con l’ingresso della famiglia
Strazza, discendenti della moglie del fondatore della Lucca e di nuovi soci. La
crisi deflattiva degli anni Novanta colpisce duramente il settore teatrale, già in
difficoltà da tempo sul piano dei finanziamenti pubblici, la redditività
dell’azienda è lontana dall’essere soddisfacente. Giulio deve combattere un
senso di sfiducia crescente, nonostante gli incredibili successi che la casa sta
ottenendo sul piano artistico. Il gigante sembra fragile, e l’amarezza di Giulio nei
confronti delle famiglie in consiglio si fa sempre più palpabile fino a sfociare in
una aperta minaccia di dimissioni nel 1895. La difficoltà di tenere insieme il
sistema si riflette nelle tensioni con gli azionisti e la famiglia.
d. L’episodio forse più drammatico e rivelatorio in questo senso è però costituito
dalla crisi familiare e dinastica che separa il padre Giulio dal figlio Tito II. Una
delle caratteristiche importanti della casa è stata, oltre alla coerenza della
STEFANO BAIA CURIONI
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missione culturale ed editoriale, anche la continuità dinastica. Giulio,
completamente dedito alla prima, fallisce o subisce una cruciale sconfitta nella
seconda. Tito II, ingegnere, musicista anch’egli e uomo di teatro, comincia
presto in azienda e si occupa dello stabilimento produttivo. Le lettere personali
tra loro (sono rimaste solo quelle di Giulio) sono una drammatica mescolanza di
affetto, speranza, delusione, disistima. Tito ha uno stile di gestione meno esatto
di quel che il padre auspica, è meno attento alle regole e alle spese, in compenso
è affascinato dalle avanguardie musicali e letterarie, dalle sperimentazioni
dannunziane, dalle prospettive industriali offerte dalle innovazioni tecnologiche,
il cinema e la fonografia in testa. Giulio non lo riconosce nelle sue qualità e
arriva infine a espellerlo dall’azienda - questo pochi anni prima di morire ipotizzando addirittura una fusione con il rivale di sempre Sonzogno. Tito II
pretenderà la gestione per ragioni statutarie alla morte del padre ma sarà di fatto
licenziato dopo meno di due anni dal consiglio che si affiderà ai dioscuri Giulio
Valcarenghi e Clausetti. Con Tito si estingue non solo la continuità dinastica alla
guida dell’impresa, ma anche la possibilità che la Ricordi assuma un ruolo nella
nascente industria della riproduzione industriale della musica e dell’immagine in
Italia. La gestione successiva tenterà infatti di mantenere i principi “sacri” che
hanno fatto grande la casa in un contesto però profondamente cambiato, la cui
trasformazione è già avvistata ai tempi di Giulio. Mentre questi, infatti, è
impegnato con Puccini, la musica colta europea cambia: a partire dalle
avanguardie, che si manifestano negli ambienti viennesi e tedeschi e rapidamente
si diffondono in Francia e nella stessa compagnie dei “dannunziani”, la musica
diventa “colta”, si trasforma e perde progressivamente il rapporto con il pubblico
più largo. Il mercato, il pubblico, non possono più essere il “giudice autentico”
della qualità artistica, come Giulio aveva visto accadere con Verdi. “Se è arte
non è per tutti, se è per tutti non è arte” dirà in quegli anni Schoemberg. L’arte
musicale si “ritira” nelle avanguardie, mentre i consumi musicali si espandono e
l’opera si trasforma in un genere tra altri, perdendo il ruolo di sintesi sinestetica
che aveva guadagnato nei decenni precedenti. Nelle cose, nel mondo, più ancora
che all’interno della casa, l’equilibrio tra la dimensione economico industriale e
la ricerca di qualità espressiva dell’arte, a suo tempo garantito dalle persone di
Verdi e Giovanni Ricordi e poi ancora - in modo più voluto e pensato - da
Puccini e Giulio Ricordi, si rompe in modo definitivo.
6. Alcune conclusioni
Alla fine di questo complesso percorso musicologico e imprenditoriale, due sono
le indicazioni che si stagliano in modo più significativo.
Il teatro d’opera muta dunque progressivamente senso, luogo, pelle, in un
paesaggio all’interno del quale non si possono identificare moventi o attori
“strettamente” economici, che si confrontano con tensioni “strettamente”
musicologiche, nel contesto di dinamiche univocamente sociologiche o politiche, ma
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IMPRENDITORIALITÀ PRIVATA E TRASFORMAZIONE DELL’OPERA ITALIANA
una convergenza complessa di intese e intenzioni tra due individui, la cui complicità
di valori e percezioni è saldata da una componente ideale, ideologica e discorsiva.
a. L’arte operistica e il mondo che la circonda, la media e la istituisce cambiano
dunque insieme, assumendo in modo difficilmente prevedibile, una collocazione
e una peculiare, problematica, centralità culturale nella scena artistica e nella
sensibilità dell’Italia, che entra nella Belle Epoque.
Questo processo, ancorché molto difficile da qualificare e soprattutto
quantificare, non significa solo che l’arte musicale include logiche industriali ed
esplicitamente mercantili (orientate ad un mercato degli ascolti) nel suo sistema
produttivo e nel suo statuto; né che essa vada guadagnando gradi di libertà e
modernità espressiva in funzione dei gusti di un nuovo pubblico; significa
piuttosto che si produce una trasformazione del “senso” dell’opera come arte,
attraverso il recupero congiunto di entrambe queste dimensioni. Sia nel momento
della sua fruizione che nel momento della sua strutturazione come sistema di
conservazione, distribuzione e valorizzazione. La trasformazione dei sistemi
culturali non deve essere dunque concepita in modo unilaterale, non è mai solo
istituzionale o solo culturale ma avviene in un processo di successivi atti
istitutivi che, a partire da posizioni apparentemente dogmatiche, ristrutturano il
campo di esistenza delle arti congiungendo la dimensione artistica e quella
istituzionale.
Nel caso dell’Opera italiana moderna questa posizione è riassunta dall’idea che
la qualità della ricerca artistica e il fatto che l’arte sia considerata essenzialmente
un prodotto per un mercato degli ascolti, possano andare insieme in modo
definitivo. Questa idea non si produce nel mondo musicale come
un’importazione da altri settori o ambienti, ma matura e si avvera in modo
rivoluzionario all’interno del sistema musicale, nella congiunzione tra il progetto
di Verdi e quello di Ricordi, e ne determina l’evoluzione lungo l’arco della
modernità. Questa idea, identificando l’atto artistico essenzialmente in un
prodotto, ne sancisce la ri-producibilità ovvero l’industrializzabilità, molto prima
che le tecnologie ponessero il problema dell’autenticità e del valore, e
anticipando i tempi in cui questi problemi si sono posti in altri campi.
b. L’istituzione culturale, in questo caso un impresa privata, non solo è chiamata a
gestire la multidimensionalità implicita nel valore simbolico dell’arte,
muovendosi in una prospettiva nella quale sono inclusi molti portatori di
interesse. Ricordi, e in modo simile i suoi principali concorrenti, si occupa non a
caso di archivi, teatri, musicisti, conservatori, scuole, concerti, negozi, ma anche
della diffusione della musica, di opinione pubblica musicale, ecc. insomma di
tutto il sistema della musica.
Non è quindi solo portatrice di una straordinaria complessità, cui si somma il
problema di valutare, quantificare e internalizzare (nel marchio, nella
reputazione ed eventualmente nei prezzi) un valore che è anche pubblico e
immateriale, ma è anche necessariamente partecipe di un processo di mediazione
che è direttamente partecipe della natura e dell’esistenza stessa dell’arte, delle
sue condizioni di esistenza, di accettabilità, di riconoscibilità, di sostenibilità.
STEFANO BAIA CURIONI
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Una partecipazione profonda, ineludibile che ha decisive conseguenze sulle sue
performance e dovrebbe averne anche sulle scelte del suo management.
In questo senso la storia dell’Opera italiana acquisisce uno straordinario
significato, in quanto mostra come un’arte e un sistema dell’arte si sono
simultaneamente trasformati in un rivoluzionario processo istitutivo: un terremoto
nel quale l’impresa editoriale che ha condotto il gioco, raggiungendo per questo
l’egemonia nel mondo dell’Opera italiana, è rimasta intrappolata, vincolata dalle
contraddizioni non pensate e non viste del sistema da essa stessa creato.
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