Organizzazione Aziendale 2ed
Pubblicità e divulgazione
15
La pubblicità ha molti scopi. Un annuncio pubblicitario può informare i consumatori che un’impresa sta lanciando un nuovo prodotto o pratica il prezzo più
basso, oppure può aiutare a differenziare il prodotto di un’impresa da quello
dei suoi rivali. Gli annunci pubblicitari possono essere utilizzati per informare
i consumatori dei pregi di un prodotto, ma, ovviamente, non dei suoi difetti. Le
imprese rivelano malvolentieri alcune caratteristiche del bene ai consumatori
mentre ne pubblicizzano con entusiasmo altre. In questo capitolo analizzeremo
i motivi alla base della pubblicità e della divulgazione di notizie vere o false.
La pubblicità è un grandissimo business. Come indica la Tabella 15.1, negli Stati Uniti l’impresa con stanziamenti pubblicitari più elevati è la Procter &
Gamble, con 2.28 miliardi di dollari nel 1990 per pubblicizzare saponi, detersivi e altri prodotti. La seconda impresa in questa classifica, la Philip Morris,
un’impresa di sigarette, spese 2.21 miliardi, mentre il Governo degli Stati Uniti
spese 304 milioni posizionandosi 39° in classifica.
I dati sulla pubblicità come percentuale delle vendite presentano una variabilità molto maggiore. La General Motors, per esempio, quarta in classifica per
dimensioni degli investimenti pubblicitari, spendeva solo l’1.8% del fatturato in
pubblicità, mentre la Warner-Lambert Co., che produce prodotti farmaceutici, al
15° posto relativamente alla spesa, stanziava in pubblicità il 25.8% del fatturato.
Complessivamente coloro che ricorrono alla pubblicità negli Stati Uniti
spendono più di tutte le imprese che ricorrono a questo mezzo promozionale
nei 57 paesi a maggiore spesa in pubblicità del mondo. Tali spese negli Stati
Uniti sono 3.4 volte maggiori che in Giappone (al secondo posto) e 9.8 volte
maggiori che nel Regno Unito (al terzo posto). Nel 1988 la pubblicità pro capite era di 480 dollari negli Stati Uniti, 357 in Finlandia, 302 in Svizzera, 282 in
Giappone, 233 in Canada, 212 nel Regno Unito, 211 in Australia, 192 in Germania Ovest, 188 in Nuova Zelanda e 181 in Norvegia. 1
Gli utenti del settore pubblicità pagano per trasmettere messaggi durante i
programmi televisivi e radiofonici. Negli Stati Uniti, ad esempio, è difficile
immaginare un sabato mattina senza i cartoni animati sponsorizzati dalla pubblicità dei giocattoli e dei cereali per colazione. Le imprese possono inoltre in-
1 Foster, Hal, “America’s Growing Mania for Advertising”, San Francisco Chronicle, 5 aprile 1990:
C1.
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CAPITOLO 15
Organizzazione Aziendale 2ed
TABELLA 15.1
Cinquanta imprese
leader nella pubblicità
negli Stati Uniti
Posizione
Pubblicità negli
USA nel 1990
(in migliaia di $)
Pubblicità come
percentuale
delle vendite USA
Automobili
Chrysler Corp.
Ford Motor Co.
General Motors Corp.
Honda Motor Co., Ltd.
Mazda Motor Corp.
Nissan Motor Co, Ltd.
Toyota Motor Corp.
21
16
4
36
45
27
17
528,412
616,035
1,502,829
318,007
247,856
410,245
580,738
1,9
1,1
1,8
N/A
N/A
N/A
N/A
Prodotti chimici e petroliferi
American Cyanamid Co.
Mobil Corp.
35
50
248,460
167,777
2,9
0,9
Elettronica e attrezzature per l’ufficio
Eastman Kodak Co.
General Electric Co.
International Business Machines
Tandy Corp.
34
25
31
33
255,586
354,250
295,498
262,161
2,9
N/A
1.2
N/A
Intrattenimento e mass media
CBS, Inc.
Time, Inc.
Walt Disney Co.
46
44
38
184,837
190,587
219,138
4.5
N/A
N/A
Prodotti finanziari
American Express Co.
45
190,002
1.6
Prodotti alimentari
Con Agra
General Mills
Grand Metropolitan
H.J. Heinz Co.
Hershey Foods Corps
Kellogg Co.
Nestlé SA
Quaker Oats Co.
Ralston Purina Co.
RJR Nabisco
Sara Lee Corp.
46
20
5
37
32
18
14
34
31
13
38
246,086
538,981
882,636
307,927
338,680
577,693
635,895
329,310
354,501
636,097
306,713
N/A
8.5
11.0
7.9
13.5
18.9
N/A
8.5
6.9
5.3
N/A
Imprese statali
U.S. Government
39
304,045
N/A
Dolciumi
Mars. Inc.
42
272,417
N/A
Prodotti farmaceutici
American Home Products Corp.
Bristol-Myers Squibb Co.
Johnson & Johnson
Pfizer, Inc.
Warner-Lambert Co.
25
24
12
40
15
415,434
428,659
653,710
279,875
630,838
9.0
6.1
12.1
8.1
25.8
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Pubblicità e divulgazione
Organizzazione Aziendale 2ed
Posizione
Pubblicità negli
USA nel 1990
(in migliaia di $)
Pubblicità come
percentuale
delle vendite USA
35
41
28
28
43
30
3
318,685
273,710
393,781
393,218
272,203
363,605
1,507,066
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
8
764,144
19.7
Saponi e detersivi
Colgate-Palmolive Co.
Procter & Gambler Co.
Unilever, N.V.
44
1
19
264,967
2,284,507
568,909
14.0
14.9
6.6
Bibite analcoliche
Coca-Cola Co.
PepsiCo, Inc.
29
6
377,173
849,064
9.6
6.0
7
796,533
N/A
Tabacco
American Brands
Philip Morris
49
2
277,084
2,210,233
4.8
6.1
Vino, birra e superalcolici
Anheuser-Busch
14
459,231
N/A
Vendita al dettaglio
Dayton Hudson Corp.
Federated Department Stores
J.C. Penney Co.
K-Mart Corp.
R. H. Macy and Co.
May Department Stores Co.
Sears, Roebucks and Co.
Ristoranti
McDonald’s Corp.
Telefono
American Telephone and Telegraph
FONTE: Advertising Age, 1991, 25 settembre: 171.
fluire sulle notizie riportate da quotidiani e riviste minacciando di ritirare le inserzioni pubblicitarie. 2 Negli Stati Uniti la pubblicità può rappresentare la metà
delle entrate delle riviste e l’80% di quelle dei quotidiani. La NASA fa pagare
mezzo milione di dollari per 17.7 metri di “spazio pubblicitario primario” su un
razzo non recuperabile Conestoga. 3 La Riese Organization, che possiede o gestisce oltre 500 ristoranti, sta considerando l’opportunità di aggiungere inserzioni pubblicitarie ai suoi menù. 4
Nonostante la presenza pervasiva della pubblicità nella nostra vita quotidiana, i modelli tradizionali di concorrenza ignorano gli impegni promozionali.
2 È stato riferito che negli Stati Uniti una rivista sanitaria aveva offerto di pubblicare una buona recensione di due prodotti dietetici in cambio di 25.000 dollari (Samuelson, Robert J. “The End of Advertising?”, Newsweek, 19 agosto 1991: 40).
3 Garchik, Leah, “Personals: NASA Rocket Becomes Ad Site”, San Francisco Chronicle, 19 gennaio
1993: B5.
4
Greene, Bob, “Advertising Ad Nauseum”, San Francisco Chronicle, 8 febbraio 1990: E14.
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486
CAPITOLO 15
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In questo capitolo introdurremo l’attività pubblicitaria nei modelli di comportamento concorrenziale e non concorrenziale.
Inizieremo con l’analisi di come i vari tipi di prodotto influiscono sul contenuto informativo della pubblicità, confrontando annunci pubblicitari che vogliono informare con quelli che tentano solo di convincere. Esamineremo poi il
livello di pubblicità al quale si massimizzano i profitti e quindi cercheremo di
stabilire se questo livello è socialmente ottimale. Verranno inoltre descritti gli
effetti della pubblicità sui prezzi, sulle barriere all’entrata e sul benessere del
consumatore.
Successivamente prenderemo in esame i casi in cui le imprese pubblicizzano il vero e quelli in cui mentono, e discuteremo quale sia il grado di applicazione delle leggi che obbligano ad una pubblicità veritiera. Infine analizzeremo
la decisione di un’impresa in merito a rivelare o nascondere le informazioni.
Anche se un’impresa può avere forti incentivi a rivelare l’alta qualità dei suoi
prodotti o la competitività dei suoi prezzi, può anche avere forti incentivi a non
rivelare i difetti dei suoi prodotti, come gli effetti collaterali o l’entità delle riparazioni. In effetti, come mostra il Capitolo 14, un’impresa può conseguire un
potere di mercato limitando le informazioni disponibili ai consumatori. Anche
se le leggi sulla pubblicità veritiera vogliono proprio incoraggiare la divulgazione di notizie reali, dimostreremo che normative troppo rigide possono avere
un effetto negativo.
Gli argomenti affrontati in questo capitolo sono i seguenti:
1.
2.
3.
4.
La promozione ha lo scopo di aumentare le vendite modificando i gusti dei
consumatori o informandoli delle opportunità esistenti.
Anche se alcuni tipi di pubblicità sono dannosi, molti altri aumentano il
benessere. Tuttavia, anche se un livello di pubblicità moderata incrementa
il benessere, spesso la pubblicità è troppo elevata.
Lo scetticismo dei consumatori scoraggia la pubblicità non veritiera. La
parziale applicazione delle leggi sulla pubblicità ingannevole può aumentare la quantità sia di pubblicità veritiera che di pubblicità ingannevole.
Quando le leggi sulla pubblicità ingannevole sono applicate completamente, le imprese hanno un incentivo a rivelare le informazioni. In alcune circostanze, però, le leggi sulla divulgazione obbligatoria riducono l’entità di
tali rivelazioni.
Informazione e pubblicità
La pubblicità può divulgare informazioni veritiere, notizie vaghe o tentare di
produrre un’impressione favorevole su un prodotto. Alcune forme pubblicitarie
elencano i prezzi praticati in un negozio e i consumatori, apprendendo che
un’impresa ha i prezzi più bassi della città, possono aumentare la domanda dei
suoi prodotti. Al contrario, altre forme pubblicitarie mostrano semplicemente un
prodotto usato però in una circostanza molto favorevole. Una persona attraente
che sorseggia una bibita analcolica vicino a una cascata può dare ai consumatori
l’impressione che questo prodotto sia rinfrescante. Se l’impresa riesce a convincere i consumatori che il suo prodotto ha certe caratteristiche desiderabili, riesce
a differenziarlo dagli altri. Questo processo sposta la curva di domanda del bene
verso destra e la rende meno elastica, perciò l’impresa può far pagare un prezzo
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Pubblicità e divulgazione
più alto e ottenere profitti maggiori (si veda il Capitolo 8). Ad esempio, una marca di candeggina molto pubblicizzata viene solitamente venduta a un prezzo molto più alto di tante altre, pur essendo però tutte marche fisicamente omogenee.
Le promozioni
La pubblicità può essere sottile e indiretta oppure colpire in modo diretto ed
immediato. Essa è solo uno dei modi per promuovere un prodotto; le imprese
utilizzano anche gli sconti e il personale addetto alle vendite. Quando è difficile descrivere un prodotto, un’impresa può includere un buono sconto nell’annuncio pubblicitario per incoraggiare i consumatori a provare il prodotto. Il
personale addetto alle vendite è anch’esso una forma pubblicitaria perché reclamizza le caratteristiche del prodotto. Oltre alla pubblicità sui giornali, alla
radio e alla televisione, le imprese possono pubblicizzare indirettamente creando un marchio oppure costruendosi una buona reputazione.
Alcune imprese agricole, per esempio, vendono la frutta e la verdura con
un marchio (Esempio 15.1). A differenza dei venditori di prodotti agricoli privi
La frutta e la verdura vengono vendute perlopiù senza marchio. I consumatori
presumono che un pomodoro sia un pomodoro e che vi siano poche variazioni
tra un negozio e l’altro. In altre parole, questi mercati forniscono prodotti perfettamente omogenei a livello concorrenziale. Negli ultimi tempi, però, alcune
imprese hanno iniziato a vendere pomodori di marca negli Stati Uniti.
Grazie alle nuove tecniche di coltivazione basate sui recenti progressi nella ricerca sul DNA e a metodi migliori di immagazzinaggio, queste società ritengono di poter fornire prodotti agricoli che hanno un gusto migliore e rimangono
freschi più a lungo. Una società non ha incentivo a fornire un prodotto migliore
(presumibilmente a un costo superiore) se la fama per la qualità migliore va al
mercato nel suo complesso invece che a quell’impresa in particolare (si veda il
Capitolo 14).
I consumatori sono disposti a pagare di più per prodotti che ritengono superiori. Negli Stati Uniti le arance Sunkist, gli ananas Dole e le banane Chiquita
hanno margini lordi di profitto superiori del 10-60% rispetto ai prodotti agricoli generici. Quando è stato introdotto, un pomodoro di marca costava circa 2
dollari al chilo, 60 centesimi in più dei pomodori privi di marca.
Ci sono altri rischi associati alla creazione di una marca. A meno che le imprese
possano fornire costantemente prodotti agricoli migliori, i consumatori alla fine
potrebbero accusarle di utilizzare inutilmente un marchio. Dopo tutto, perché
pagare di più per un prodotto che non è migliore di quelli privi di marca? Inoltre, anche se i consumatori considerano il prodotto superiore e pagano di più per
averlo, il prezzo superiore può non essere abbastanza elevato da coprire i costi
aggiuntivi sostenuti per produrre una qualità migliore e far affermare un marchio. La Castle & Cooke, la Budd Co. e altre imprese simili non hanno recuperato gli investimenti effettuati per ottenere cavolfiori, uva e broccoli di marca.
ESEMPIO 15.1
Il marchio come
forma di pubblicità
F ONTE : Eklund, Christopher S. “Will a Tomato by Any Other Name Taste Better?” Business Week, 30 settembre 1985: 105.
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CAPITOLO 15
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di marca, questi agricoltori cercano di costruirsi una reputazione di produttori
di prodotti agricoli di particolare qualità (presumibilmente alta). Questa differenziazione può aiutare a superare il problema dei “bidoni” esaminato nel Capitolo 14. Anche se in questo capitolo ci concentreremo sulla pubblicità, la
maggior parte dell’analisi è ugualmente valida per altri tipi di promozione.
Beni a qualità osservabile e beni con qualità apprendibile con il consumo
Search good
Beni la cui qualità può
essere conosciuta da un
consumatore prima
dell’acquisto.
Experience good
Beni la cui qualità può
essere conosciuta solo
dopo che il bene è stato
acquistato e, almeno in
parte, consumato.
Il contenuto informativo della pubblicità dipende dal fatto che i consumatori
possano o non possano stabilire la qualità di un prodotto prima dell’acquisto
(Nelson 1970, 1974). Se un consumatore può stabilire la qualità di un prodotto esaminandolo prima dell’acquisto il bene ha delle caratteristiche osservabili (search good). Esempi sono i mobili, l’abbigliamento e altri prodotti le
cui principali proprietà possono essere stabilite con l’esame visivo o tattile.
Se un cliente deve invece consumare il prodotto per stabilirne la qualità, esso
viene classificato come bene con caratteristiche apprendibili con il consumo
(experience good). Esempi sono i cibi pronti, i programmi di software e la
psicoterapia. 5
La pubblicità fornisce informazioni dirette sulle caratteristiche dei prodotti con qualità osservabile; gli annunci pubblicitari di questo tipo di prodotti
spesso includono fotografie. In alcuni casi il consumatore non è in grado di
osservare direttamente una caratteristica fisica, che però può essere descritta
in modo sintetico. Ad esempio, le pubblicità di alimenti e bibite possono affermare che i prodotti hanno un basso contenuto calorico. Al contrario, per i
beni con caratteristiche apprendibili con il consumo l’informazione in merito
al bene può essere fornita soltanto dal fatto che esso viene pubblicizzato.
Spesso infatti le forme pubblicitarie relative a questi beni vanno poco oltre la
menzione del nome dell’impresa per migliorarne la reputazione. Questi utenti
del settore pubblicitario sperano che i consumatori deducano la qualità o la reputazione di un’impresa dalla frequenza dei suoi messaggi pubblicitari e dalle
spese connesse.
Alcune imprese affermano che tutti i loro prodotti sono eccellenti. I loro
messaggi pubblicitari sostengono che, se avete provato uno dei prodotti e vi
è piaciuto, vi piaceranno tutti. Questi annunci possono mostrare poco più del
nome della società e non descrivono le caratteristiche di ciascun dei prodotti. Alternativamente, un’impresa può cercare di convincere i consumatori
che il suo prodotto è diverso e superiore a quello di altre marche simili; in
altre parole, essa tenta di differenziare il prodotto dalle marche rivali (ad
esempio, l’aspirina Bayer rispetto a quella comune, la candeggina ACE rispetto a quella comune, la Coca-Cola rispetto alla Pepsi, il detersivo Dash
rispetto a tutti gli altri).
5 Alcuni economisti individuano una terza categoria in cui non è possibile stabilire la qualità di alcuni
prodotti neppure dopo il consumo. Darby e Karni (1973) definiscono questi prodotti “beni in cui conta la fiducia” (credence goods)”. Tra gli esempi vi sono molti servizi di riparazione e assistenza medica, in cui il consumatore deve fare affidamento sulle assicurazioni del fornitore del servizio che il
lavoro è stato fatto bene. Si veda anche Becker e Murphy (1990) per un approccio diverso all’analisi
della pubblicità.
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La pubblicità informativa e la pubblicità persuasiva
489
Pubblicità e divulgazione
Alcuni economisti distinguono tra pubblicità informativa, che descrive le caratteristiche obiettive di un prodotto, e la pubblicità persuasiva, concepita per
modificare i gusti dei consumatori. Ad esempio, la pubblicità informativa può
riportare il prezzo di un prodotto, confrontare il prezzo del negozio che fa pubblicità con quelli dei concorrenti, descrivere le caratteristiche del prodotto o
elencarne i possibili impieghi. La pubblicità persuasiva può fare affermazioni
implicite o esplicite come ad esempio “utilizzate questo deodorante per apparire libere e belle”.
Alcune società, quando non ottengono risultati con la pubblicità informativa, possono tentare di modificare l’impressione che i consumatori hanno del
loro prodotto (riposizionamento della marca nello spazio del prodotto) utilizzando la pubblicità persuasiva. Ad esempio, negli Stati Uniti, quando la Dr
Pepper cambiò tipo di messaggio pubblicitario la sua quota di bibite analcoliche aumentò del 10% tra il 1991 ed il 1992. 6
Comunque è ragionevole che i produttori di beni con caratteristiche osservabili usino in misura maggiore la pubblicità informativa mentre quelli di
beni con caratteristiche apprendibili con il consumo adottino in misura maggiore quella persuasiva, anche se questa divisione non è poi così netta. Il rapporto pubblicità/vendite per prodotti con qualità apprendibili con il consumo
è tre volte maggiore di quello per prodotti con qualità osservabile, e la differenza è statisticamente significativa (Nelson 1974, 738-40). Si può forse dedurre che le immagini (usate nella pubblicità persuasiva) vengono dimenticate più velocemente dei fatti (usati in quella informativa). Pertanto, i consumatori possono apprendere e ricordare che un prodotto particolare ha meno
calorie se vedono un annuncio pubblicitario una o due volte, ma hanno bisogno di essere bombardati dalla pubblicità per convincersi che un prodotto
“abbia un gusto fantastico”.
Queste evidenze empiriche devono però essere considerate con cautela,
perché è difficile classificare i prodotti sia come beni con caratteristiche osservabili o beni con caratteristiche apprendibili con il consumo che come prodotti
che utilizzano la pubblicità persuasiva o informativa. Se nostro fratello minore
ha bisogno di sentirsi “attraente” e vede una persona ritenuta attraente, come
un noto attore o un cantante, usare una marca particolare di occhiali da sole,
può interpretare questo tipo di pubblicità come informativa. 7 L’annuncio dice a
lui e ai suoi amici che questa marca particolare di occhiali da sole è di gran moda. Noi, però, potremmo considerare la pubblicità con testimonial come persuasiva, con scarso contenuto informativo. È probabile che i consumatori stiano però diventando meno sensibili alla pubblicità persuasiva: secondo uno studio della N.W. Ayer Inc., un’agenzia pubblicitaria, le imprese oggi spendono
Pubblicità informativa
Attività promozionale
che descrive le
caratteristiche oggettive
del prodotto.
Pubblicità persuasiva
Attività promozionali
concepite per modificare
i gusti dei consumatori.
Elliott, Stuart, “Advertising: Mainstream Nonconformist Is Dr Pepper’s Self-Identity”, New York
Times, 2 dicembre 1992: C18.
6
Nel 1905 il giocatore di baseball Honus Wagner divenne il padre della pubblicità basata sull’attestazione di un cliente famoso, quando permise che il suo autografo fosse riprodotto su una mazza da baseball, Louisville Slugger. Boyd, L.M. “The Grab Bag”, San Francisco Examiner, 4 settembre 1988:
Sunday Punch 7.
7
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CAPITOLO 15
Organizzazione Aziendale 2ed
quasi il doppio in vendite promozionali di quanto spendono per la pubblicità
basata sull’immagine della marca; 20 anni fa avveniva esattamente il
contrario. 8
Il livello pubblicitario che massimizza i profitti
L’attività pubblicitaria è concepita per aumentare la domanda del prodotto di
un’impresa, sia se è di tipo informativo che persuasivo. Un aumento delle spese
in pubblicità informativa o persuasiva da α a α9 determina uno spostamento
verso l’esterno della curva di domanda relativa ad un’impresa. Essa passa dunque da D(Q, α) a D(Q, α9 ), come indicato nella Figura 15.1. 9 Date le sue spese
in pubblicità, l’impresa decide l’output ponendo i ricavi marginali MR(Q, α),
uguali ai costi marginali, MC. 10
Lo spostamento verso l’esterno della curva di domanda fa aumentare i profitti (non tenendo conto delle spese in pubblicità) per due motivi. Innanzitutto,
i profitti aumentano dell’area B e dell’area C perché l’impresa aumenta le vendite da Q a Q9 . Questo profitto aggiuntivo è pari a (p9 2 AC)(Q9 2 Q), dove
Prezzo
D
p'
p
A
C
Domanda, D(Q, α')
B
MR (Q, α)
Domanda,
D(Q, α)
MC
MR (Q, α')
FIGURA 15.1
Effetti della pubblicità
Q
8
Q'
Quantità, Q
Horovitz, Bruce, “Study: ‘Brand Images’ Need Nurturing”, Los Angeles Times, 22 agosto, 1990: D2.
L’analisi che segue ignora gli effetti della pubblicità di un’impresa sulle altre imprese. Le evidenze
empiriche indicano però che l’entità della pubblicità è influenzata dalla struttura di mercato (Weiss,
Pascoe e martin 1983). Lambin (1976) riscontra che la pubblicità dei rivali riduce la quota di mercato
di un’impresa pressappoco quanto la sua pubblicità la aumenta.
9
10
In altre parole, MR(Q, α) ; R(Q, α)/ Q, dove R, i ricavi, sono uguali a D(Q, α)Q.
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491
Pubblicità e divulgazione
AC sono i costi di produzione medi (e marginali), quindi (p9 2 AC) sono i profitti unitari. Secondariamente, l’impresa ricava più profitti sulle unità Q che
vendeva già in precedenza, ossia l’area A. Dato che il prezzo sale da p a p9 , i
suoi profitti sulle prime unità Q aumentano di (p9 2 p)Q. Pertanto, i profitti
(se si ignorano i costi relativi alla pubblicità) aumentano della somma delle
aree A, B e C grazie all’aumento dei messaggi pubblicitari.
Se la spesa aggiuntiva in pubblicità, E 5 α9 2 α, è inferiore o uguale all’aumento dei profitti, A 1 B 1 C, conviene effettuarla. Se i profitti crescono
più delle spese in pubblicità, queste ultime dovrebbero essere ulteriormente aumentate. Un’impresa che massimizza i profitti fissa le spese in pubblicità in
modo tale che l’ultima lira spesa in messaggi pubblicitari aumenti i suoi profitti, se si escludono i costi sostenuti per i messaggi, esattamente di una lira. In altre parole, l’impresa massimizza i profitti ponendo i costi marginali della pubblicità uguali ai benefici marginali, come mostra l’Esempio 15.2.
Negli Stati Uniti per i programmi statali e federali di commercializzazione del latte si spendono oltre 200 milioni di dollari l’anno. Questo equivale a 15 centesimi
ogni 45.000 chili di tutto il latte destinato a usi commerciali nei 48 stati contigui
del paese. Di questi 15 centesimi, meno di un terzo è destinato ai programmi nazionali di pubblicità e promozione e il resto ai programmi di promozione locale.
Liu e Forker (1988) ipotizzano che con il passare del tempo i consumatori dimenticano e quindi c’è un incentivo a continuare con le campagne pubblicitarie. Per la città di New York essi stimano che un aumento costante della pubblicità dell’1% fa aumentare la domanda di latte, che raggiunge un livello nuovo e
più alto in circa sei mesi. L’elasticità della domanda di lungo periodo rispetto
alla pubblicità è di 0.0028. Se la pubblicità fosse solo il 10% dei livelli attuali,
a parità di altre condizioni, il consumo scenderebbe dell’1.5%.
I due autori calcolano che ai livelli attuali di pubblicità i produttori di latticini
ricevono 1.50 dollari in rendita da vendite aggiuntive per ogni dollaro speso in
promozione. Ciononostante, essi calcolano che il livello di pubblicità che massimizza i profitti (quello al quale il beneficio marginale è uguale al costo marginale) è circa il 55% del livello attuale. La tabella che segue mostra il rapporto
tra beneficio marginale stimato e costo marginale.
Pubblicità come percentuale
dei livelli storici
Beneficio marginale
10
20
30
40
50
60
70
80
90
4.16
2.44
1.74
1.35
1.11
0.94
0.81
0.72
0.64
ESEMPIO 15.2
La pubblicità
Costo marginale
Se i livelli di pubblicità fossero stati ridotti a quelli che massimizzano i profitti, ogni dollaro di pubblicità in più avrebbe prodotto altri 2 dollari di vendite.
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del latte
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CAPITOLO 15
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Seldon e Doroodian (1989), per esempio, riscontrano che la pubblicità aumenta la domanda di sigarette e che gli avvisi sulla salute (che sono in sostanza
pubblicità negativa per le imprese) riducono il consumo. 11 Le imprese, però,
reagiscono a questi avvisi intensificando la pubblicità.
Minore è il costo dei messaggi, maggiore è la pubblicità in una società.
Nell’antico Egitto alcuni imprenditori usavano gli strilloni per annunciare l’arrivo delle navi e dei carichi. Nel 1630 la stampa ridusse il costo della pubblicità
quanto bastava a farla diventare comune su ampia scala. In tempi più recenti la
radio e la televisione hanno ridotto di nuovo il costo della pubblicità. Oggi negli Stati Uniti i principali utilizzatori della pubblicità spendono oltre un miliardo di dollari l’anno, quindi i consumatori sono costantemente esposti ad essa.
Il modello della concorrenza perfetta (capitolo 4) ignora i costi connessi
alla vendita e presume che le imprese possano vendere le quantità che desiderano al prezzo di mercato. In realtà, la maggior parte delle imprese sostiene dei
costi relativi alla vendita. Di solito, le imprese con potere di mercato sostengono delle spese promozionali per far spostare la loro curva di domanda verso
l’esterno o farla diventare più rigida, in modo da poter vendere di più a prezzi
più elevati. Tuttavia, è sempre possibile che le imprese pur facendo pubblicità
continuino ad avere una curva di domanda molto elastica. Ad esempio questo
avviene per le imprese che non fissano il prezzo, ma che vogliono però informare i clienti sulla loro ubicazione. In altre parole, la pubblicità non è necessariamente incompatibile con il comportamento di accettazione del prezzo. Inoltre imprese concorrenti possono fare pubblicità congiunta per aumentare la domanda di un prodotto omogeneo. Gli agricoltori della California, per esempio,
spendono oltre 100 milioni di dollari l’anno in pubblicità. La pubblicità relativa all’uva passa rappresenta il 5.8% del valore del raccolto di uva destinata ad
essere essicata.
Effetti della pubblicità sul benessere
La pubblicità è spesso criticata. Ciononostante, negli Stati Uniti la Federal Trade Commission (FTC), che si suppone protegga i consumatori, si oppone ai
gruppi che vogliono impedire la pubblicità, in quanto sostiene che una parte di
essa va a beneficio dei consumatori. In questa sezione esamineremo gli effetti
della pubblicità sul benessere. Consistenti evidenze empiriche indicano che la
pubblicità sui prezzi relativi può accrescere la concorrenza e aumentare il benessere. In alcuni casi, la pubblicità non relativa ai prezzi può ovviare al problema dei ‘bidoni’ analizzato nel Capitolo 14. I modelli teorici, però, non sono
tutti concordi sul fatto che la pubblicità favorisca sempre il benessere.
La pubblicità sui prezzi aumenta il benessere
La pubblicità che fornisce informazioni sui prezzi relativi delle imprese tende a
ridurre il prezzo di mercato. Essa consente ai consumatori di sapere dove fare
11 Si vedano Baltagi e Levin (1986), Becker, Grossman e Murphy (1990) e McGuiness e Cowling
(1975) per altri studi sugli effetti della pubblicità sulla domanda di sigarette.
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acquisti al prezzo più basso. Dato che la pubblicità è costosa, le imprese non vi
faranno ricorso a meno che i costi siano coperti dai ricavi aggiuntivi derivanti
dall’aumento della domanda.
Se i negozianti con prezzi relativamente bassi pubblicizzano i loro prezzi e
attirano più clienti, aumenteranno la loro quota di mercato e le loro vendite e il
prezzo medio del mercato cala (Smallwood e Conlisk 1979). Nel modello turista e gente del posto (Capitolo 14), se i turisti possono ottenere informazioni
solo visitando i negozi del posto, il costo della raccolta di informazioni può essere sufficiente a creare un equilibrio con due prezzi, in cui alcuni negozianti
praticano alla gente del posto un prezzo basso e altri praticano ai turisti un
prezzo alto. Se però i negozianti che praticano un prezzo basso possono fare
pubblicità su un quotidiano locale, il costo di raccolta delle informazioni da
parte dei turisti scende, così che più consumatori diventano informati, e la quota di mercato dei negozianti che praticano un prezzo basso aumenta. Se un numero elevato di consumatori diventa informato, tutti i negozianti fissano un
prezzo basso. Pertanto, senza pubblicità nessun negoziante può trovare remunerativo fissare prezzi bassi; ma con la pubblicità, tutti i negozianti possono far
pagare prezzi bassi. 12
Molti studi empirici mostrano che la pubblicità sui prezzi fa diminuire il
prezzo medio che i consumatori pagano per prodotti come medicinali (Cady
1976), occhiali (Benham 1972), superalcolici (Luksetich e Lofgren 1976), giocattoli (Steiner 1973) e benzina al dettaglio (Maurizi 1972). Altri studi mostrano che, anche se la pubblicità può ridurre il prezzo dei servizi legali e optometrici, essa può, però, anche far scendere la qualità in questi mercati (Arnould
1972, Muris e McChesney 1979, Kwoka 1984).
Benham (1972) individuò che il prezzo degli occhiali nei paesi che proibiscono la pubblicità sui prezzi, ma non quella di altro genere, era solo leggermente maggiore che negli stati che consentivano tale tipo di pubblicità. Però
gli stati che vietavano qualsiasi pubblicità, avevano prezzi nettamente superiori. Pertanto, anche la pubblicità non relativa ai prezzi può ridurre il livello dei
prezzi (Bagwell e Ramey 1988).
Dato che la pubblicità può far scendere il prezzo, è nell’interesse delle
varie categorie professionali impedire il suo utilizzo. Negli Stati Uniti, fino a
quando la decisione della Corte Suprema ha condannato il loro comportamento, i medici, i dentisti e gli avvocati impedivano la pubblicità sostenendo che
non era professionale. Oggi il 16% degli avvocati della Florida fa inserzioni
sulle Pagine Gialle. Alcuni studi legali fanno comunicati stampa quando vincono cause in tribunale, inviano prospetti a potenziali clienti e assumono imprese di pubbliche relazioni per essere aiutati ad incrementare la loro quota di
mercato. 13
Butters (1977) mostra che, meno è costosa la pubblicità o la ricerca dei consumatori, più basso è il
prezzo medio di un mercato. Egli dimostra anche che un mercato senza restrizioni produce la quantità
ottima di pubblicità e il massimo benessere possibile. Stigler e Becker (1977) e Nichols (1985) concludono inoltre che le imprese concorrenti acquistano la quantità di pubblicità socialmente ottima.
Stegeman (1991) sostiene che, nel caso in cui i consumatori ricevono informazioni sui prezzi solo
mediante la pubblicità, le imprese concorrenziali fanno meno pubblicità di quella ottimale dal punto
di vista sociale.
12
13
Naisbitt, John, “Trendnotes”, San Francisco Chronicle, 5 marzo 1985: 51.
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CAPITOLO 15
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La pubblicità può risolvere il problema dei “bidoni”
In alcuni mercati le imprese non riescono a vendere in modo profittevole i prodotti di alta qualità perché i consumatori non sono in grado di distinguere tra articoli di alta e bassa qualità, come nel modello del mercato dei “bidoni” (Capitolo
14). Se le imprese possono usare le garanzie e la pubblicità per indicare che vendono prodotti di qualità elevata, è possibile evitare il problema dei “bidoni”.14
Supponiamo, ad esempio, che un’impresa voglia iniziare a vendere un bene
di alta qualità con caratteristiche apprendibili con il consumo. Essa ritiene che,
se i consumatori proveranno il prodotto, lo troveranno di loro piacimento e lo
acquisteranno ripetutamente. In altre parole, l’incentivo dell’impresa a fornire
prodotti di alta qualità è quello di generare acquisti ripetuti (Klein e Leffler
1981, Shapiro 1983, Rogerson 1986). L’impresa spera di ottenere profitti elevati segnalando l’alta qualità del suo prodotto e inducendo in questo modo i
consumatori a provarlo.
Supponiamo che i costi di produzione marginali e medi variabili dell’impresa siano uguali a quelli delle imprese che producono articoli di bassa qualità
(in seguito, nel corso del capitolo, questa ipotesi verrà abbandonata). Di conseguenza, se allo stesso prezzo l’impresa con prodotti di alta qualità vende più
unità delle imprese con beni di bassa qualità, ottiene maggiori profitti da queste vendite.
L’impresa con beni di alta qualità ha un maggiore incentivo a ricorrere alla
pubblicità di quella che vende i beni di bassa qualità. La pubblicità dell’impresa con qualità alta determina acquisti ripetuti, mentre quella dell’impresa con
qualità bassa porta ad acquisti solo nel periodo corrente. Dato che entrambi i tipi di impresa hanno gli stessi costi di produzione e pubblicità e dato che i guadagni in questo caso sono maggiori per l’impresa con qualità alta, essa aumenterà i suoi investimenti pubblicitari. 15
Quando la pubblicità è in eccesso
Gli articoli di giornali, i film e i filosofi sociali spesso sostengono che il livello
pubblicitario è troppo elevato e che esso induce i consumatori ad acquistare
prodotti di cui non hanno effettivamente “bisogno”. In tempi recenti queste argomentazioni sono state formalizzate per dimostrare che quando i prodotti sono differenziati le imprese si impegnano in pubblicità sia persuasiva che informativa in quantità superiore a quella ottima dal punto di vista sociale. Spiegheremo perché questa conclusione non sia sempre valida.
✩ La pubblicità relativa ad un singolo prodotto. Fino a poco tempo fa la
maggior parte degli economisti sosteneva che non si conosceva molto circa gli
14 Nelson (1974), Schmalensee (1978), Klein e Leffler (1981), Shapiro (1983), Wolinsky (1983),
Kihlstrom e Riordan (1984), Milgrom e Roberts (1986) e Rogerson (1986). Per un punto di vista diverso si veda Allen (1984). Bagwell e Riordan (1991) rilevano che anche prezzi alti e in diminuzione
indicano un prodotto di alta qualità. I prezzi alti determinano una perdita del volume di vendite che è
più dannoso per i prodotti di costo e qualità inferiori.
15
Rogerson (1986) analizza alcune complicazioni di questo tipo di modello.
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effetti della pubblicità persuasiva sul benessere collettivo.16 Essi argomentavano che, se la pubblicità modifica i gusti dei consumatori non è possibile confrontare il benessere prima e dopo l’utilizzo dello strumento pubblicitario, dato
che manca il termine di paragone.
Supponiamo che un’inserzione pubblicitaria convinca molti consumatori
ad usare una particolare acqua di colonia e quindi determini per l’impresa che
la vende un aumento della quantità venduta e un prezzo più elevato. I consumatori si trovano in condizioni economiche migliori? Il prezzo è più alto rispetto a
prima, ma alcuni consumatori traggono maggior piacere dall’uso della colonia.
La maggior parte dei critici sociali che non sono economisti afferma che i consumatori “credono semplicemente di essere in condizioni economiche migliori” e quindi il maggior piacere dopo la pubblicità è falso e non si dovrebbe tenerne conto. Gli economisti invece sostengono che i consumatori sono i migliori giudici dei loro gusti ma purtroppo è difficile confrontare il benessere
dei consumatori prima e dopo la pubblicità se la scala con cui si misura il benessere è cambiata.
In un articolo acuto ma controverso, Dixit e Norman (1978) sostengono
che si possono trarre conclusioni incontestabili sul benessere. Gli autori considerano l’utilità dei consumatori prima e dopo la pubblicità come base per le loro conclusioni. Se un individuo ritiene che la pubblicità sia puro raggiro, per
esempio, potrebbe usare le preferenze prima della pubblicità per valutare il benessere. Se invece egli ritiene che i gusti dopo la pubblicità rappresentino il vero interesse dei consumatori, dovrebbe usare queste ultime. Se sulla base di entrambi gli insiemi delle preferenze si ottengono gli stessi risultati di benessere,
Dixit e Norman sostengono che i risultati sono validi indipendentemente dalle
ipotesi sull’insieme appropriato delle preferenze.
Inizieremo esaminando gli effetti della pubblicità sul benessere in caso di
monopolio. Il monopolista ha costi marginali costanti di produzione. La pubblicità viene fornita a costi costanti, pertanto i costi della pubblicità sono gli
stessi sia per l’impresa che per la società. Di conseguenza l’analisi del benessere può ignorare le agenzie pubblicitarie, che ottengono profitti nulli indipendentemente dalla quantità di messaggi pubblicitari fornita.
Supponiamo che sia α il livello iniziale di pubblicità che aumenta successivamente a α9 . Nella Figura 15.1 le spese aggiuntive di pubblicità, E 5 α9 2
α, fanno spostare la curva di domanda verso l’esterno al livello D(Q, α9 ). In
altre parole, a ogni dato prezzo i consumatori domandano più output dopo la
pubblicità. Se l’output diminuisce, il benessere diminuisce e non è necessaria
un’ulteriore analisi. Supponiamo allora che il prezzo di equilibrio, p9 , e la
quantità di equilibrio, Q9 , siano più elevate nell’equilibrio monopolistico dopo
la pubblicità (α9 ) che in quello prima della pubblicità (con prezzo p e output
Q), come indicato nella Figura 15.1.
Come standard iniziale utilizziamo le preferenze dei consumatori prima
della pubblicità rappresentate dalla curva di domanda D(Q, α). Nell’equilibrio
successivo alla pubblicità i consumatori apprezzano il prodotto più di prima,
quindi ne acquistano Q9 2 Q unità in più. Il surplus aggiuntivo del consumatore derivante da queste unità in più è l’area che si trova sotto curva di domanda
Per una discussione precedente sugli effetti della pubblicità sul benessere, si vedano Kaldor (194950) e Telser (1966).
16
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D(Q, α) tra gli output Q e Q9 , dato che stiamo valutando il benessere al livello
prima della pubblicità. Il costo di produzione di queste unità aggiuntive è l’area
sotto la curva dei costi marginali (e medi) tra Q e Q9 . Pertanto, il guadagno
netto sociale dovuto a queste unità in più, l’area B 2 E, è la differenza tra il
surplus aggiuntivo del consumatore e il costo di produzione delle unità Q9 2 Q
meno il costo della pubblicità aggiuntiva, E.
Utilizzando come standard le preferenze dopo la pubblicità, il surplus del
consumatore aumenta dell’area sotto la curva di domanda D(Q, α9 ) tra Q e
Q9 . Pertanto, la variazione del benessere è l’aumento del surplus del consumatore sopra la curva dei costi marginali, B 1 C 1 D, meno il costo della pubblicità in più, E. In altre parole, usando le preferenze dopo la pubblicità, il benessere varia di B 1 C 1 D 2 E, invece che solo di B 2 E. Per piccole variazioni
del livello pubblicitario C e D in genere sono di dimensioni molto piccole rispetto a B, quindi c’è poca differenza nella variazione di benessere tra i due
standard.
In entrambi i casi il guadagno dovuto alla pubblicità è l’area al di sotto della curva di domanda rilevante (quella prima o dopo la pubblicità) tra Q e Q9 e
sopra la curva dei costi marginali, meno le spese aggiuntive di pubblicità, E. In
altre parole, misuriamo il valore sociale di una variazione di output da Q a Q9
utilizzando lo standard rilevante.
Lo spostamento verso l’esterno della curva di domanda dovuto alla pubblicità aggiuntiva aumenta i profitti di monopolio per due motivi, come è già stato
discusso in precedenza. Innanzitutto, il monopolista vende Q9 2 Q unità in più
di output. Secondariamente, il monopolista vende ogni unità di output a un
prezzo superiore di p9 2 p per unità rispetto a prima. Pertanto, i profitti di monopolio aumentano della somma delle aree A, B, e C, meno il costo della pubblicità, E. L’aumento del prezzo dovuto alla pubblicità fa diminuire il benessere dei consumatori dato che fa salire la spesa per l’output già acquistato in precedenza, data da A 5 (p9 2 p)Q. La variazione di benessere, utilizzando uno
standard o l’altro, è pressappoco uguale all’aumento dei profitti per il monopolista meno le spese aggiuntive, A, da parte dei consumatori.
Utilizzando le preferenze precedenti alla pubblicità, il benessere non può
aumentare a meno che il monopolista trovi profittevole investire in pubblicità.
La variazione di benessere, B 2 E, è inferiore all’aumento dei profitti, A 1 B 1
C 2 E. 17 Pertanto, a meno che un aumento della pubblicità faccia salire i profitti, il benessere non può crescere. In altre parole, la profittabilità è un condizione necessaria perché un livello pubblicitario più elevato aumenti il benessere;
non è una condizione sufficiente perché i profitti potrebbero salire (A 1 B 1 C
2 E .0) e ciononostante il benessere potrebbe scendere (B 2 E , 0).
Utilizzando le preferenze dopo la pubblicità, la variazione di benessere è
pari a B 1 C 1 D 2 E. Con un piccolo aumento della pubblicità, C e D sono
La variazione di benessere è pressappoco pari alla differenza tra gli extra profitti del monopolista,
A 1 B 1 C 2 E, e la maggiore spesa che i consumatori devono sostenere per acquistare l’output originale, A, ossia B 1 C 2 E. Per piccole variazioni nelle spese di pubblicità, C è piccolo rispetto a B,
quindi B 1 C 2 E è pressappoco uguale a B 2 E, la variazione di benessere. L’Area A rappresenta
dunque un trasferimento di ricchezza dai consumatori al monopolista e quindi non influisce sul benessere totale: gli sforzi del monopolista per incrementare i propri profitti controbilanciano la perdita
dei consumatori.
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molto piccole rispetto a A e B. Ancora una volta, il benessere non può aumentare a meno che i profitti, A 1 B 1 C 2 E, siano positivi. Pertanto, utilizzando un
insieme di preferenze o l’altro, la profittabilità è una condizione necessaria per
l’aumento del benessere.
In condizioni di equilibrio il monopolista aumenta la pubblicità fino a
quando la spesa aggiuntiva E è esattamente uguale all’aumento marginale dei
profitti al netto della pubblicità, A 1 B 1 C. In altre parole, in equilibrio la variazione nei profitti marginali del monopolista al netto delle spese aggiuntive
derivanti da una lira in più di pubblicità è pari a zero. Dato che la variazione di
benessere è data dai profitti marginali (che sono pari a zero in condizioni di
equilibrio) meno le spese aggiuntive dei consumatori (che sono positive), la variazione marginale di benessere è negativa per l’ultima lira spesa in pubblicità.
Indipendentemente dallo standard di benessere (basato sulle preferenze precedenti o successive alla pubblicità) un aumento marginale della pubblicità fa
scendere il benessere approssimativamente dell’area A, le spese aggiuntive dei
consumatori. In altre parole, viene fatta pubblicità in eccesso: in equilibrio,
una piccola diminuzione della pubblicità aumenta il benessere.
Dixit e Norman (1978) mostrano che questi risultati sono validi sia in mercati oligopolistici che di concorrenza monopolistica. Essi concludono che in
tutti questi mercati si hanno i seguenti risultati:
•
•
un piccolo aumento della pubblicità fa salire il benessere solo se l’impresa
riesce ad aumentare i profitti. Non ci può essere in equilibrio un livello
troppo basso di pubblicità perché, se quest’ultima aumenta il benessere
collettivo, l’impresa, fornendola, ottiene un incremento nei profitti;
ridurre la pubblicità rispetto al livello che si ottiene massimizzando i profitti fa aumentare il benessere. Questo risultato è valido anche se si usano
le preferenze dei consumatori dopo la pubblicità.
In altre parole, è possibile che il benessere sia massimizzato in presenza di
un livello di pubblicità inferiore a quello che massimizza i profitti, e che dunque le imprese stiano sovrainvestendo in pubblicità. Tuttavia, pur in presenza
di un sovrainvestimento, il benessere può essere superiore a quello che si otterrebbe in assenza di pubblicità.
Sono emerse due gravi critiche alle conclusioni di Dixit e Norman
(1978). 18 Innanzitutto, come spiegano Fisher e McGowan (1979), in generale
non si dovrebbe confrontare il benessere sulla sola base delle preferenze precedenti o successive alla pubblicità. Supponiamo che, invece della pubblicità, un
miglioramento della qualità del prodotto abbia fatto spostare la domanda. L’analisi di Dixit e Norman implicherebbe che c’è un eccessivo investimento nella
qualità del prodotto. La ragione di questo risultato decisamente controintuitivo
è che Dixit e Norman confrontano il benessere prima e dopo la pubblicità utilizzando le preferenze precedenti o successive alla pubblicità per entrambi gli
esiti di equilibrio. Se l’equilibrio basato sulle preferenze prima della pubblicità
viene confrontato con l’equilibrio basato sulle preferenze dopo la pubblicità,
gli effetti sul benessere di quest’ultima sono ambigui. Se la pubblicità modifica
le preferenze, i livelli di utilità dei consumatori prima e dopo la pubblicità non
18
Dixit e Norman (1979, 1980) rispondono a queste critiche.
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possono essere confrontati direttamente. In questo caso l’uso di uno solo o dell’altro insieme di preferenze per valutare gli effetti in termini di benessere è
inappropriato.
Secondariamente, Shapiro (1980) spiega che, se la pubblicità serve a informare i consumatori dell’esistenza di un prodotto e non comporta una modificazione delle preferenze, viene fatta ad un livello inferiore a quello ottimale. Nell’esempio di Shapiro alcuni consumatori non sono consapevoli dell’esistenza
del prodotto prima che esso venga pubblicizzato. Dopo aver ricevuto i messaggi pubblicitari, essi diventano consapevoli della desiderabilità del prodotto e lo
acquistano, ma questo non implica un cambiamento nei gusti del consumatore.
Se il monopolista non può discriminare il prezzo, effettuerà un livello di pubblicità inferiore a quello ottimale, dato che sostiene l’intero costo dell’investimento, ma non ne riceve tutti i benefici (non si assicura tutto il surplus del consumatore marginale). 19
✩ La pubblicità relativa ai prodotti differenziati. Grossman e Shapiro
(1984) dimostrano che nei mercati con prodotti differenziati si determina un livello eccessivo di pubblicità informativa. Nel loro modello le imprese vendono
prodotti differenziati e i consumatori possono apprendere dell’esistenza di una
marca particolare mediante un’inserzione pubblicitaria. 20 Per raggiungere i
consumatori, un’impresa deve fare inserzioni in più riviste, distribuire volantini, e così via. Una volta che il consumatore è consapevole del prodotto offerto
dall’impresa, gli ulteriori messaggi pubblicitari che lo raggiungono sono sprecati.
Quando i prodotti sono differenziati, se la pubblicità porta ad un migliore
abbinamento tra consumatori e marche comporterà anche un aumento del benessere. Questo effetto positivo dipende essenzialmente dal grado di differenziazione. Se i prodotti sono omogenei, la pubblicità comporta un puro trasferimento dei consumatori tra le varie imprese e può essere uno spreco di risorse
dal punto di vista del benessere sociale.
Grossman e Shapiro dimostrano che l’equilibrio di mercato che si determina presenta una eccessiva varietà dei prodotti (troppe imprese) e che ogni impresa pubblicizza meno del livello socialmente ottimo per impresa. Dato il numero attuale (eccessivo) di imprese nell’industria, c’è un sovrainvestimento in
pubblicità. Essi concludono che l’effetto positivo dovuto al miglior abbinamento tra consumatori e prodotti è più che compensato da quello negativo del
semplice trasferimento dei consumatori tra le imprese. Di conseguenza, il beneficio privato della pubblicità supera quello sociale e c’è troppa pubblicità.
Se le imprese fanno pubblicità diretta solo ad un gruppo prescelto di consumatori, si ha una riduzione di questo sovrainvestimento. Se alcuni consumatori leggono solo Quattroruote mentre altri leggono solo Grazia, un’impresa
che vende impianti stereo per auto può far pubblicità solo sulla prima rivista
senza sprecare denaro facendo pubblicità sulla seconda, dato che le sue lettrici
19 Per un’analisi grafica, si veda Shapiro (1980). Osservazioni analoghe vengono fatte da Diamond e
Rothschild (1978). Shapiro (1980) e Dixit e Norman (1980) discutono anche gli effetti di benessere
quando la pubblicità influenza direttamente i consumatori.
20 Per i prodotti differenziati, Grossman e Shapiro usano il modello della circonferenza di Salop
(1979) (Capitolo 8) e il modello di trasmissione della pubblicità di Butters (1977).
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non sono interessate. Quando scegliere un target di consumatori può determinare maggiore efficienza nella spesa pubblicitaria, l’industria può diventare più
concorrenziale e i prezzi possono scendere.
Però, perfino quando i prodotti sono differenziati, si possono immaginare
facilmente situazioni in cui le imprese forniscono un livello troppo basso di
pubblicità informativa. Ad esempio, molti agricoltori ottengono la maggior
parte delle informazioni sull’uso di nuovi presticidi, attrezzature e altri prodotti dagli agenti di vendita. In questo caso le informazioni non solo aiutano gli
agricoltori a stabilire quali prodotti adottare, ma indicano loro anche le modalità d’uso. Un’impresa fornisce un livello troppo basso di pubblicità informativa di questo tipo se non riesce a beneficiare di tutti i vantaggi derivanti dalla
pubblicità. Ad esempio, se l’uso corretto dei pesticidi da parte degli agricoltori
determina vendite minori di questa sostanza, la società che produce i pesticidi
ha un incentivo a fornire informazioni limitate. Pertanto, nei mercati con prodotti differenziati, può esserci sia un livello troppo basso che troppo alto di
pubblicità informativa.
La pubblicità come barriera all’entrata. Dixit e Norman (1978) e Grossman
e Shapiro (1984) non affermano che tutta la pubblicità effettuata dalle imprese
è dannosa ma sostengono solo che in certe circostanze particolari si determina
un sovrainvestimento in pubblicità. Molti controbattono però che la pubblicità
persuasiva è anticoncorrenziale e dovrebbe essere abolita.
La pubblicità persuasiva è ritenuta anticoncorrenziale per due motivi (Bain
1956, Comanor e Wilson 1974). Innanzitutto, può indurre alcuni consumatori a
concludere erroneamente che prodotti fisicamente omogenei sono diversi tra loro, fenomeno definito falsa differenziazione dei prodotti. Dato che il comportamento al momento dell’acquisto dipende dalle percezioni sulle caratteristiche
dei prodotti da parte dei consumatori piuttosto che dalle reali caratteristiche fisiche, la pubblicità può determinare prezzi elevati per alcune marche rispetto ad
altre. Non è tuttavia chiaro se in questi casi i consumatori siano stati effettivamente ingannati. Essi possono infatti aver timore che alcuni prodotti generici
siano poco efficaci o scadenti e quindi ritengono che valga la pena pagare di più
per un prodotto di marca pur di evitare questa preoccupazione (forse falsa).
Secondariamente, alcuni economisti sostengono che la pubblicità da parte
delle imprese che già si trovano nell’industria può rendere più difficile l’entrata di nuove imprese. Un potenziale entrante deve sostenere degli investimenti
in pubblicità per avviare l’attività in un mercato in cui è già presente un’altra
impresa, mentre quest’ultima non ha dovuto sostenere le stesse spese per introdurre il proprio prodotto nel mercato. Tale barriera all’entrata aumenta il potere di mercato delle imprese già esistenti, che possono dunque imporre prezzi
più alti. L’importanza di questa barriera all’entrata dipende dalla durata degli
effetti della pubblicità. Le evidenze empiriche in proposito non sono concordi.
Alcuni ricercatori, come Ayanian (1983), hanno infatti riscontrato che gli effetti della pubblicità per alcuni prodotti durano molti anni, mentre altri ricercatori, come Boyd e Seldon (1990), trovano che per altri beni gli effetti scompaiono nel giro di un anno.
Se l’impresa esistente non ha vantaggi pubblicitari sul potenziale entrante,
essa non limita l’entrata nonostante si sia creata una certa fedeltà da parte dei
consumatori (Schmalensee 1974). Se un potenziale entrante può fare pubblicità
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Falsa differenziazione
dei prodotti
Differenziazione che si
verifica quando i
consumatori credono
erroneamente che
prodotti fisicamente
omogenei siano diversi.
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in modo altrettanto efficace, alla fine si troverà sullo stesso piano dell’impresa
esistente. Egli non ha dunque impedimenti a entrare e non ci sono barriere di
lungo periodo all’entrata secondo la definizione del Capitolo 4 (si veda anche
von Weizsäcker 1980). Inoltre, in molti casi l’impresa entrante sostiene delle
spese pubblicitarie inferiori a quelle sostenute dall’impresa già esistente, soprattutto se quest’ultima ha già convinto i consumatori della desiderabilità del
prodotto. Se invece (come abbiamo descritto nel Capitolo 10) l’entrante deve
sostenere delle spese di marketing superiori a quelle dell’impresa già esistente,
si ha una barriera all’entrata. Esistono argomentazioni teoriche a sostegno di entrambe le tesi e pertanto la questione può essere risolta solo in base a verifiche
empiriche. Numerose evidenze empiriche mostrano che la pubblicità e la differenziazione del prodotto possono creare barriere all’entrata (si veda il Capitolo
4). 21 Tuttavia, esiste anche un numero di studi, pressoché uguale a quelli che
provano il contrario, che dimostrano che la pubblicità non è anticoncorrenziale.
Molti studi analizzano il rapporto tra concentrazione e pubblicità.22 Quelli
in cui si riscontra che la pubblicità aumenta la concentrazione (Mann, Henning
e Meehan 1967, Ornstein et al. 1973, Strickland e Weiss 1976) non sono più
numerosi di quelli in cui si ottiene che essa non ha effetto o riduce la concentrazione (Telser 1964, 1969, Ekelund e Maurice 1969, Ekelund e Gramm 1970,
Vernon 1971, Edwards 1973). È dunque impossibile affermare che la pubblicità provoca barriere all’entrata (Schmalensee 1976). Ad esempio, Weiss, Pascoe e Martin (1983) deducono che la struttura del mercato, così come viene
misurata dai rapporti di concentrazione, determina il rapporto pubblicità/vendite. Il nesso tra rapporti di concentrazione e potere di mercato è però limitato e
il rapporto di causalità tra concentrazione e pubblicità non è chiaro. In realtà è
probabile che entrambi si determinino simultaneamente, piuttosto che l’uno determini l’altro. 23
Altri studi (Comanor e Wilson 1974, Miller 1969, Weiss 1969) esaminano
il rapporto tra varie misure contabili del profitto e la pubblicità. Ancora una
volta, il nesso di causalità è discutibile. Inoltre, se la pubblicità è di lunga durata, nel senso che quella odierna influisce sulle decisioni di acquisto del futuro,
le differenze nella profittabilità di breve periodo associate alla pubblicità posComanor e Wilson (1979, 470), in una rassegna degli studi disponibili concludono che “il peso delle evidenze disponibili conferma l’ipotesi che un forte investimento pubblicitario può avere gravi
conseguenze anticoncorrenziali. Tuttavia, dato che la distribuzione dell’intensità di pubblicità è altamente asimmetrica, non ci sono indicazioni per cui questi effetti siano pervasivi su tutta l’economia,
né all’interno di un determinato settore manifatturiero”.
21
22 Telser (1964) è stato probabilmente il primo. Molti di questi studi sono recensiti in Ornstein (1977)
e Comanor e Wilson (1979).
Lambin (1976) e Schmalensee (1976) tentano di misurare separatamente gli effetti della pubblicità
sulle curve di domanda delle imprese e su quella dell’industria. Purtroppo i dati non consentono loro
di misurare con precisione questi effetti.
23
Lambin (1976, 97) riferisce che l’elasticità delle vendite rispetto alle spese pubblicitarie di solito è
maggiore nel lungo periodo. L’elasticità di breve periodo dei rasoi elettrici è 0.229 (un aumento
dell’1% delle spese pubblicitarie porta a un aumento dello 0.229% delle vendite), ma l’elasticità di
lungo periodo è più del doppio, ossia 0.597. Analogamente, le elasticità di breve e lungo periodo per
le sigarette sono 0.154 e 0.752; per i detersivi, 0.055 e 0.659 e per le bibite analcoliche, 0.057 e 0.415.
24
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sono essere fuorvianti. 24 Le imprese possono sostenere dei costi oggi, abbassando i profitti attuali, per poi aumentare questi ultimi in futuro. Ayanian
(1983) stima che di solito il valore di uno stock di pubblicità (l’effetto cumulativo di molte campagne pubblicitarie) dura sette anni e, dopo aver corretto i
profitti per tenere conto di questo fatto, conclude che la pubblicità non provoca
barriere all’entrata.
Come abbiamo visto in precedenza, un certo numero di studi mostra che la
pubblicità informativa sui prezzi può far diminuire il prezzo medio di mercato.
Consentendo alle nuove imprese di differenziare i loro prodotti, la pubblicità
persuasiva a volte può facilitare l’entrata. Pertanto, anche se è possibile dimostrare che la pubblicità persuasiva può creare barriere all’entrata, limitarla ridurrebbe anche gli effetti desiderabili di facilitazione dell’entrata.
La pubblicità ingannevole
La pubblicità ingannevole è illegale. Tuttavia, se l’applicazione delle leggi non
è rigorosa, le imprese possono fare per anni pubblicità in modo ingannevole o
fuorviante senza incorrere o quasi in sanzioni. In questa sezione analizzeremo
le circostanze in cui è più probabile che le imprese si impegnino in pubblicità
ingannevole e se le leggi su questo tipo di pubblicità siano desiderabili dal punto di vista del benessere collettivo. I risultati sono sorprendenti: in alcune circostanze, le normative sulla pubblicità ingannevole possono portare a un maggior quantitativo di questo tipo di messaggi.
I limiti alla pubblicità ingannevole
Perché non tutte le imprese effettuano della pubblicità ingannevole? Una possibile risposta è che in generale è difficile ingannare i consumatori (Nelson 1974,
Schmalensee 1978). Nelson (1974, 749) propone una regola che i consumatori
dovrebbero seguire per non essere ingannati: “Credete a una pubblicità ... quando
parla delle funzioni connesse ad un determinato prodotto di una certa marca; non
credeteci quando vi dice invece come il prodotto di quella marca ‘così buono’
svolga tali funzioni”. Le funzioni di un prodotto sono facili da verificare prima
dell’acquisto, mentre le prestazioni possono essere confermate solo dopo l’acquisto. Se un’impresa dice di vendere letti da una piazza e mezza, questa affermazione è molto più facile da verificare rispetto ad un’altra che sostiene che il letto durerà 50 anni. Pertanto, la prima affermazione è più plausibile della seconda.
È più probabile che la pubblicità ingannevole riguardi i beni con caratteristiche apprendibili con il consumo piuttosto che i beni con caratteristiche osservabili. Ad esempio, in un periodo di sei mesi, tutti i 58 casi di pubblicità ingannevole trattati dalla Federal Trade Commission riguardavano i beni con caratteristiche apprendibili con il consumo (Nelson 1974, 750). Un’affermazione
ingannevole relativa a un bene a qualità osservabile fa sì che non vi siano altri
acquisti se la veridicità delle asserzioni può essere verificata prima dell’acquisto senza incorrere in spese. Pertanto, tali affermazioni danneggiano solo la reputazione dell’impresa. Di conseguenza, le imprese non hanno incentivo a fare
affermazioni false. Hanno invece incentivo a mentire sui beni con qualità apprendibile con il consumo, perché l’inganno può indurre i consumatori a effetDennis W. Carlton, Jeffrey M. Perloff
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tuare almeno un acquisto di prova.
Ciononostante, la quantità di pubblicità ingannevole sui beni con caratteristiche apprendibili con il consumo può essere minimizzata dagli incentivi delle
imprese di alta qualità a pubblicizzare il vero.25 Un consumatore che acquista
una prima volta un prodotto di alta qualità e che è soddisfatto, probabilmente
effettuerà acquisti ripetuti, mentre un consumatore deluso da un prodotto di
bassa qualità non lo comprerà più. Pertanto, nell’ipotesi che le imprese abbiano
gli stessi costi, il beneficio insito nel far provare il prodotto al consumatore è
maggiore per un’impresa che realizza beni di alta qualità che per una di bassa
qualità. Di conseguenza, le imprese che realizzano beni di alta qualità dovrebbero fare più pubblicità, in modo che perfino la quantità di pubblicità persuasiva possa essere un indice di qualità.
Fin qui l’argomentazione appare valida ma in molti mercati, se non nella
maggior parte, le imprese che realizzano beni di bassa qualità hanno costi relativamente bassi. Se queste imprese fanno pubblicità ingannevole ottengono profitti maggiori sulle vendite iniziali perché realizzano profitti unitari più alti; inoltre
esse non si aspettano ordini ripetuti e perciò non hanno intenzione di svolgere
l’attività molto a lungo. In un mercato del genere, quindi, non è chiaro se un’impresa che realizza beni di alta qualità con un costo di produzione relativamente
alto ricorra a più o meno pubblicità (Schmalensee 1978; Kihlstrom e Riordan
1984; Milgrom e Roberts 1986) di un’impresa che realizza beni di bassa qualità.
Dovremmo attenderci che i prodotti di alta qualità siano pubblicizzati di più
se i costi variabili dell’impresa non sono superiori a quelli delle imprese che realizzano beni di bassa qualità e se i consumatori non possono venire a conoscenza
della qualità di un prodotto se non mediante il consumo (Shapiro 1983, Rogerson 1986). 26 Se un’impresa che produce beni di alta qualità ha costi relativamente elevati, una grande quantità di pubblicità può non essere indice di alta
qualità. 27 Pertanto un elevato numero di messaggi pubblicitari non è necessariamente associato all’alta qualità. Per esempio, Kotowitz e Mathewson (1986) non
trovano riscontri né nel mercato delle automobili né in quello delle assicurazioni
sulla vita che maggiori investimenti pubblicitari indichino elevata qualità.
Negli Stati Uniti molti sostengono che la pubblicità è imprecisa e chiedono
l’intervento di agenzie governative come la FTC e la Food and Drug Administration (FDA). Per esempio, il Public Citizen’s Health Research Group raccomanda che le agenzie governative esigano delle verifiche sull’accuratezza della
pubblicità delle società farmaceutiche prima della pubblicazione. Alcuni autori
hanno riscontrato che delle 109 pubblicità a tutta pagina sulle 10 principali riviste mediche nel 1990, 100 erano relative a prodotti che non osservavano alLe condizioni in cui la pubblicità può fungere da indice della qualità sono analizzate in Nelson
(1974), Schmalensee (1978), Klein e Leffler (1981), Shapiro (1983), Wolinsky (1983), Allen (1984),
Kihlstrom e Riordan (1984), Milgrom e Roberts (1986) e Rogerson (1986, 1988).
25
Se i potenziali consumatori possono apprendere la qualità mediante comunicazioni verbali di chi ha
provato il prodotto, un’impresa che realizza beni di alta qualità deve vendere solo una piccola quantità di output a prezzi di lancio bassi per convincere i consumatori che ha un prodotto eccellente, e
quindi non ha incentivo a fare molta pubblicità.
26
27 Anche in questo caso, però, in alcune circostanze un numero elevato di messaggi pubblicitari è
indice di qualità (Milgrom e Roberts 1986).
28
“Many Drug Ads Called Inaccurate”, San Francisco Chronicle, 31 luglio, 1992: E3.
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cuna regola della FDA. 28
Le leggi sulla standardizzazione delle etichette dei prodotti alimentari entrate in vigore negli Stati Uniti nel 1994 potrebbero ridurre il numero di comunicazioni fuorvianti; nonostante questo la FDA continua a controllare 17.000
prodotti alimentari. Nel corso di un’indagine si è rilevato che, nel 1991, due
terzi delle marche di generi alimentari presentava sull’etichetta informazioni
nutrizionali e il 60% indicava proprietà benefiche per la salute (Caswell 1992).
L’industria pubblicitaria sostiene di effettuare essa stessa una certa opera di
vigilanza sulle informazioni fornite. Negli Stati Uniti l’American Association of
Advertising Agencies, che rappresenta le agenzie produttrici dell’80% della pubblicità televisiva e a mezzo stampa, ha creato nel 1974 un’unità per l’esame della
pubblicità rivolta ai bambini. Da allora ha convinto le società a modificare 270
spot che avrebbero potuto essere fuorvianti o creare confusione per i bambini.29
Le leggi antifrode
Una società che vende un prodotto non sicuro o al di sotto di uno standard qualitativo può produrre a un costo inferiore rispetto alle imprese che realizzano
un prodotto sicuro o conforme allo standard. Tali imprese possono effettuare
pubblicità ingannevole affermando che i loro prodotti sono sicuri e utili per indurre i consumatori ad acquistarli. Anche se non ci saranno vendite ripetute ai
clienti insoddisfatti, una società può ottenere dei benefici se i suoi costi sono
sufficientemente bassi. Un sistema per affrontare il problema della pubblicità
ingannevole consiste nel perseguire tali imprese in base alle leggi antifrode.
Paradossalmente, possono verificarsi più frodi quando si tenta di applicare
una legge che tenta di reprimere il fenomeno in modo troppo debole piuttosto
che quando non la si applichi affatto (Nelson 1974, 749-51). Supponiamo, per
esempio, che la legge proibisca di fornire sull’etichetta informazioni scorrette
sulla composizione del tessuto di un capo di abbigliamento. Se la legge viene
applicata quasi sempre, i consumatori ritengono che l’etichetta di solito sia
corretta, e quindi danno al produttore un incentivo alla frode. In altre parole, se
i consumatori ritengono che le etichette siano accurate, saranno ingannati da
quelle false. In mancanza di applicazione della legge, invece, i consumatori
non si fidano delle etichette sui capi di abbigliamento a meno che non sia nell’interesse del produttore stesso fornire le informazioni corrette.30 In questo caso le etichette ingannevoli fanno poco danno, perché nessuno ci crede. Di conseguenza, le imprese hanno scarso incentivo a fare affermazioni ingannevoli.
Da questo si dovrebbe dedurre l’utilità delle leggi antifrode, che sembra
dunque essere molto limitata. Una conclusione del genere è però esagerata.
Queste leggi inducono infatti le imprese a fornire più informazioni. Se un’impresa sa che, in mancanza di leggi antifrode, i consumatori non credono alle
sue comunicazioni, non si preoccupa di farne. Un maggior numero di comunicazioni (e forse più informazioni) viene dunque compensato dal fatto di poter
29 Ramirez, Anthony, “Advertising: Campaigns for Children Criticized”, New York Times, 18 luglio
1990: C9.
Per esempio, Eaton e Grossman (1986) dimostrano che un’impresa può avere un incentivo a rivelare informazioni precise se il suo prodotto è molto diverso da quelli dei suoi rivali.
30
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effettuare un maggior numero di raggiri.
Lo stato deve stabilire il livello ottimale di applicazione della legge. Anche
se fosse possibile, il tentativo di impedire qualsiasi affermazione ingannevole
avrebbe costi proibitivi. Però eliminare le leggi o rendere noto che non verranno applicate ridurrebbe notevolmente gli incentivi delle imprese a fornire
informazioni ai consumatori. Quindi, il livello ottimale di applicazione della
legge si trova a metà strada tra la mancata applicazione e la verifica della veridicità di tutte le affermazioni.
Le leggi sulla divulgazione
Le leggi sulla divulgazione esigono che le imprese rivelino ai consumatori alcune informazioni veritiere sui loro prodotti. Le leggi antifrode esigono soltanto che qualsiasi informazione divulgata volontariamente sia veritiera. Un’impresa fa pubblicità principalmente per informare i consumatori delle proprietà
desiderabili dei suoi prodotti ma, per varie ragioni, può anche rivelare proprietà non desiderabili, come gli effetti collaterali dei farmaci. Apposite avvertenze possono però proteggere un’impresa da cause legali che possono esserle
intentate per responsabilità, oppure l’impresa può decidere che rivelare tutte le
informazioni massimizzi i profitti. In alcuni mercati lo stato esige che le imprese rendano noti tutti i fattori positivi e negativi che potrebbero influenzare la
decisione di comprare il prodotto.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, si può sviluppare un mercato
dei “bidoni” se i venditori di beni di alta qualità non possono differenziare i loro prodotti da quelli dei venditori di beni di bassa qualità, quindi i consumatori
rimangono privi di informazioni. In questo caso, però, consideriamo i mercati
in cui i venditori di beni di alta qualità hanno sia l’incentivo che la capacità di
differenziare i loro prodotti. 31
Ricordiamo dal capitolo precedente che quando le affermazioni sulla qualità di un prodotto possono essere verificate a basso costo, le imprese non solo
dicono la verità, ma forniscono anche garanzie per segnalare che stanno sostenendo il vero. Se, ad esempio, un’impresa afferma che la sua confezione di
arance contiene sei arance, un consumatore può verificare questa affermazione
aprendo la confezione, praticamente senza sostenere costi.
Nel caso in cui le affermazioni sulla qualità di un prodotto sono costose da
comunicare ai consumatori o costose da verificare dopo la vendita, non si offrono garanzie standard. Per esempio, la qualità di fabbricazione di un’automobile è difficile da descrivere o verificare anche subito dopo l’acquisto. Non ci
attendiamo di avere la garanzia che tutti i componenti dell’auto siano di alta
qualità e montati correttamente. Tuttavia, è relativamente facile stabilire se la
macchina si rompe o non si rompe. Se le auto di alta qualità hanno meno probabilità di rompersi di quelle di bassa qualità, si possono usare le garanzie contro
i guasti invece di quelle direttamente sulla fabbricazione. Ora prenderemo in
esame la necessità e gli effetti delle leggi sulla divulgazione facendo varie ipotesi sugli acquirenti e sui venditori.
È noto a tutti che i venditori sono in possesso di informazioni. Supponiamo
31 La discussione che segue è basata su Grossman e Hart (1980), Milgrom (1981) e soprattutto Grossman (1981).
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Pubblicità e divulgazione
che un’impresa abbia informazioni dettagliate sul suo nuovo prodotto di cui i
consumatori non hanno esperienza e che questi ultimi sappiamo che le imprese
hanno tali informazioni. Inoltre, i consumatori non hanno la necessità di avere
altri rapporti con il produttore in futuro. In questo caso ci si attende che l’impresa abbia un notevole incentivo a fornire informazioni fuorvianti. Sorprendentemente, però, può non riuscire a ingannare sulla qualità del prodotto; in
realtà, se manca una legge sulla divulgazione, l’impresa può essere costretta a
fare rivelazioni complete. Supponiamo che le leggi antifrode, che rendono illegale mentire su un prodotto, siano applicate completamente nel relativo mercato e che le pene per chi mente siano severe. Pertanto, l’impresa può scegliere
tra dire la verità sul prodotto o non dire nulla.
Il risultato sorprendente per cui l’impresa rivela informazioni sul prodotto
deriva dal cinismo dei consumatori. Un’impresa che vende una confezione di
arance può decidere di non dire nulla, di indicare il numero di arance sull’etichetta della confezione o di fare un’affermazione vera ma imprecisa, come: “Ci
sono almeno tre arance nella confezione”. Supponiamo che, prima dell’acquisto, non sia possibile appurare quante arance ci sono nella confezione. Come
reagirebbe un consumatore razionale a ciascuno dei tre tipi di etichetta?
Primo, se sull’etichetta si afferma che ci sono tre arance, un consumatore
può credere che ce ne siano esattamente tre. Questo consumatore ritiene che le
leggi antifrode impediscano all’impresa di mentire.
Secondo, se sull’etichetta c’è scritto: “Ci sono almeno tre arance nella confezione”, un consumatore può presumere che ci siano esattamente tre arance.
Dopo tutto, se ci fossero quattro arance, sicuramente sarebbe specificato sull’etichetta, perché è nell’interesse dell’impresa.
Terzo, se sull’etichetta non si dice nulla sul contenuto della confezione, un
consumatore può suppore che non ci siano arance. Dopo tutto, se ce ne fosse
una, sull’etichetta potrebbe essere scritto “c’è almeno un’arancia nella confezione”. Se i consumatori non hanno altro modo per verificare il contenuto della
confezione, si rendono conto che è nell’interesse dell’impresa indicare il numero esatto di arance nella confezione.
In sintesi, il consumatore razionale si aspetta il peggio: la quantità che si
attende è la minore possibile che risulti coerente con le informazioni rivelate
dall’impresa. Il consumatore sa che il prezzo è tanto più alto quanto maggiore è
il numero delle arance nella confezione e quindi sa che l’impresa ha un incentivo a indicare la quantità più elevata che si avvicina a quella vera. In altre parole, il consumatore si aspetta che il venditore faccia l’affermazione più veritiera
e ottimistica possibile. Pertanto, almeno nel caso in cui la legge proibisce dichiarazioni ingannevoli e viene applicata rigorosamente, l’impresa ha un incentivo a fare rivelazioni complete. Questa argomentazione implica che, nel
caso in cui le informazioni o le garanzie siano gratuite e i consumatori siano in
grado di comprendere le informazioni, lo stato non deve esigere rivelazioni se
già applica la legge che proibisce le dichiarazioni ingannevoli: le imprese fanno volontariamente rivelazioni complete.
Perché non richiedere la divulgazione anche se non è necessaria? Il motivo
è che le leggi sulla divulgazione fanno aumentare i suoi costi. Di solito, queste
leggi hanno una portata molto ampia ed esigono, per esempio, che chi emette
nuove azioni o vende una casa riveli tutti i gli elementi che sono essenziali per
l’acquirente. Ad esempio, a partire dal 1987 in base al Codice Civile della CaDennis W. Carlton, Jeffrey M. Perloff
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lifornia chi vende una casa è obbligato a fornire agli acquirenti un Real Estate
Transfer Disclosure Statement che illustra le condizioni note della casa. Se si
rileva un difetto dopo la vendita, l’acquirente può intentare causa, affermando
che non gli era stato rivelato un elemento negativo. Dato che tali procedimenti
giudiziari sono costosi, il venditore, prevedendo i costi, rivela più informazioni
di quanto farebbe in mancanza di tali leggi, anche quando è costoso rivelare altre informazioni (potrebbe essere necessario assumere un avvocato per preparare i documenti necessari) ed esse possono essere irrilevanti. Pertanto, queste
leggi potrebbero trasformare una situazione in cui esiste un’informazione su
fatti essenziali in un’altra in cui si fanno ulteriori rivelazioni costose e non necessarie. 32 In questo caso il benessere potrebbe essere maggiore che in assenza
di leggi sulla divulgazione.
Queste argomentazioni sono fondate però sul presupposto che il venditore
sia già in possesso delle informazioni rilevanti.
✩ I venditori decidono se ottenere e divulgare le informazioni. Le imprese
effettuano volontariamente verifiche sulla qualità e ne divulgano i risultati? Per
rispondere a questa domanda supponiamo ancora che ci sia un unico venditore
cui le leggi antifrode impediscono di mentire. Ancora una volta si ha un risultato sorprendente: solo se la divulgazione è obbligatoria, in certe circostanze un
venditore evita di effettuare verifiche e divulgarne i risultati (Matthews e Postlewaite 1985).
In base al precedente ragionamento, se i consumatori sanno che un’impresa
conosce la qualità del proprio prodotto, ipotizzano il peggio se l’impresa non fa
alcuna rivelazione. Adesso supponiamo però che l’impresa all’inizio non abbia
a disposizione informazioni sulla qualità, ma che possa controllare quest’ultima senza sostenere costi. Effettuare la verifica e rivelarne il risultato oppure no
dipende dal fatto che i consumatori ipotizzino che abbia già le informazioni rilevanti e dal fatto che esista una legge sulla divulgazione.
Quando non esiste una norma sulla divulgazione i consumatori hanno
aspettative negative se un’impresa non annuncia i risultati delle verifiche perché ritengono che essa stia cercando di nascondere risultati negativi. Un’impresa ha dunque un incentivo ad effettuare le verifiche e annunciare i risultati
che impediscono ai consumatori di avere aspettative negative. Pertanto, in
mancanza di norme sulla divulgazione, le imprese effettuano verifiche e rivelano i risultati se le leggi antifrode vengono applicate severamente.
Sorprendentemente le norme che prevedono una divulgazione completa (che
esigono che le imprese riferiscano tutti i fatti rilevanti) sono dannose. Poiché i consumatori sanno che tutte le imprese devono rivelare qualsiasi risultato delle verifiche in modo completo, se un’impresa non fa alcuna divulgazione, i consumatori
concludono che non ha effettuato verifiche. Di conseguenza i consumatori possono
Negli Stati Uniti la Securities and Exchange Commission esige che un’impresa fornisca certe informazioni a coloro che investono in essa. I costi di spedizione per posta possono essere notevoli nel caso in cui vi siano milioni di investitori, come accade per molte società quotate.
32
Queste mancate verifiche sono particolarmente probabili se l’impresa ritiene che i risultati delle verifiche non saranno all’altezza delle aspettative dei consumatori. Perché la mancanza di verifiche non
produca queste aspettative negative da parte dei consumatori, questi ultimi devono ritenere che le imprese non possano prevedere i risultati delle verifiche.
33
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non pensare il peggio su un prodotto a causa della mancanza di divulgazione.33
Pertanto un’impresa può non effettuare verifiche e quindi non fare rivelazioni.
Quando c’è una legge sulla divulgazione, un’impresa non è costretta ad effettuare
verifiche per dissipare i timori sulla qualità del prodotto. L’assenza di divulgazione
significa semplicemente che non sono state effettuate verifiche, non implica che
sono state effettuate verifiche che hanno dimostrato che la qualità è bassa. Pertanto, l’impresa effettua verifiche e ne rivela i risultati quando non esiste norma sulla
divulgazione, ma può non effettuare verifiche e rivelarne i risultati quando la norma esiste.
Il risultato di Matthews e Postlewaite dipende essenzialmente dalla realizzazione di verifiche senza sostenere costi.34 Se è noto che le verifiche o le rivelazioni sono costose, affermare che l’impresa non ha effettuato verifiche può
essere credibile (Jovanovic 1983) e può non dare adito a aspettative negative
sulla qualità del prodotto, in modo da indurre le imprese a non effettuare verifiche. Se le verifiche sono costose, un monopolista ne effettua un numero minore
rispetto a quello ottimale dal punto di vista sociale (Nelson 1959, Arrow 1962,
Kwerel 1980) perché non può ricavare tutti i vantaggi derivanti dalle verifiche,
ma deve sostenerne l’intero costo.
Sintesi
Le imprese hanno un incentivo a informare i consumatori sulla qualità dei loro
prodotti e tentano di modificare i loro gusti. Oltre alla pubblicità sui giornali, alla radio e alla televisione le imprese possono fare pubblicità indirettamente consolidando il nome del prodotto o facendosi altrimenti una buona reputazione.
Un’impresa determina la quantità di pubblicità che massimizza i profitti
ponendo i costi marginali relativi alla pubblicità uguali ai benefici marginali
derivanti dalle maggiori vendite. Gli studi empirici esistenti indicano che le
imprese in genere spendono di più in pubblicità per prodotti con qualità apprendibile al consumo che per i prodotti che i consumatori possono valutare
istantaneamente.
Gli effetti della pubblicità sul benessere sono complessi e dipendono dal tipo di prodotto e di pubblicità. Di solito la pubblicità sui prezzi di prodotti omogenei riduce il prezzo medio pagato dai consumatori, come indicato negli studi
su alcuni prodotti. Questi studi dimostrano soltanto che un certo ammontare di
pubblicità è desiderabile; non provano che le imprese si impegnano nella quantità di pubblicità ottimale dal punto di vista sociale. Quando la pubblicità persuasiva modifica le preferenze dei consumatori, non è possibile stabilire se ci
sia un livello troppo elevato o troppo basso di pubblicità.
La pubblicità che porta alla falsa differenziazione dei beni e determina
34 Un’altra ipotesi fondamentale è che le imprese non possono prevedere i risultati delle verifiche.
Quest’ipotesi può essere falsa. Ad esempio, secondo il News & Records di Greensboro, nel 1970 la
R.J. Reynolds Tobacco Co. licenziò improvvisamente 26 biochimici, ponendo fine a un progetto di ricerca riservato che indicava legami tra il fumo e le malattie polmonari. I funzionari della Reynolds
sostengono che si licenziarono i biochimici e si pose fine alla ricerca perché gli esperimenti sugli animali potevano essere realizzati in modo più economico nelle università o dal Council for Tobacco Research. “Tobacco Firm Halted Tests on Health Risk in 1970, Paper Says”, San Francisco Chronicle,
26 settembre 1992: A3.
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prezzi più elevati per i consumatori è dannosa. La pubblicità può creare anche
una barriera all’entrata, ma le evidenze a sostegno di questa teoria sono contrastanti. Pertanto, in generale, gli effetti della pubblicità sul benessere del consumatore sono ambigui. In alcuni mercati la pubblicità può facilitate l’entrata, ma
può anche portare alla creazione di potere di mercato.
Lo scetticismo dei consumatori scoraggia la pubblicità ingannevole. Paradossalmente, le leggi antifrode possono aumentare la quantità sia di pubblicità
veritiera che di pubblicità ingannevole. La società deve quindi raggiungere un
compromesso tra il costo di applicazione delle leggi più il danno derivante dalla pubblicità ingannevole e il beneficio dovuto all’aumento di quella veritiera,
per stabilire con quale severità applicare queste leggi.
Quando le leggi antifrode sono applicate severamente, le imprese hanno un
incentivo a rivelare le informazioni ai consumatori. Sorprendentemente, in alcune circostanze le leggi che obbligano la divulgazione possono ridurre l’entità
di tali rivelazioni.
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