Il taccuino di Rasetle - Rasetle, l`Altopiano nascosto

Era verso l’estate, ma quell’anno lo ricordo molto bene. Di tanto in tanto il paesaggio
s’imbiancava e come per magia anche se per poche ore la natura ci stupiva. Poi col
passare dei giorni l’aria si faceva più calda e cresceva in me la voglia di tornare a visitare
quei luoghi, quegli angoli più nascosti del bosco d’alta montagna, misto d’abeti e
larici, macchiato di tanto in tanto da qualche faggio o sorbo, e più su, dove diventava
un tutt’uno con il pino mugo e il rododendro.
A metà giugno di una mattina calda e luminosa, salii alla sorgente, nella quale ero
solito trascorrere un po’ di tempo ad osservare le grandi varietà di uccelli che la
frequentavano. Crocieri, ciuffolotti, cince mi incantavano nel loro fare quotidiano.
Sentivo forte il profumo del sottobosco, riscaldato dal sole, che in quel periodo si
faceva sempre più insistente, e scioglieva le ultime nevi nascoste negli anfratti. Le
eriche sfiorite lasciavano spazio a nuovi colori e profumi. Ma era proprio attorno ad
una fonte d’acqua che in questo periodo dell’anno la vita del bosco era più frenetica.
Fu una grande sorpresa quando, intento ad aspettare l’arrivo di un astore che vidi
qualche giorno prima aggirarsi incuriosito, sentii un calpestio, quasi in punta di piedi,
che mi sfiorò, mi passò accanto e con stupore, ecco che una giovane volpe era venuta a
dissetarsi. Rimasi sorpreso ed emozionato per l’incontro che solo l’inesperienza della
giovane volpe aveva reso possibile.
Dura poco l’estate nell’ Altopiano più bello e la temperatura, anche nel periodo più
caldo, non è mai troppo elevata. Sono però i pascoli più alti, al limite della vegetazione,
che in questo momento offrono uno spettacolo. È qui che si può ammirare, come in
un quadro, la natura nel suo massimo splendore. Fiori alpini ricoprono le praterie
emanando, nella tiepida brezza che sale lungo i pendii, mille profumi. Su queste rocce,
intervallate da macchie di pino mugo, il mio passo si faceva sempre più silenzioso,
vellutato, quasi a non voler svegliare qualcuno. La mia speranza era nell’incontro
con la “bianca”, sì, la pernice bianca, così la sentivo chiamare da qualche anziano
cacciatore di Asiago nel suo affascinante raccontare. Proprio lei, che con l’allungarsi
delle giornate iniziava a spogliarsi del suo candido manto invernale. La domanda che
sempre mi ponevo era la stessa: come può passare quassù l’inverno, quando metri di
neve e gelidi venti da nord le rendono così dura la sopravvivenza?
A tarda estate qualche timida corrente accompagna l’arrivo dei primi migratori giunti
sin qui dal nord Europa. Lucherini, tordi e fringuelli intenti a rifocillarsi con gli ultimi
semi e bacche. Era questo il momento di godere di tanto splendore!
Lunghe camminate, cieli tersi ed un’aria frizzante mi avvolgevano in una piacevole
malinconia. Ero consapevole che la natura andava a riposare. I colori dell’autunno
stavano per scoppiare e le prime gelate mattutine acceleravano il volgere delle stagioni.
Mi recavo spesso alla ricerca del grande cervo, animale schivo, riservato, misterioso.
Era lui il mio desiderio: poterlo osservare, ammirare in tutta la sua maestosità. Ricordo
ancora l’emozione che provai di fronte ad un grosso maschio che quasi divertito
s’immergeva in una pozza. Mi accorsi più tardi, dai fusti d’abete consumati, che lì, di
frequente, il cervo veniva ad eliminare fastidiosi insetti e parassiti. Poi, nei pascoli, ai
margini del bosco nel periodo degli amori,che spettacolo!
La fine di ottobre con novembre portava le prime avvisaglie di un inverno ormai alle
porte. Non era raro vedere le prime cime imbiancate e a valle i prati coprirsi della
brina notturna, l’arrivo del sassello, della cesena e degli ultimi migratori in volo per
raggiungere luoghi più temperati e ricchi di cibo. Forse, con correnti favorevoli, a
febbraio li rivedremo, al ritorno. Anche il folletto del bosco, il simpatico scoiattolo, è
alla ricerca di cibo, farà grande scorta per un inverno gelido e nevoso. Lo osservavo di
tanto in tanto aggirarsi tra i rami con una velocità straordinaria, di primo mattino, per
poi fermarsi a godere del primo sole nelle giornate più fredde.
Le prime nevicate ci immergono in uno straordinario silenzio, quasi irreale, e il bosco
imbiancato, come d’incanto, tradisce la presenza di ogni essere vivente. Tracce di lepri
e caprioli si intrecciano quasi a formare un gioco immaginario di bambini.
Passeggiare tra gli abeti in questo bianco candore, seguendo magari le impronte della
volpe lasciate la notte, lo stridulo verso della gazza, il rincorrersi dello scoiattolo
mi ricordano che il bosco è vita, anche d’inverno, quando tutto sembra fermarsi,
assopirsi. Nei versanti più a nord, come per magia, il paesaggio si trasforma: pino
mugo e rododendro sono a riposo per molti mesi sotto il peso delle nevi. Gelidi venti,
come per gioco, spostando la neve di qua e di là, ridisegnano linee di valli e pendii.
Durerà per molti mesi, lassù, nell’habitat della pernice bianca e della lepre alpina che
adesso, in difesa dei predatori, sono completamente bianchi. Nel bosco vecchio il
grande gallo ha trovato dimora tra abeti e larici di cui se ne ciberà fino a primavera.
Diventano sofferenza questi lunghi mesi per animali e piante.
Trascorre lento l’inverno in montagna ed è con l’arrivo di febbraio e marzo che esso ci
sorprende con qualche abbondante nevicata di fine stagione. Neve pesante, bagnata
lascia l’ultimo ricordo, l’ultimo saluto e ci accompagna verso giornate più lunghe e
luminose. La primavera. È il momento che la natura ha atteso per lunghi mesi in
silenzio, dando spazio al trascorrere di ogni stagione. Ora è il momento del risveglio,
lo testimoniano i primi colchici che sono pronti, man mano, ad occupare il terreno
lasciato dalla neve nei versanti più soleggiati.
Un’esplosione di suoni e di canti rianimano il bosco di primo mattino e lì, nel territorio
del grande gallo, nel vecchio bosco, è giunta la stagione degli amori. È il cuculo a
testimoniarlo con il suo canto ancora a notte. A fine aprile salivo spesso per ammirare
la sua danza, un privilegio poter assistere a questo spettacolo. Quell’anno lo ricordo
particolarmente: l’inverno era durato a lungo e le precipitazioni nevose abbondanti.
Il terreno, ancora per molti tratti, era coperto di neve e rendeva un po’ difficoltoso
raggiungere quel grosso abete nel quale, alla base, sotto la prima corona di fronde,
avevo approntato un piccolo capanno intrecciando dei rami. Salire attraverso il bosco
nel buio della notte era un’impresa, lo scricchiolio della neve gelata sotto i miei passi
svelava la mia presenza. Ma qualche volta, era il canto della civetta capogrosso a
rompere il profondo silenzio che regnava in quei luoghi durante la notte.
Ma giunto nel capanno mi sentivo al sicuro e tolto il disturbo attendevo il primo” toc”,
segno che il gallo, forse quello più vecchio, si era svegliato e iniziava la sua parata.
Dapprima un po’ incerto e poi sempre più sicuro nel suo canto a voler chiamare il giorno
per mostrarsi con il miglior abito dalle mille sfumature.
Capii subito dal primo involo di qualche femmina che i giorni erano quelli buoni e con
un po’ di fortuna la lunga attesa, con il freddo che iniziava a farsi sentire, non sarebbe
stata poi vana. Poi il primo planare, a terra, goffo e rumoroso e ad uno ad uno i maschi
a darsi appuntamento, come ogni anno, nella lotta per la riproduzione. Emozionante
vivere in questa terra, assistere a questi spettacoli che solo la natura sa offrirci.
Con il passare dei giorni e l’aumentare della luce, anche lassù, nel versante del fagiano
di monte, i primi maschi erano a contendersi la supremazia. Il loro canto, un rugolare
intervallato dal classico soffio, a richiamare le galline che come spettatrici osservano
al bordo dell’arena.
Così per molte albe fatte di lotte, combattimenti fino a che la femmina, pronta per
l’accoppiamento, si concede al maschio, quello più forte, più bello. Il momento più
importante per ogni specie è proprio la primavera ed è il tordo che per primo, dal cimale
di un abete, con il suo flautato gorgogliare, ci invita per un po’ ad ascoltare, a fermarci
in silenzio. Anche lui è intento a conquistarsi il territorio, la compagna, per costruire il
proprio nido che molto abilmente riveste all’interno di uno strato di fango creando una
sorta di coppa. Ricordo divertito il simpatico incontro tra due giovani tordi e l’amico
scoiattolo che, incuriosito, si fermò ad osservare con un po’ di stupore e poi via…
Ad uno ad uno tutti gli abitanti della foresta sono chiamati ad un compito molto
delicato per il prosieguo della specie. È questo il periodo più bello ed importante per
un attento osservatore della natura. Maggio, la prima covata per molti uccelli e anche
l’unica per altri, come il picchio verde che molto abilmente ha costruito il proprio nido in un
vecchio castagno.
Era da un po’ che aspettavo la schiusa di una nidiata di gheppio che trovai per caso
passeggiando alla ricerca di spugnole, un ottimo fungo. Rimasi sorpreso delle molte
uova presenti, solo un piccolo era presente nel nido; la causa forse il cattivo tempo.
Il picchio cenerino, il più raro della famiglia, è molto impegnato. Sono gli ultimi giorni
nel nido per la sua prole e il lavoro è incessante. Si ode, a grande distanza, il suo
tambureggiare sui tronchi alla ricerca di larve ed insetti.
La misteriosa civetta caporosso che sfrutta il vecchio nido abbandonato dal picchio
nero, mi accorsi di averla svegliata un bel giorno di sole. Il picchio rosso sul solito larice
da molti anni, il veloce rampichino alpestre che nidifica nelle fessure della corteccia
delle piante morte.
Anche la giovane volpe è molto incuriosita dal mondo esterno dopo aver trascorso
molti giorni nella tana.
I più rari incontri con il giovane capriolo, da guardare e non toccare, per breve tempo
s’intende. La madre è lì a poca distanza. O la covata di urogallo (gallo cedrone) o quello
di fagiano di monte (gallo forcello). Un vero spettacolo a cui ogni anno ho e abbiamo
l’onore di assistervi, in disparte e nel rispetto.
Ogni tanto basta fermarsi, ammirare, ascoltare in silenzio.
Paolo Fracaro