Filosofia della presenza Oltre il nichilismo 1.1 Abitare poeticamente

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Filosofia della presenza
Oltre il nichilismo
1.1 Abitare poeticamente la terra
Questo corso di introduzione alla filosofia si sviluppa nell’arco di cinque lezioni, desidero indicarvi
in questo inziouna prospettiva nella quale collocare il nostro percorso.
L’espressione “abitare poeticamente la terra” del poeta tedesco Hoderlin, significa “essere alla
presenza degli dei”, quello che noi chiamiamo Paradiso, significa anche essere toccati “dall’essenza
delle cose”. Compito delle filosofo è di saper leggere quella realtà che nel linguaggio moderno si è
smarrita, noi infatti parliamo di cose e non più della realtà che è insieme di enti i quali esistono
come qualità, essenze che hanno l’essere. Come attingere la verità oggi dove è messa in discussione
la ragione come capacità del vero?
E’ Gadamer, nel suo libro del 1960 Verità e Metodo, dove critica quell’atteggiamento che
considera l’esperienza dell’arte e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero, a
recuperare il valore dell’esperienza estetica come conoscenza del vero. Se si domanda perché
nell’esperienza estetica non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono
esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico. Gadamer
rivendica l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come
quelli della scienza. Il grande teologo H. U. Von Balthasar, nella sua opera Gloria, afferma che la
verità del Logos, elaborata dalla teologia medioevale, è emigrata altrove, in modo particolare
all’arte: l’anima della filosofia cristiana dimora nella letteratura, nella poesia, nell’arte… è lì che
possiamo rintracciare il volto del Logos cristiano, il Verbo che si è fatto carne.
Per meglio comprendere questo aspetto della realtà ripensiamo al “Cantico delle creature di San
Francesco” dove il Santo custodisce nelle parole non solo gli elementi della creazione, il sole, la
luna, … la morte , ma anche l’anima delle cose, infatti tutto il creato si anima in una danza della
vita sotto il segno della “bontà” che richiama l’inizio della genesi “e Dio vide che ciò era cosa
buona”. Il termine buono è esteso a “ciò”, a tutta la creazione, a ciò che è alla mia presenza.
L’uso dell’imperfetto “era” indica il passato della creazione, il suo presente e anche il futuro: il
buono attraversa il tempo della storia nonostante la fragilità insita nella creazione a causa del
peccato originale. Non si può dimenticare Dante, il poeta che ha saputo dare un vestito
all’architettura filosofica e teologica elaborata dalla scolastica medioevale.
Cito Dante perché il suo percorso filosofico, teologico, esistenziale scritto nella Divina Commedia,
è un danza della vita immersa nell’amore che muove ogni cosa. Il Beato angelico, nel suo giudizio
universale, custodito negli Uffizi a Firenze, pone sulla destra la danza degli angeli e dei santi che si
prendono per mano in cerchio. Mistica della luce dove l’intelletto umano, luce, legge la luce,
l’essenza insita nelle cose.
Se in Francesco c’è la lode delle creature al creatore, in Dante c’è un’esplosione di vita cosmica
«Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo»,
cominciò, 'gloria!', tutto 'l paradiso,
3 sì che m'inebrïava il dolce canto.
Ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso
de l'universo; per che mia ebbrezza
6 intrava per l'udire e per lo viso.
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d'amore e di pace!
9 oh sanza brama sicura ricchezza! (Par. XXVII,1-9)
La filosofia cristiana, del Logos, “tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di
ciò che esiste”(Gv1,3), intravvede la sua presenza in tutta la creazione; nel soggetto umano il Logos è
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un grado interno alla stessa vita vissuta che dalla immaturità di una vita che semplicemente ci si trova a
vivere, quella della selva oscura, a una vita saggia, vissuta che sa se stessa
[..] «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è
forma che l'universo a Dio fa
simigliante.
(Par. I, 103-105)
La forma di quest’ordine è la sapienza. Vita che diventa trasparente a se stessa portando
l’effettivo non essere rispetto all'essere autentico
Noi siamo usciti fore
Del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
luce intelletual, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia
letizia che trascende ogne dolzore (Par. XXX,38-42)
La filosofia cristiana non si ferma a un semplice apprendere, ma diventa una conoscenza che è
fonte di vita.
Il Logos rivela che non viviamo in mezzo a cose o a fatti come vuole il positivismo, viviamo in un
mondo che ha un’anima, una vita densa di significati che dobbiamo imparare a decifrare e a
ascoltare, il mondo ridotto a cose è quello che usa il mondo senza capirlo e rispettarlo.
Nel nostro percorso ci affidiamo alla filosofia (amore della sapienza) come cammino e ricerca dello
spirito per cogliere la “verità” dell'essere in quanto essere da cui dipende la verità dell'essere di
colui che cerca: non solo l’essere del mondo ma anche l’essere dell’uomo. In questo inizio
dell'essere, i termini oggettività e soggettività non hanno ancora senso perchè sono posteriori
all'essere stesso e non è da essi che il pensiero muove i suoi passi. Compito della filosofia è quello
di giungere dalle apparenze molteplici del mondo all’unità, al fondamento. Unità nella differenza
che permane, almeno nella visione cristiana. Si tratta di togliere quel velo che nasconde l'essere (aletheia = verità - significa mettere a nudo, far emergere ciò che è nascosto).
1.2 La meraviglia come inizio
L’inizio della coscienza filosofica è stato posto giustamente da Platone e Aristotele nella meraviglia
o stupore. Infatti se conoscere è il farsi presente dell'essere, ossia avvertire una presenza dell'essere,
la meraviglia è propriamente quella avvertenza di una divergenza fra le ripetute presentazioni
dell'essere alla coscienza o della coscienza all'essere. Da ciò l'avvertenza di una incommensurabilità
fra l'apparire e l'essere come tale, onde unicamente può nascere l’interrogazione primordiale sul
“cos'è l'essere in quanto essere”. La meraviglia annuncia il risveglio dello spirito dall'esperienza
immediata della vita vissuta alla comprensione dell'unità dell’essere. Si vede quindi, e non è
difficile mostrarlo, che la meraviglia assume in sè e soddisfa l'esigenza del dubbio o inzio assoluto
avanzata dal pensiero moderno: la filosofia cioè deve cominciare come dice Hegel, “senza
presupposti” così da poter fare dentro se stessa e per se stessa la prima affermazione sull'essere e
ottenerne la prima certezza. La meraviglia dei Greci assolve questo compito in modo più radicale
dell'inizio moderno in quanto si muove senza il presupposto precisamente di un'opzione sull'essere
e sulla sua struttura com'è il cominciamento del fenomenismo e dell'idealismo che pongono il
principio dell'identità di essere e apparire, di essere e pensiero.
Inl altri termini il pensiero moderno non si pone in ascolto di ciò che sta davanti allo sguardo, ma lo
riduce a coscinza (Cartesio), volontà di potenza (filosofi volontaisti), pensiero (idealisti). Questo
modo di procedere del pensiero moderno è di imbrigliare la realtà per dominarla non per capirla. Il
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più grande interprete della filosofia come strumento per cambiare la storia è stato Carlo Marx con
qualche ragione ma molti torti.
La meraviglia invece è una tensione dinamica di positivo e negativo, essa sorge in quanto da una
parte si tien salda la effettualità dell'essere, del suo farsi “presente” nella realtà dell'esitenza e della
molteplicità delle sue forme, dall’altra, la coscienza avverte che l'esistenza come tale, ovvero la
molteplicità e il divenire delle sue forme, non mostrano più l'essere in quanto essere, ma piuttosto
lo “velano” e nascondono ed anzi contrastano a quell'unità e necessità che deve pur competere
all'essere perchè si dia la verità. È in questo ergersi del negativo contro il positivo, proprio della
meraviglia, che sorge l'esigenza della filosofia come ricerca assoluta della verità dell'essere: solo in
questo mutuo opporsi di positivo e negativo nel presentarsi dell'essere, si può avere l'autentico
inizio assoluto, senza presupposti, non potendo nessuno dei due poli della tensione rivendicare una
posizione di privilegio che gli assicuri la risoluzione univoca dell'essere come tale. Pensiamo al
contrasto tra l’Essere di Parmenide e il divenire di Eraclito.
La filosofia è così il luogo della domanda e del pensiero: domanda intorno alle cose, a tutte le cose
e, attraverso il pensiero e il ragionamento cerca di capire le strutture (fondamenti) delle cose e nello
stesso tempo la struttura del pensiero (auto - riflessione).
Un rischio da evitare è di ridurre la realtà al pensiero, se il punto di partenza è l’esistente, ciò che
esiste, il punto d’arrivo è sempre l’esistente, il concreto, la singolarità che mai può essere assorbita
in una unità indifferenziata come in Hegel, Marx.
Dato che il reale ha sempre un’estensione superiore ad ogni forma ideale, la nostra attenzione va
posta sempre sul “quid”, su ciò che sta davanti al mio sguardo. Tra reale e ideale c’è uno iato
(piccolo accento dell’alfabeto greco) sosteneva Eraclito, che nessun pensiero è in grado di
afferrare nella sua completezza, quindi un pensiero che sempre si rinnova ogni volta che acquisisce
aspetti nuovi della realtà. Non si avrà mai una filosofia compiuta ma una filosofia che è obbligata a
leggere il reale e a rileggersi per colmare le sue lacune. Le filosofie compiute o chiuse hanno in
genere un contenuto ideologico, cioè riducono la realtà a un’idea predeterminata.
Ogni indagine richiede un atteggiamento umile, fatto di ascolto e confronto perchè in gioco c’è il
mistero della vita che non va mai sottovalutato dato che spesse volte la filosofia ha dato un
contributo contro la vita e non a suo favore.
La domanda sulle cose porta tutti noi a fare dei ragionamenti nel tentativo di dare un senso alle
cose, se stiamo attenti ogni discussione porta in sé delle ragioni, ognuno ha le sue e tutti in qualche
modo hanno ragione, uno può sostenere che il bianco è nero e che il male è un bene, ciò accadeva
nella retorica sofista dove il vero filosofo era quello in grado di dimostrare che la verità era quella
meno condivisa ed evidentemente falsa. Oggi, nel tempo della non verità, è ritornata in auge questa
forma di retorica che è usata da alcuni politici, opinionisti, dai venditori porta a porta e nelle alte
sfere dell’economia. Si tratta di una verità virtuale simile all’asino che vola, ma che spesso è molto
convincente là dove è venuta meno una dimensione critica e prevale un residuo di ignoranza che
predispone a credere ad ogni cosa. In Grecia questo tipo di filosofia, esercitata dai “sofisti” si
sviluppa quando i commercianti, nuovi ricchi, salgono al potere. Socrate, che si contrappone ai
Sofisti, insegna che la vera sapienza è al di là della tecnica del discorso, è qualcosa che l’uomo non
potrà mai possedere né dominare pienamente.
1.3 Essere e Nulla
Heddeger chiama “l’uomo il pastore dell’Essere”, l’immagine del pastore ci aiuta a capire che il
compito dell’uomo è di mettere in luce l’essere delle cose, nella prospettiva cristiana significa
ricercare l’Essere che sta solo, che ha in sé l’essere, quindi l’essere che ha nome – senza nome –
poiché ogni nome, anche l’essere inteso dalla mente, non è l’essere.
La teologia negativa, quella dei mistici insegna che “Il nulla è l'oggetto della rivelazione”, ma lo è
in quanto ne è anche il soggetto. Se la verità rivela il nulla di tutte le cose che sono (rivela il «non»
dell'essere, il cui fondamento è abisso sovrastato da silenzio), ciò accade in virtù del principio che
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E’ al di là di ogni cosa e quindi E’, di ogni cosa che E’. Ciò significa che ogni affermazione perchè
sia vera comporta la sua negazione questo per sottolineare l’inadeguatezza di ogni parola rispetto la
realtà che non si esaurisce nell’affermazione seppur vera. C’è un di più che sfugge. Per fare un
esempio, noi non siamo solo la somma degli anni, non siamo solo il nostro corpo, i nostri pensieri,
gli affetti, c’è un di più che sfugge. Agostino dice nella confessioni che “ero estraneo a me stesso”,
solo nell’incontro con Dio, nell’esperienza di Dio in sé Agostino comprende se stesso.
Perciò la verità in questione non è quella che chiede l’assenso, secondo necessità, ma quella che
libera dall'orditura necessitante di Logos, (da intendere la ragione umana), il tessitore. Non è quella
che vincola al che è com'è né può essere altrimenti, bensì quella che lascia essere l'essere stesso a
partire dal nulla. Dunque: a partire dalla libertà, ossia dal nulla dell'essere, dal nulla del principio
fondante ma sottratto a qualsiasi determinazione. Il nulla che negando la ragione di ciò che è
(perché questo, perché quello, perché in generale qualcosa e non il nulla), restituisce l'essere a se
stesso. Alla sua estasi, al suo estatico stare. Dunque alla libertà. Qui il nulla non va inteso come
realtà ontologica ma come assenza che consente la sola presenza dell’essere senza condizione.
Nel Paradiso Adamo da il nome alla creazione e ai suoi elementi – dare il nome significa inter-agire
con gli elementi della natura e mettere in luce il loro essere che si manifesta nell’agire. Nella bibbia
l’essere è lasciato a se stesso, non va dominato ma lasciato che sia.
Nei dialoghi di Socrate (Platone) il circolo dei filosofi cerca il nome, l’ideale che meglio interpreta
la realtà delle cose: l’essenza.
Nella visione greca, non tutta, ogni realtà in sé è finita, la natura è fatta di cicli, di generazione che
implicano la morte e la vita, ogni cosa è nel senso del finito, della morte. Anche il cristianesimo
tematizza la finitudine dell’uomo ma a differenza del mondo greco la finitudine non è naturale ma
creaturale , il mondo è finito non perchè è mortale ma perchè è creato. L’uomo e la creazione non
hanno in sé la radice della loro esistenza ma sono tenuti in essere da Dio. Senza Dio nulla sarebbe.
Cosciente di questa finitudine nel pensiero moderno è il Sociologo R. Aron che scrive “Questo
formidabile cosmo è lui stesso votato alla perdizione. È nato, dunque mortale. Si disperde a velocità folle,
mentre gli astri si tamponano, esplodono, implodono. Il nostro Sole, che succede a due o tre altri soli defunti,
si consumerà. Tutti i viventi sono gettati nella vita senza averlo chiesto, sono promessi alla morte senza
averlo desiderato. Vivono fra nulla e nulla, il nulla prima, il nulla dopo, circondati dal nulla durante. Non sono
soltanto gli individui a essere perduti, ma, presto o tardi, l'umanità, e poi le ultime tracce di vita, e più tardi la
Terra. Anche il mondo va verso la morte, che sia per dispersione generalizzata o per ritorno implosivo
all'origine... Dalla morte di questo mondo forse nascerà un altro mondo, ma allora il nostro sarà
irrimediabilmente morto. II nostro mondo è votato alla perdizione. Siamo perduti. Questo mondo, che è il
nostro, è molto debole alla base, quasi inconsistente: è nato da un accidente, forse da una disintegrazione
dell'infinito, a meno che non si pensi che sia nato dal nulla”.
Nel pensiero greco il mondo e (Dio) sono dati insieme, entrambi eterni, nel pensiero cristiano tutto
ciò che esiste ha la sua radice in Dio, la creazione è ex nihilo – dal nulla – qui il nulla non va inteso
come causa ma semplicemente come assenza di un negativo che lascia essere le cose attraverso il
Fiat divino. L’atto creativo pone in essere le cose – dal momento che sono, tutto ciò che è, è bene –
Dio vide che ciò era cosa buona, non c’è spazio per un principio negativo.
Soffermiamoci ancora sul concetto di finito.
Kierkegaard ci ricorda nella sua filosofia che chi ha saputo mettersi alla scuola dell'angoscia
generata dalla finitudine, liberato dalle mediocrità del finito, «può andare per una sua strada quasi
danzando, quando le angosce del mondo finito cominciano il loro gioco e i discepoli della finitezza
perdono l'intelletto e il coraggio». E ancora Heidegger è tornato con buone ragioni a parlarci
dell'angoscia come della possibile apertura sul senso, come del campo in cui l'ente in quanto tale
viene deposto per risalire a quel ni-ente che lo ricomprende, all'Essere stesso.
Ma che cosa permette questa deposizione e in che senso può dirsi che il vuoto a cui si espone
l'esperienza dell'ente corrisponde, sì, al ni-ente e però proprio in questa negatività accenna non
propriamente al nulla, bensì all'essere in quanto tale, all'absolutum? O, detto altrimenti, perché il
non essere da cui appare la realtà dell'ente non può ultimamente coincidere col mero nulla?
Possiamo già dire che, per la contraddizione che ci è vietata, all'origine sta soltanto e sempre
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l'essere: il puro nulla non può tradursi in essere, essendo appunto indicibile e impossibile che il
nulla sia. Ritorna qui il decisivo frammento di Parmenide, per il quale «è necessario il dire e il
pensare che l'essere sia: l'essere infatti è, il nulla non è»". L'ex-sistere dell'ente, nella sua originaria
negatività, ci rinvia dunque pur sempre nel campo dell'essere e ultimamente a un assoluto d'essere?
Ma poi come dire dell'Essere che così viene annunziato solo nella sua sottrazione, di là dall'exsistere?
In termini più semplici noi cogliamo l’esistenza come qualcosa che è data, che è, ma che potrebbe
anche non essere, inoltre ogni esistenza è destina a finire, a morire. Ciò genera angoscia: che senso
ha un’esistenza che ha nel suo orizzonte il niente, il nulla. Tuttavia questa esistenza che si da, che è
data in modo gratuito, non può avere al suo inizio il nulla per cui non può averlo neppure come
orizzonte.
Tommaso d'Aquino direbbe che la percezione del negativo costituisce, nel modo più radicale, un
privilegio dell'uomo: la cognizione dell’assenza e del limite è una dote che l'uomo ha in comune
con gli animali superiori, ma nell'uomo questa cognizione è sostenuta da una prospettiva che sporge
di là da ogni immediatezza, “secundum rationem universalem”.
Questa considerazione, col suo rinvio a un principio universale, ci mette già sulla via del nesso che
connette l'esperienza con le strutture trascendentali della coscienza. In che senso, infatti, la
coscienza del negativo costituisce un privilegio all'altezza dell'uomo? Qual è condizione che la
rende possibile e che la sorregge? Ancora Tommaso ci suggerirebbe che alla base di ogni rilievo
negativo sta un riferimento positivo: «intellectus negationis semper fundatur in aliqua affirmatione»
Il tema generalel dell'ontologia fondamentale di Heidegger: « Perchè allora in generale c'è qualcosa
e non piuttosto nulla? » (questa questioneè del tutto sconosciuta alla filosofia greca, la quale cerca
sempre sull'essere, sulla natura, su qualcosa che è... e non può concepire la possibilità che il nulla
sia « più antico » del «qualcosa »... . poichè come pensa Hegel se la realtà dell'opposizione d’essere
e non-essere è il divenire, si ha che il non-essere alla fine è mentre l'essere invece non è, in quanto
l'uno è totalmente « per » l'altro e si finisce (ed Hegel l'ammette!) che essere e non-essere si
equivalgono o almeno coincidono. Il nulla del pensiero moderno arriva così a precedere l'essere
dell'ente e perciò a suo modo lo domina. Il nulla del primo pensiero greco con Parmenide segue
all'essere, e perciò detto non-essere, come ciò che non è nè può essere, perchè solo l'essere è: e
questo è chiaro.
Nel Cristianesimo il nulla sta in una posizione assolutamente originale in quanto è posto tra l'essere
e l'ente, se si prende per ente il concreto creato che Dio, 1''Essere sussistente, ha tratto dal nulla con
la creazione. È sintomatico che gli antichi scrittori cristiani, che si rifanno al primo pensiero greco,
si rivolgano di preferenza a Eraclito, che la tradizione qualifica come il filosofo del divenire, non a
Parmenide ch'è il filosofo dell'essere; la ragione principale di questa preferenza per Eraclito era
probabilmente nella sua teoria del logos, che anticipava così potentemente ai loro sguardi la dottrina
cristiana dei rapporti di Dio al mondo e della vita stessa intima d Dio. Non si vede infatti come il
pensiero di Parmenide possa avere da solo uno sbocco qualsiasi in senso creazionistico, che esige la
fondazione dell’ente nell’essere: l'essere cosiddetto immobile di Parmenide, benché stia agli
antipodi di quello di Hegel, in realtà gli corrisponde perché l'essere che Hegel trova astratto, vuoto,
assolutamente indeterminato... è pur sempre quell'essere, prospettato da Parmenide.
Per il Cristianesimo e la metafisica creazionistica invece il non-essere è il nulla che si trova fra
l'Essere (ch'è Uno = sussistente = Dio) e l'essente (che sono i molti = la creatura): questo nulla non è
ìl semplice non-essere, come generalizzazione della formula negativa della copula, nè il non-essere
secondo che si attesta nella posizione dell'esperienza sempre mutevole delle sue presentazioni e
coll'alternarsi dei processi di generazione e corruzione nel sempre vario aspetto del mondo. Il nulla
dal quale Dio col suo atto creativo toglie la creatura è precisamente quel che la creatura, è, il quelche-non-è, prima e fuori dell’atto cereativo di Dio, cioè quel che la creatura sarebbe fuori e senza di
quell'atto, ad ogni istante ch'esso venisse a mancare. Quanto al rapporto intenzionale, per dir così,
fra l'essere e il nulla nella concezione biblica, guardando alla superficie essi si condizionano a
vicenda: il nulla arguisce l'infinita indigenza della creatura e quindi l'infinita potenza di Dio, così
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come l'infinità di realtà di Dio è l'unica potenza che attingge e supera l'infinità di indigenza della
creatura. Tale infinità che in Dio dice l'Essere e nella creatura dice il nulla (non un nulla ontologico
ma semplicemente un nulla per sottolineare l’incommesurabilità che esiste tra Dio e l’uomo,
Sant’Agostino chiama l’uomo una creatura temporale – un nulla che risuona e parla) esprime quella
che Kierkegaard ha chiamato la “infinita differenza qualitativa” fra Dio e la creatura: questa
differenza ha la sua compiuta espressione teoretica nella distinzione tomistica di essentia ed esse
espressa mediante la nozione di partecipazione, la quale comporta la totale dipendenza della
creatura da Dio, grazie all'emergenza dell'esse su cui si fonda la creazione.
San Tommaso che ha fatto l'indagine semantica più completa sul concetto di essere non ha trattato a
parte la questione del nulla e della negazione, poichè egli già viveva in un clima ormai maturo e
saturo di contenuto biblico e patristico, si vedrà del resto a suo luogo come dentro questo concetto si
radica l'indigenza del finito.
L’analisi moderna, a partire da Nietzsche, ripresa poi da Heiddeger, sostiene che è proprio il
cristianesimo a introdurre il nulla. L’errore di N. E di H. È di cogliere l’essere dell’ente come
dippendenza e non partecipazione dell’Essere. La dipendenza è legata a una volontà libera che può
ritirare il suo atto che sostiene l’essere, la partecipazione sottolinea la gratuità dell’atto libero di
Dio, atto d’amore che permane nella creazione. La dipendenza ontologica non nega il valore
dell’essere dell’ente che è voluto perchè sia e dal momento che è, ogni negatività è esclusa, inotre la
realtà dell’ente, una volta costituitesi, si muove nell’autonomia delle cause seconde, quindi ha in sè
le reagioni del divenire come ente, negli enti dotati di intelligenza e volontà esiste la libertà di
rispondere a una chiamata. Il no a Dio che comporta il non compimento delle potenzialità insite
nell’essere non toglie l’essere dell’ente tanto che le anime dell’inferno esistono. Nulla di ciò che è
creato perde il suo essere.
La tesi N. è “dato che le cose non hanno consistenza in sè ma vengono all’essere e in esso si
mantengono solo perchè Dio li tiene in essere, nel momento in cui viene meno la certezza di Dio,
ogni cosa perde il suo fondamento e il suo valore”. Il decadere delle cose nel nulla non ha la sua
origine nell’ontologia cristiana ma nel pensiero moderno che ha voluto pensare l’uomo e il mondo a
prescindere da Dio. La visione cristiana elaborata da Tommaso sostiene che dal momento che le
cose sono queste hanno valore in sè – cioè riconosce all’essere dell’ente uno statuto di autonomia
nel senso che l’essere degli enti non è riassorbito nell’essere di Dio ma esistono in se stesse. Nella
visione orientale l’essere delle creature scompare per essere assorbito nell’unico essere che è Dio (il
vuoto del buddismo).
E’ vero che la modernità ha perso la certezza di Dio ed è per questo che il mondo prende sempre di
più i colori del nulla.
La deriva nichilista ontologica, è presente nella riflessione dell’oriente indiano dove il mondo è
pura apparenza, non solo il mondo, luogo delle differenze è male, ma anche il corpo e l’io sono
niente perchè immersi nella differenza. Il mondo greco salva il senso del mondo con
dall’introduzione dell’anima platonica e dal mondo delle idee come positività che permane nel
decadere delle cose finite ed è la positività dell’anima e delle idee che le cose acquistano un
significato per le relazioni che vengono a costituirsi.
Se nel cristianesimo l’essere dell’ente partecipa all’essere di Dio, ciò vale per tutti gli enti, ciò
significa impegno verso l’ente nella sua totalità creaturale. Il cristianesimo, pur nella sua vocazione
all’Eternità non ripudia la terra perchè questa è la sua dimora nel tempo della vita, questa fedeltà
alla terra, all’uomo nella sua concretezza trova luce nella teologia dell’Incarnazione. La storia
dell’uomo sulla terra è in sè positiva poiche è il luogo non solo della grazia ma anche di quelle
potenzialità poste in essa dall’atto delle creazione.
Al cristianesimo si muovono due accuse che si autoeliminano:
1) lo sfruttamento della terra a causa del detto biblico di soggiogare la terra che nel linguaggio
ebraico significa custodire, governare nel senso di lasciar essere
2) l’altra è di essere indifferente alla terra perchè la nostra dimora è nei cieli, ma se gurdiamo
all’esperienza monastica che vuole essere imitazione della vita eterna, il lavoro della terra,
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lo studio, accanto alla preghiera, sono momenti essenziali alla realizzazione della pienezza
della vita dono di Dio
Il fatto che l’essere di ogni ente partedcipa dell’essere di Dio, tutto ciò che esiste ha in sè la radice
dell’eterno, nulla può essere annientato – ridotto al non essere. Chi pone in Dio la volontà di
eliminare l’essere delle cose, tesi di Okkam che vuole esaltare la libertà di Dio non condizionata
dall’Essere buono, nega una metafisica della partecipazione e pone in balia l’essere alla volontà
libera e assoluta di Dio. Questa volontà passa poi, nel pensiero moderno a quei filosofi che esaltano
la volontà di potenza che viene trasferita al singolo, alle ideologie, allo stato.
Se il mondo greco assume la morte in quanto tutto è nel finito, il cristianesimo assume come ultima
parola la vita.
Il mondo greco si chiude nel finito perchè il cielo è escluso all’uomo, l’uomo è rifiutato dagli dei e
in ciò ha ragione, infatti la vita eterna è un dono.
“Noi abbiamo vinto il mondo e ciò che ha vinto il mondo è la nostra fede” (1 Gv. 1, )
Se nel mondo greco, ma anche nel buddismo, è la pietà la virtù più grande perchè tutti immersi nel
dolore a causa della morte, nella visione cristiana la virtù più grande è la carità, cioè farsi carico
dell’altro come insegna il Buon Pastore.
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