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CONGRESSO DI VIENNA (1814-15) – ETA’ DELLA RESTAURAZIONE
(1815-1830)
CONGRESSO DI VIENNA:
A Vienna si riuniscono i rappresentanti di tutti gli Stati europei (compresa la Francia sconfitta) per
decidere l’assetto geo-politico dell’Europa dopo la fine di Napoleone e del suo impero.
Le decisioni vengono assunte sulla base di due PRINCIPII: LEGITTIMITA’ ed EQUILIBRIO
LEGITTIMITA’ : gli Stati europei devono ritornare ai legittimi sovrani e ai confini precedenti agli
sconvolgimenti dell’età napoleonica.
EQUILIBRIO : si deve costituire un nuovo equilibrio europeo (“bilancia di potenza”) condizione
per una pace duratura.
Sulla base di questi 2 principi la Francia ritorna ai confini del 1792 (senza subire “punizioni”) e Luigi
XVIII Borbone (erede di Luigi XVI) ritorna sul trono francese.
Questi due principi (in particolare il secondo, sostenuto soprattutto dall’Inghilterra) permettono
anche di contenere le pretese espansionistiche degli Stati che hanno sconfitto Napoleone (in
particolare Austria, Russia e Prussia).
Comunque il principio di legittimità non è applicato integralmente e quindi la carta politica
dell’Europa nel 1815 non è esattamente uguale a quella del 1789.
Variazioni più significative:
Il Belgio viene unito all’Olanda.
In Germania la frammentazione politica viene ridotta (gli Stati diventano 39), la Prussia estende i
suoi confini. Inoltre nasce una Confederazione degli Stati tedeschi presieduta dall’imperatore
austriaco.
La Russia ottiene la Polonia.
In Italia non viene ricostituita la Repubblica di San Marco: il Veneto viene assegnato all’Impero
Austriaco insieme alla Lombardia.
Gli Stati in Italia sono:
Regno di Sardegna (Savoia), Viceregno Lombardo-Veneto, Ducato di Modena e Reggio, Ducato di
Parma, Stato della Chiesa (comprende anche Romagna e Bologna), Granducato di Toscana, Ducato
di Massa e Carrara, Ducato di Lucca, Regno delle Due Sicilie (Borbone).
L’Inghilterra “si accontentava” di Malta (aveva già Gibilterra), Terra del Capo, Antille, Ceylon.
LA RESTAURAZIONE
Gli Stati europei riuniti al Congresso di Vienna non vollero soltanto ripristinare l’assetto geo-politico
prerivoluzionario: vollero anche “restaurare” gli ordinamenti politici e sociali dell’Ancien Regime: la
monarchia assoluta di diritto divino, il ruolo fondamentale della Chiesa (cattolica, ortodossa o
protestante, a seconda dei paesi), la prevalenza della nobiltà, l’ “organicismo”.
Assolutismo: in Austria, Russia, Prussia, Spagna e negli stati italiani si ritornò all’assolutismo
monarchico con il sovrano detentore di ogni autorità “per grazia di Dio”. In Francia il re Luigi
XVIII, succeduto al fratello ghigliottinato Luigi XVI, concesse una costituzione che prevedeva una
certa autonomia del potere giudiziario e l’esistenza di un’assemblea rappresentativa eletta con
suffragio censitario molto ristretto: ma si trattava di una costituzione “octroyée”, cioé concessa dal
re come un dono, non come un diritto del popolo.
L’Inghilterra, il Portogallo, l’Olanda, la Svezia e alcuni stati della Germania meridionale mantennero
le vecchie costituzioni o ne adottarono di nuove, allineandosi al modello inglese di monarchia
costituzionale.
Alleanza Trono - Altare: l’Assolutismo regio si basava sulla tradizionale dottrina della sovranità di
diritto divino: la religione quindi (negli stati assolutistici) fu considerata un sostegno fondamentale
del potere politico: per questo alla chiesa fu attribuito nuovamente il ruolo di guida morale e
spirituale delle popolazioni (e la gestione di gran parte delle scuole), furono ripristinati privilegi degli
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ecclesiastici e pratiche di intolleranza religiosa (per esempio discriminazioni civili degli ebrei e dei
valdesi). Fu inoltre ripristinata l’autorità assoluta del Papa nello Stato della Chiesa.
Prevalenza della nobiltà: in tutta l’Europa la nobiltà recuperò autorità politica e sociale e privilegi
(per esempio posti direttivi nell’amministrazione statale, esenzioni fiscali ecc.). In Francia i nobili
emigrati durante la Rivoluzione ritornarono e occuparono nuovamente posizioni di potere
(nell’esercito, nella burocrazia ecc.), raramente riuscirono a recuperare le proprietà terriere che erano
state espropriate e rivendute durante la rivoluzione, però ottennero sostanziosi risarcimenti dallo
Stato. Va anche segnalato il fatto che nell’età della restaurazione l’aristocrazia dovette allargarsi ed
accogliere molti altoborghesi che ottenevano (spesso a pagamento) titoli di nobiltà dai sovrani.
Organicismo: era la dottrina, fatta propria dalle corti e dalle élites aristocratiche, per cui «la società
politica viene definita come un organismo in cui ogni componente trova la sua compiutezza solo
nella partecipazione al tutto, e che funziona solo se ogni parte rispetta il ruolo e il posto che gli
sono stati attribuiti. Come ogni organismo, la società politica ha chi comanda e chi obbedisce: un
ordine che qualsiasi rivendicazione di autonomia individuale non può che minare»
LA SANTA ALLEANZA:
il principale strumento politico della restaurazione, cioè della difesa dell’equilibrio europeo e della
stabilità politica dei singoli stati europei, fu la Santa Alleanza. Nel 1815 lo Zar di Russia Alessandro I
propose un’alleanza fra i sovrani europei con lo scopo di salvaguardare e promuovere il
Cristianesimo in Europa: questa proposta fu accolta dal Metternich (capo del governo dell’Impero
Austriaco) e tradotta concretamente in un impegno dei sovrani alleati a sostenersi vicendevolmente
in caso di rivoluzione. Quindi la Santa Alleanza stabiliva che se in uno stato scoppiava una
rivoluzione i sovrani alleati avevano il diritto d’intervenire militarmente per aiutare il sovrano
“contestato” a reprimerla.
La Santa Alleanza fu stipulata dapprima tra lo zar di Russia, il re di Prussia e l’imperatore d’Austria,
poi vi aderirono la Francia, la Spagna e gli stati italiani (eccetto lo Stato della Chiesa).
Il Papa non aderì considerando improponibile un’alleanza per la difesa del cristianesimo tra sovrani
cattolici, protestanti e ortodossi.
L’Inghilterra inizialmente aderì, ma poi abbandonò la Santa Alleanza: con ciò manifestò di essere
interessata al mantenimento dell’equilibrio in Europa ma non alla difesa dell’assolutismo, anzi
cominciò a guardare con favore e a sostenere i movimenti liberali che contestavano l’assolutismo e
chiedevano una trasformazione politica in senso liberale e costituzionale.
La Santa Alleanza funzionò efficacemente dal 1815 fino al 1849, in quanto riuscì a soffocare la
maggior parte dei moti rivoluzionari che scoppiarono in questo periodo. Negli anni Cinquanta il
modificarsi dei rapporti tra le potenze europee determinò la crisi della Santa Alleanza e l’inizio di una
nuova fase di relazioni internazionali.
LIMITI DELLA RESTAURAZIONE
«L’ideologia della restaurazione (monarchia assoluta, predominio nobiliare, clericalismo,
organicismo) rappresenta, nonostante quanto detto finora, solo una parte della realtà europea
successiva al 1815. Operazione formale di ritorno alla situazione prerivoluzionaria, la
restaurazione si rivela a volte un’operazione di facciata, che ostacola ma non riesce a soffocare i
fermenti emersi alla fine del Settecento.»
Esaminiamo quali sono i principali limiti del progetto restauratore:
La restaurazione vorrebbe ripristinare una società statica, divisa in ordini stabili,con la prevalenza
politica economica e sociale dell’aristocrazia. Invece lo sviluppo economico avviato nel Settecento
continua, l’industrializzazione avviata in Inghilterra si estende gradualmente al continente, e questa
grande crescita economica modifica la società, esaltando in particolare il borghese imprenditore, che
diventa la figura preponderante dal punto di vista economico; alla società statica di ordini si viene
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progressivamente sostituendo una società dinamica di classi, definite dalla funzione e dalla posizione
economica.
La restaurazione vorrebbe restaurare l’assolutismo, ma abbiamo già visto che in Europa alcuni Stati
adottano invece un sistema politico di monarchia costituzionale. Inoltre in tutti gli Stati europei
sopravvivono nella clandestinità persone, gruppi, movimenti che contestano l’assolutismo
monarchico in nome di idee politiche liberali e / o democratiche.
La restaurazione non ripristina la frammentazione e il particolarismo che caratterizzavano le società
d’Ancien Regime. Da questo punto di vista le riforme attuate dalle monarchie assolute nel Seicento e
nel Settecento (dispotismo illuminato), e le riforme attuate dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica
individuano un’unica tendenza che continua anche nell’età della restaurazione:
la tendenza
all’accentramento del potere e alla burocratizzazione. I governi centrali amministrano tutto il
territorio dello Stato per mezzo dei loro dipendenti (burocrazia), esautorano le autorità locali,
impongono una legislazione unica, assumono nuove competenze (lavori pubblici, giustizia, scuola
ecc.). La centralizzazione del potere implica la costituzione di grandi apparati burocratici, il cui
personale forma un nuovo ceto medio.
LE SOCIETA’ SEGRETE
Nel periodo 1815-1830 l’opposizione liberale e democratica all’assolutismo (non potendosi
esprimere pubblicamente) diede vita a organizzazioni segrete, con lo scopo di promuovere rivolte per
ottenere dai sovrani riforme politiche in senso liberale e costituzionale.
La più importante società segreta fu la Carboneria, diffusa soprattutto in Italia, ma con ramificazioni
anche in Spagna e in Francia.
La Carboneria era costituita soprattutto da intellettuali, piccoli borghesi e ufficiali dell’esercito che si
erano formati nelle armate napoleoniche: il metodo di lotta della Carboneria consisteva nella
preparazione clandestina di insurrezioni che, una svolta scatenate da parte di piccoli gruppi di
congiurati, avrebbero dovuto provocare più vaste sollevazioni popolari. In realtà i carbonari non
riuscirono mai a coinvolgere le masse nei loro progetti, sia per la rigida segretezza delle loro
iniziative, sia per il carattere elitario dei loro programmi, che non tenevano conto delle esigenze dei
ceti più poveri. Infatti l’obiettivo principale delle rivolte carbonare era ottenere la Costituzione (cioé
il riconoscimento dei diritti civili dei cittadini e l’elezione di assemblee rappresentative).
Inoltre le iniziative della carboneria (e più in generale delle organizzazioni liberali) erano indebolite
dalla ontrapposizione interna tra liberali moderati e democratici.
MOTI INSURREZIONALI 1820-1830
1820/21: in Spagna, in Italia (regno delle Due Sicilie e Regno di Sardegna)
ambedue repressi dalla Santa Alleanza
1821: inizia la rivolta della Grecia contro l’Impero Turco-Ottomano
1825: Russia: fallimento dell’insurrezione dei Decabristi contro lo Zar.
1816/1822: rivoluzione dell’America Latina:
Tutti i paesi dell’America Latina (centro-meridionale) ottengono l’indipendenza dalla Spagna e dal
Portogallo.
1827/29: Francia, Inghilterra e Russia intervengono militarmente contro la Turchia in aiuto dei
Greci: la Turchia riconosce l’indipendenza della Grecia
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1830/31 : moti insurrezionali a Modena e nello Stato pontificio: repressi
Insurrezione in Polonia per l’indipendenza dalla Russia: repressa
Insurrezione in Belgio per l’indipendenza dall’Olanda: ha successo
Rivoluzione in Francia: viene deposto il re Carlo X di Borbone, Luigi Filippo d’Orleans
viene proclamato re dei francesi
IL PENSIERO E I MOVIMENTI POLITICI DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA
Il fallimento della rivoluzione francese, precipitata nel Terrore, e poi nel dispotismo e nell’imperialismo
napoleonico, non aveva però cancellato il valore delle idee e delle esperienze politiche emerse nel corso
della rivoluzione. I principi della rivoluzione francese, e le Costituzioni francesi che li avevano
interpretati, rimasero un punto di riferimento molto forte per il pensiero e i movimenti politici
dell’Ottocento. Questo resta vero anche se gli intellettuali del XIX secolo (anche liberali e democratici,
come il Manzoni e il Mazzini) espressero critiche molto severe sull’esperienza rivoluzionaria francese, e
magari guardarono con maggior favore al modello inglese o americano.
I teorici della Restaurazione: Naturalmente i giudizi più severi furono espressi dai “teorici” della
Restaurazione, tra i quali ricordiamo l’inglese Burke e il savoiardo De Maistre.
Burke contrapponeva la situazione politica inglese all’esperienza rivoluzionaria francese sottolineando il
fatto che le istituzioni politiche inglesi erano il frutto di trasformazioni lente, graduali, che, invece di
rinnegare il passato, si erano fondate sulla tradizione: così il sistema politico inglese derivava addirittura
dal Medioevo, dalla Magna Charta Libertatum. L’errore della rivoluzione francese era stato invece il
rifiuto del passato, la frattura violenta con la tradizione, la pretesa di costruire un sistema politico
esclusivamente sulla base di un’ideologia razionalistica, senza tener conto della base storica reale.
(Burke pertanto dava un’interpretazione riformista, non rivoluzionaria, delle trasformazioni politiche
avvenute in Inghilterra nel XVII secolo).
De Maistre condannava in blocco la rivoluzione francese, vedendo in essa la conseguenza estrema del
pensiero moderno che (a partire dalla Riforma protestante) aveva rifiutato il principio di autorità e
quindi aveva distrutto le basi della religione e della convivenza civile. Secondo De Maistre
l’assolutismo monarchico e le gerarchie sociali avevano un fondamento religioso e quindi solo un
recupero della fede religiosa avrebbe potuto consolidare le monarchie restaurate e garantire l’ordine e la
pace negli Stati cristiani. Questa ideologia politica risentiva naturalmente della rivalutazione della
religione e della fede attuata dal Romanticismo ottocentesco, ma sul piano pratico si traduceva spesso in
un’ alleanza tra il trono e l’altare, finalizzata alla conservazione delle strutture politiche e sociali
dell’Ancien Regìme. Significativa al riguardo è la vicenda della Santa Alleanza: istituita per
salvaguardare e promuovere la civiltà cristiana in Europa, divenne di fatto uno strumento di repressione
dei movimenti rivoluzionari.
I movimenti di opposizione all’assolutismo
Possiamo sommariamente distinguere, nel multiforme movimento politico di opposizione all’assolutismo
e alla restaurazione , due tendenze: una tendenza liberale, che ha le sue radici nella filosofia politica di
John Locke, di Montesquieu e nella Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688, e una tendenza democratica,
che trae origine soprattutto dal pensiero di Rousseau e dalla fase giacobina della Rivoluzione Francese.
Nella tendenza liberale l’accento cade sulla tutela della libertà e dei diritti naturali dell’individuo, e sulle
condizioni politiche (prima di tutte la separazione dei poteri) che impediscono il dispotismo e quindi la
prevaricazione dei diritti naturali.
Nella seconda tendenza l’accento cade piuttosto sul principio della sovranità popolare, e quindi sulle
condizioni che permettono la partecipazione di tutto il popolo alla vita politica (elezioni a suffragio
universale, referendum, associazioni politiche, istruzione, libertà di stampa ecc.) .
Di fatto poi le due tendenze possono convergere, e oggi i sistemi politici di gran parte dell’Europa e
dell’America sono liberal-democratici, ma nell’Ottocento le due tendenze spesso erano distinte: in
particolare possiamo evidenziare queste differenze:
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LIBERALI MODERATI: sostengono: la libertà e i diritti individuali, che devono essere garantiti da
una carta costituzionale; l’eguaglianza giuridica e fiscale, ma non politica, dei cittadini; la laicità dello
Stato; la necessità di controllare e limitare l’esercizio del potere, per evitare il dispotismo; il principio
della separazione dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario); l’attribuzione del potere legislativo a
un’assemblea rappresentativa eletta a suffragio censitario (in quanto solo i cittadini benestanti hanno
competenze e indipendenza di giudizio che permettano un esercizio responsabile del diritto di voto).
In campo economico generalmente sono liberisti, proprio perché affermano il diritto alla proprietà e la
libertà economica dei cittadini e intendono sottrarre tale libertà ai condizionamenti e ai vincoli
dell’autorità politica. Invece non ritengono, per lo più, che i problemi sociali debbano essere risolti con
interventi politici.
I modelli politici a cui si riferiscono sono soprattutto la Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688 e la
Costituzione francese del 1791.
DEMOCRATICI: condividono generalmente le aspirazioni politiche dei liberali esposte sopra, però
affermano prioritariamente il principio della sovranità popolare, e quindi l’esigenza che tutto il popolo
possa partecipare all’esercizio della sovranità, del potere, attraverso le elezioni a suffragio universale, e
attraverso tutti gli strumenti della partecipazione politica: referendum, associazioni politiche, giornali,
manifestazioni ecc.
Di solito sono repubblicani, quindi sono contrari alla monarchia, anche alla monarchia costituzionale,
perché qualsiasi autorità politica deve essere espressione della sovranità popolare (il monarca invece
ottiene la sovranità per successione dinastica, non per designazione popolare).
Sui problemi economici e sociali condividono generalmente le teorie liberiste: sostengono la libertà
economica e il diritto alla proprietà, però ammettono che l’autorità politica possa regolamentare
l’esercizio di tali diritti in nome dell’interesse generale e per affrontare le situazioni sociali più gravi.
Il riferimento politico più importante per i democratici è la Costituzione francese del 1793.
I principali motivi di contrasto fra liberali moderati e democratici nell’Ottocento erano quindi il
problema del suffragio (censitario o universale) e il problema della sovranità (regia o popolare,
monarchia o repubblica).
Naturalmente esistevano posizioni politiche intermedie: per esempio quella dei liberali radicali inglesi,
liberali per l’affermazione intransigente dei diritti e della libertà individuale, ma fautori del suffragio
universale, oppure quella del francese Alexis De Tocqueville, democratico, ma consapevole dei rischi di
omologazione e massificazione presenti nelle società democratiche.
Un’altra tendenza politica molto importante nell’Ottocento è quella socialista, che però giunge a
esprimersi in concreti programmi e azioni politiche più tardi (negli anni Quaranta) rispetto alle tendenze
già esaminate. I socialisti si propongono di costruire una società egualitaria, in cui siano superate le
contraddizioni e le ingiustizie sociali che l’industrializzazione ha accentuato invece di risolvere. Anche i
socialisti hanno un riferimento ideale nella rivoluzione francese: la congiura degli Eguali di Gracco
Babeuf e Filippo Buonarroti. Tuttavia i socialisti sono anche collegati, più o meno strettamente, al
movimento operaio, alle sue rivendicazioni e alle sue lotte. Anche il pensiero socialista presenta una
varietà di indirizzi e e di proposte, che esamineremo più avanti.
IL PRINCIPIO DI NAZIONALITA’
Il pensiero politico dell’Ottocento assume i temi dei diritti umani, della libertà e dell’eguaglianza, della
democrazia dalle ideologie e dalle esperienze rivoluzionarie del Settecento. Nel pensiero politico
ottocentesco emerge però anche il tema della libertà e dei diritti dei popoli, delle nazioni. La nazione,
vale a dire una popolazione accomunata e contraddistinta da una serie di caratteri nazionali (lingua,
religione, caratteri etnici, cultura e tradizioni, interessi economici, collocazione storica su un certo
territorio) vien vista come un’entità che, alla pari degli individui, deve realizzarsi anche politicamente.
Una nazione può realizzarsi politicamente quando è unita e libera (indipendente), vale a dire quando
costituisce uno Stato. La consapevolezza della nazionalità esisteva anche nei secoli precedenti, ma
l’Ottocento pone il mito e l’esigenza dello Stato-nazione: i grandi Stati plurinazionali (come l’impero
austriaco) e e le grandi nazioni frammentate in piccoli Stati (come l’Italia e la Germania) vengono
considerati situazioni innaturali, artificiose, ingiuste, da superare con la costruzione di Stati nazionali.
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Il tema della nazione e dello Stato nazionale emerge nei primi anni dell’Ottocento per diversi motivi: la
Francia, che con la rivoluzione è diventata “il” modello politico per tutti gli avversari dell’Ancien
Regime, è uno Stato nazionale con una tradizione secolare di identificazione fra organizzazione statale e
comunità nazionale; d’altra parte la dominazione napoleonica in Europa ha suscitato sentimenti
nazionali anche per reazione, così come è avvenuto in Spagna e in Germania; ma soprattutto il
Romanticismo, con la sua polemica antiilluministica e con la sua rivalutazione delle tradizioni, della
storia, della religione ecc. pone in particolare risalto l’appartenenza dell’individuo a una comunità
nazionale, e giunge perfino a considerare la nazione come un organismo che trascende gli individui che
la costituiscono.
L’idea di nazione e di Stato nazionale nell’Ottocento fu il movente principale dell’azione politica in
Italia, in Polonia, in Grecia e in Germania, cioè in quelle situazioni in cui le nazioni erano politicamente
divise oppure erano sottomesse a uno Stato straniero.
La lotta per l’unità e l’indipendenza nazionale si saldò con la lotta contro l’assolutismo, per la libertà e i
diritti individuali, quindi nella prima metà del secolo l’idea nazionale non servì, quasi mai, a giustificare
politiche autoritarie e di potenza. Solo a partire dalla seconda metà del secolo l’idea nazionale cominciò
a trasformarsi in nazionalismo, vale a dire nell’ideologia che propugnava l’affermazione della nazione in
termini di potenza, di supremazia e di dominio, e che giustificava l’uso della forza e la prevaricazione
dei diritti in nome del “supremo interesse nazionale” o del “sacro egoismo nazionale”.
I TEORICI DEL RISORGIMENTO ITALIANO
LA CRISI DELLE SOCIETA' SEGRETE
Dopo il fallimento delle congiure e dei vari tentativi insurrezionali organizzati in Italia nel decennio
1820-1830 dalle società segrete (Carboneria, Società dei Sublimi Maestri Perfetti e altre), queste ultime
entrarono in crisi: divenne chiaro che le società segrete non erano in grado di modificare l'ordinamento
politico degli stati italiani e nello stesso tempo gli obiettivi delle società segrete apparvero troppo
limitati. Ricordiamo che le società come la Carboneria operavano con la massima segretezza, che
investiva non solo i nomi degli affiliati ma anche programmi e obiettivi: in tal modo l'azione politica
delle società coinvolgeva solo gruppi molto ristretti di cittadini, e la maggioranza della popolazione
rimaneva estranea ai moti rivoluzionari progettati dalle società; in secondo luogo non esisteva un
coordinamento efficace fra le società segrete degli stati italiani, per cui risultava impossibile organizzare
un moto rivoluzionario che investisse tutta la penisola; infine le società si ponevano l'unico obiettivo di
ottenere dai sovrani la concessione di un ordinamento politico costituzionale, si "fidavano" troppo delle
promesse dei sovrani e non miravano all'unificazione politica della penisola. Negli anni Trenta alcuni
intellettuali italiani cominciarono pertanto a riflettere sulla situazione politica italiana e sui modi per
trasformarla in senso liberale e unitario.
IL PROGRAMMA NEOGUELFO
Il religioso piemontese Vincenzo Gioberti pubblicò nel 1843 un libro dal titolo "Del primato morale e
civile degli italiani", in cui sosteneva che la grandezza dell'Italia era sempre stata legata alla presenza
del Papa nella penisola (per esempio la massima prosperità e potenza politica era stata raggiunta nel
Medioevo dall’Italia comunale alleata con il Papa contro l’imperatore); pertanto per rinnovare
politicamente l’Italia occorreva valorizzare il ruolo del Papato. Gioberti proponeva pertanto di
costituire uno Stato italiano federale di cui fosse presidente il papa stesso: gli Stati regionali (e i
loro sovrani) sarebbero rimasti, ma confederati e sottoposti alla presidenza del papa.
Il programma di Gioberti era piuttosto utopistico perché non era affatto scontato che i sovrani
italiani fossero disponibili a confederarsi, e soprattutto non era pensabile che l'Austria si ritirasse
dall’Italia o accettasse l’unificazione politica della penisola. Ciò nonostante il programma di Gioberti
ebbe grandissimo successo presso i "patrioti" italiani perché sembrò perfettamente aderente alle
tradizioni e alle necessità italiane, in quanto era rispettoso delle forti differenze esistenti fra le regioni
italiane, e valorizzava la religione cattolica che effettivamente costituiva il solo fattore unificante
veramente radicato in tutta la popolazione italiana.
IL PROGRAMMA MODERATO
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Altri due piemontesi, Massimo D’Azeglio e Cesare Balbo, colsero l’aspetto utopistico del pensiero di
Gioberti e sostennero che l’unificazione politica doveva essere guidata da un sovrano che disponesse di
forza militare per opporsi all'Austria: secondo Balbo e D’Azeglio solo i Savoia in Italia avevano
sufficienti forze militari per scacciare gli Austriaci dalla penisola, e inoltre rientrava nelle tradizioni
della dinastia sabauda un atteggiamento antiaustriaco e una propensione ad espandersi nella penisola.
Secondo il progetto di Balbo e D’Azeglio quindi l’unificazione poteva avvenire grazie
all’espansione politica e militare del Regno di Sardegna: era un progetto certamente più realistico di
quello neoguelfo (e fu questo progetto che infine ebbe successo), ma era anche un progetto che faceva
dipendere l’unità italiana dalle armi di un re piuttosto che dall’iniziativa popolare: in questa prospettiva
il processo unitario non teneva conto delle differenze regionali e rischiava di esser vissuto da una buona
parte della popolazione italiana come un’imposizione .
GIUSEPPE MAZZINI
Giuseppe Mazzini, genovese, affiliato della Carboneria, fu arrestato ed esiliato; in esilio meditò
sulla sua esperienza e si convinse che gli obiettivi e i metodi delle società segrete erano del tutto
inadeguati per la situazione italiana (per le ragioni su esposte). Decise pertanto di costituire una nuova
associazione patriottica, dai programmi e dai metodi completamente nuovi: la nuova associazione,
denominata Giovine Italia, venne fondata a Marsiglia nel 1831. Gli obiettivi mazziniani, che la
Giovine Italia doveva realizzare, erano: UNITA', INDIPENDENZA, REPUBBLICA.
Mazzini aveva una concezione romantica della nazione, per lui la nazione era un organismo vivente,
animato da uno spirito divino, portatore di una missione storica; era quindi necessario prima di tutto
che il popolo italiano ritrovasse la sua identità nazionale attraverso l'unificazione politica, e che si
liberasse dalla dominazione straniera; per Mazzini l'unità della nazione era un valore sacro, e per
questo egli non ammetteva nulla che potesse indebolire tale unità: per questo era contrario al
federalismo, per questo, pur comprendendo le rivendicazioni dei lavoratori, era contrario alla "lotta
di classe" proposta da Marx, perché temeva che i conflitti sociali incrinassero l’unità nazionale.
Mazzini inoltre sosteneva un ordinamento repubblicano e democratico dello stato italiano, era
contrario all’assolutismo, ma anche alle monarchie costituzionali, perché era convinto che in tutti i
casi la monarchia limitasse la sovranità popolare; voleva che un’assemblea costituente eletta a
suffragio universale decidesse l’assetto istituzionale dell'Italia. Per Mazzini comunque l’unità e
l’indipendenza erano obiettivi prioritari rispetto alla repubblica e di fatto egli si dimostrò poi
disponibile a compromessi sul terzo obiettivo.
Il metodo propugnato da Mazzini per il conseguimento dei suoi obiettivi era condensato nello slogan
"Pensiero e azione": "pensiero" significava che bisognava educare il popolo perchè prendesse
coscienza della sua identità nazionale, attraverso la propaganda, i giornali clandestini ecc. Per questo
anche la Giovine Italia non doveva essere coperta da eccessiva segretezza, anzi doveva diffondere fra i
cittadini i suoi programmi e le idee patriottiche; "azione" significava che la Giovine Italia doveva
promuovere rivoluzioni popolari per abbattere i sovrani e per conseguire unità, indipendenza,
repubblica (Mazzini non aveva fiducia nelle riforme attuate dall'alto, per lui il popolo stesso doveva
conquistarsi la libertà), le rivoluzioni poi avevano un senso anche quando fallivano, perché il
"sacrificio" dei patrioti insorti costituiva un esempio per tutti i cittadini, e quindi aveva un grande
valore educativo.
Mazzini fu sensibile al problema sociale (cioè al problema della povertà e dello sfruttamento dei
contadini e degli operai): propose una riforma agraria per distribuire le terre dei grandi latifondi ai
contadini e costituì delle Società operaie per educare e aiutare materialmente i lavoratori; però,
come abbiamo già detto, fu contrario alla lotta di classe e difese la proprietà borghese. Per questo
motivo il mazzinianesimo ebbe scarsa presa nei ceti più bassi della popolazione, nonostante tutti i
tentativi di "educazione popolare"; inoltre le "masse" erano generalmente fedeli al cattolicesimo e
perciò erano diffidenti nei confronti del mazzinianesimo che era aspramente anticlericale e che
propugnava una specie di religione ”civile” della patria.
Il pensiero del Mazzini ebbe quindi successo soprattutto fra la borghesia e fra gli intellettuali.
Il Mazzini conferì un valore sacro alla patria e all’impegno politico, e quindi determinò, nei suoi
giovani seguaci, un atteggiamento di fervore religioso e di dedizione ascetica nei confronti della causa
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nazionale: non furono pochi quelli che trovarono la morte (anzi il “martirio”) in azioni rivoluzionarie
tanto generose quanto insensate.
CARLO CATTANEO
Il milanese Carlo Cattaneo, al contrario di Mazzini, aveva una visione molto “laica” e pratica della
questione italiana; era convinto che le trasformazioni politiche dovevano essere precedute e preparate
dal progresso civile, economico e sociale, e quindi attribuiva grande importanza a questioni
pratiche come lo sviluppo scientifico e tecnologico, le trasformazioni economiche e produttive ecc.
Il programma politico di Cattaneo, che venne elaborato compiutamente solo dopo il '48, prevedeva
uno Stato nazionale democratico, repubblicano, federale: questo programma nasceva dalla
convinzione che la storia italiana fosse caratterizzata in positivo dall’esperienza di libertà e di
autonomia dei Comuni medievali.
Cattaneo condivideva il federalismo di Gioberti, ma si distingueva da lui perché respingeva il
moderatismo e voleva abbattere le monarchie: secondo lui solo la repubblica permetteva la
realizzazione dei principi di sovranità popolare e di democrazia.
Del programma mazziniano Cattaneo condivideva, ovviamente, l'idea repubblicana, ma respingeva
l’idea di unità indifferenziata e centralistica; egli riteneva che uno stato federale fosse più adeguato alla
situazione italiana che presentava notevoli differenze regionali.
Schematicamente possiamo così riassumere le posizioni risorgimentali
1) GIOBERTI: Italia = federazione di monarchie
2) MAZZINI: Italia = repubblica unitaria
3) BALBO - D’AZEGLIO: Italia = monarchia unitaria
4) CATTANEO: Italia = federazione di repubbliche
IL QUARANTOTTO
LA CRISI ECONOMICA DEGLI ANNI QUARANTA
In Europa dopo il Congresso di Vienna avevano cominciato a diffondersi quelle innovazioni
produttive (nell’agricoltura e nell’industria) che avevano caratterizzato l’economia inglese nel
Settecento. In particolare l’industrializzazione si era affermata in Francia, in Belgio e in alcune regioni
tedesche. In Italia lo sviluppo industriale era stato minimo, però si era attuata una notevole
modernizzazione delle tecniche agricole nelle regioni settentrionali.
Le innovazioni produttive determinavano gravi problemi sociali: la modernizzazione agraria riduceva il
numero degli agricoltori e quindi molti contadini perdevano il lavoro; l’industrializzazione assorbiva
questa mano d’opera, ma gli operai delle industrie erano costretti a lavorare in condizioni ambientali
pessime, con orari massacranti e salari bassissimi (venivano inoltre impiegati nelle fabbriche anche
donne e bambini, con salari ulteriormente ridotti). Nasceva così il proletariato, cioè la classe dei
lavoratori nullatenenti, che abitavano nelle periferie delle città industriali e vivevano in condizioni
penose di povertà, di asservimento, di ignoranza (ricordiamo che la legislazione del tempo non
prevedeva nessun tipo di assicurazione sociale e di pensione: in caso di malattia, di infortunio, di
disoccupazione, di invalidità l’operaio poteva contare solo sui soccorsi degli altri lavoratori - che
ben presto si organizzarono in sindacati e associazioni solidaristiche - e delle organizzazioni religiose).
Si verificava quindi un paradosso: il progresso produttivo incrementava la ricchezza globale e la
ricchezza dei proprietari di terreni e di fabbriche, ma produceva anche un peggioramento delle
condizioni di vita di migliaia di lavoratori. Per risolvere questa contraddizione e per costruire una
società più giusta molti intellettuali proposero il socialismo, cioè una nuova organizzazione politica
ed economica che eliminasse dalla società l’ingiustizia e lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei
proprietari (il socialismo però non si presentava come un’ unica teoria ma come un insieme
variegato di teorie e di ipotesi riformatrici o rivoluzionarie).
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Dopo il 1840 si verificò la prima grave crisi economica determinata dallo sviluppo industriale. Infatti
lo sviluppo industriale portò a una produzione di merci eccedenti le possibilità di assorbimento del
mercato: la maggior parte della popolazione aveva un reddito molto basso e quindi poteva acquistare
i prodotti industriali in misura molto ridotta, e quando poi si verificava un calo della produzione
agricola e una crescita di prezzo dei prodotti agricoli, il reddito della maggior parte delle famiglie
veniva impiegato quasi esclusivamente nell'acquisto di generi alimentari. Così i manufatti industriali
rimanevano invenduti e gli imprenditori dovevano ridurre la produzione licenziando una parte degli
operai o addirittura chiudendo le fabbriche.
In tal modo si crearono tensioni sociali: la protesta dei lavoratori sfruttati ed esposti al rischio del
licenziamento si aggiunse alla protesta di quanti chiedevano una riforma in senso liberale o
democratico dell'ordinamento politico e di quanti chiedevano l'unità o l'indipendenza nazionale.
Naturalmente il movimento operaio e le prospettive socialiste potevano avere qualche peso solo dove si
era già realizzato un certo sviluppo industriale: così nella rivoluzione parigina del 1848 proletari e
socialisti svolsero un ruolo importante, anche se poi vennero sconfitti; nelle rivoluzioni che
scoppiarono, sempre nel '48, in Germania, nell’Impero austriaco e in Italia, invece il ruolo dei proletari
e della protesta sociale fu irrilevante rispetto al ruolo giocato dalla borghesia e dalla protesta politica.
IL QUARANTOTTO IN FRANCIA
In Francia nel 1830 una rivoluzione aveva abbattuto la restaurata monarchia borbonica e aveva portato
sul trono Luigi Filippo d’Orléans “re per grazia di Dio e per volontà della nazione”. La monarchia
liberale di Luigi Filippo era certamente uno dei regimi meno oppressivi in Europa, ma aveva comunque
un carattere fortemente moderato e oligarchico, per cui suscitava l’opposizione di un vasto fronte di
forze politiche (liberali progressisti, democratici, bonapartisti, socialisti) che chiedevano il suffragio
universale. A questa rivendicazione politica si aggiungeva la protesta sociale per la crisi economica
che pesava gravemente (come abbiamo detto sopra) sulle masse popolari.
La rivoluzione scoppiò a Parigi il 22 febbraio 1848: dopo due giorni di barricate e di violenti scontri il
re Luigi Filippo fuggì e si costituì un governo provvisorio che proclamò la Repubblica (la cosiddetta
Seconda Repubblica, dopo quella del 1792) e promise la convocazione di un’Assemblea Costituente da
eleggere a suffragio universale.
Nel governo provvisorio, oltre ai liberali progressisti e ai democratici, erano presenti due socialisti: il
governo quindi, per venire incontro alle richieste dei lavoratori parigini che avevano partecipato alla
rivoluzione contro Luigi Filippo, fissò la durata massima della gironata lavorativa (11 ore), affermò il
principio del diritto al lavoro e istituì gli ateliers nationaux (officine statali, in cui dovevano essere
occupati i lavoratori colpiti dalla disoccupazione). Gli ateliers nationaux costituivano il primo esempio
di intervento diretto dello Stato nel mercato della manodopera ed erano osteggiati dai liberali perché
considerati incompatibili con i principi del liberismo economico; inoltre dal punto di vista produttivo
erano assai poco efficienti, e quindi molto onerosi per le finanze dello Stato.
Nell’aprile vennero fatte le elezioni a suffragio universale, vinte dai repubblicani moderati (grazie al
voto delle province, generalmente molto più conservatrici della popolazione di Parigi); i socialisti furono
sconfitti e quindi vennero estromessi dal governo, che poi decise la chiusura degli ateliers nationaux.
I lavoratori di Parigi allora insorsero nuovamente, erigendo barricate nei quartieri popolari.
L’Assemblea Costituente ordinò la repressione, che fu attuata dall’esercito con spietata durezza.
L’Assemblea Costituente approvò in seguito una Costituzione democratica, modellata su quella
americana, che prevedeva un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo con un mandato
di quattro anni e un’assemblea legislativa eletta anch’essa a suffragio universale.
Le successive elezioni presidenziali furono vinte da Luigi Napoleone Bonaparte, nipote dell’imperatore,
che attirò su di sè i consensi dei conservatori e moderati, ma anche di strati popolari suggestionati dal
mito napoleonico. Luigi Napoleone attuò una politica conservatrice e autoritaria in Francia, e riuscì nel
giro di pochi anni a trasformare la carica di Presidente della Repubblica in dittatura personale; al
contrario in politica estera cercò di sovvertire l’ordine geo-politico del Congresso di Vienna, cercando di
restituire alla Francia un primato continentale e di ridurre l’egemonia austriaca.
Nel 1851 Napoleone sciolse la Camera e modificò la Costituzione, ampliando i poteri e la durata del
mandato del Presidente.
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Nel 1852 restaurò l’impero, assumendo il titolo di imperatore Napoleone III, con diritto di trasmissione
ereditaria.
Sia il colpo di Stato del 1851, sia la proclamazione dell’Impero furono approvati dall’elettorato francese
con plebisciti. Napoleone quindi istituì una specie di “dittatura democratica”, cercando un consenso
popolare che legittimasse un potere accentrato e illimitato.
LA RIVOLUZIONE NEL CENTRO-EUROPA
In marzo il moto rivoluzionario si propagò all’Impero asburgico (Austria), agli Stati italiani e alla
Confederazione germanica.
IMPERO AUSTRIACO: in seguito allo scoppio di tumulti a Vienna, Metternich dovette lasciare il
potere e venne concesso un parlamento dell’Impero.
In Ungheria la rivoluzione ebbe un accentuato carattere autonomistico: il governo rivoluzionario
ungherese proclamò l’indipendenza dall’impero austriaco. Anche a Praga furono avanzate , sia pure in
forma meno accentuata, rivendicazioni di autonomia.
La repressione militare della insurrezione di Praga nel giugno 1848 segnò l’inizio della riscossa
imperiale. L’imperatrore Ferdinando I abdicò e il nuovo imperatore, Francesco Giuseppe, sciolse il
Parlamento e promulgò una costituzione moderata, che prevedeva un parlamento eletto a suffragio
ristretto e dotato di poteri limitati.
La rivoluzione indipendentistica ungherese fu repressa nel 1849 con l’intervento degli eserciti austriaco
e russo.
GERMANIA: la rivoluzione scoppiò a Berlino, capitale della Prussia, e costrinse il re prussiano
Federico Guglielmo IV a fare alcune limitate concessioni al movimento liberale. Nel frattempo a
Francoforte si riunì un’Assemblea Costituente con l’obiettivo di avviare un processo di unificazione
nazionale tedesca. L’Assemblea di Francoforte optò per la soluzione “piccolo-tedesca” (che
comportava l’esclusione dell’Austria dalla Germania unificata) e offrì la corona imperiale tedesca al re
di Prussia Federico Guglielmo IV. Questi però rifiutò la corona (non voleva un’investitura “dal
basso”) e il suo rifiuto di fatto determinò il fallimento del progetto di unificazione e la fine
dell’Assemblea .
IL QUARANTOTTO IN ITALIA
In Italia la situazione politica non era sostanzialmente cambiata dal Congresso di Vienna: tutti i
tentativi rivoluzionari attuati prima dalla Carboneria e poi dalla Giovine Italia non avevano conseguito
nessun risultato, nessuna riforma, in tutti gli stati italiani vigeva dunque l'assolutismo, non era stato
fatto nessun passo avanti verso l'unificazione, gli Austriaci dominavano incontrastati il LombardoVeneto e controllavano tutta la penisola, che anche dal punto di vista economico era molto arretrata.
Dopo il 1840 però si registrò un certo sviluppo economico, prevalentemente agrario, in Piemonte: il
Regno di Sardegna stipulò anche trattati commerciali con Inghilterra e Francia riducendo invece i
rapporti economici con l'Austria.
La Lombardia era la più ricca regione italiana, ma la sua economia non poteva svilupparsi perché
era asservita all'economia austriaca ed era imbrigliata dai vincoli doganali e fiscali imposti dall'Austria.
Nel 1846 divenne papa Pio IX (già noto per le sue idee moderatamente liberali e nazionali) il quale
subito concesse un'amnistia ai detenuti politici, concesse la libertà di stampa e una consulta, cioè
un'assemblea rappresentativa: questi gesti furono accolti con entusiasmo dai "patrioti" italiani, che
pensarono che Pio IX potesse diventare la guida del rinnovamento politico italiano, secondo la
prospettiva neoguelfa.
Il 1848 fu inaugurato in Italia dall’insurrezione di Palermo del 12 gennaio che costrinse il re Ferdinando
II Borbone a concedere la Costituzione. In febbraio e in marzo Costituzioni o Statuti furono concessi
anche a Firenze, a Torino e a Roma: si trattava di costituzioni che concedevano ai sudditi limitatissimi
diritti civili e politici e che lasciavano ai re poteri molto ampi , ma che comunque rappresentavano,
finalmente, il passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale.
Esaminiamo brevemente lo Statuto albertino, concesso dal re di Sardegna Carlo Alberto; tale
statuto divenne successivamente (nel 1861) la legge fondamentale del Regno d'Italia e rimase in vigore
fino al 1946.
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Lo Statuto albertino prevedeva la classica distinzione dei tre poteri. Il potere legislativo era attribuito
al parlamento formato dal senato e dalla camera dei deputati; i senatori erano tutti nominati dal re, i
deputati erano eletti dai cittadini maschi più ricchi e ragguardevoli (aveva diritto di voto circa il due
per cento della popolazione. Il potere esecutivo era attribuito al governo; il capo del governo era
nominato dal re e rispondeva al re (non al parlamento), anche se, dal Cavour in poi, i capi del
governo cercarono sempre di avere il sostegno della maggioranza parlamentare. Il potere esecutivo
era demandato ai magistrati, nominati dal re, ma inamovibili. E' quindi evidente che il re conservava
un enorme potere, in quanto nominava il capo del governo, la magistratura e metà del parlamento,
ed inoltre poteva opporre il veto agli atti del governo e del parlamento.
LA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA
Nel clima di entusiasmo patriottico determinato dalla concessione degli Statuti, Milano e Venezia
(seguendo l'esempio di Berlino, Vienna, Budapest ecc.) insorsero contro l'Austria il 17 e il 18 marzo
1848: i cittadini alzarono le barricate e in pochi giorni riuscirono a cacciare fuori dalle città le
truppe austriache. Tuttavia era prevedibile che le truppe austriache, ricevuti rinforzi da Vienna,
attaccassero le città liberate, pertanto gli insorti chiesero l'aiuto del Piemonte; l'intervento piemontese
era però sollecitato anche per altri motivi: i patrioti milanesi liberal-moderati (appartenenti all'alta
borghesia o all'aristocrazia) temevano che la rivoluzione prendesse una piega democratica e
repubblicana, e quindi consideravano l'intervento del re di Sardegna necessario anche per indirizzare la
rivoluzione in senso monarchico e moderato.
Il 23 marzo '48 Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria ed entrò in Lombardia, mentre truppe di
volontari venivano mandate anche dallo Stato della Chiesa, dalla Toscana e da Napoli, sembrava così
che si realizzasse la prospettiva federale, cioè tutti gli Stati italiani concorrevano a scacciare gli
stranieri dalla penisola.
Tuttavia, dopo alcuni iniziali successi (Carlo Alberto entrò trionfalmente a Milano), le truppe italiane
cominciarono a incontrare serie difficoltà; il papa Pio IX, preoccupato per le minacce di scisma
religioso provenienti da Vienna, dichiarava che il capo della Chiesa cattolica non poteva fare guerra a
uno Stato cattolico, e ritirava le truppe pontificie, subito imitato dal granduca di Toscana e dal re delle
Due Sicilie: infatti Carlo Alberto aveva dimostrato, con le prime annessioni di territori occupati, di
voler annettere al Piemonte tutti i territori liberati dagli Austriaci, senza tener conto della
partecipazione degli altri Stati italiani e senza prendere in considerazione l'ipotesi di una federazione
italiana, era quindi ovvio che gli altri sovrani italiani non volessero più partecipare a un'impresa di cui
si sarebbe avvantaggiato solo il re di Sardegna.
Carlo Alberto proseguì perciò la guerra da solo, ma fu facilmente sconfitto dall'esercito austriaco che
nel frattempo aveva ricevuto i rinforzi (luglio '48).
Fallito il tentativo regio sabaudo, presero l'iniziativa i democratici mazziniani: a Roma il papa
proseguiva nella politica di riforme nominando capo del governo Pellegrino Rossi, un liberale
moderato; i mazziniani però non vedevano di buon occhio l’ammodernamento politico e il
rafforzamento dello Stato della Chiesa, sia perché erano contrari in linea di principio al potere
temporale del papato, sia perché la presenza dello Stato della Chiesa rappresentava un ostacolo forte
all'unificazione politica italiana; inoltre Pio IX con il suo voltafaccia nella guerra antiaustriaca aveva
perso la simpatia dei "patrioti". Dunque Pellegrino Rossi fu assassinato e all’inizio del 1849 una
rivoluzione organizzata dalla Giovine Italia scoppiò a Roma e costrinse il papa alla fuga: si costituì la
Repubblica Romana governata dai triumviri Mazzini, Saffi e Armellini, il comando dell'esercito della
repubblica romana fu affidato a Giuseppe Garibaldi.
Anche il tentativo repubblicano tuttavia fallì: venne in soccorso del papa il nuovo presidente francese,
Luigi Napoleone, che voleva presentarsi agli occhi dell'opinione pubblica francese e della diplomazia
internazionale come il tutore della Chiesa. Le truppe francesi sconfissero le truppe Garibaldine e
restaurarono l'autorità del papa a Roma.
Così anche in Italia, come in Germania e nell'Impero austriaco, le rivoluzioni del '48/49 non
conseguirono nessun risultato: tutti i sovrani italiani, eccetto Carlo Alberto, revocarono gli Statuti
concessi e attuarono una politica di repressione nei confronti dei sudditi che, durante il biennio
rivoluzionario, si erano segnalati come "patrioti"; il papa assunse un atteggiamento molto più
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diffidente nei confronti del liberalismo e del movimento nazionale, in quanto riconobbe in esso
tendenze anticlericali ed estremistiche.
IL PIEMONTE DOPO IL QUARANTOTTO
Carlo Alberto, dopo la sconfitta subita dall'Austria (la pace venne stipulata a Milano nel '49, l'Austria
non impose condizioni gravose al Piemonte), abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il
Piemonte fu l'unico stato italiano che mantenne lo Statuto concesso prima della guerra e accolse i
"patrioti" perseguitati negli altri Stati italiani.
Il Piemonte quindi rimase l'unica monarchia costituzionale italiana, anche se occorre dire che il
liberalismo piemontese era molto imperfetto: innanzitutto il re deteneva ampi poteri e solo una
piccolissima parte dei cittadini aveva diritto di voto, e poi il governo agiva spesso in modo autoritario
con scarso rispetto dei diritti civili pur garantiti dallo Statuto (la stampa fu più volte censurata, alcune
elezioni vennero invalidate perché erano stati eletti deputati sgraditi al governo ecc.).
Il Piemonte continuò anche la politica di sviluppo economico già iniziata negli anni quaranta. In
particolare il conte Camillo Benso di Cavour, prima come ministro poi come capo del governo, si
impegnò a fondo in questo senso: favorì lo sviluppo dell'agricoltura, creò infrastrutture (ferrovie,
canali di navigazione e d’irrigazione, porti), favorì i primi insediamenti industriali, adottò un
indirizzo economico liberista. Per attuare questa politica ricorse a prestiti e finanziamenti francesi e
inglesi. Cavour si premurò anche di rafforzare e modernizzare l'esercito. Tutto ciò comportava
ovviamente un forte indebitamento del Regno di Sardegna.
Cavour adottò anche alcune misure di politica ecclesiastica: eliminò alcuni privilegi della Chiesa e
soprattutto soppresse gli ordini religiosi contemplativi incamerando le loro proprietà (per ridurre il
deficit dello Stato); quest'atto fu considerato dai cattolici una grave intrusione del governo nella vita
della Chiesa, una limitazione della libertà religiosa, un attentato alla proprietà privata (che i
liberali proclamavano di voler difendere); la politica piemontese nei confronti degli ordini religiosi
(soppressione, espropriazione dei beni) determinò un atteggiamento ostile della Chiesa e del papato
nei confronti del Piemonte e del processo di unificazione nazionale attuato dal Piemonte: si gettavano
così le basi del grave e lungo contrasto fra lo Stato italiano (che si costituirà nel 1861 grazie
all'iniziativa militare e diplomatica del regno di Sardegna) e i cattolici italiani.
Per quanto riguarda il problema nazionale Cavour aveva idee precise: l'unificazione politica italiana era
una necessità storica, era quindi necessario che le forze politiche e sociali moderate e conservatrici si
rendessero protagoniste del processo di unificazione, per non lasciare la guida del processo unitario
ai repubblicani democratici o ancor peggio ai socialisti; c'era infatti il pericolo che il processo unitario
divenisse anche l'occasione e lo strumento per avviare radicali trasformazioni politiche e sociali.
Cavour quindi sfruttava lo spauracchio della rivoluzione repubblicana o socialista per convincere i
moderati e i conservatori ad appoggiare la politica unitaria del governo piemontese. L’unificazione
secondo Cavour non doveva attuarsi per mezzo di rivolte popolari, ma per mezzo della progressiva
estensione del Regno di Sardegna che doveva annettersi, pezzo dopo pezzo, tutta la penisola, fino a
trasformarsi in Regno d’Italia. Cavour si rendeva conto però che il Piemonte non aveva sufficiente
forza militare per battere l’Austria (tanto più che non voleva avvalersi di rivoluzioni popolari); per
questo era necessario che il Piemonte trovasse degli alleati in campo internazionale, e precisamente per
questo motivo Cavour entrò in guerra nel 1854 a fianco della Francia e dell’Inghilterra contro la
Russia: era una guerra che si combatteva in Crimea e che non poteva dare alcun vantaggio al Piemonte.
Però la partecipazione piemontese (i bersaglieri si distinsero particolarmente durante la guerra) servì
ad attirare sul piccolo stato sabaudo la simpatia francese ed inglese.
Nel 1858 Cavour mise a frutto questa simpatia firmando un’alleanza con Napoleone III (cioè Luigi
Napoleone): l’alleanza prevedeva che se il Piemonte fosse stato attaccato dall’Austria la Francia
sarebbe entrata in guerra a fianco del Piemonte, e prevedeva inoltre una spartizione della penisola
italiana tra Francia e Piemonte: il Piemonte avrebbe avuto tutta l’Italia settentrionale, l’Italia centrale e
quella meridionale sarebbero passate sotto il controllo della Francia, che inoltre avrebbe ottenuto dal
Piemonte la Savoia e Nizza.
Napoleone III aveva stipulato questa alleanza perché voleva emulare le gesta del suo illustre
antenato, voleva quindi affermare la supremazia francese in Europa riducendo il ruolo e la potenza
dell’Austria.
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LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA
Nel 1859 l’Austria, ripetutamente provocata da movimenti di truppe piemontesi sul confine, dichiarò
guerra al Piemonte. Il Piemonte, con l’aiuto delle truppe francesi, contrattaccò e occupò la Lombardia:
si profilava una facile conquista di tutta l’Italia settentrionale.
Frattanto la Toscana e l’Emilia insorte contro i vecchi sovrani chiedevano l’annessione al Piemonte. A
questo punto però Napoleone decise di ritirarsi dalla guerra: gran parte dell'opinione pubblica
francese non approvava l’intervento militare in Italia, perché comportava il sacrificio di soldati
francesi per una causa estranea e perché poteva danneggiare lo Stato della Chiesa, inoltre lo stesso
Napoleone si rese conto che non era realizzabile il progetto di spartizione dell’Italia fra Piemonte e
Francia, in quanto gli Italiani non avrebbero accettato una dominazione francese. Ritiratasi la
Francia, il Piemonte non era in grado di sostenere da solo la guerra contro l’Austria e dovette chiedere
la pace: il Regno di Sardegna ottenne, anche grazie all’appoggio della diplomazia inglese, la
Lombardia, la Toscana e l'Emilia, però dovette concedere alla Francia, come compenso per il suo
aiuto, Nizza e la Savoia.
L’Austria pertanto conservava in Italia il Veneto, il Trentino e il Friuli; rimanevano inoltre nella
penisola lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie sotto la dinastia dei Borbone.
In definitiva la Seconda guerra d’indipendenza, anche se non aveva conseguito un pieno successo,
aveva comunque realizzato un grande passo avanti nell’unificazione politica della penisola; nello
stesso tempo i risultati della Seconda guerra d’indipendenza davano ragione al Cavour e a chi
sosteneva che l’unificazione poteva avvenire solo grazie all’iniziativa sabauda e come progressiva
estensione del Regno di Sardegna (in effetti le regioni “liberate” furono direttamente annesse al Regno
di Sardegna, di cui assunsero leggi, ordinamenti, istituzioni ecc.); ovviamente i repubblicani e i
federalisti erano delusi e scontenti di questa soluzione; l’ultimo tentativo di imprimere una direzione
diversa al movimento risorgimentale fu attuato da Garibaldi con l’ impresa dei Mille, ma fu, come
vedremo, un tentativo ambiguo che alla fine avvantaggiò solo il re di Sardegna Vittorio Emanuele II.
L'IMPRESA DEI MILLE (1860)
Mentre si concludeva la seconda guerra d’indipendenza in Sicilia era scoppiato un moto antiborbonico;
il governo piemontese, impegnato nelle trattative per la pace con l’Austria, non poteva intervenire
nell’Italia meridionale per appoggiare gli insorti. Giuseppe Garibaldi allora raccolse un esercito di
volontari (circa mille) e con due navi partì dalla Liguria per andare in aiuto dei siciliani. Le operazioni
di Garibaldi (raccolta dei volontari e delle armi, viaggio dalla Liguria alla Sicilia) non vennero
ostacolate né dal governo piemontese né dalle navi della flotta militare inglese presenti nel
Mediterraneo.
Garibaldi poté così sbarcare indisturbato a Marsala. In Sicilia l’esercito dei garibaldini venne
rinforzato dai “picciotti” cioè dai giovani siciliani che correvano ad arruolarsi: in effetti Garibaldi era
considerato un eroe, un liberatore, un condottiero invincibile. Le plebi meridionali si aspettavano da
lui non solo l’abbattimento del regime borbonico assolutistico, ma anche una radicale riforma sociale
ed agraria che riducesse il divario fra i grandi proprietari latifondisti e i miseri “cafoni”. Garibaldi
ottenne importanti successi militari contro le truppe borboniche, successi che gli consentirono di
conquistare prima Palermo, poi tutta la Sicilia, e poi tutto il Regno delle Due Sicilie, fino a Napoli.
Garibaldi però non attuò la riforma agraria desiderata dalla parte più povera della popolazione, anzi
represse duramente alcuni tentativi di rivolta sociale sfociati nell’uccisione dei latifondisti; il fatto è
che Garibaldi non voleva alienarsi l’appoggio degli Inglesi (che in Sicilia avevano molte proprietà
terriere) e voleva guadagnarsi l’appoggio dei notabili meridionali, in tal modo però perse lentamente
il grande favore popolare di cui aveva goduto all’inizio dell’impresa.
Giunto a Napoli Garibaldi si trovò di fronte a una scelta da fare: consegnare tutte le terre conquistate a
Vittorio Emanuele II, oppure cercare di conquistare anche lo Stato della Chiesa e costituire una
Repubblica del centro-sud, inevitabilmente in contrapposizione con il Regno di Sardegna. A questo
punto Cavour decise di muovere l’esercito piemontese incontro a Garibaldi: l’esercito piemontese,
guidato dal re in persona, entrò nello Stato della Chiesa, sconfisse le truppe pontificie e occupò le
Marche e l’Umbria: l’incontro fra Vittorio Emanuele II e Garibaldi avvenne a Teano il 26 ottobre
1860 e Garibaldi consegnò al re l’Italia meridionale senza chiedere nulla per sè.
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Forse Garibaldi rinunciò alla Repubblica perché si rese conto di non aver sufficiente seguito popolare
per opporsi al Regno di Sardegna, o forse volle evitare una contrapposizione fra Regno e Repubblica
che avrebbe lacerato l’Italia e ritardato l’unificazione.
Cavour, da parte sua, giustificò di fronte alla Francia l’invasione dello Stato della Chiesa con la necessità di
bloccare Garibaldi che, altrimenti, avrebbe tentato di conquistare Roma mettendo in pericolo la sovranità
stessa del papa.
L'ex-regno delle Due Sicilie (cioè tutto il Meridione) e le regioni dello Stato della Chiesa occupate dalle
truppe piemontesi vennero annessi al Regno di Sardegna dopo l’esito favorevole dei plebisciti (referendum in
cui si votava per o contro l’annessione); così nel 1861 tutta l’Italia si trovava unificata politicamente sotto il
Re di Sardegna, eccetto il Lazio, il Veneto, il Trentino e il Friuli.
Il Regno di Sardegna si trasformò ufficialmente in Regno d’Italia il 17 marzo 1861.
I PROBLEMI DELL'ITALIA UNITA
Pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia il suo principale artefice, Camillo Benso di Cavour,
morì: l’aneddotica gli attribuisce la nota frase: «L’Italia è fatta, ora restano da fare gli Italiani». In effetti
una gran parte della popolazione, generalmente analfabeta e molto povera, rimaneva indifferente di fronte alle
trasformazioni politiche e istituzionali; i governanti che succedettero a Cavour adottarono poi una politica che
colpiva duramente gli strati più bassi della popolazione e che quindi, anziché favorire una crescita della
coscienza civile, generava malcontento e ostilità nei confronti del nuovo Stato italiano.
Il nuovo Regno d’Italia era nato dall’iniziativa del Regno di Sardegna e assunse dal Regno di Sardegna tutte
le leggi e tutte le istituzioni a partire dallo Statuto albertino. Nel Parlamento furono immessi i rappresentanti
di tutte le regioni annesse, eletti a suffragio molto ristretto. I deputati si divisero in due schieramenti: la Destra
storica che tenne il governo del Regno fino al 1876, e la Sinistra storica che tenne il governo dal 1876 alla
Prima guerra mondiale. La Destra storica e la Sinistra storica non sono equivalenti alla “destra” e alla
“sinistra” attuali; la Destra storica e la Sinistra storica sono invece due espressioni, due tendenze del
liberalismo moderato: i deputati del Regno, anche per effetto della ristrettezza del suffragio, erano tutti
esponenti delle classi più alte (proprietari, imprenditori, professionisti, intellettuali...) e condividevano la
stessa ideologia liberale. I deputati della Destra però erano più preoccupati di rafforzare lo Stato (all’interno
e all’esterno) che di favorire un progresso politico e sociale della popolazione, i deputati della Sinistra
invece erano più sensibili ai problemi sociali e volevano attuare un cauto progresso politico (allargamento
del suffragio e decentramento).
I governi della Destra storica cercarono di consolidare l’unità politica appena conseguita attraverso un
forte accentramento amministrativo (non fu concessa nessuna forma di autonomia locale) e attraverso la
creazione di una rete ferroviaria nazionale. Un problema del nuovo Stato fu la cosidetta
piemontesizzazione, cioè il fatto che tutti gli alti gradi della burocrazia e dell’esercito furono occupati dai
piemontesi: in tal modo tutte le regioni furono amministrate dai piemontesi, che spesso non potevano o non
volevano capire persone e situazioni tanto diverse; in tal modo gli abitanti di molte regioni furono indotti a
guardare il nuovo Stato come una realtà lontana ed estranea, se non addirittura ostile. Infatti l’unificazione
comportò anche, per molti italiani, un aumento delle tasse e l'obbligo del servizio militare (che negli stati
preunitari non c’era); nel Meridione molti, soprattutto per sfuggire alla leva, si fecero fuorilegge, formando
bande di briganti che costituivano un serio problema. Il governo inviò contro le bande l’esercito e attuò una
spietata repressione (5000 fuorilegge furono uccisi, ma anche molti soldati morirono) che pose fine al
brigantaggio, ma non pose certo fine al malcontento e al disagio sociale che l’avevano generato.
Un altro grave problema era costituito dal deficit finanziario dello Stato: le guerre d’indipendenza e la
costruzione delle ferrovie avevano costretto lo Stato a indebitarsi. I governi della Destra raggiunsero il
pareggio del bilancio ricorrendo a due misure: 1) la vendita all’asta di beni demaniali ed ecclesiastici, che
diede la possibilità ai latifondisti di incrementare le loro proprietà, ma naturalmente suscitò le proteste della
Chiesa, nuovamente espropriata; 2) l’imposizione di una tassa sul macinato, cioè sulle farine, era una tassa
che colpiva soprattutto i più poveri che vivevano di pane e polenta.
Infine i governi della Destra storica completarono (quasi) l’unificazione italiana annettendo al Regno il
Veneto e il Lazio (con Roma).
La conquista del Veneto avvenne nel 1866 in concomitanza della guerra fra Prussia e Austria: l’Italia si
alleò alla Prussia contro l’Austria; le vicende militari andarono male per l’esercito italiano (la flotta da
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guerra italiana fu affondata da quella austriaca a Lissa) però l’Austria fu sconfitta dalla Prussia e quindi
l’Italia ottenne il Veneto.
Ciò che restava dello Stato della Chiesa (Roma e il Lazio) venne conquistato nel 1870. Il papa Pio IX non
intendeva rinunciare alla sovranità di questo piccolo Stato perché riteneva che essa garantisse al papa la
libertà e l’indipendenza di cui aveva bisogno per esercitare la sua funzione di capo della Chiesa “al di sopra
delle parti”; certo i governanti del Regno d’Italia garantivano al papa libertà e indipendenza e dicevano di
voler seguire il principio “Libera Chiesa in libero Stato”, ma il papa non si fidava di queste promesse
perché il Regno di Sardegna e poi quello d’Italia avevano già dato prova di scarso rispetto della libertà della
Chiesa (non solo erano stati soppressi molti ordini religiosi ed erano stati espropriati beni ecclesiastici, ma
lo Stato pretendeva anche di intervenire nella nomina dei vescovi); per questo nel 1864 Pio IX emanò un
documento, il Sillabo, in cui condannava il liberalismo e le pretese dello Stato italiano su Roma. D’altra
parte i governanti italiani volevano assolutamente Roma per farne la capitale del Regno, perché erano
fortemente condizionati dal mito dell’antica Roma; l’importanza assunta dal mito della romanità è
sintomatica anche del desiderio di potenza e di dominio dei politici italiani, un desiderio velleitario nel
1870, ma persistente e destinato a produrre effetti (nefasti) in seguito.
Fino al 1870 lo Stato della Chiesa fu militarmente protetto da Napoleone III di Francia, nel 1870 la Prussia
entrò in guerra contro la Francia e la sconfisse rovinosamente: Napoleone III abdicò (in Francia si costituì
la Terza Repubblica), e lo Stato della Chiesa si trovò senza protezioni. Immediatamente il governo italiano
attaccò Roma: i bersaglieri aprirono una breccia a Porta Pia e occuparono la città. Il papa si ritirò nei
palazzi vaticani dichiarandosi prigioniero, e vietò ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni e di
collaborare con lo Stato italiano usurpatore dei diritti della Chiesa.
LE TAPPE DELL’UNIFICAZIONE ITALIANA IN SINTESI
1848/49 : PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA = Milano e Venezia insorgono contro gli Austriaci,
Carlo Alberto re di Sardegna dichiara guerra all’Austria. Inizialmente le truppe piemontesi avanzano in
Lombardia, ma poi non resistono alla controffensiva austriaca e il regno di Sardegna viene sconfitto.
Il re Carlo Alberto abdica e gli succede Vittorio Emanuele II. Il Regno di Sardegna è l’unica monarchia
costituzionale italiana.
1850/58: Camillo Benso di Cavour diventa capo del governo del Regno di Sardegna; attua interventi di
modernizzazione economica e civile; stringe un’alleanza militare con la Francia.
1859 : SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA = il Piemonte provoca una guerra con l’Austria, e
con l’aiuto della Francia, la sconfigge: ottiene in tal modo la Lombardia. Contemporaneamente la
Toscana e l’Emilia Romagna scacciano le vecchie autorità per mezzo di insurrezioni popolari, e si
uniscono al Piemonte.
1860 : IMPRESA DEI MILLE = Garibaldi, alla testa di mille volontari, conquista l’Italia meridionale e
quindi la cede al Regno di Sardegna. Il Regno di Sardegna conquista le regioni dello Stato della Chiesa
eccetto il Lazio.
1861 : Viene proclamato il Regno d’Italia.
1866: TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA (GUERRA AUSTRO-PRUSSIANA). La Prussia
attacca e sconfigge l’Austria; l’Italia, alleata della Prussia, ottiene il Veneto.
1870: CONQUISTA DI ROMA: la Francia viene sconfitta dalla Prussia, Napoleone III abdica e lo
Stato della Chiesa perde la protezione internazionale. Il Regno di Italia conquista Roma che diventa la
capitale del Regno.
L'EUROPA DAL 1850 AL 1870
L'UNIFICAZIONE DELLA GERMANIA
Contemporaneamente all’unificazione italiana si realizzava quella tedesca: anche in Germania
l’unificazione si realizzava grazie all’iniziativa dello Stato tedesco militarmente ed economicamente
più forte, la Prussia. L’unificazione tedesca però non avveniva all’insegna del liberalismo (molto
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“moderato”) come quella italiana, ma all’insegna della potenza. In altri termini possiamo dire che
mentre il Piemonte giustificava il suo ruolo e il suo primato sugli altri stati italiani proclamando e
realizzando i principi del liberalismo, la Prussia giustificava il suo ruolo e il suo primato per mezzo
della sua enorme superiorità economica e militare.
In effetti la Prussia aveva una costituzione e un parlamento, ma tutto il potere era concentrato nelle
mani del re e del cancelliere, il quale poteva governare senza tenere in alcuna considerazione il
parlamento.
Dal punto di vista economico la Prussia era caratterizzata dalla presenza di grandi proprietà
terriere: i proprietari (gli Junker) costituivano il ceto preminente e privilegiato della società prussiana,
mentre i contadini erano in condizioni di soggezione assoluta. Nelle regioni della Ruhr e della Slesia,
ricche di giacimenti minerari, però si era anche realizzato un grande sviluppo industriale.
Nel 1861divenne re Guglielmo I il quale nominò cancelliere Ottone di Bismark e avviò l’ammodernamento e il rafforzamento dell’esercito prussiano. L’obiettivo di Guglielmo I e di Bismark era
unificare la Germania in un Reich (impero) di cui Guglielmo I sarebbe divenuto imperatore.
Per conseguire tale obiettivo la Prussia nel 1864 attaccò e sconfisse la Danimarca (che dovette cedere
alcuni ducati), poi attaccò e sconfisse l’Austria (1866) per costringerla a lasciare la presidenza della
Confederazione del Reno, infine nel 1870 attaccò e sconfisse la Francia, la quale dovette cedere le
regioni renane dell’Alsazia e della Lorena. Nel 1871 venne proclamato il Secondo Reich tedesco.
LA FRANCIA
Luigi Napoleone era stato eletto presidente della Repubblica francese nel 1848, poi era riuscito a
trasformare la repubblica in impero (come il suo illustre antenato) e aveva preso il nome di Napoleone
III.
Napoleone III aveva regnato in modo autoritario, riducendo i diritti civili e i poteri del Parlamento,
però aveva sottoposto i suoi atti più importanti a referendum popolari e quindi si era preoccupato di
ottenere il consenso della maggioranza dei francesi. Anche l’atteggiamento di protezione assunto da
Napoleone III nei confronti dello Stato della Chiesa nasce dall’intento di conquistare il favore dei
cattolici francesi.
Gli anni dal 1850 al 1870 in Francia furono caratterizzati da un’accelerazione dello sviluppo
industriale, sviluppo che determinò anche accesi contrasti sociali. Di fronte alle richieste sempre più
pressanti delle masse Napoleone dovette allentare il suo autoritarismo e concedere libertà di sciopero
(1867) e libertà di stampa (1868).
In questi anni la Francia attuò anche una politica estera di potenza: Napoleone III voleva dare alla
Francia una posizione internazionale più importante; per questo si impegnò a fianco del Piemonte
contro l’Austria e avviò una politica coloniale che portò alla conquista del Senegal, dell’Algeria e
dell’Indocina. Anche il canale di Suez in Egitto fu costruito dai francesi.
La politica di potenza francese entrò però in collisione con la politica di potenza della Prussia (tutti e
due gli Stati pretendevano di avere un primato in Europa) e dallo scontro la Francia uscì sconfitta nel
1870; Napoleone abdicò e si ricostituì la Repubblica.
La COMUNE di Parigi (1871): all’inizio del 1871 le elezioni della nuova assemblea nazionale videro
la vittoria dei moderati e dei conservatori, sostenuti dal voto delle province e delle campagne, favorevoli
alla conclusione rapida della pace con la Germania. Il nuovo governo repubblicano fu guidato da
Thiers, che era stato già ministro durante il regno di Luigi Filippo. La maggior parte della cittadinanza
parigina invece era favorevole a soluzioni politiche più avanzate e intendeva continuare a combattere
contro i tedeschi (che avevano posto condizioni molto pesanti per la pace).
Pertanto Parigi insorse contro il governo di Thiers e costituì la Comune, alla cui guida furono eletti
repubblicani radicali, socialisti e anarchici. La Comune realizzò un’esperienza di democrazia diretta e
sociale: furono resi elettivi e continuamente revocabili tutti i funzionari pubblici; l’esercito fu sostituito
da milizie popolari; fu fissato il limite massimo di 10 ore per la giornata lavorativa, furono assegnate
alla gestione degli operai le fabbriche abbandonate dai proprietari; non si procedette però alla
collettivizzazione di tutte le proprietà.
La Comune parigina venne stroncata sanguinosamente dall’esercito del governo repubblicano: durante
la “settimana di sangue” (21 maggio-28 maggio 1871) circa 20.000 difensori della Comune furono
uccisi nei combattimenti o fucilati senza processo; alle esecuzioni sommarie i Comunardi risposero con
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feroci rappresaglie, che diffusero nell’opinione pubblica moderata un senso di paura e di odio per i
rivoluzionari.
Dopo la repressione 36.000 rivoluzionari furono arrestati, ci furono molte condanne a morte e alla
deportazione nelle colonie: il movimento rivoluzionario francese si trovò sconfitto e “decapitato”
(privato dei suoi leaders).
L'INGHILTERRA
Dal 1837 al 1901 durò il regno della regina Vittoria, un regno tanto lungo e tanto importante che
segnò un’epoca, denominata appunto “epoca vittoriana”.
Durante quest’epoca l’Inghilterra accentuò la sua supremazia economica che si basava sullo sviluppo
industriale e sul commercio internazionale: la flotta inglese, sia mercantile che militare, aveva una
superiorità indiscussa e le permetteva di controllare tutte le rotte.
L’Inghilterra non intervenne direttamente nelle lotte che travagliavano l’Europa continentale e si limitò a
dare un appoggio diplomatico al Regno di Sardegna e ai movimenti liberali: in effetti l’Inghilterra non
aveva interessi in Europa e mirava unicamente a mantenervi una situazione di equilibrio, affinché
nessuno Stato acquistasse un’eccessiva potenza e mettesse in discussione la supremazia marittima
inglese.
Al di fuori d’Europa, invece, l’Inghilterra attuò una politica coloniale: iniziò la conquista dell’ India e
costrinse la Cina, con le guerre dell’oppio (1839-42 e 1856-60), ad accogliere i mercanti inglesi che
vendevano l’oppio prodotto in India, una droga micidiale.
Per quanto riguarda la situazione interna l’Inghilterra conobbe i problemi sociali legati allo
sviluppo industriale: il proletariato inglese era il più numeroso e organizzato d’Europa, ma le sue
organizzazioni sindacali, le TRADE UNIONS, preferirono battere la strada della contrattazione
più che quella della rivolta, puntarono a un miglioramento graduale delle condizioni degli operai più
che a una radicale trasformazione sociale. Questo è il motivo per cui non si verificano in Inghilterra
violente rivoluzioni e violente repressioni come invece si verificano in Francia e nel resto d’Europa.
Sul piano politico l’epoca vittoriana fu caratterizzata dall’alternarsi al governo di due partiti, il
liberale e il conservatore, che attuarono cautamente una politica di riforme tra le quali va ricordata la
riforma elettorale del 1867 che estese il diritto di voto (non era ancora il suffragio universale, però un
terzo degli elettori erano operai) e la legalizzazione dei sindacati.
LA QUESTIONE SOCIALE, IL MOVIMENTO OPERAIO, LE TEORIE SOCIALISTE
Abbiamo già preso in esame le conseguenze sociali dello sviluppo industriale (nascita del
proletariato, ingiustizie sociali, sfruttamento ecc. ecc.); abbiamo visto come il proletariato reagì alla
nuova organizzazione del lavoro, dandosi strutture associative di mutuo soccorso e di difesa.
Le prime forme di associazioni operaie che avevano cominciato a svilupparsi in Europa già prima del
’48 si rivolgevano soprattutto ai lavoratori più evoluti e meglio pagati, si collegavano spesso anche alla
tradizione delle antiche corporazioni artigiane e si dedicavano più alla cooperazione e al mutuo soccorso
fra i soci che non alle lotte rivendicative contro i datori di lavoro. Dopo le repressioni del ’48-49 il
movimento associativo fra i lavoratori appariva ovunque indebolito e per lo più lontano da nuove
iniziative rivoluzionarie.
Accanto all’organizzazione autonoma del movimento operaio la questione sociale sollecitò la riflessione
di intellettuali che, ricollegandosi alle teorie socialiste del Settecento, prospettarono soluzioni per i
problemi sociali fondate su una trasformazione radicale della società.
Il nucleo centrale del pensiero socialista stava nella convinzione che, per superare i mali e le ingiustizie
del capitalismo industriale (in particolare quelli inerenti alla condizione operaia) non era sufficiente la
pratica delle riforme dall’alto, né tantomeno il ricorso alla carità e alle iniziative filantropiche. Era
invece necessario colpire alla radice i principi informatori della società capitalista (l’individualismo, la
concorrenza, il profitto) e sostituirli con i valori della solidarietà e dell’uguaglianza, mettere sotto
controllo i processi produttivi in modo da orientarli verso il soddisfacimento dei bisogni dell’intera
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collettività: costruire insomma una società nuova, non solo nelle istituzioni politiche, ma anche e
soprattutto nelle strutture economiche.
Il pensiero socialista dell’Ottocento si collegava a teorie, progetti ed esperienze dei secoli passati
(l’Utopia di Tommaso Moro, il comunismo di alcuni Illuministi, la congiura di Gracco Babeuf), ma si
distingueva da essi per il suo costante riferimento alla nuova realtà dell’industrialismo.
Il francese Claude-Henri de Saint-Simon fu uno dei primi a capire la novità dell’industrialismo e ad
esaltarne le potenzialità di progresso. Egli teorizzò l’avvento di una nuova società liberata da ogni
forma di parassitismo e governata dai tecnici e dai produttori (termine con cui erano accomunati
industriali e operai), nell’interesse dell’intera collettività.
Le teorie di Saint-Simon non erano
propriamente socialiste, ma esercitarono una notevole influenza sul pensiero socialista successivo.
Charles Fourier (francese) fu il rappresentante di un socialismo utopistico e anti-industriale (dunque
lontano dalle idee di Saint-Simon), che mirava non solo a un’equa distribuzione delle risorse, ma anche
a risolvere il problema della felicità individuale attraverso una nuova concezione del lavoro. Egli
proponeva una società organizzata in tante piccole comunità (i falansteri) autosufficienti dal punto di
vista economico; comunità i cui componenti si sarebbero alternati nelle diverse attività lavorative in
base alle loro inclinazioni.
Auguste Blanqui (francese) si dedicò non tanto a descrivere la futura società socialista, quanto a
studiare i mezzi per abbattere il sistema borghese tramite l’insurrezione che avrebbe consegnato il
potere nelle mani del popolo: fu lui a elaborare per primo il concetto di “dittatura del proletariato”, che
sarebbe poi stato ripreso da Marx ed Engels.
Un altro francese, Louis Blanc, può essere considerato il capostipite del socialismo riformista. Blanc
era infatti convinto che la soluzione dei mali del capitalismo poteva venire solo da un intervento dello
Stato come regolatore, e al limite come gestore, dei processi produttivi. Per questo proponeva che lo
Stato istituisse degli ateliers sociaux (officine sociali) per combattere la disoccupazione e ridurre
progressivamente il ruolo delle imprese private.
Infine Pierre Proudhon (francese anche lui!) propose un socialismo libertario, basato sulla creazione
“dal basso” di cooperative di produzione, e duramente polemico nei confronti del socialismo “statalista”
di Blanc e di Marx. Il socialismo di Proudhon ebbe una certa diffusione in Europa, soprattutto nelle
situazioni in cui l’industrializzazione era ancora ai primi passi e la struttura sociale era costituita da
piccoli coltivatori e artigiani. Anche in Italia le teorie di Proudhon influenzarono i primi socialisti
italiani, Pisacane e Ferrari, due mazziniani che giunsero alla convinzione che la questione nazionale
italiana non poteva essere disgiunta dalla questione sociale e che non si poteva risolvere il problema
dell’unità e indipendenza nazionale senza affrontare, prioritariamente, il problema dei contadini “senza
terra” e del latifondismo presente soprattutto nel Meridione.
In Germania invece la rapida e intensa industrializzazione aveva determinato la formazione di una forte
classe operaia. Un esponente autorevole del movimento socialista tedesco fu Ferdinand Lassalle: alla
fine degli anni ’50 egli elaborò una teoria dello sfruttamento capitalistico molto simile a quella di Marx;
ma, diversamente da Marx, sostenne la possibilità per i lavoratori di conquistare lo Stato borghese e di
trasformarlo dall’interno attraverso il suffragio universale.
Il pensatore che condusse la critica più serrata al sistema capitalistico, che immaginò un sistema
sociale di assoluta eguaglianza e che fondò un movimento politico destinato ad avere un enorme peso
nella storia fu il tedesco Karl Marx (nato a Treviri nel 1818, morto in Inghilterra nel 1883). Egli unì
alla riflessione teorica l’attività di organizzatore dei lavoratori; scrisse decine di opere (la maggior
parte in collaborazione con l’amico Engels) ma quelle più universalmente note sono il “Manifesto
del partito comunista” scritto nel 1848 e il “Capitale” scritto dal 1867 alla morte.
La riflessione marxista parte da una concezione materialista dell’uomo: il dato fondamentale da cui
bisogna partire per capire l’uomo, la società e la storia è il lavoro, cioè il modo in cui l’uomo si
rapporta alla natura e trae da essa il necessario per vivere; in altri termini possiamo dire che
l’economia costituisce la struttura fondamentale della società, e che tutte le altre espressioni umane
(politica, leggi, religioni, arte, morale ecc.) sono conseguenze della struttura economica. Per esempio
nell'antichità l’economia era basata sul lavoro schiavile e quindi le società antiche avevano una certa
organizzazione politica, sociale, culturale ecc. che dipendeva dal modo di produzione schiavistico. Nel
Medioevo l’economia chiusa, fondata sulla servitù della gleba, determinò un caratteristico sistema
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politico-culturale: il feudalesimo; infine il liberalismo è l’espressione politico-culturale del sistema
economico capitalistico. La tesi della preminenza del fattore economico induce Marx a considerare
tutta la storia come storia di lotta di classi: ogni epoca produce una classe dominante che vive
sfruttando il lavoro di una classe subalterna e lo sviluppo storico è il risultato del conflitto fra sfruttati
e sfruttatori. In epoca moderna la borghesia è riuscita a liberarsi dal dominio della nobiltà e con ciò ha
determinato il superamento del feudalesimo e ha prodotto un grande progresso: nascita dell’industria,
intensificazione e planetarizzazione degli scambi commerciali ecc. Con l’industrializzazione nasce però
una nuova classe che è dominata e sfruttata dalla borghesia: il proletariato.
Secondo Marx nel capitalismo avanzato (cioé nell'Ottocento) si crea una situazione paradossale:
lavoro e capitale sono completamente separati, nel senso che i proletari posseggono la forza-lavoro ma
non hanno nessun capitale, mentre i borghesi imprenditori non lavorano ma posseggono tutto il
capitale. Il lavoro non è considerato un’attività umana da rispettare e valorizzare, ma una semplice
merce soggetta alle leggi del mercato: il proletario è costretto a vendere il suo lavoro all’imprenditore
e non viene pagato con un compenso equivalente al valore della merce prodotta, ma molto inferiore
(quel tanto che basta per mantenere in vita il lavoratore). La differenza fra il valore della merce
prodotta e il salario dell’operaio vien chiamata da Marx plus-valore, e questo plusvalore, “intascato”
dall’imprenditore, incrementa sempre di più il suo capitale. A questa situazione non è possibile
apportare dei correttivi, perché inevitabilmente il sistema produce lo sfruttamento dei lavoratori e
l’arricchimento dei capitalisti, l’unico modo per ristabilire l’eguaglianza fra gli uomini e per eliminare
lo sfruttamento è abolire la proprietà privata, instaurare il comunismo, cioè la proprietà collettiva dei
mezzi di produzione (fabbriche, terreni agricoli, miniere ecc.)
Come si arriva all’abolizione della proprietà privata e al comunismo? Secondo Marx il comunismo è
una conseguenza necessaria dello sviluppo del capitalismo, il capitalismo ha in sé una contraddizione
che lo farà necessariamente esplodere. Il progetto marxista, secondo Marx, è scientifico e non
utopistico perché si fonda sull’analisi di questa contraddizione interna al capitalismo.
Questa contraddizione consiste nel fatto che lo sviluppo del capitalismo e dell’industrializzazione porta
a una concentrazione dei capitali e delle forze produttive: per effetto della concorrenza le piccole
imprese falliscono o vengono assorbite da quelle più grandi, quindi un numero sempre minore di
proprietari possiede capitali e apparati produttivi sempre più ingenti.
Nello stesso tempo la crescita degli apparati produttivi produce un numero sempre maggiore di
proletari, concentrati nei grandi impianti industriali e nei quartieri poveri delle grandi città. Il fatto
che gli operai siano tantissimi, che siano concentrati, che condividano tutti la stessa condizione,
produce naturalmente l’organizzazione degli operai, e conferisce loro una grandissima forza
rivoluzionaria.
Infine la condizione di povertà e di sfruttamento degli operai non può attenuarsi perché gli
imprenditori, per far fronte alla concorrenza, devono realizzare il massimo profitto dal capitale
investito, e quindi devono sfruttare il lavoro al limite massimo.
Questi 3 fattori: riduzione del numero dei capitalisti ed incremento del loro capitale, incremento
numerico e organizzazione politica dei proletari, sfruttamento e povertà dei proletari, portano
inevitabilmente alla rivoluzione vittoriosa del proletariato contro la borghesia capitalista.
Nel pensiero di Marx quindi la rivoluzione proletaria può scoppiare e avere successo solo in una
situazione di capitalismo “maturo”, vale a dire in una situazione di capitalismo industriale avanzato.
L'obiettivo della rivoluzione proletaria è l’abolizione della proprietà privata e la realizzazione del
comunismo (vale a dire un’organizzazione sociale in cui tutto è in comune e quindi non esistono
diseguaglianze). La realizzazione del comunismo passa attraverso due fasi: una fase transitoria e una
fase definitiva. Nella fase transitoria il proletariato prende il potere, istituisce una “dittatura del
proletariato” e statalizza tutti i mezzi di produzione (fabbriche, terreni, immobili, banche ecc.
diventano proprietà dello Stato).
Questa fase transitoria realizza con la forza l’eguaglianza sociale. Ma quando nella società si sarà
consolidata l’eguaglianza e tutti ne avranno sperimentato i vantaggi (eliminazione della povertà,
condizioni di lavoro umane e gratificanti per tutti), allora non ci sarà più bisogno dell’uso della forza,
non ci sarà più bisogno della dittatura del proletariato e dello Stato con le sue istituzioni. A questo
punto sarà realizzata la fase definitiva del Comunismo, in cui ognuno “produrrà secondo le sue
possibilità, e riceverà secondo le sue necessità”. Spariranno la criminalità e le guerre, perché in una
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situazione di perfetta eguaglianza vengon meno i motivi di rivalità, e quindi non ci sarà più bisogno di
polizia e di eserciti; non ci sarà più bisogno di istituzioni statali e di leggi perché spontaneamente la
società perseguirà il giusto e l'utile.
Risulta evidente da quanto detto che il Marxismo parte da una pretesa analisi scientifica della storia,
del capitalismo e delle sue contraddizioni; la meta finale (il comunismo perfetto) però ha un carattere
fortemente utopico. C’è da dire che il marxismo ebbe grande successo tra i lavoratori non tanto per le
analisi economiche e sociali (spesso molto acute, anche se poi molte delle previsioni di Marx fondate su
tali analisi si rivelarono inesatte), quanto per la speranza di giustizia e di vera eguaglianza che seppe
accendere.
Nella seconda metà dell’Ottocento ebbero larga diffusione nel movimento operaio anche le tesi del russo
Michail Bakunin, massimo teorico dell’anarchismo .
Per Bakunin, l’ostacolo principale che impediva all’uomo il conseguimento della piena libertà era
costituito non tanto dai rapporti di produzione, quanto dall’esistenza stessa dello Stato. Lo Stato era,
assieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande
maggioranza della poplazione in condizioni di inferiorità economica e intellettuale. Abbattuto il potere
statale, il sistema di sfruttamento economico basato sulla proprietà privata sarebbe inevitabilmente
caduto. Il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente come l’ordine più naturale per le masse,
senza che allo Stato dovesse sostituirsi nessuna organizzazione di tipo centralizzato e coercitivo.
E’ evidente quanto queste concezioni fossero distanti da quelle di Marx: per quest’ultimo lo Stato e la
religione erano prodotti della struttura economica capitalista e solo la distruzione della struttura
capitalista avrebbe reso possibile la distruzione dello Stato borghese. Anche per Marx l’avvento del
comunismo avrebbe portato con sé l’ “estinzione dello Stato”; ma questo stadio finale sarebbe stato
raggiunto solo dopo la fase transitoria della “dittatura del proletariato”.
Per Marx, inoltre, il
protagonista del processo rivoluzionario non poteva essere che il proletariato industriale dei paesi più
avanzati. Per Bakunin, invece, il vero soggetto della rivoluzione erano le masse diseredate in quanto
tali, senza distinzione fra operai, contadini e sottoproletari.
LA PRIMA INTERNAZIONALE
Nonostante la varietà delle ideologie e delle forme organizzative in cui si articolava nei vari paesi, il
movimento operaio avvertì presto l’esigenza di dar vita a un’organizzazione internazionale di coordinamento,
che fu fondata a Londra nel 1864 col nome di Associazione internazionale dei lavoratori (denominata poi
comunemente Prima Internazionale). Vi presero parte rappresentanti delle organizzazioni operaie inglesi e
francesi. Un emissario di Mazzini rappresentava le società operaie italiane. Altri partecipanti erano stati
invitati a titolo personale: tra essi, Karl Marx.
Marx riuscì a far inserire nello statuto dell’Internazionale alcuni punti che la qualificavano in senso classista,
nonostante l’opposizione dei mazziniani italiani (che poi uscirono dall’Internazionale): si affermava
l’autonomia del proletariato e la priorità della lotta di classe contro lo sfruttamento.
La fondazione della Prima Internazionale fu un evento capitale nella storia del movimento operaio, ma il suo
funzionamento fu gravemente compromesso dall’eterogeneità delle sue componenti e dalle aspre rivalità che
dividevano i suoi capi. Negli anni ’60 il contrasto più forte ai vertici dell’Internazionale fu quello tra marxisti
e proudhoniani, negli anni ‘’70 invece l’Internazionale fu messa in crisi dall’aspra rivalità fra marxisti e
anarchici bakuniniani. Anche il tragico esito della Comune di Parigi determinò un ripensamento sugli obiettivi
e i metodi (rivoluzionari) del movimento socialista, e contribuì al dissolvimento della Prima Internazionale, che
fu ufficialmente sciolta nel 1876.
Pertanto negli anni successivi (dopo il 1876) nel movimento operaio e socialista prevalse la tendenza
riformista, che puntava all’organizzazione (in ogni paese industrializzato) di forti partiti socialisti, capaci di
riformare la società attraverso gli strumenti legali della lotta politica (elezioni, attività legislatrice dei
Parlamenti ecc.): si diede quindi la priorità alla realizzazione di un programma “minimo” (graduale
miglioramento, per via riformista, delle condizioni dei lavoratori), rinviando a una successiva fase storica la
realizzazione del programma “massimo” (realizzazione, per via rivoluzionaria, di una società egualitaria) .
Minimalisti e massimalisti furono definiti i fautori, rispettivamente, del primo e del secondo programma.
I PARTITI SOCIALISTI E LA SECONDA INTERNAZIONALE
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Nell’ultimo quarto di secolo il numero dei lavoratori salariati crebbe vistosamente in tutti i paesi
industrializzati. In questo periodo apparvero i primi partiti socialisti, che si affiancarono, con rapporti non
sempre facili, alle associazioni operaie e ai primi sindacati. I partiti socialisti furono, tra l’altro, i primi partiti
nel senso moderno della parola, con un programma preciso e un apparato organizzativo permanente.
La crescita dei partiti socialisti andò di pari passo, negli anni Ottanta, con una ripresa dell’Internazionalismo:
infatti nel 1889 a Parigi, durante un congresso dei partiti socialisti marxisti, convocato per la celebrazione del
centenario della rivoluzione francese, si giunse alla decisione di fondare la Seconda Internazionale dei
Lavoratori, per potenziare e coordinare l’azione politica dei partiti socialisti nazionali; una delle prime
decisioni della Seconda Internazionale fu l’istituzione del 1° maggio come giornata di festa e di mobilitazione
a favore dei lavoratori e in particolare a sostegno della rivendicazione della giornata lavorativa di 8 ore.
Il movimento operaio in Inghilterra: Del tutto sui generis era la situazione in Inghilterra. Qui la classe
operaia, che dimostrava grande combattività nelle lotte sul lavoro, restava legata alla tradizione delle Trade
Unions e non era incline ad accogliere le prospettive rivoluzionarie del marxismo; infatti in Inghilterra non
riuscirono mai ad affermarsi partiti socialisti d’ispirazione marxista.
Uno sviluppo importante ebbe invece la Società Fabiana, fondata nel 1884 da alcuni intellettuali (fra i quali
George Bernard Shaw). Il nome della società richiamava quello del console romano Fabio Massimo il
Temporeggiatore e quindi indicava la scelta del gradualismo e del riformismo. Secondo i Fabiani il liberismo
non aveva mantenuto le sue “promesse”, in quanto aveva prodotto una classe di ricchi rentiers, oziosi e
improduttivi, e aveva lasciato nella miseria molti strati della popolazione. I Fabiani proposero una serie di
riforme sociali, tra cui la tassazione delle ricchezze superflue e l’estensione della partecipazione politica delle
classi lavoratrici; il loro obiettivo ultimo era la realizzazione di un socialismo democratico, che intendeva
valorizzare il lavoro, diffondere l’istruzione, promuovere l’emancipazione femminile, garantire a tutti un
sistema di protezione sociale.
Nel 1893 varie associazioni del movimento operaio, d’intesa con la Società Fabiana, diedero vita al Labour
Party (Partito Laburista), che già alle elezioni del 1906 ottenne risultati apprezzabili, e che in seguito
sarebbe diventato il principale antagonista del partito conservatore, soppiantando il partito liberale.
Il Partito Socialdemocratico Tedesco: Tra i partiti socialisti d’ispirazione marxista il più forte, organizzato
e prestigioso fu senz’altro il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) nato, al congresso di Gotha del 1875,
da un accordo tra marxisti e lassalliani.
Il partito, guidato da Liebknecht, Bebel e, a livello teorico, da Karl Kautsky, resistette alla politica repressiva
antisocialista attuata dal cancelliere Bismarck fino al 1890 e aumentò costantemente i suoi consensi elettorali
(493.000 voti nel 1877, 4.250.000 voti nel 1912). Il suo programma si ispirò alle analisi di Marx sul crollo del
capitalismo: il carattere di necessità del processo di superamento del capitalismo portava al rifiuto del
volontarismo rivoluzionario e indirizzava il partito verso la conquista delle libertà civili e del potere politico.
In Francia il movimento socialista, dopo la sconfitta della Comune, restò polverizzato in una quantità di
gruppi spesso in polemica tra loro. Solo nel 1905 fu costituito un partito socialista unificato (SFIO) sotto la
guida di Jean Jaurès, fautore di una politica riformista. Tuttavia il movimento socialista francese fu indebolito
dalle divisioni interne. Inoltre in Francia la prospettiva rivoluzionaria rimase molto forte nei sindacati.
In Italia il ritardo e i limiti del processo di industrializzazione in Italia determinarono i caratteri, e i limiti, del
movimento operaio e socialista in Italia. Fino al 1870 in Italia il proletariato urbano si organizzò nelle società
operaie egemonizzate dai mazziniani, che puntarono più sull’emancipazione civile e politica dei lavoratori che
sulla lotta di classe. Dopo il 1870 si diffuse in Italia la dottrina anarchica di Bakunin, recepita soprattutto dal
bracciantato agricolo (in Italia la grande questione sociale non era quella degli operai di fabbrica, ancora poco
numerosi, ma quella dei contadini senza terra, dei braccianti impiegati nella coltivazione dei latifondi); negli
anni ‘70 si verificarono alcuni tentativi insurrezionali anarchici a Imola e Bologna e nel Beneventano. Il
fallimento di questi tentativi, piuttosto velleitari, determinò la crisi dell’anarchismo italiano e la “conversione”
di alcuni leaders anarchici al socialismo riformista . Così negli anni Ottanta nacquero il Partito Operaio e i
primi sindacati, e nel 1892 fu fondato a Genova il Partito Socialista (nel quale confluì il Partito Operaio),
guidato da Andrea Costa e Filippo Turati, affiliato alla Seconda Internazionale, con programma gradualista e
riformista.
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Anche negli altri paesi europei, dal 1875 al 1900, furono fondati Partiti socialisti o socialdemocratici,
generalmente collegati alla Seconda Internazionale: tra questi segnaliamo il Partito Socialdemocratico Russo,
fondato nel 1898 da Plechanov.