34 Riccardo Falco Storia Economica Dalla Rivoluzione industriale all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona IV Edizione SIMONE EDIZIONI Estratto della pubblicazione ® Gruppo Editoriale Esselibri - Simone Estratto della pubblicazione TUTTI I DIRITTI RISERVATI Vietata la riproduzione anche parziale Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Esselibri S.p.A. (art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30) Di particolare interesse per i lettori di questo volume: 44/4 44/5 44/8 44/9 44/10 44/11 44/13 - Compendio di microeconomia Compendio di macroeconomia Compendio di politica economica Compendio di economia e nanza pubblica Manuale di economia politica (micro e macroeconomia) Compendio di economia internazionale Compendio di storia del pensiero economico Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito Internet: www.simone.it Aggiornamento e revisione del testo a cura della dott.ssa Claudia Capobianco Libro made in Italy Finito di stampare nel mese di aprile 2010 dalla «Pittogramma s.r.l.» - Via Santa Lucia, 34 - Napoli per conto della ESSELIBRI S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - Napoli con carta acquistata in Italia Gra ca di copertina di Giuseppe Ragno Premessa Il volume ricostruisce in maniera chiara ed esaustiva i principali avvenimenti che hanno caratterizzato l’economia, e più in generale la società, negli ultimi tre secoli, dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri. La trattazione è suddivisa in cinque parti: — Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870. — Dalla grande depressione alla prima guerra mondiale. — L’economia internazionale tra le due guerre mondiali. — L’economia internazionale dopo Bretton Woods. — Problemi economici contemporanei. Questa quarta edizione si sofferma, in particolare, sulle opportunità e sui problemi legati all’allargamento ad est dell’Unione europea, sulle modiche introdotte dal Trattato di Lisbona e sulla necessità di trovare il giusto equilibrio fra globalizzazione e sviluppo sostenibile. Ampio spazio è dedicato, inoltre, alle nuove sde poste dalla grave crisi che ha colpito l’economia mondiale negli ultimi anni e che ha causato anche nei Paesi più avanzati il crollo della produzione industriale e l’aumento del tasso di disoccupazione. L’esposizione sintetica e lineare degli argomenti trattati e la presenza di numerose schede di approfondimento fanno del manuale un utile supporto per lo studente universitario che si accinge a preparare l’esame di Storia economica e per chiunque desideri una lettura informativa dell’evoluzione dell’economia per meglio comprendere i fenomeni storici e politici che hanno caratterizzato lo sviluppo della società. Estratto della pubblicazione Estratto della pubblicazione Parte I Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 ——– CAPITOLO 1 L’Europa preindustriale pag. 7 ——– CAPITOLO 2 La rivoluzione demograca, agraria e industriale in Gran Bretagna pag. 22 ——– CAPITOLO 3 La rivoluzione industriale in Europa pag. 44 ——– CAPITOLO 4 L’economia nella seconda metà dell’Ottocento pag. 73 Estratto della pubblicazione Estratto della pubblicazione Capitolo 1 L’Europa preindustriale Sommario 1. I caratteri dell’economia preindustriale. - 2. Le scoperte geografiche e lo sviluppo dei commerci. 3. La nascita della borghesia. - 4. L’età delle rivoluzioni borghesi.. 1. I caratteri dell’economia preindustriale Secondo la periodizzazione più diffusa, la ne del Medioevo e l’inizio dell’Età Moderna si fanno risalire all’inizio del XV secolo, prendendo come punto di riferimento la scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo (1492). A segnare il limite cronologico tra età medioevale ed età moderna (che alcuni tuttavia fanno risalire al secolo precedente) interviene una serie di avvenimenti epocali che producono profonde trasformazioni in Europa. • L’Umanesimo. Il movimento culturale che riscopriva la classicità greca e latina pose le premesse per la civiltà del Rinascimento. • La formazione degli Stati nazionali. Vere e proprie macchine scali e militari, le monarchie si sostituirono alla gestione territoriale delle città di origine medievale, indebolendo il predominio delle vecchie aristocrazie feudali. I primi Stati che si consolidarono furono la Francia, l’Inghilterra, la Spagna e l’Impero asburgico. • La riforma protestante. Gli effetti dello scisma luterano e del calvinismo si tradussero in un atteggiamento attivistico che spingeva a considerare la produttività e il protto come segni della benevolenza divina. Questo tipo di etica è senz’altro una componente importante della nascita dello spirito capitalista (WEBER). • Il progresso della scienza. Lo sviluppo delle tecniche favorì un atteggiamento più critico verso le verità indiscutibili di Aristotele e dei padri della Chiesa; • Le grandi scoperte geograche. Lo sfruttamento economico delle nuove terre produsse un forte sviluppo del commercio internazionale dei prodotti di base con conseguente ascesa dei ceti mercantili e industriali. La società preindustriale europea era caratterizzata dalla divisione tra la ricchezza concentrata nelle mani di pochi e la miseria nella quale viveva la mag- 8 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 gior parte della popolazione. La povertà diffusa, i bassi livelli di aspettativa di vita e l’economia di sussistenza caratterizzarono il periodo precedente all’avvento della rivoluzione industriale. «La vita ai margini della sussistenza era il destino inevitabile per la maggior parte della popolazione» (MATHIAS). I movimenti di reddito erano garantiti da forme di scambio arcaiche: donazioni, doti, vincite al gioco, rapine e saccheggi. Il risparmio, sottratto alle categorie più povere, veniva accumulato sotto forma di moneta metallica e tesoreggiato, con evidenti effetti negativi per gli scambi commerciali (BALLETTA). La concentrazione di ricchezze favoriva l’investimento del surplus in beni di lusso, ma soprattutto in opere monumentali e poco produttive: abbazie, cattedrali, palazzi, lavori di forticazione (CIPOLLA). Nell’economia della società preindustriale un ruolo importante era esercitato dalla Chiesa, come ente temporale e spirituale. Il potere della Chiesa derivava dall’amministrazione del suo vasto patrimonio, continuamente alimentato da lasciti, donazioni e decime. Per valutare l’entità di questo potere economico basti pensare che attorno al 1530 il reddito dei monasteri inglesi era quasi il doppio di quello della Corona. Lo stato di arretratezza economica di questa società è più comprensibile se si analizzano i singoli fattori della produzione. Lavoro Il settore primario (agricoltura) era nettamente prevalente. Circa il 70% (in alcuni paesi anche il 90%) della popolazione era impiegata nelle attività agricole, tanto che la società preindustriale può essere denita anche rurale. In Inghilterra, che con la Francia e i Paesi Bassi era uno dei paesi più ricchi e avanzati del mondo, l’agricoltura rappresentava metà del reddito nazionale. Tuttavia la produttività di questo settore non era elevata, ma anzi piuttosto stagnante poiché i miglioramenti erano lenti e discontinui (GIURA), e non permetteva la produzione di un notevole surplus. Il resto della popolazione attiva si divideva tra attività artigianali, mercantili e servizi. Lo sviluppo industriale era limitato al settore tessile, a quello alimentare e a quello delle costruzioni edilizie. I lavoratori non avevano alcun tipo di specializzazione, ed erano chiamati a fare qualsiasi lavoro, al contrario dell’operaio specializzato che caratterizzerà le società industrializzate. Una quota non trascurabile di persone ricopriva cariche religiose (in Italia, ad esempio, il 2% della popolazione era composto da preti o suore). Capitolo 1: L’Europa preindustriale 9 Capitale L’economia Nel complesso in quasi tutti gli ambiti la quantità di ca- preindustriale: il capitale pitale sso (case, macchinari, attrezzi etc.) era scarsa, più consistente nel settore tessile (in particolare nelle Fiandre e nell’Italia centrosettentrionale), nei trasporti e nelle estrazioni minerarie. Le difcili congiunture economiche, il susseguirsi di calamità naturali rendevano necessaria un’abbondanza di capitale circolante (materie prime, lavorati, prodotti niti). Ma erano soprattutto le scarse possibilità di comunicazione a obbligare la gente a crearsi copiose scorte di prodotti. Le difcoltà nelle comunicazioni erano dovute alla pessima situazione delle vie e dei mezzi di comunicazione. Venivano utilizzate le vie d’acqua, marittime o interne, che erano meno costose e più sicure per il trasporto delle merci. Meno importante era il trasporto via terra a causa delle pessime condizioni delle strade. Risorse Lo sfruttamento delle risorse naturali avveniva in modo indiscriminato soprattutto nell’agricoltura, dove i sistemi di rotazione richiedevano tempi molto lunghi. Ovunque venivano utilizzate rotazioni biennali o triennali, e la terra veniva lasciata a maggese, ovvero incolta, per farla riposare. L’inadeguato sfruttamento delle terre e la bassa produttività determinavano una scarsità complessiva, prima caratteristica della povertà. Nelle società pre-mercantili, il valore del suolo dipendeva principalmente dalla sua attitudine a soddisfare consumi locali che scaturivano da bisogni primari (nutrirsi e vestirsi) o simbolico-culturali (riti religiosi e feste). Quando tali bisogni erano soddisfatti non aveva importanza se il terreno poteva produrre di più o di meno; non aveva, in sostanza, «un valore economico» come lo si intende oggi (CONTI). Demografia L’andamento demograco del continente europeo era altalenante. L’elevata mortalità, a seguito di carestie, epidemie e fenomeni catastroci, riduceva periodicamente i livelli di popolazione Per esempio, i 70-80 milioni di abitanti raggiunti nel XIV secolo scesero nel 1450 a 50 milioni (GUARRACINO). Il notevole incremento registrato a partire dal XVI secolo sarà determinato, oltre che da una riduzione della mortalità, anche dalla crescita dei tassi di natalità. 10 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 2. Le scoperte geografiche e lo sviluppo dei commerci L’Umanesimo non determinò soltanto la rinascita delle lettere e delle arti, ma si espresse anche come un’ansia di conoscenza che spinse gli uomini ad allargare i loro orizzonti geograci. Nell’arco di una generazione le popolazioni europee scoprirono, o meglio, vennero a conoscenza di oltre la metà delle terre del globo, in Asia, in Africa, ma soprattutto nelle Americhe e in Oceania. Le nuove terre Le grandi scoperte geograche furono anche il risultato di un lungo processo di arricchimento delle conoscenze cartograche e delle tecniche nautiche (già da tempo si utilizzavano la bussola, l’astrolabio e le carte astronomiche). Si viaggiava sotto la suggestione di luoghi remoti carichi di ingenti ricchezze, ma si viaggiava soprattutto per raggiungere attraverso nuove rotte i paesi orientali che garantivano alle potenze medievali e alle repubbliche marinare come Venezia prodotti pregiati (in particolare la seta e le spezie), che fruttavano ottimi guadagni. Una via ancora inesplorata era l’Oceano Atlantico e proprio dalla potenza più atlantica, il Portogallo, partirono le prime spedizioni oltre lo stretto di Gibilterra. Nel 1492 si realizzava la scoperta involontaria delle terre dell’emisfero occidentale. Il genovese Cristoforo Colombo, nanziato dai reali di Spagna, raggiunse le isole Bahamas nell’America centrale credendo di toccare le estreme propaggini del continente asiatico. Furono proprio i regni di Spagna e del Portogallo a dividersi in un primo momento le nuove terre lungo il 46° meridiano con il trattato di Tordesillas (1494). A questi viaggi fece seguito una serie di spedizioni tra le quali si ricordano le imprese del veneziano Giovanni Caboto, che raggiunse le isole al largo del Canada (1496-97); la circumnavigazione dell’Africa compiuta da Vasco de Gama (1498); il viaggio del orentino Amerigo Vespucci, il primo a rendersi conto che le nuove terre ad ovest erano un altro continente (1502) e la prima circumnavigazione del mondo ad opera del portoghese Ferdinando Magellano (1519-21). Tra i tentativi fatti per individuare un passaggio per le Indie a nord-ovest si ricordano quelli di Sebastiano Caboto — glio di Giovanni — (1509) e del francese Jacques Cartier che tentò, invano, di risalire il ume S. Lorenzo (1534). Gli imperi coloniali Alla scoperta delle nuove terre seguì la conquista da parte degli europei che si precipitarono a cavarne quanti più beneci economici potevano. Il Portogallo acquisì il pieno dominio dell’Oceano Indiano, scalzando Venezia dal monopo- Estratto della pubblicazione Capitolo 1: L’Europa preindustriale 11 lio dei prodotti orientali. Tuttavia il predominio portoghe- L’economia se si fondava solo su basi commerciali terrestri senza preindustriale: spingersi nell’entroterra (le piazzeforti di Goa, Macao, gli imperi coloniali Giava e altre disseminate in modo strategico sulle rotte commerciali). Ma la potenza economica portoghese venne ben presto sopraffatta dall’intraprendenza dei navigatori italiani, inglesi e olandesi. La Spagna iniziò la costruzione del suo impero coloniale nell’America centrale e meridionale per mezzo dei conquistadores che non esitarono a imporre la forza delle armi e del terrore. In seguito alle spedizioni di Cortéz, Pizarro e di altri le orenti civiltà centro e sudamericane degli Aztechi, dei Maya e degli Incas scomparvero. La scoperta del nuovo continente fu densa di conseguenze per la vita economica e sociale del vecchio e del nuovo mondo. Numerose specie di piante e di animali furono portati in America insieme a grandi ussi di schiavi negri provenienti dall’Africa Nera. Ma prodotti assolutamente nuovi per l’Europa — oltre ai metalli preziosi — furono importati dalle Americhe (tabacco, cioccolata, patata, mais, chinino, pomodoro, noccioline, tacchino). Inghilterra, Paesi Bassi e Francia parteciparono in misura minore all’iniziale movimento espansionistico. La massa terrestre dell’America settentrionale era l’unica non ancora sfruttata, così mentre i Francesi esploravano il Canada, gli Inglesi e gli Olandesi esplorarono il territorio dei futuri Stati Uniti. Soltanto nel XVII secolo, tuttavia, tali territori si popolarono. Per questo motivo le suddette nazioni si inserirono nei percorsi commerciali già battuti da Portoghesi e Spagnoli, arrivando no al saccheggio dei loro galeoni. I commerci con i territori dell’Oriente divennero molto contesi tanto da scatenare nei due secoli a venire una serie di conitti commerciali e bellici che vedranno prevalere l’Impero Britannico (in India e in Indocina) sulla Francia e l’Olanda. Le conseguenze economiche Gli europei avviarono uno sfruttamento sistematico delle nuove terre, senza tenere in minimo conto gli indigeni, che ridussero in schiavitù e decimarono. Una conseguenza epocale della conquista dei nuovi territori fu lo spostamento del centro della vita commerciale dal Mediterraneo alla costa atlantica. Tuttavia, uno degli effetti più importanti dell’espansione coloniale fu senz’altro il forte impulso dato alla crescita economica dell’Europa con le importazioni. Le regioni d’oltremare costituivano un vastissimo mercato per ogni specie di prodotti dei paesi colonizzatori, ma grazie ai nuovi prodotti era Estratto della pubblicazione 12 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 possibile impiantare anche nuove industrie. Una enorme quantità di oro e argento afuì nei paesi europei (la quantità triplicò dal 1500 al 1650) facendo crescere i prezzi delle merci basati su questi metalli. Non tutti gli storici credono sia possibile stabilire un rapporto causale tra l’afusso di argento (e oro) e l’inazione, essendo questa iniziata prima che le scorte di metalli crescessero sensibilmente. Tra gli altri fattori è da considerare altrettanto importante la crescita demograca dell’epoca, che fece aumentare sensibilmente la domanda di mercato: non potendo soddisfare le accresciute esigenze della popolazione con le scarse risorse disponibili fu inevitabile un rapido incremento dei prezzi. Questo fenomeno — che si è soliti denire rivoluzione dei prezzi — provocò una riduzione del valore della moneta, comportando uno stravolgimento dei rapporti tra debitori e creditori, tra risparmi e investimenti. In termini nanziari il colonialismo provocò cambiamenti nell’organizzazione degli affari. Per nanziare le grandi imprese nacquero le prime società per azioni e le pratiche bancarie furono dinamizzate. L’inttirsi della rete di trafci aveva attribuito un ruolo crescente alla gestione specializzata del credito, in cui si distinsero i banchieri italiani e tedeschi. Le nuove imprese commerciali facevano fronte al fabbisogno di capitali associando gli imprenditori, che divenivano titolari di una quota della compagnia. Il vantaggio di questa forma di società era la possibilità di attingere ai risparmi di un gran numero di persone che disponevano di capitali liquidi, raccogliendo così le somme occorrenti. Una società di questo tipo fu la Compagnia inglese delle Indie orientali (East India Company ), costituita nel 1600, che, in cambio del monopolio commerciale, ebbe il compito di adempiere agli atti di governo nelle regioni sotto la sua giurisdizione. Naturalmente la crescita impressionante del commercio europeo inuì sullo sviluppo delle città del litorale atlantico con una grande espansione dei trafci navali, a cui si contrapponeva il ristagno delle zone la cui economia era basata sui rapporti commerciali con il Mediterraneo. 3. La nascita della borghesia Con la formazione dei grandi Stati nazionali, e con la rivoluzione economica conseguente alle scoperte geograche la classe degli industriali, dei mercanti, dei banchieri conquistò un prestigio sempre maggiore. Mentre la casta feudale rimaneva legata alle forme economiche del passato, i componenti di questi ceti erano quasi esclusivamente borghesi. Capitolo 1: L’Europa preindustriale 13 Secondo una classicazione tradizionale si intende per La nascita borghesia la classe intermedia tra l’aristocrazia e la plebe, della borghesia ma questa tripartizione è astratta e generica. Nonostante la forte contrapposizione nel periodo feudale tra ricchi e poveri, esisteva una parte della popolazione di condizione superiore a quella dei servi. Gli abitanti delle città e dei borghi (burgenses), pur vivendo nell’ambito del feudo, avevano un margine minimo di libertà per attendere alle loro industrie e ai piccoli trafci che consentiva l’economia chiusa del Medioevo. Già nell’XI secolo la città non dipende più esclusivamente dal castello del signore e le sue componenti sociali si arricchiscono. I primordi della borghesia sono, quindi, legati alla realtà urbana e alla rinascita mercantile. Con il declino della civiltà rurale emersero, come si è visto, le tipiche attività borghesi: commercio, industria, investimenti di capitale. La borghesia non si limitava ad accumulare ricchezze, ma tentava di progredire intellettualmente e di assumere un ruolo politico adeguato alla sua importanza economica. La nascita del capitalismo è dovuta, tuttavia, non solo a fattori economici ma anche alle travagliate vicende che nel Rinascimento spezzarono l’unità religiosa dell’Europa. Il trionfo dello spirito di intraprendenza borghese è strettamente collegato alla diffusione dell’etica protestante. La riforma protestante avviata dal monaco tedesco Martin Lutero (1483-1546) ebbe un’eco profonda nei paesi del Nord-Europa che vedevano nell’adesione alla Riforma un modo per sottrarsi all’autorità del Sacro Romano Impero. In Svizzera il protestantesimo trovò terreno fertile prima con Hulrich Zwingli e poi con Giovanni Calvino: il calvinismo, che coniugava misticismo e spirito pratico, si congurava come la religione più consona alle aspirazioni della borghesia mercantile e si affermò in molti paesi europei. Fu proprio nei paesi toccati dalla Riforma (Inghilterra, Fiandre, e in parte Francia) che le strutture agricole e le corporazioni medievali scomparvero prima. Viceversa, gli Stati italiani, la Spagna, il Portogallo e la Turchia si avviarono verso una progressiva decadenza in mancanza di un ceto medio forte e dinamico. I valori esaltati da Lutero, e ancor più da Calvino, caratterizzavano la nuova mentalità in contrasto con la società tradizionale. Lo spirito del capitalismo borghese è dato dall’autonomia che le funzioni economiche vengono assumendo: il lavoro, la produzione, il risparmio, l’accumulo di capitali, il protto, la razionalizzazione delle attività produttive, la capacità di monetizzare con rigore tutti i momenti della propria vita economica facendoli entrare fra i costi e i ricavi. In una mentalità non capita- 14 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 listica l’economia è sempre subordinata a valori extra-economici: il soddisfacimento dei bisogni, l’ostentazione del lusso, i consumi voluttuari. Nella seconda ipotesi la produzione ha un punto terminale, mentre lo spirito capitalistico esige piuttosto che i protti siano di nuovo investiti, dando luogo all’ininterrotta accumulazione. In Europa la rapida ascesa dei ceti borghesi ebbe no alla ne del Cinquecento conseguenze di tipo economico e sociale ma non politico, essendo il potere ancora accentrato nelle mani dei regnanti. Del resto furono gli stessi principi a favorire lo sviluppo delle attività tipicamente borghesi (commercio, industria e investimenti di capitale) contro l’aristocrazia fondiaria. Sul piano politico la borghesia contribuì in maniera rilevante alla grandezza degli Stati e la sua importanza si evidenziò anche in campo culturale. Dal punto di vista economico il connubio tra borghesia e monarchia produsse un sistema di politica economica noto come mercantilismo. La svolta decisiva nella storia del terzo stato si ebbe quando la sua intesa con il potere monarchico si ruppe, cioè nel momento in cui l’aspirazione del ceto medio alla denitiva affermazione politica si concretizzò. Gli ostacoli principali della borghesia erano rappresentati dal monopolio del potere politico gestito dal re e dall’accentramento delle terre nelle mani di una nobiltà refrattaria verso ogni forma di attività imprenditoriale e che si limitava a sfruttare le masse contadine. Alla base della lotta per il potere stava il rovesciamento delle alleanze: il re si riconciliò con l’aristocrazia, mentre la borghesia si schierò con le masse contadine, che, una volta trascinate nel conitto, produssero episodi che andavano oltre gli intenti della borghesia (le rivolte dei levellers inglesi e le jacqueries francesi). 4. L’età delle rivoluzioni borghesi Con le rivoluzioni inglesi del Seicento si aprì il conitto che si concluderà con la Rivoluzione Francese (1789), la denitiva caduta dell’ancien régime e l’ascesa politica della borghesia. La lunga crisi politica del vecchio sistema colpì innanzitutto le grandi costruzioni imperiali del Cinquecento. Il gigantismo dei regni maggiori (Spagna, Regno Asburgico, Portogallo) creava difcoltà economiche insormontabili. Ad emergere, così, furono Stati di dimensione ridotta (Olanda e Inghilterra) in cui l’assolutismo monarchico usciva scontto. Dopo una lunga guerra (1566-98) l’Olanda diventò repubblica, sottraendosi al dominio spagnolo, mentre poco dopo una sanguinosa rivoluzione si scatenò in Inghilterra (1640-49), concludendosi con la proclamazione della repubbli- Estratto della pubblicazione Capitolo 1: L’Europa preindustriale 15 ca e la prima condanna a morte di un re (Carlo I). Mentre L’età delle rivoluzioni la Spagna, dopo un tentativo di unicazione con il Porto- borghesi gallo, si avviava sulla strada del declino, con la conclusione della guerra dei trent’anni (1618-48) falliva il tentativo degli Asburgo di costituire un Impero germanico unito. L’unica monarchia che uscì rafforzata dal travagliato XVII secolo fu la Francia del dinamico Luigi XIV, che dovette ugualmente affrontare la rivolta antistatale della Fronda (1648-52). La via dell’assolutismo venne denitivamente scontta in Inghilterra con una seconda Rivoluzione (1688), a seguito della quale la monarchia britannica — ritornata al potere nel 1660 — raggiunse un compromesso sulla strada della modernizzazione economica e politica con la borghesia agraria e commerciale. Nonostante tutti questi fermenti bisognerà attendere la ne del XVIII secolo per osservare dei rivolgimenti denitivi nelle gerarchie del potere politico. La prima rivoluzione fu quella dell’indipendenza americana (1775-83). La Rivoluzione che rappresenta il simbolo dell’ascesa della borghesia, però, è senz’altro quella francese (1789-1792), essendo il caso più vistoso dell’acuirsi in Europa del conitto di classe contro la monarchia. La guerra dei sette anni La pace di Aquisgrana (1748) ribadiva ancora una volta l’intenzione delle monarchie europee di conservare l’equilibrio tra le potenze egemoni del continente. Ma la perdita della Slesia da parte dell’Impero asburgico e l’inevitabile desiderio di rivincita di Maria Teresa, unito allo spirito bellicista e all’ambizione del re di Prussia Federico II, lasciavano intuire che la battaglia per il predominio sulla Germania era tutt’altro che terminata. Una clamorosa iniziativa di «rovesciamento delle alleanze» fece sì che nel 1757 si assistette all’inedita alleanza tra Francia e Austria in vista di un intervento antiprussiano. Federico II reagì alla sda attaccando per primo in Germania, dando così inizio alla guerra dei Sette anni (1757-1763). Allo schieramento austrofrancese si aggiunse quello della Russia, mentre l’Inghilterra scendeva in campo più per contrastare la Francia che per aiutare la Prussia. La guerra, che aveva assunto un andamento negativo per Federico II, battuto ripetutamente dagli austriaci, cambiò corso quando il nuovo zar di Russia, Pietro III, passò dalla parte dei Prussiani. Ciò consentì alla Prussia di correre ai ripari e di conservare, con la pace di Parigi (1763), il possesso della Slesia. In sostanza venne ribadito ancora una volta il concetto dell’equilibrio in Europa. Chi invece uscì perdente dal conitto fu la Francia. Impegnatasi in una guerra coloniale con l’Inghilterra, fu costretta a rinunciare a tutto il Canada e vide bruscamente interrotta la sua penetrazione in India, che negli anni successivi divenne il più importante e saldo dominio inglese. L’Inghilterra fu la vera trionfatrice della guerra dei Sette anni, ma tale successo fu ben presto offuscato dalla ribellione delle colonie americane, che vanicò gran parte delle conquiste ottenute. Estratto della pubblicazione 16 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 La rivoluzione americana Inizialmente i coloni inglesi delle 13 colonie del Nordamerica avevano dato ampia prova del loro lealismo monarchico fornendo un contributo decisivo alla madrepatria nella conquista del Canada; padrona del Nordamerica l’Inghilterra cominciò ad irritare con una esosa politica scale i suoi coloni, nel timore di poter perdere il monopolio assoluto sulle merci esportate dal Nuovo continente, in particolare grano e the. Con l’istituzione degli Atti di Navigazione (1651 e 1660), veniva riservato alle sole navi inglesi il diritto di esercitare il commercio costiero del Regno e di trasportare merci da e per l’Asia, l’Africa e l’America, veniva inoltre proibito alle colonie americane di esercitare industrie concorrenziali, imponendo loro di sviluppare l’agricoltura e le produzioni utili alla madrepatria (BASINI). Ciò infastidì notevolmente i coloni che speravano di poter trarre giovamento dalla vittoria sui loro concorrenti francesi del Canada. Anche se in un primo momento le proteste rimasero nell’ambito della legalità e della fedeltà alla corona, l’ottuso e provocatorio atteggiamento del governo inglese di Giorgio III spinse la protesta su posizioni sempre più oltranziste. Dopo alcune scaramucce iniziali, gli scontri andarono intensicandosi no a sfociare in aperto conitto nel 1775, che vide la sorprendente vittoria dei coloni ribelli sugli inglesi a Lexington. Ciò da un lato rincuorò i fautori dell’indipendenza, dall’altro ferì l’orgoglio britannico che rispose con una vera dichiarazione di guerra (1776). Di fronte all’intransigenza inglese i coloni ribelli decisero di troncare ogni rapporto con la madrepatria dando alla rivoluzione un indirizzo ideologico preciso. Il 1° giugno 1776 l’aristocrazia della Virginia proclamava una Dichiarazione dei diritti e il 4 luglio dello stesso anno il Congresso di Filadela approvava la Dichiarazione dell’indipendenza delle colonie inglesi d’America (redatta in massima parte da Thomas Jefferson). Ribadendo, poi, il principio della sovranità popolare, si dichiarava l’indipendenza delle tredici colonie dal regno inglese e la nascita degli Stati Uniti d’America. Le truppe ribelli guidate da George Washington furono a più riprese battute dagli inglesi; nondimeno la tenacia, il fervente patriottismo, la convinzione radicata di essere dalla parte del giusto dei coloni nì con l’attirare le simpatie degli illuministi europei. L’abilità diplomatica dell’ambasciatore americano Benjamin Franklin e il naturale antagonismo della Francia verso l’Inghilterra nirono col fare afuire in America denari e armate di volontari. Guidate da esperti generali, come il La Fayette, queste permisero ai ribelli di tener testa alle agguerrite truppe britanniche e di batterle (capitolazione di Saratoga del 1777). L’arrivo dei rinforzi francesi e spagnoli in America consentì alle truppe ribelli di sferrare più decisi attacchi contro gli inglesi no a costringerli alla resa di Yorktown (1781). Il trattato di pace fu rmato a Parigi nel 1783: l’Inghilterra, oltre a riconoscere l’indipendenza delle tredici colonie (ormai costituitesi in Stati Uniti d’America), restituì la Florida alla Spagna e il Senegal alla Francia, conservando solo il Canada che si era tenuto estraneo alla rivoluzione. La rivoluzione francese La vittoria dei coloni americani sugli inglesi ebbe una vasta risonanza in Europa, dove la borghesia e parte della nobiltà tenevano di fatto le redini dello Stato, ma erano oppresse dai regimi assolutistici. Tra i vari Stati europei, quello più inuenzabile ai nuovi ideali illuministici era la Francia, sia perché vi era una notevole scuola di illuministi (Diderot, Rousseau, Voltaire ed altri) sia perché si era sviluppata una borghesia economicamente forte e conscia dell’importanza che Estratto della pubblicazione Capitolo 1: L’Europa preindustriale 17 rivestiva nella vita dello Stato. Lo scontro tra questa classe e gli ordini privilegiati (nobiltà e alto clero) si fece inevitabile quando il paese, La rivoluzione francese che già da qualche decennio attraversava una grave crisi sociale ed economica, vide aggravarsi ulteriormente il decit pubblico. Inutilmente i vari ministri che si succedettero durante il regno di Luigi XVI no al 1789 tentarono di risanare le nanze, ostacolati dall’ostilità della corte e dagli ordini privilegiati. Nel disperato tentativo di evitare la bancarotta, il re decise di convocare gli Stati generali per la primavera del 1789. Nelle intenzioni del sovrano essi dovevano risollevare lo Stato dal grave decit nanziario, ma la borghesia, che vedeva nalmente giunta l’occasione per rivendicare il suo ruolo, diede all’Assemblea un carattere rivoluzionario. La società francese del Settecento era caratterizzata da un forte squilibrio fra le consuetudini esercitate dalla società feudale e i bisogni della borghesia. Difatti la nobiltà dominava sia la vita politica che sociale; occupava le cariche istituzionali più importanti, godeva di diritti feudali e non pagava tasse. Ma, ad un’aristocrazia legata ancora alla concezione medioevale dei valori sociali, si contrapponeva una borghesia sempre più progredita economicamente. Per questo il Terzo Stato, rappresentante non solo dei più poveri e diseredati ma della parte più attiva e produttiva della popolazione, ovvero commercianti, industriali e professionisti, andò ben oltre il semplice problema nanziario e proponendosi di risolvere in maniera radicale tutti i problemi dello Stato. Pertanto l’ostilità della borghesia, alleatasi con le masse contadine e operaie, verso gli altri ordini assunse un indirizzo antifeudale e antiassolutistico. Il terzo stato, espressione della maggioranza della nazione, andò ben oltre il semplice problema nanziario, proponendosi di risolvere in maniera radicale tutti i problemi dello Stato. Ben presto l’ostilità della borghesia, che si era alleata con le masse contadine e operaie, verso gli altri ordini, assunse un preciso indirizzo antifeudale e antiassolutistico. Di fronte alle iniziative di questa classe, che il 17 giugno si era proclamata Assemblea nazionale, il re, la corte e la nobiltà ebbero un atteggiamento contraddittorio, commettendo una serie di passi falsi, che rafforzarono l’unità dell’assemblea e accrebbero l’odio del popolo verso corte e nobiltà. Quando, nell’estremo tentativo di fermare il movimento, Luigi XVI decise di ricorrere alla forza, il popolo di Parigi insorse unanime e con la presa della Bastiglia (14 luglio) costrinse il re ad accettare il nuovo stato di cose. Era il trionfo della volontà nazionale e l’inizio del crollo dell’ancien régime assolutistico. Il 4 agosto la nuova Assemblea nazionale decideva l’abolizione di tutti i diritti feudali: dopo oltre un millennio il feudalesimo era nito. Dopo l’abolizione del regime feudale, l’Assemblea nazionale elaborò una sorta di manifesto programmatico della rivoluzione, noto come Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui si enunciavano i principi del regime costituzionale borghese: libertà personale, eguaglianza di fronte alla legge, diritto di proprietà, sovranità popolare. La corte cercò di opporsi ancora una volta con l’uso della forza ai provvedimenti presentati dall’Assemblea, ma per la seconda volta l’intervento armato popolare salvò la Rivoluzione, che proseguì la sua marcia inarrestabile. Tra il 1789 e il 1791 l’Assemblea si impegnò in un’opera di ricostruzione economica, politica, amministrativa, religiosa: fu regolato il diritto di voto (ma ai soli cittadini attivi, cioè ricchi), si attuò un decentramento amministrativo, fu decisa la soppressione delle decime e l’incameramento dei beni ecclesiastici, riaffermato il liberismo economico seppure con qualche limitazione, redatta e approvata la Costituzione civile del clero, emessi i titoli di Stato o «assigné (assegnati)». Il re, pur facendo buon viso a cattivo gioco, non si rassegnava al nuovo ordine ma, disperando di farcela con le sue forze, pensò di rivolgersi alle potenze straniere. Quando cercò Estratto della pubblicazione 18 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 di fuggire all’estero fu riconosciuto, fermato e costretto a ritornare a Parigi. La borghesia preferì tuttavia lasciargli il potere esecutivo, timorosa che una svolta troppo democratica potesse portare al potere le classi popolari. L’Assemblea costituente diede alla Francia un assetto politico monarchico-costituzionale, in cui il potere era concentrato nelle mani dell’alta borghesia e della nobiltà liberale. Con l’approvazione della Costituzione del 1791 e l’avvento dell’Assemblea legislativa molti credettero che la Rivoluzione fosse nalmente terminata. In realtà vi erano troppi scontenti: da un lato la corte, gli aristocratici, l’alto clero che volevano riappropriarsi dei loro privilegi, dall’altra la piccola-media borghesia e le masse popolari che si vedevano emarginate dalla partecipazione alla vita statale. I gravi problemi interni, la divisione dei rivoluzionari in più partiti (tra i quali i giacobini erano il principale), le continue richieste di intervento straniero che il re segretamente invocava, spinsero l’Assemblea a dichiarare guerra ad Austria e Prussia. Il 20 aprile 1792 si riaccese la guerra della Francia contro le numerose coalizioni europee, che si protrasse pressoché ininterrottamente per 25 anni, no alla caduta di Napoleone. Le scontte iniziali subite dal disorganizzato esercito francese e l’ambigua condotta del re e dei generali insospettirono i deputati dell’Assemblea che cominciarono a constatare la collusione sempre più evidente tra la corte e gli eserciti nemici. Di fronte al rischio di una completa restaurazione monarchica e di una feroce repressione dei rivoluzionari, la borghesia impaurita decise di accordarsi con le masse popolari. Il 10 luglio 1792 il popolo esasperato assaltò le Tuileries: per la monarchia francese fu la ne. Il 21 settembre la nuova Assemblea, che prese il nome di Convenzione nazionale decise all’unanimità di dichiarare la Repubblica; nacque così la I Repubblica (1792-1799). La vittoria di Valmy salvò la Francia dall’invasione, consentendo alle armate rivoluzionarie di passare all’offensiva. Spinta dall’entusiasmo per i successi conseguiti, la Convenzione decise di troncare ogni rapporto con il vecchio regime: Luigi XVI fu processato e condannato. Ma di fronte alla reazione monarchica sia all’interno (guerra di Vandea) sia all’esterno (Iª coalizione europea) la Convenzione serrò le le, irrigidì il proprio apparato centralizzatore ed emanò una serie di leggi draconiane per la salvaguardia dello Stato (legge agraria, tassazione delle derrate, calmiere generale sui prezzi e sui salari). Alla guerra contro l’aristocrazia si aggiunse ben presto il mortale contrasto tra rivoluzionari moderati (girondini) ed estremisti (montagnardi e giacobini). In un primo tempo la Convenzione fu retta dai primi, ma i giacobini, alleatisi con le masse dei sanculotti (proletariato urbano rivoluzionario) passarono al contrattacco. Il 2 giugno del 1793, in un momento particolarmente negativo per la Francia, i giacobini guidati da Marat, Danton e Robespierre tolsero il potere ai girondini. Fu varata una nuova Costituzione. La Rivoluzione entrò così nella sua fase più violenta: tutti i principali leader furono eliminati in una gara per l’accentramento politico che vide inne l’efmera vittoria di Robespierre, che, dopo essersi sbarazzato del suo grande antagonista Danton (5 aprile 1794), governò come dittatore per circa tre mesi. L’importante vittoria di Fleury (26 giugno 1794) che allontanò il pericolo d’una invasione nemica e le migliorate condizioni di vita della popolazione, resero però insopportabile il giogo dittatoriale di Robespierre e dei suoi partigiani, che vennero eliminati grazie ad un colpo di Stato (27 luglio 1794). Con la ne della tirannia di Robespierre e la chiusura del club dei Giacobini, la rivoluzione poteva dirsi congelata. Il potere venne assunto da un comitato composto di cinque membri, il Direttorio, esponenti dell’alta borghesia, che sostituì la Costituzione del ’93, troppo radicale, con un’altra (1795), più restrittiva, se possibile, anche di quella del 1791. Il nuovo governo era quantomai instabile, esposto al rischio di una ripresa del potere da parte dei rivoluzio- Capitolo 1: L’Europa preindustriale 19 nari estremisti o di un colpo di mano dei monarchici. Per conservare il potere il Direttorio fu costretto ad appoggiarsi interamente sull’esercito, La rivoluzione francese i cui generali nirono per avere sempre più potere. Tra questi riuscì ad imporsi su tutti Napoleone Bonaparte. Dopo aver salvato il Direttorio da un tentativo realista ed essersi distinto per la campagna d’Italia e l’avventurosa spedizione in Egitto, egli ritenne giunto il momento di prendere il potere. Il colpo di Stato del 18 brumaio (febbraio) 1799 pose denitivamente ne alla Iª Repubblica: il potere era afdato a un Consolato composto da tre uomini, ma in realtà il primo Console era un vero e proprio monarca. Questa nzione venne pubblicamente accantonata quando, dopo altre folgoranti vittorie, Napoleone si fece proclamare Imperatore. L’Impero napoleonico (1804-1814), nonostante le memorabili imprese militari, fu un susseguirsi continuo di guerre e di efmere paci; le sfrenate ambizioni espansionistiche dell’Imperatore, che ambiva al dominio assoluto di tutta l’Europa, e l’accanita resistenza delle nazioni europee che diedero vita a ben sette coalizioni, tramontarono con la scontta napoleonica nella battaglia di Waterloo (18 giugno 1815). Mentre in Francia ritornava la monarchia con Luigi XVIII, le potenze vincitrici si riunivano nel Congresso di Vienna per decidere il futuro assetto dell’Europa, profondamente alterata dalle conquiste napoleoniche. Il mercantilismo e la fisiocrazia Tra il Cinquecento e il Seicento, anche in seguito all’intensificarsi dei traffici commerciali sulle nuove rotte oceaniche, si aprì l’epoca del capitalismo commerciale, cioè di quella fase contraddistinta dall’emergere della figura del mercante che, accumulando gradualmente il capitale nelle sue mani, promuove lo sviluppo della vita economica preparando l’avvento dell’economia industriale. Le analisi e osservazioni che furono sviluppate nel capitalismo commerciale sono rappresentate dal «mercantilismo», termine utilizzato per descrivere il pensiero economico a partire dalla fine del Medioevo fino all’Illuminismo (dal XV al XVIII secolo) Il complesso di mutamenti che resero possibile l’affermarsi dell’ideologia mercantilista è essenzialmente riconducibile ai seguenti fattori: — lo sviluppo degli Stati nazionali con relativo processo di accentramento del potere da parte delle diverse corone; — l’espansione del commercio estero favorito dalle grandi scoperte marittime; — il ricorso su larga scala al regime monopolistico con l’affermarsi delle grandi compagnie mercantili privilegiate; — l’azione colonizzatrice dello Stato che divenne «un’arma importante per mitigare i rischi del commercio e con i quali i legami tra interessi commerciali e Stato furono ulteriormente rinsaldati» (ROLL). I principali esponenti del mercantilismo (G. Malynes, E. Misselden, T. Mun) svilupparono le loro argomentazioni su tre linee principali: — importanza del potere dello Stato, poiché le politiche mercantiliste prevedono l’uso del potere statale per creare il settore industriale, per ottenere e incrementare un’eccedenza di esportazioni sulle importazioni e per accumulare riserve di metalli preziosi; 20 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 — necessità di accumulazione di metalli preziosi, poichè il pensiero mercantilista si basava sulla convinzione che la moneta pregiata (aurea e/o argentea) fosse l’elemento indispensabile allo sviluppo economico di uno Stato (la potenza e la ricchezza di uno Stato veniva identificata con la quantità di oro posseduto), pertanto si rese indispensabile l’incetta di metallo prezioso. — prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. Difatti l’unico mezzo utile all’accumulo di metallo prezioso risultò essere il ricorso alla politica di esportazione dei prodotti industriali verso quei mercati che avrebbero pagato in oro le merci acquistate. Tale politica fu possibile solo per il diretto intervento dello Stato attraverso una politca protezionistica, che favorì le esportazioni e ridusse le importazioni con dazi doganali. Sempre nel tentativo di indirizzare la politica economica in funzione delle esigenze dello Stato i mercantilisti auspicavano altresì: — una politica di incremento demografico. Infatti più popolazione significava più soldati e più braccia produttive; — un adeguato sistema di imposizione fiscale, che consentisse il mantenimento e il rafforzamento dell’apparato bellico. Anche se come dottrina il mercantilismo non ebbe una trattazione sistematica, riuscì, quale indirizzo di politica economica, ad ottenere un discreto successo raggiungendo il suo apice verso la metà del XVII secolo nell’Inghilterra di Cromwell (Atto di Navigazione - 1651) e nella Francia di Colbert dove si trasformò in un vero sistema protettore dell’industria nazionale e fu detto colbertismo. Come parziale reazione al mercantilismo nacque, in Francia nella seconda metà del XVIII secolo, la scuola fisiocratica. Fisiocrazia è un termine di origine greca che significa dominio della natura, giacché i fisiocratici affermavano che l’economia è retta da leggi naturali immutabili, da rispettare. Esponenti della dottrina fisiocratica furono il medico F. Quesnay, il marchese Mirabeau da Mercier De La Rivière e Dupont De Nemours. La fisiocrazia, dal punto di vista teorico, si fonda sul concetto di ordine naturale; per tale dottrina la società umana, come il mondo naturale, è regolata da ferree e immutabili leggi, espressione di un piano provvidenziale; leggi contro le quali ogni intervento è impotente, anzi dannoso. L’economia non si sottrae all’ordinamento naturale, ha le sue leggi contro le quali lo Stato non può nulla: nella produzione e nel commercio va applicata la formula Laissez faire, laissez passer. Lo Stato deve assicurare la libertà di lavoro, la libertà di produzione, la libertà di scambio e deve sostenere l’agricoltura, considerata come unica vera fonte di ricchezza. Siccome solo l’agricoltura dà un profitto netto (l’agricoltura produce, l’industria trasforma i prodotti dell’agricoltura), consegue che sia interesse generale che l’agricoltura fiorisca. Qui è evidente la polemica con il mercantilismo che mirava invece a favorire l’industria e il commercio mediante l’intervento dello Stato. Inoltre la dottrina fisiocratica rappresentava un passo avanti rispetto allo statalismo mercantilista, che riteneva immobile lo stock di risorse esistenti, per cui l’incremento di ricchezza non poteva nascere dalla produzione ma solo dall’alienazione, cioè dall’atto di scambio. I Estratto della pubblicazione Capitolo 1: L’Europa preindustriale 21 fisiocratici pongono alla base delle loro analisi il concetto di prodotto netto, definito come quel che resta da una determinata produzione dopo aver reintegrato tutti i fattori utilizzati per ottenerla. Immaginando la ricchezza in termini esclusivamente fisici questo sovrappiù non poteva ravvisarsi che nel settore agricolo; in tutte le attività non agrarie ogni aumento di valore è annullato e compensato da un corrispondente consumo di ricchezza: il lavoro e il capitale potevano soltanto riprodurre se stessi, non creare un sovrappiù. La relazione tra capitale agricolo e crescita è spiegata da Quesnay nel suo Tableau èconomique. Il Tableau è un diagramma che mostra flussi circolari di moneta e merci fra tre classi sociali: — proprietari terrieri; — capitalisti agrari o classe produttiva; — artigiani o classe sterile. Il Tableau parte considerando una situazione in cui i capitalisti agrari possiedono un capitale iniziale di 2 milioni di sterline (in grano), pari al capitale dei proprietari terrieri. L’agricoltura produce un surplus del 100% (pari quindi ad altri 2 milioni di sterline), cha va ai proprietari terrieri sotto forma di rendita. I proprietari terrieri spendono metà del loro reddito ( di 2 milioni di sterline) in cibo e metà in manufatti, il che significa che alle altre due classi affluisce un milione di sterline. Questo genera redditi, che vengono spesi, ancora, metà in cibo e metà in manufatti: ogni settore ricava così dall’altro un ulteriore mezzo milione di sterline. Quando si sommano i redditi derivanti da cicli successivi, ogni settore finisce per avere un reddito di 2 milioni di sterline. In sostanza quindi ogni settore ricava un reddito di 2 milioni e ne spende uno nell’acquisto di beni di consumo dall’altro settore. Esiste però una differenza fondamentale tra i due settori: l’industria utilizza il rimanente milione per comprare materie prime dall’agricoltura, e quindi non genera alcun surplus. L’ammontare dell’intero capitale finisce perciò nel settore agricolo, il cui prodotto netto finale sarà di 2 milioni, pagati ai proprietari come rendite. Il motivo per cui l’agricoltura è in grado di generare questo surplus finanziario è che, a differenza dell’industria, produce un surplus di beni. Il capitale iniziale di 2 milioni in grano è utilizzato con l’obiettivo di ottenere un prodotto finale di 5 milioni, uno dei quali è venduto ai proprietari come cibo, 2 sono venduti al settore industriale, metà come cibo e metà come materie prime, e l’ammontare rimanente di grano del valore di 2 milioni va ad aggiungersi alle riserve del settore agricolo per iniziare il ciclo dell’anno successivo (BACKHOUSE). Anche se non può dirsi che il laissez faire sia stato inventato dai fisiocratici, essi furono convinti assertori del liberismo economico: qualsiasi forma di intervento statale doveva essere evitata. Allo stesso modo, essendo l’agricoltura l’unico settore produttivo di valore, era inutile tassare l’industria e il commercio. L’imposta unica sulla terra era la sola forma possibile di imposizione fiscale in quanto tassando l’industria si tassava indirettamente la terra. Alla fragilità della teoria del valore dei fisiocratici risponderà la scuola classica ponendo in risalto il contributo di altri settori, oltre quello agricolo, alla produzione e con la teoria della distribuzione analizzerà, insieme alla rendita, i salari, i profitti e l’interesse. Estratto della pubblicazione Capitolo 2 La rivoluzione demografica, agraria e industriale in Gran Bretagna Sommario 1. Trasformazioni economico-sociali tra XVIII e XIX secolo. - 2. La rivoluzione demografica. 3. La rivoluzione agraria. - 4. La rivoluzione industriale: perché l’Inghilterra? 5. Urbanesimo e condizione operaia. 1. Trasformazioni economico-sociali tra XVIII e XIX secolo L’espressione Rivoluzione industriale ha vari signicati, ma viene utilizzata dagli storici per riferirsi non solo a quel complesso di invenzioni e innovazioni tecnologiche che si ebbe in Inghilterra tra gli ultimi decenni del XVIII secolo e i primi del XIX secolo ma anche al primo esempio storico di trasformazione di un’economia agricola e artigianale in un’economia dominata dall’industria, dalla produzione meccanica e dal metodo di lavoro in fabbrica. Il numero e la varietà delle innovazioni furono tali che è quasi impossibile farne l’elenco; ma tutti si possono riassumere in tre principi: — la sostituzione delle macchine – rapide, regolari, precise, infaticabili- all’abilità e alla fatica umane; — la sostituzione di fonti inanimate di energia a quelle animali, in particolare l’introduzione di macchine per la conversione del calore in lavoro, che misero a disposizione dell’uomo una nuova e quasi illimitata provvista di energia; — l’uso di nuove e molto più abbondanti materie prime,in particolare la sostituzione di sostanze minerali a quelle vegetali o animali. [David S. Landes, in Basini ‘99] La rivoluzione industriale trasformò l’uomo da agricoltore-pastore in manipolatore di macchine azionate da energia inanimata. Ne derivarono profonde trasformazioni nell’organizzazione del lavoro industriale, basata in passato sull’attività saltuaria di famiglie contadine che lavoravano dapprima in maniera indipendente e poi per conto di un mercante imprenditore, e sulle prestazioni di artigiani che producevano su commissione dei clienti. Secondo la storiograa tradizionale fu la rivoluzione agraria il naturale presupposto per l’affermazione di un modello economico capitalistico. Soltanto Estratto della pubblicazione Capitolo 2: La rivoluzione demografica, agraria e industriale in Gran Bretagna 23 un profondo cambiamento del settore agricolo, infatti, poteva creare le condizioni indispensabili per lo sviluppo industriale e cioè: — disponibilità di manodopera, attraverso il processo di proletarizzazione dei contadini. Questi ultimi costi- La modernizzazione in tuivano la forza-lavoro utilizzata per l’avvio dell’indu- Gran Bretagna strializzazione; — trasformazione dell’agricoltura, cambiando i metodi di coltura e attuando un processo di rapida meccanizzazione nel corso del XIX secolo; — produzione di derrate alimentari per le masse inurbate in quantità maggiori con estensioni coltivabili minori; ciò comportò inevitabilmente un aumento della produttività. Questa concezione storica che lega indissolubilmente rivoluzione agraria e rivoluzione industriale (e, quindi, anche al processo di espropriazione violenta delle terre ai danni dei coloni — le enclosures —avvenuto nel corso del XVII e XVIII secolo in Inghilterra) è stata temperata da una conoscenza più ampia degli avvenimenti e da una migliore comprensione delle trasformazioni tecnologiche e sociali del tempo. La moderna storiograa preferisce sostituire al termine rivoluzione industriale quello di modernizzazione e individua nei seguenti gli aspetti peculiari di questo processo: — industrializzazione e nascita del modello di sviluppo capitalistico ad economia di mercato; — trasformazione dell’agricoltura; — progresso dei trasporti e del commercio; — boom demograco e conseguente fenomeno dell’urbanizzazione. 2. La rivoluzione demografica Nel XVIII secolo le tre nazioni più ricche del mondo per Reddito Medio erano nell’ordine l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia, mentre dal punto di vista del Reddito Complessivo, cioè della pura forza economica, l’ordine si invertiva. «Benché lo scarto tra l’economia francese e l’economia inglese sia al 1790 molto meno grande di quanto si dice, l’industria inglese sembra tuttavia prevalere e, ad ogni modo, la Rivoluzione francese, ritardando lo sviluppo dell’industria francese dopo il 1790, porrà l’Inghilterra al primo posto» (MAURO). 24 Parte I: Dalla rivoluzione industriale alla crisi del 1870 Fino al XVIII secolo per incrementare la crescita del prodotto nazionale, della produttività e del livello di vita era necessario mantenere in equilibrio la crescita della popolazione e i mezzi di sussistenza. Il settore agricolo costituiva il serbatoio per procurare il cibo necessario alla popolazione e aumentarne il tasso di sviluppo, con innovazioni tecniche e politico-sociali (vedi infra), interagendo con il tasso di sviluppo della popolazione. Infatti è storicamente provato che quando la produzione agricola aumenta in seguito alla diffusione di tecniche nuove e più produttive l’incremento della popolazione è più rapido. In Inghilterra, a partire dalla metà del XVIII secolo, la crescita demograca assunse un ritmo di sviluppo più accelerato rispetto agli indici registrati in Europa: nel primo ventennio del XIX secolo il numero degli abitanti era tre volte superiore a quello francese. Le ragioni sono da ricercarsi nei progressi della medicina, nel miglioramento dell’igiene e del controllo sanitario e nelle migliori condizioni di vita che fecero seguito alla rivoluzione industriale. Questi fattori, insieme all’aumento del reddito reale pro capite favorirono una riduzione dell’età media matrimoniale con conseguenze immediate sul tasso di natalità: la fertilità femminile è, infatti, in funzione dell’età e la maggioranza dei parti si verica fra i 20 e i 30 anni. Il modello inglese di risposta demograca fondato sui cambiamenti del tasso di nuzialità è in netto contrasto con quello delle altre nazioni europee in cui l’equilibrio fra popolazione e risorse naturali era determinato dai cambiamenti nel tasso di mortalità. Ciò nonostante nel corso dell’Ottocento la scomparsa di malattie come la peste e il vaiolo, insieme all’aumento della produzione agricola, favorì anche in Europa il notevole incremento della popolazione. La crescita demograca ebbe come conseguenza lo sviluppo dell’urbanesimo che stimolò ulteriormente il progresso industriale. La migrazione dalla campagna alla città fu comune a tutti i periodi di rapido movimento demograco perché l’agricoltura fu troppo lenta nelle sue trasformazioni per adattarsi ai bisogni della popolazione: la forza lavoro in eccesso dovette necessariamente trovare sostentamento e lavoro in attività diverse (servizi di trasporto, piccolo commercio, artigianato, manifatture) per le quali la città offrisse occasioni più favorevoli. Si ebbe così un aumento notevole della popolazione urbana di Londra, diventarono grandi città Manchester, Bristol, Glasgow, Liverpool, Birmingham e si moltiplicarono i centri urbani. «Il ritmo della crescita urbana [nell’800] fu pari al rapido sviluppo della manifattura e da questo processo… sorsero le prime città industriali. La nuova classe operaia urbana si affollò in casa- Estratto della pubblicazione