Manolo Pellegrini

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Vincenzo Dalberti e le élite svizzere al sud delle Alpi
confrontate alla crisi del regime della Mediazione
Manolo Pellegrini
Al fine di analizzare le prese di posizione delle élite svizzere al sud delle Alpi durante la crisi
del regime della Mediazione, tra il 1810 e il 1814, oltre alla figura di Vincenzo Dalberti
abbiamo preso in considerazione una ventina di altre personalità scelte tra quelle che
furono più attive sul piano politico, dalla rivoluzione del 1798 alla fine dell’era
napoleonica 1. La scelta è stata fatta anche considerando una certa rappresentatività
geografica delle élite, élite radicate in un territorio molto diversificato e considerando i
differenti orientamenti iniziali riguardo il destino dei baliaggi sud alpini. Quali furono le
loro prese di posizione durante la crisi del regime della Mediazione tra il 1810 e il 1814?
Prima di provare a dare una risposta a questa domanda ci pare fondamentale chiederci
quale fosse stata precedentemente l’adesione di queste stesse personalità al regime della
Mediazione, regime che per le sue caratteristiche dava ampio spazio ai cantoni in un quadro
confederale.
È allora gioco forza constatare che ancora alla fine del 1802 le élite sud alpine erano divise
su quale dovesse essere l’assetto politico della Svizzera nel contesto dell’Europa
napoleonica. Solo una minoranza delle élite propendeva in modo esplicito per una
soluzione di tipo federalista simile a quella poi sancita dal regime della Mediazione. Una
maggioranza era favorevole ad una repubblica centralizzata in quanto la decentralizzazione
e il federalismo non erano considerati vantaggiosi dal punto di vista economico per un’area
povera come quella della Svizzera sud alpina. Così per esempio il progetto costituzionale
della Malmaison (del maggio del 1801), che pur mantenendo un quadro unitario prevedeva
una certa decentralizzazione delle competenze in favore dei cantoni, era vista da parecchi
esponenti dell’élite con diffidenza: «ce qui alarme un peu les esprits est l’article des finances,
et surtout celui, qui laisse à la charge des cantons respectifs les indemnités des ses
fonctionnaires, puisque dans ce canton il n’y a point des biens appartenants à lui, et par
conséquent toute dépense doit graver sur les contribuables» 2. Oltre al prefetto del Cantone
di Bellinzona, Giuseppe Rusconi, anche l’abate di Olivone Vincenzo Dalberti, il senatore
della Repubblica originario di Ascona Andrea Caglioni, il prefetto del Cantone di Lugano
Giuseppe Franzoni, il medico e membro della camera amministrativa del Cantone di
Lugano originario di Cabbio (Mendrisiotto) Francesco Bernasconi, per citarne solo alcuni,
si espressero in favore di una Repubblica unitaria e centralizzata. Favorevole all’avvento di
un sistema federalista, che riunisse in un’unica entità i cantoni di Lugano e Bellinzona,
creati dalla Repubblica elvetica, vi era invece Giovanni Battista Quadri, che nella primavera
La scelta è perciò caduta sulle seguenti venti personalità: originari dei territori posti a sud del lago Ceresio
(Mendrisiotto) erano Giovanni Battista Maggi (1775-1835), Francesco Bernasconi (1770-1808), della regione
di Lugano Giovanni Battista Quadri (1776-1839), Giovanni Reali (1774-1846), Angelo Maria Stoppani (17681815), Annibale Pellegrini (1756-1822), Antonio Maria Luvini (?), Pietro Frasca (1759-1829), Giacomo
Buonvicini (1751-1806), Giulio Pocobelli (1766-1843), e Modesto Farina (1771-1856), della regione di
Locarno e della valle Maggia Andrea Bustelli (1754-1823), Andrea Caglioni (1763-1825) e Giuseppe Franzoni
(1758-1817); originari della regione di Bellinzona e delle valli superiori erano invece Giuseppe Rusconi (17491817), Antonio Sacchi (1747-1831), Vittore Ghiringhelli (1774-?), Vincenzo Dalberti (1763-1849), Bernardino
Pedrazzi (1752-1829) e Agostino Dazzoni (1776-1851).
2 Archivio di Stato del Canton Ticino (ASTi), Fondo Repubblica elvetica, scatola 3, Corrispondenza
ministeriale del prefetto, Lettera di Rusconi al comitato esecutivo, 7 giugno 1801.
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del 1803 cercò di presentare alla consulta di Parigi un suo progetto costituzionale per il
nuovo Cantone Ticino, cantone che avrebbe visto la luce in virtù dell’atto di Mediazione e
nel contesto di un sistema confederale decentralizzato. Alla fine, nel primo parlamento e
governo del Cantone Ticino 3, nel maggio del 1803, entrarono sia i rappresentanti delle élite
precedentemente favorevoli ad una Repubblica unitaria, sia quelli che si erano battuti per
un sistema federalista. Tra i primi, entrarono a far parte del governo Vincenzo Dalberti,
Giuseppe Rusconi, Andrea Caglioni, tra i secondi Giovanni Battista Quadri e Giovanni
Reali.
Nonostante le iniziali divergenze l’insieme dell’élite, con sorprendente coesione, accettò il
nuovo quadro federalista della Mediazione e fu riconoscente a Napoleone e alla Francia per
la favorevole opera costituente: se senza sorpresa Giovanni Battista Quadri già il 20 maggio
del 1803 chiedeva con una mozione che il Gran Consiglio rendesse omaggio a Bonaparte
per «aver assicurato l’esistenza politica del Cantone Ticino» 4, l’intervento di Vincenzo
Dalberti in veste di membro dell’esecutivo e presidente del Gran Consiglio, del 19 maggio
del 1805, non fece che riaffermare tale adesione: «Chi poteva sperare che mentre la
rivoluzione era denigrata co’ più neri colori da’ suoi nemici, che baldanzosamente
presagivano il loro trionfo imminente, e minacciavano servitù e vendetta, allora appunto la
Rivoluzione doveva essere coronata dall’esito più felice? La provvidenza di Dio vegliava su
di noi; ella suscitava un Eroe alla nostra difesa; Bonaparte si fece nostro Mediatore, ed il
cantone Ticino fu ricostituito dalla sua saggezza in popolo sovrano, forte per la union
federale, indipendente pei propri diritti 5».
La coesione e la generale adesione delle élite svizzere sud alpine al regime della Mediazione
era probabilmente dovuta alla possibilità di usufruire di uno spazio politico all’interno del
quale l’élite locale poteva esprimersi senza ostacoli di sorta e senza dover porsi il problema
dell’integrazione in una dimensione politica tutto sommato lontana, culturalmente e
geograficamente, come quella Svizzera. Le élite approfittarono certamente del quadro
costituzionale della Mediazione per introdurre una serie di innovazioni politicoamministrative, direttamente ispirate al modello napoleonico, e per avviare riforme che
portavano ad una certa centralizzazione dello spazio svizzero sud alpino.
Con la recrudescenza del conflitto europeo e le crescenti pressioni da parte della Francia
napoleonica sugli alleati, sulla Svizzera e sul Ticino, a partire dal 1806, affinché si
procedesse con più efficacia al reclutamento di soldati al servizio della Francia e si
controllassero le merci di contrabbando, non abbiamo significativi indizi, che le élite locali
avessero adottato posizioni più critiche nei confronti del sistema napoleonico.
Ancora nel 1808, Dalberti, in un discorso davanti al Gran Consiglio, affermava che
nonostante la guerra europea non permettesse di godere nella calma dei frutti del regime
della Mediazione, la contingenza esterna aveva avuto il merito «di eccitare nella nostra
gioventù le spirito militare, che presuppone già la Costituzione nostra; che il nome solo di
Svizzeri esige da noi; che a noi impone l’attuale sistema politico d’Europa, e che per
l’infingardaggine degli ultimi tempi era nelle nostre popolazioni presso che distrutto 6».
Anche le pressioni per un maggior controllo delle frontiere, per contrastare il
contrabbando e l’afflusso di disertori dal Regno d’Italia, non produssero critiche ma
piuttosto l’effetto di una maggiore ottemperanza delle autorità locali. Ancora nell’autunno
del 1810 il Piccolo Consiglio ticinese, che vedeva in quel momento tra le sue fila oltre a
Vincenzo Dalberti, anche Giuseppe Rusconi, Giuseppe Franzoni, Pietro Frasca e
Giovanni Battista Maggi, sulla base delle sollecitazioni provenienti da Parigi e trasmesse al
Cf. con G. Martinola, La missione di Giovanni Battista Quadri a Parigi, Bellinzona, 1954.
Cit. in C. Caldelari, Napoleone e il Ticino, Bellinzona, 2003, p. 105.
5 Cf. V. Dalberti, discorso in occasione della prima festa civica religiosa del 19 maggio 1805, A. Bettelini (a
cura di), Scritti scelti, Vol. 1, Lugano, 1933-1937, pp. 41-42.
6 Ibid., discorso di V. Dalberti davanti al Gran Consiglio, 2 maggio 1808.
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landamano della Svizzera, non esitava a prendere delle severe misure per contrastare il
contrabbando delle merci inglesi 7. Quale fu allora, a partire dall’ottobre del 1810, l’effetto
dell’occupazione delle terre svizzere al sud delle Alpi da parte di truppe del Regno d’Italia
e, a partire dall’autunno del 1813, del crollo dell’ordinamento napoleonico, sull’adesione
delle élite sud alpine alla politica di Napoleone e al regime della Mediazione?
L’occupazione italiana e i tentativi di mantenere l’autonomia politica del Cantone
Nel corso del 1810, nonostante le preoccupazioni diffuse tra alcuni esponenti dell’élite
svizzera al sud delle Alpi, Vincenzo Dalberti escludeva nel modo più assoluto la
possibilità di un’occupazione da parte delle truppe italiane del Cantone e un suo possibile
distacco dal resto della Confederazione: «Pour moi je suis, et j’ai toujours été de votre
avis, que tant que nous serons fidèles à l’acte de Médiation, ou que nous ne ferons
quelque grande sottise, l’Empereur ne touchera point à nos Constitutions. C’est insulter
sa loyauté que de penser autrement 8». Era dimostrare troppa confidenza: il 31 ottobre del
1810 il Cantone Ticino e la Mesolcina furono occupate da duemila soldati del Regno
d’Italia ufficialmente inviati su ordine stesso di Napoleone per applicare con maggior
rigore le disposizioni volte a reprimere il contrabbando di merci inglesi. L’occupazione
era forse anche un modo da parte di Napoleone di far pressione sui cantoni svizzeri,
affinché rivedessero la capitolazione militare firmata tra i due paesi nel 1803,
capitolazione considerata poco efficace, essendo basata su un reclutamento volontario 9.
L’occupazione, come è rilevabile dal diario 10 dello stesso Dalberti, portò immediatamente
a dei contrasti tra le autorità locali e le truppe di occupazione. Gli ufficiali dell’esercito
d’occupazione cercarono inizialmente di impedire la convocazione del Gran Consiglio,
dirottarono a loro favore parte delle entrate fiscali del Cantone, introdussero tribunali
militari per giudicare cittadini e disertori italiani e presero disposizioni in campo
economico che potevano far presagire la pura e semplice annessione del Ticino al Regno
d’Italia. Le autorità del Cantone e le élite locali si trovarono confrontate ad una
contraddizione evidente. Il regime della Mediazione voluto nel 1803 dalla Francia
napoleonica aveva creato un cantone svizzero sud alpino che dava un’ampia autonomia
alle élite locali, autonomia per la quale esse erano riconoscenti a Napoleone. Ora il conflitto
europeo, in funzione del quale era stato instaurato il blocco continentale, aveva portato
all’occupazione e al pericolo di una perdita di capacità d’intervento da parte dell’élite locale,
tanto da far temere la fine di qualsiasi autonomia. Tale prospettiva, resa ancora più concreta
dall’incorporazione all’Impero francese del Vallese, il 12 novembre 1810, spinse le élite
locali a rivolgersi al landamano affinché convocasse una dieta atta a riaffermare il legame
confederale e a scongiurare lo scorporo del Cantone, ciò che avrebbe costituito una
flagrante violazione dei trattati con la Francia. Fu la richiesta impellente di Dalberti,
convinto che la soppressione del Cantone avrebbe portato alla rovina l’intera Svizzera 11, ma
anche quella del Piccolo Consiglio e del Gran Consiglio nel febbraio del 1811, su proposta
di una commissione guidata, oltre che da Dalberti e Rusconi, anche da Annibale Pellegrini,
Andrea Bustelli, Agostino Dazzoni e Carlo Sacchi, già protagonisti della prima ora del
rinnovamento delle istituzioni indotto dalla rivoluzione del 1798.
Cf. con G. Martinola, Epistolario Dalberti-Usteri 1807-1831, Bellinzona, 1975, p. 99.
Ibid., Lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri, 12 luglio 1810.
9 Cf. con J. Dierauer, Le féderalisme à l’époque de la Médiation, in Histoire de la Conféderation suisse, livre XI, vol. V,
Lausanne, 1918, pp. 336-338.
10 Cf. con il diario di Dalberti, in Bettelini, Scritti scelti, cit., vol. II, pp. 17-54.
11 Cf. con M. Ferri, Vincenzo Dalberti, Paul Usteri, Frédéric César de la Harpe, il Ticino e gli altri cantoni, in Creare un
nuovo cantone all’epoca delle rivoluzioni, Ticino e Vaud nell’Europa napoleonica, Bellinzona, 2004, p. 101.
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Non sorprende perciò che l’occupazione portò ad un cambiamento della percezione della
politica di Napoleone in seno alle élite. Se ancora nel 1810 vi era adesione alla politica
dell’Impero francese e riconoscenza per l’atto di Mediazione, a partire dalla fine di
quell’anno nelle élite svizzere al sud delle Alpi crebbero le perplessità e l’ostilità nei
confronti dell’atteggiamento e della politica dell’Imperatore. La reazione di Dalberti dopo la
sprezzante accoglienza di Napoleone alla richiesta di chiarimenti da parte di una
delegazione svizzera a Parigi, nel giugno del 1811, denota in modo netto questo
cambiamento di atteggiamento: «L’audience a été accordée, mais dans les paroles de
l’Empereur, je ne vois ni le Médiateur, ni l’ami de la Suisse. C’est le langage despotique d’un
maître. Les princes ne sont pas les êtres les plus reconnaissants ; mais je suis affligé pour la
gloire de Napoléon, qu’il ait oublié les égards qu’il doit à notre patrie» 12. Questa posizione,
che niente ci induce a pensare non si fosse radicata nelle élite del Cantone, venne ribadita
con ancor più vigore successivamente da Dalberti. Tanto più che la Svizzera nel corso del
1812 dovette accettare una nuova capitolazione con la Francia per la fornitura di truppe,
che implicava la coscrizione obbligatoria e che portò sui campi di battaglia in Russia oltre
novemila soldati Confederati 13.
Nel gennaio del 1813 rispondendo a Paul Usteri che si diceva preoccupato per una
possibile pace imposta dall’Inghilterra al continente, Dalberti ribatté che era altrettanto
inaccettabile una pace imposta dalla Francia: «la nouvelle capitulation militaire et
l’occupation du canton Tessin sont deux actes d’un despotisme insultant, que la pauvre
Suisse ne meritait pas, et qui en fait craindre de plus terribles encore, si notre Mediateur ne
trouve plus d’obstacle a devenir notre maître. Je voudrais que fut la Raison qui dicatat les
conditions d’une Paix que l’Europe éplorée invoque è grand cris» 14.
Nonostante i sentimenti ostili, Dalberti e gli altri membri del Piccolo Consiglio, fino
all’ottobre del 1813 continuarono ad ottemperare alle disposizioni riguardanti la coscrizione
in favore del contingente capitolato 15, anche nell’ottica di evitare di dare un qualsiasi
pretesto ad un’annessione del Cantone al Regno d’Italia, ciò che apparentemente nel
Cantone nessuno voleva 16.
L’occupazione aveva dirottato le energie delle élite in favore della soddisfazione delle
esigenze dell’ordinamento napoleonico, distogliendole dal processo di centralizzazione e di
innovazione interna. Significativamente Dalberti scriveva nel febbraio del 1811: «Notre
administration ne va pas bien. L’incertitude de notre destinée a engourdi presque tous les
esprits, et on pense bien plus à soi même qu’aux affaires publiques. Le travail de nos
chemins a été suspendu à l’arrivée des étrangers, car il fallut prévoir qu’on aurait dû
employer autrement nos pauvres revenus, qui tombent en decroissement» 17. Il prevalere
degli interessi particolari ebbe delle nefaste conseguenze sulla coesione delle élite, élite che
si spaccarono anche sulle possibili risposte da dare alla crisi.
Lo stesso governo risultò diviso sull’atteggiamento da adottare rispetto alle autorità
occupanti: all’inizio della crisi Giovanni Battista Maggi propose una rapida convocazione
del Gran Consiglio per decidere il da farsi 18, mentre la maggioranza del governo giudicava
inopportuna tale proposta, passibile addirittura di far precipitare la situazione. Per la loro
intransigenza e i contatti che nello stesso tempo intrattenevano con le autorità italiane,
Cf. con la lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri del 10 luglio 1811, in Martinola, Epistolario, cit., p. 161.
Cf. con Dierauer, Le féderalisme, cit., pp. 345-350.
14 Cf. con la lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri del 17 gennaio 1811, in Martinola, Epistolario, cit., p.
205.
15 ASTi, Risoluzioni del Pc, vol. 41, cf. per esempio i verbali della seduta del 6 agosto 1813.
16 Cf. per esempio con la lettera di Dalberti a Usteri del 30 dicembre 1812, in Martinola, Epistolario, cit., p.
204.
17 Cf. con la lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri del 4 febbraio 18011, in Martinola, Epistolario, cit. p.
133.
18 Cf. con il diario di Dalberti, in Bettelini, Scritti scelti, cit., vol. I, p. 28.
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Giovanni Battista Maggi e Pietro Frasca furono accusati in seguito di operare in favore di
una distacco del Cantone 19. Nel maggio del 1811, forse proprio per questo furono esclusi
dal governo, in seno al quale invece rientrò il già senatore della Repubblica elvetica Andrea
Caglioni.
Dalberti, dal canto suo, prima di conoscere le stesse intenzioni delle autorità del Regno
d’Italia e di Napoleone e contro l’opinione delle stesse élite elvetiche, suggerì la possibilità
di una rettifica dei confini meridionali del Cantone, con lo scopo di sacrificare una parte
pur di salvare la maggior porzione possibile del territorio, da quella che egli considerava più
che una mera eventualità: l’annessione al Regno d’Italia 20. Dopo la chiara presa di posizione
da parte della Dieta nell’aprile del 1811, in opposizione a qualsiasi concessione territoriale,
Dalberti, forse anche influenzato dall’atteggiamento di Giuseppe Rusconi che aveva
presenziato ai lavori, esitò sulla strada da prendere 21; poi però, anche in seguito al gelo di
Napoleone nei confronti delle autorità svizzere, operò affinché il parlamento si esprimesse
in favore di un negoziato per una rettifica dei confini del Cantone. Alla fine di luglio, l’élite
politica del Cantone votò con un’esigua maggioranza la sua disponibilità a negoziare in
cambio dell’evacuazione delle truppe italiane. A favore votarono soprattutto le élite dell’ex
Cantone elvetico di Bellinzona: Vincenzo Dalberti, i bellinzonesi Giuseppe Rusconi e Carlo
Sacchi i leventinesi Agostino Dazzoni e Bernardino Pedrazzi, ma anche esponenti delle
élite locarnesi e luganesi, Andrea Caglioni, l’ex filo cisalpino Giovanni Reali e l’ex segretario
di stato Annibale Pellegrini, quest’ultimo vicino a Dalberti per legami personali 22. Contrari a
qualsiasi concessione si espressero invece soprattutto l’insieme delle élite del Mendrisiotto,
capeggiate da Giovanni Battista Maggi, ma anche i luganesi Giovanni Battista Quadri, il già
prefetto del Cantone di Lugano Pietro Frasca, l’ex membro del governo Angelo Maria
Stoppani, Ambrogio Luvini e Giulio Pocobelli e il locarnese Andrea Bustelli uno dei tenori
del Gran Consiglio nel periodo della Mediazione 23.
Il voto e la perpetuazione dell’occupazione acuirono le acrimonie in seno alle élite svizzere
al sud delle Alpi, come dimostrano la corrispondenza di Giovanni Battista Monti e l’azione
di Giovanni Battista Maggi nel Mendrisiotto 24. Accentuarono in alcuni lo stato di attesa e di
ansia, come testimoniato dalla corrispondenza di Agostino Dazzoni: «siamo ancora nella
primiera incertezza, oppure abbiamo finalmente qualche cosa di positivo? Io non so darmi
pace finché non vedo cessato il pericolo. Abbia pertanto la bontà […] di fornire delle
notizie rassicuranti o almeno consolanti ad un povero montagnardo, che adora la bontà
della sua patria».
Le élite della svizzera sud alpina confrontate alla caduta del regime della
Mediazione
La sconfitta di Napoleone a Lipsia nell’ottobre del 1813, il conseguente ritiro delle truppe
italiane dal Cantone Ticino all’inizio di novembre e la convocazione di una dieta
19 Cf. con la lettera del landamano de Wattenville al colonnello de Hauser, 22 dicembre 1810, in Bettelini,
Scritti scelti, cit., vol. II, pp. 108-113.
20 Cf. con le lettere di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri, del 29 novembre 1810 e del 13 gennaio 1811 e con la
Lettera di risposta di Paul Usteri del 23 gennaio, in Martinola, Epistolario, cit., pp. 118-119 e 130-132.
21 Ibid., p. 153. Cf. con la lettera di Vincenzo a Paul Usteri del 1 maggio 1811.
22 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cf. con la corrispondenza tra Annibale Pellegrini e Vincenzo Dalberti tra
il marzo del 1810 e il dicembre del 1811.
23 Atti del Gran Consiglio del Cantone Ticino, Bellinzona, 1902, vol. III, pp. 412-414, seduta straordinaria del
31 luglio 1811.
24 Cf. con G. Martinola, Accuse e difese di GB Monti e GB Maggi, le sorti del Mendrisiotto nel 1811, in «Bollettino
storico della Svizzera italiana», vol. 79, fasc. 1, 1967, pp. 7-23.
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straordinaria atta a stabilire l’atteggiamento della Svizzera nel nuovo quadro europeo,
ridiedero un’insperata compattezza alle élite politiche sud alpine.
Il Gran Consiglio riunitosi all’inizio di novembre del 1813 nominò suo rappresentante alla
Dieta Vincenzo Dalberti con il mandato di difendere la neutralità svizzera di fronte alle
potenze belligeranti: «[…] le système de neutralité entrant parfaitement dans les vues du
Canton de Tessin, il [il Gran Consiglio] m’a donné l’instruction positive de voter pour
toutes les démarches qui seraient nécessaires pour faire reconnaître des autres puissances
belligerantes la neutralité de la Suisse» 25. La dieta confederale unanimemente adottò un
manifesto in difesa della neutralità, decise di mobilitare le truppe al fine di difendere le
frontiere e denunciò la sua partecipazione al blocco continentale. Anche queste ultime
misure furono accolte con favore dalle élite sud alpine.
Alla fine di dicembre, in seguito alla convocazione del landamano zurighese Reinhard di
una riunione informale di esponenti dell’élite di tutti i cantoni per discutere sul da farsi, il
Gran Consiglio ticinese mostrò ancora una volta una certa unità d’intenti nella definizione
del mandato alla sua delegazione guidata da Giuseppe Rusconi: la commissione, i cui
membri erano esponenti delle diverse regioni del Cantone e rappresentanti delle diverse
sensibilità politiche 26, propose un decreto volto alla difesa del regime della Mediazione
«ritrovando che anche la costituzione particolare di questo cantone ha sempre tenuta la sua
popolazione in uno stato di piena contentezza e unione». Secondo la commissione, la
delegazione, stando «ferma e fissa in questa 27 [Costituzione]», avrebbe dovuto difendere
con la massima energia l’indipendenza del Cantone in un sistema federativo, che
riconoscesse a tutti i cantoni libertà e eguaglianza nei diritti.
Nonostante fosse diffusa tra l’élite l’ostilità all’ordine europeo di Napoleone 28, le autorità
politiche del Cantone erano tutt’altro che disposte a rinunciare a quanto di positivo quel
regime aveva prodotto: la creazione di un cantone al sud delle Alpi, con proprie istituzioni
rappresentative, che permettevano alle élite svizzere sud alpine di gestire in modo diretto
un proprio potere sulla regione. Inevitabile perciò che le decisioni prese a Zurigo, alla fine
di dicembre del 1813 volte all’abolizione dell’atto di Mediazione e alla revisione del patto
federale, non fossero gradite dalle élite sud alpine, che si piegarono a malincuore 29.
Dissidi non tardarono a manifestarsi sulle procedure da seguire e su quale dovesse essere
nel nuovo ordine il capoluogo del Cantone. Nondimeno il Gran Consiglio riunito in seduta
straordinaria nel febbraio-marzo 1814 e chiamato ad accettare il nuovo patto federale e a
elaborare una nuova costituzione, riuscì a trovare un minimo comun denominatore. Le élite
politiche del Cantone adottarono il 4 marzo una Costituzione più democratica nei suoi
contenuti di quella imposta dalla Mediazione: le regioni erano meglio rappresentate in
parlamento e il principio della separazione dei poteri fu fissato in modo più rigoroso 30.
Anche sulla questione della capitale, che divideva le élite del Cantone, si impose il
compromesso dell’ambulanza del capoluogo tra Lugano, Locarno e Bellinzona,
compromesso sostenuto soprattutto dagli esponenti dell’élite dell’ex Cantone di Lugano: a
favore di tale soluzione si espressero i locarnesi Andrea Bustelli, Andrea Caglioni, Giuseppe
Franzoni, i luganesi Pietro Frasca, Antonio Maria Luvini, Annibale Pellegrini, Giovanni
Reali, Giovanni Battista Quadri, Giulio Pocobelli e il rappresentante del Mendrisiotto
Giovanni Battista Maggi. L’opposizione al compromesso venne soprattutto da esponenti
dell’ex Cantone di Bellinzona, che speravano di mantenere il centro del Cantone nel borgo
Cit. tratta dal discorso di Dalberti alla dieta confederale del 15 novembre 1813, in Bettelini, Scritti scelti, cit.,
vol. II.
26 Tra di essi vi erano Giovanni Battista Maggi, Andrea Bustelli, Antonio Maria Luvini, Annibale Pellegrini,
Agostino Dazzoni e Carlo Sacchi.
27 Atti del Gran Consiglio, cit., vol. IV, p. 162.
28 Cf. per esempio con Caldelari, Napoleone, cit.
29 Cf. con R. Ceschi, Il cantone Ticino nella crisi del 1814, Bellinzona, 1979, pp. 44-45.
30 Ibid., pp. 50-52.
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di Bellinzona, così come stabilito dalla Mediazione: votarono contro il bleniese Vincenzo
Dalberti, i leventinesi Agostino Dazzoni e Bernardino Pedrazzi, e il bellinzonese Carlo
Sacchi.
La decisione del Gran Consiglio portò alla reazione delle autorità locali del borgo di
Bellinzona: l’assemblea comunale della cittadina cercò di mobilitare i distretti sopracenerini
in favore della creazione di due semi cantoni con rispettivamente capitale Bellinzona e
Lugano 31. Tale proposta mise sotto pressione l’insieme dell’élite politica 32. Due tra gli
esponenti più in vista dell’élite locarnese, Giuseppe Franzoni e Andrea Bustelli, pur avendo
votato per l’ambulanza del capoluogo sostennero la proposta, allettati dalla possibilità di
un’adesione dei loro distretti ad un cantone sopracenerino. L’adesione al movimento giunse
anche dal segretario di Stato di Bellinzona Vittore Ghiringhelli, mentre lo stesso Vincenzo
Dalberti di fronte alla richiesta del suo comune di origine di esprimersi sul tale progetto,
adottò una posizione evasiva: «forse l’oggetto a cui tende il comune di Bellinzona potrebbe
essere utile; ma tanto la riuscita dello stesso, come la sua utilità dipendono da varie
combinazioni, che finora non si sono abbastanza sviluppate» 33. Tra i membri del Piccolo
Consiglio del sopraceneri solo Giuseppe Rusconi rifiutò categoricamente di assecondare le
mire del borgo di Bellinzona.
La mobilitazione di molti comuni del sopraceneri, l’ambigua posizione presa da una parte
dell’élite politica dell’ex Cantone di Bellinzona e del distretto di Locarno portò alla reazione
di molti comuni e delle élite del Sottoceneri che chiesero una ferma censura delle iniziative
del borgo di Bellinzona 34. Il governo diviso e titubante convocò inizialmente il Gran
Consiglio affinché affrontasse la questione; poi, anche su intimazione dell’ex landamano
Reinhard per evitare disordini e una possibile mobilitazione volta a destituire il governo 35,
desistette. Il conflitto sulla fissazione del capoluogo restò latente e le élite politiche, messe
sotto pressione dagli interessi dei ceti mercantili dei due principali borghi del Cantone, che
non volevano rassegnarsi all’ipotesi di divenire periferia, agirono alimentando incertezze e
contrasti che tendevano a delegittimare le istituzioni.
Il venir meno del regime della Mediazione aprì un altro fronte per le élite sud alpine di
difficile gestione: all’inizio di gennaio Uri aveva rivendicato presso le potenze alleate il
ritorno della Leventina sotto la sua giurisdizione e nel febbraio del 1814 pubblicò nella valle
un appello volto a indurre l’adesione delle comunità leventinesi al proprio progetto 36. Una
parte dell’élite locale, e soprattutto i comuni della media e dell’alta valle, accettarono di
entrare in materia e di discutere con gli urani le condizioni di un’aggregazione 37. Più in
generale invece, le élite politiche del Cantone Ticino, alla fine di febbraio, si espressero
quasi all’unanimità contro l’ipotesi di uno scorporo della Leventina 38, anche se erano
soprattutto le élite del sopraceneri a temere maggiormente tale eventualità, in quanto in un
cantone senza la Leventina sarebbero risultate più deboli di fronte alla forza contrattuale
delle élite sottocenerine. Nella valle, i più ostili alla causa urana, alla fine di marzo,
accusarono il governo di timidezza sulla questione leventinese. La missione di Giuseppe
Rusconi accompagnato da Carlo Sacchi, Antonio Zeglio, era risultata inefficace nel
31 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cf. con la proposta dell’assemblea comunale del borgo di Bellinzona, 14
marzo 1814.
32 Ibid., cfr. in particolare con la lettera a Vincenzo Dalberti, di Paolo e Vittore Ghiringhelli e di Giovanni
Andreazzi, tra il 20 e il 22 marzo 1814.
33 Ibid., Lettera di Dalberti all’assemblea comunale di Olivone, 29 marzo 1814.
34 Cf. con Ceschi, Il cantone Ticino, cit., pp. 111-112.
35 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cfr. con le lettere a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Franzoni, del 24
marzo e di Vittore Ghiringhelli del 27 marzo 1814.
36 Ceschi, Il cantone Ticino, cit., pp. 115-116.
37 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3C, cf. con la Lettera di Agostino Dazzoni a Vincenzo Dalberti, 2 maggio
1814.
38 Cf. con gli Atti del Gran Consiglio, cit., vol. IV, pp. 307-309.
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convincere il congresso di Faido a desistere dai suoi propositi di proseguire i negoziati per
unire la valle a Uri: «La Leventina è persa se qualche circostanza straordinaria ed
impreveduta non c’entra di mezzo. Rusconi e Sacchi hanno agito a Faido
languidissimamente; sono partiti subito dopo il congresso del giorno 26 e non si sono
fermati per parlare in qualche assemblea, come molti dei ben pensanti lo avevano
consigliato loro 39».
Ci pensarono le eccessive richieste di Uri a scompigliare le carte a metà aprile e a ridare
fiato nella valle agli oppositori all’aggregazione. Anche quella parte dell’élite, inizialmente
favorevole ad entrare in materia, risultò delusa dalle pretese del governo urano. Notabili
della valle segnalarono durante il mese di aprile il pericolo di un’insurrezione popolare
sobillata dagli urani e chiesero a gran voce una maggiore determinazione da parte del
governo per evitare il peggio 40. Solo a quel punto vi fu una reazione coordinata da parte di
alcuni esponenti dell’élite sopracenerina: il primo maggio Vincenzo Dalberti sollecitò con
successo una chiara presa di posizione dei ministri delle potenze alleate contro qualsiasi
modifica territoriale in favore di Uri, mentre Andrea Caglioni inviato nella valle, pur non
potendo, il 3 maggio, impedire il pronunciamento a favore di Uri di un congresso a Faido,
riuscì a tutelare la posizione di quanti vi erano contrari. Giuseppe Rusconi dal canto suo,
scrisse a La Harpe a Parigi affinché la posizione del Ticino fosse difesa presso le potenze
alleate e il 19 maggio fece occupare da truppe confederate, inviate in Ticino su richiesta del
Piccolo Consiglio, la media e l’alta valle Leventina, mentre Franzoni si prodigò nello
scrivere un proclama da inviarsi nella valle per riportare la calma 41. La crisi trovò soluzione
solo al congresso di Vienna, che garantì l’esistenza e l’integrità territoriale dei nuovi cantoni
creati dalla Mediazione napoleonica e sancì definitivamente l’appartenenza della Leventina
al Cantone Ticino42.
Le attese delle comunità locali e della popolazione dei borghi e delle campagne, che, in
seguito al venir meno del regime della Mediazione, si aspettavano di avere voce in capitolo
nella situazione venutasi a creare dopo la caduta di Napoleone, alimentavano titubanze e
divisioni in seno alle élite. La costituzione del 4 marzo tardava ad essere riconosciuta dalle
potenze alleate e dalla dieta, ciò che rafforzava le incertezze e le speculazioni. Voci di una
possibile sollevazione volta a proclamare un governo provvisorio e a destituire le autorità in
carica erano ricorrenti 43. Durante la sessione del Gran Consiglio del maggio 1814, Giovanni
Battista Quadri propose la messa in vigore della Costituzione del 4 marzo, senza attendere
la positiva sanzione da parte della Dieta e delle potenze alleate. La proposta si scontrò con
l’opposizione della maggioranza guidata questa volta da Andrea Bustelli che proponeva di
attendere l’ultimazione dei lavori riguardanti il nuovo patto federale 44. La maggioranza si
disse disposta ad attendere, anche se molti esponenti speravano che i lavori della Dieta
avanzassero più celermente.
Tuttavia la situazione di incertezza si aggravò ulteriormente quando alla fine di giugno
divenne chiaro che la Costituzione ticinese del 4 marzo doveva essere modificata in quanto
secondo le potenze alleate era eccessivamente «modellata sul gusto francese, di cui si voleva
39 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cfr. con la lettera di Vittore Ghiringhelli a Vincenzo Dalberti, 3 aprile
1814.
40 Ibid., cfr. per esempio con le lettere a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Antonio Cattaneo del 14 aprile e del
canonico Lorenzo Calgari del 28 aprile 1814.
41 Ibid., cf. con le lettere a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Franzoni del 1 maggio, di Agostino Dazzoni del 5
maggio, di Vittore Ghiringhelli del 19 maggio 1814.
42 Cf. con Dierauer, Le féderalisme, cit., pp. 430-440.
43 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D. Cf. con la lettera a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Franzoni, del 22
maggio 1814.
44 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cfr. con la lettera del canonico Paolo Ghiringhelli a Vincenzo Dalberti,
del 29 maggio 1814.
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abolita la memoria» 45. Di fronte a tale esigenza il Gran Consiglio difese a grande
maggioranza il suo progetto di Costituzione. Tra gli esponenti più in vista dell’élite politica,
assieme ad una decina di deputati, solo Vincenzo Dalberti, Carlo Sacchi e Pietro Frasca si
opposero all’invio di un memoriale in sua difesa. Giovanni Battista Quadri e Annibale
Pellegrini invece guidarono una commissione incaricata di redigerlo all’attenzione dei
ministri delle potenze alleate 46. La loro risposta non poté essere più chiara: entro l’11 luglio
le autorità del Cantone avrebbero dovuto elaborare una nuova costituzione che
abbandonasse le velleità democratiche, il principio della separazione dei poteri e rafforzasse
in modo deciso il potere dell’esecutivo. La commissione del Gran Consiglio nella quale
erano rappresentati i maggiori tenori del regime della Mediazione 47 capitolò quasi su tutto 48.
Il Gran Consiglio adottò un progetto, ma l’incertezza sulla sua accettazione alimentò
successivamente le speculazioni su un possibile accentramento dei poteri in favore dei ceti
borghesi. Giuseppe Rusconi, Pietro Frasca e Ambrogio Luvini erano accusati di vedere con
favore una soluzione in tal senso. Vincenzo Dalberti all’opposto cercò di difendere gli
interessi delle campagne: «le mode d’élection adopté par le Grand conseil sauvera encore
un peu la liberté à la Campagne; […] le plus petit changement qu’on y introduirait à
l’instigation des bourgeois serait le signal de son oppression. Vous savez que je ne suis pas
demagogue, ni populacier; j’aime a protéger les proprietaires, car c’est sur eux que pose
particulierèment le système social. Mais chez nous les meilleurs proprietaires ne sont pas les
habitants des bourgs; ni ceux ci ont jamais acqui le moindre droit sur les habitants de la
campagne, ni par des services patriotiques, ni même par des talents distingué 49».
I timori di Dalberti risultarono alla fine infondati e i ministri delle potenze alleate dopo
qualche correttivo, accettarono la nuova Costituzione del Cantone che venne adottata alla
fine del mese di luglio. Il seguito è conosciuto: la riunione delle assemblee di circolo atte a
nominare i deputati del nuovo Gran Consiglio provocarono una generale mobilitazione,
soprattutto nel Sottoceneri e nel Bellinzonese, contro la Costituzione e le élite della
Mediazione che la sostenevano per compiacere le potenze alleate 50. La rivoluzione di
Giubiasco fu probabilmente favorita dalla delegittimazione delle istituzioni, dovuta alle
titubanze, alle divisioni e al voltafaccia delle élite politiche, ma essa fu soprattutto una
rivolta dei poteri locali basata su una sensibilità democratica, che negli anni successivi alla
rivoluzione del 1798 si era ben radicata nella popolazione del cantone. Tra quanti
guidarono i rivoltosi vi erano soprattutto esponenti dell’élite locale. Solo Angelo Maria
Stoppani, poteva essere considerato un esponente dell’élite politica dell’Elvetica e della
Mediazione. Un esponente tuttavia, che dopo esser stato membro del Piccolo Consiglio tra
il 1803 e il 1806, era rimasto ai margini del campo politico 51.
Dopo l’intervento militare della Confederazione e il ristabilimento delle autorità politiche, si
procedette ad ulteriori elaborazioni costituzionali, che si risolsero solo nel dicembre del
1814, con l’adozione di una Costituzione imposta dai ministri delle potenze alleate,
Costituzione che diede avvio alla Restaurazione, anche se non mise completamente fuori
gioco le élite politiche della Mediazione.
Cit. in G. Martinola, Il gran partito della libertà, la rivoluzione ticinese del 1814, Locarno, 1983, p. 37.
Atti del Gran Consiglio, cit., vol. IV, pp. 440-446.
47 Carlo Sacchi, Vincenzo Dalberti, Agostino Dazzoni, Andrea Bustelli, Annibale Pellegrini, Giovanni Battista
Quadri e Giovanni Battista Maggi.
48 Cf. con Ceschi, Il cantone Ticino, cit., p. 177.
49 Lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri, 11 luglio 1814, in Martinola, Epistolario, cit., pp. 237-241.
50 Cf. anche con Martinola, Il gran partito della libertà, cit., pp. 49-76.
51 Cf. con Ceschi, Il cantone Ticino, cit., p. 190.
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Conclusione
Grazie alla nostra ricerca incentrata sulla figura di Dalberti e su una ventina di personalità
appartenenti all’élite politica del periodo 1798-1814, abbiamo potuto constatare quanto il
regime della Mediazione e Napoleone fossero visti positivamente almeno fino al 1810. A
partire dall’occupazione del Cantone da parte delle truppe del Regno d’Italia, la percezione
dell’ordinamento napoleonico divenne meno favorevole, anche se continuava ad esservi
un’ampia adesione al regime della Mediazione, che aveva dato alle élite sud alpine
autonomia politica e potere regionale.
L’occupazione prima e l’abolizione del regime della Mediazione poi, misero in crisi le élite
politiche sud alpine che dovettero barcamenarsi tra le istanze delle comunità locali, sempre
più ostili e favorevoli a soluzioni democratiche e le esigenze di forze esterne quali la Francia
imperiale (fino alla fine del 1813) e le potenze della Restaurazione. Le pressioni delle
comunità locali e delle grandi potenze avevano forza disgregante e portarono le élite locali a
titubanze e divisioni che delegittimarono le istituzioni e rischiarono di portare alla
scomparsa dell’autonomia politica tanto cara alle élite svizzere del sud delle Alpi.
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