Update 43 - giscad.org

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Mopp
Medical oncology progress & perspectives
a cura di GISCAD
Pubblicazione di informazione
scientifica oncologica
Update 43
Dicembre 2012
EDIZIONI?TECNOGRAF S.r.l.
Via Piave, 14 - 20010 Canegrate (MI)
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A causa del rapido progresso nella scienza medica, l’Editore raccomanda la verifica
indipendente delle diagnosi e del dosaggio dei medicinali.
Progetto grafico: Tecnograf s.r.l.
Stampato in Italia da Tecnograf s.r.l.
Edizione speciale fuori commercio riservata ai Sigg. Medici
In copertina Joan Mirò - “La Caresse d’un oiseau” 1967 - Bronze peint
Pubblicazione di informazione scientifica oncologica
Update 43
MOPP
Medical Oncology Progress & Perspectives
a cura del GISCAD
Medical Oncology Progress & Perspectives
Update 43
EDITORIALE
Roberto Labianca
5
TOSCA ultima randomizzazione, aspettando il futuro….
Alberto Sobrero
7
Farmaci biosimilari in oncologia
Matteo Zimatore, Giancarlo Martignoni
9
Trattamento dell’ascite neoplastica dell’apparato
gastroenterico con Catumaxomab.
Ed ora ……… tiriamo le somme.
Maurizio Meregalli
18
Se fossi PI: il trial clinico che vorrei.
Riflessioni di giovani Oncologi
Elena Maccaroni, Maristella Bianconi, Riccardo Giampieri,
Mario Scartozzi, Stefano Cascinu
21
L’Oncologia, la sua storia
Parte II– Dal Medioevo al secolo dei Lumi
Dario Cova
SPAZIO GISCAD
27
EDITORIALE
Buon anno al GISCAD
(e a tutti coloro che fanno ricerca clinica indipendente)
Questa volta rinunciamo alle considerazioni accigliate, alle prediche e agli
appelli e vi presentiamo l’ultimo numero del 2012 facendoci/vi i nostri
sinceri auguri per “l’anno che verrà” (grande Lucio Dalla, quanto ci
manchi!). E vi diciamo che confidiamo fortemente che il 2013 veda il
definitivo decollo della ricerca indipendente, clinica e traslazionale, nel
nostro Paese grazie a una auspicata semplificazione delle procedure su scala
nazionale e internazionale e grazie ad un incremento e a una migliore
distribuzione dei fondi pubblici e/o provenienti da organismi non-profit:
AIFA, Ministero della Salute, AIRC, Fondazione AIOM…se ci siete
battete un colpo, ma che sia un colpo forte davvero!
In un momento di grave crisi economica e sociale come quello che stiamo
attraversando, la ricerca non è assolutamente un lusso o un hobby per pochi
eletti ma rappresenta, al contrario, una opportunità di crescita da non
mancare.
Naturalmente sono soprattutto i giovani i protagonisti e il motore
dell’innovazione, ed è molto confortante il fatto che nel 2012 molti di loro
abbiano dato prova di impegno e di originalità.
Spetta a noi “senior” dare a loro lo stimolo, l’opportunità e i mezzi
organizzativi e materiali per fare sempre meglio: e questo, oltre che un
augurio, è un impegno fermo e responsabile.
Come sempre GISCAD c’è e ci sarà. Leggendo questo numero della rivista
potrete vedere quanto di innovativo e di interessante bolle nella pentola
della nostra cucina e vi anticipo che lo stesso glorioso “MOPP” andrà
incontro a significativi miglioramenti nel corso dei prossimi mesi.
5
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Chiudiamo l’anno celebrando lo straordinario successo di reclutamento
raggiunto dallo studio TOSCA, che è stato possibile solo grazie
all’eccezionale spirito collaborativo del quale ha dato prova tutta la
comunità oncologica gastroenterologica italiana e del quale vi parla
diffusamente Alberto Sobrero, leader indiscusso del trial. Questa capacità
di fare sistema intorno a un’idea originale è proprio uno dei punti di forza
del nostro Paese e rappresenta la fondamentale nota di ottimismo per un
2013 sempre di più all’insegna di una oncologia efficiente e innovativa.
Buon Anno a tutti!
Roberto Labianca
Presidente GISCAD
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TOSCA - UlTiMe rAndOMizzAziOni, ASPeTTAndO il fUTUrO….
TOSCA
Ultima randomizzazione, aspettando il futuro….
Alberto Sobrero
Oncologia Medica, Ospedale San Martino - Genova
Oltre tremilacinquecento pazienti in 5 anni. Uno sforzo titanico. Il più grosso studio di terapia
adiuvante sul carcinoma del colon mai condotto. 130 centri, tutti Italiani.
Veramente un traguardo quasi insperato. Lo studio TOSCA di confronto fra tre mesi di terapia con
FOLFOX o XELOX e sei mesi della stessa terapia, sta finendo la fase del reclutamento. Ed è il primo
studio all’interno della galassia IDEA (International Duration Evaluation Adjuvant) a completare il
reclutamento. D’altra parte era partito per primo sia come ideazione nel 2003, sia come “first patient
in”, nel 2007. Quindi è stata ora completata la seconda fase del progetto: dopo il disegno del trial, la
sua esecuzione (conduct). Ora non rimangono ….che le altre tre……(analysis, reporting and
interpretation).
Il completamento del trial dovrebbe essere davvero celebrato non solamente dai medici, statistici,
data managers e tutto il personale che vi ha preso parte, ma anche dalle istituzioni sanitarie del nostro
paese per la rilevanza del progetto. Non è certo da tutti i giorni disegnare, finanziare e condurre uno
studio con l’ambizione di cambiare lo standard of care di una certa condizione in medicina. Ma questo
è il vero spirito della ricerca clinica: come riportato anche nella dichiarazione di Helsinki, la ricerca
clinica deve porsi obiettivi ambiziosi, altrimenti la sua stessa eticità può essere messa in dubbio, per
lo spreco di risorse che potrebbe comportare. Concetti forti, ma importanti per radicare sempre più
nella comunità medica italiana il valore ‘ricerca’.
Questo è il primo aspetto molto forte di TOSCA: la sua rilevanza. La rilevanza di questo progetto
non si basa solo sulla possibilità che lo studio sia positivo, cioè se tre mesi di terapia adiuvante bastano
invece di sei (il che cambierebbe lo standard terapeutico adiuvante da 6 a 3 mesi con grandissima
riduzione di tossicità e costi). La rilevanza è doppia in quanto, anche se negativo, lo studio fisserà
comunque un nuovo standard of care; infatti, se negativo, sarà provato il principio che se si riduce la
durata della terapia adiuvante se ne riduce anche il beneficio. E questa è un informazione che al
momento manca tanto quanto la prima.
Il secondo punto di forza dello studio sta nella numerosità del campione. Già da solo lo studio TOSCA
è “fuori scala”: oltre 3550 malati. Questo numero così elevato è necessario in quanto la definizione di
non inferiorità dei 3 mesi di terapia rispetto ai 6 mesi si basa su una percentuale molto bassa, altrimenti
non si può parlare di “equivalenza” (meglio, di non inferiorità). È infatti abbastanza logico concludere
che se i due trattamenti differiscono del 5-7 % essi non si possono dire equivalenti. E più è piccola
questa differenza, più deve essere numeroso il campione. Con quasi 3600 malati, TOSCA da solo è
in grado di escludere differenze del 4%. Questo livello rappresenta già una grande precisione. Tuttavia,
poiché il setting è quello adiuvante ed una differenza nel risultato significa una differenza in percentuali
di guarigione, anche il 4% non è trascurabile. Quindi TOSCA da solo ha dei limiti. Di qui la nascita
di IDEA.
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Ed IDEA (International Duration Evaluation Adjuvant) è il terzo punto di forza di TOSCA.
TOSCA ha infatti avuto il merito di avviare i ‘negoziati’ a livello globale per uno sforzo congiunto in
modo da risolvere il problema del ‘4% di delta’. Come detto, una differenza del 4% non è trascurabile,
trattandosi di percentuali di guarigione. C’è un certo consenso sul fatto che il 2% può essere
considerata una soglia molto conservatrice per definire la non inferiorità. Il problema sta nel numero:
sono necessari 11.000 pazienti per dare questo livello di precisione allo studio. Di qui lo sforzo
congiunto di nazioni di 4 continenti che attraverso intergruppi hanno cominciato da 4 anni la
collaborazione nella stessa direzione: una serie di trials con lo stesso disegno di TOSCA in modo da
poter combinare i risultati e giungere alla conclusione di non inferiorità o meno con la soglia fissata
al 2%.
Il quarto punto di forza di TOSCA viene dalla qualità dei dati preliminari di compliance al trattamento.
Sono in linea con i dati dello studio MOSAIC. E questo è un aspetto cruciale del trial. C’è da augurarsi
che ci sia omogeneità internazionale su questo punto per non avere problemi di validità interna
nell’analisi combinata.
Non ci sono punti di debolezza particolari in questa impresa. Si può solo essere poco entusiasti del fatto
che uno studio di non inferiorità non ha come obiettivo principale il miglioramento dell’efficacia,
ma dell’indice terapeutico (riducendo la tossicità). D’altra parte i 4 studi randomizzati di terapia
adiuvante del carcinoma del colon che hanno studiato l’efficacia dei farmaci biologici bevacizumab
e cetuximab su 10.000 pazienti sono completamente negativi e la strada in quella direzione è
completamente bloccata. C’è da augurarsi che si possa trarre vantaggio dell’impresa IDEA per condurre
nuovi studi globali e che ci possa essere una buona ipotesi da testare entro il periodo di completamento
dell’accrual da parte delle altre nazioni previsto entro i prossimi due anni. Questo permetterebbe di non
disperdere, ma dare continuità ad un modo di lavorare così sinergico.
Il modello TOSCA - IDEA è il primo esempio di collaborazione globale di ricerca indipendente di cui
l’oncologia italiana ha fatto da motore. Veramente complimenti.
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fArMACi biOSiMilAri in OnCOlOgiA
Farmaci biosimilari in oncologia
Matteo Zimatore e Giancarlo Martignoni
Oncologia Medica, Casa di Cura Ambrosiana – Cesano Boscone
La sempre crescente spesa sanitaria in Italia ha di fatto accelerato lo sviluppo di farmaci che abbiano
lo stesso principio attivo ma costino molto meno rispetto a quelli tradizionali delle varie case
farmaceutiche (i cosiddetti farmaci generici). Ovviamente lo stesso interesse, anzi senza dubbio ancor
maggiore, nasce nei confronti dei farmaci biologici, che in diversi ambiti sanitari, in primis in
Oncologia ma anche in Reumatologia e Nefrologia, hanno dimostrato di essere un’arma molto preziosa
dal punto di vista clinico, ma assai meno dal punto di vista economico. L’incidenza di tali farmaci
sulla spesa ospedaliera è senza dubbio preponderante, tant’è che tra i primi 10 farmaci che
compongono la spesa ospedaliera, ben 9 sono biologici (14 tra i primi 30). Basti pensare che un intero
ciclo di terapia con Bevacizumab o Trastuzumab può arrivare a costare fino a 40.000 euro; un anno di
terapia con Darbepoietina alfa in corso di dialisi può sfiorare i 20.000 dollari, e così per tanti altri
farmaci biologici. Gli elevati costi stanno diventando un problema molto importante per i sistemi
sanitari, costretti a circoscriverne sempre più l’utilizzo, tant’è che in un paese come gli Stati Uniti non
più del 20 % dei pazienti oncologici ha avuto accesso a tali farmaci e non solo per assenza di eleggibilità
se è vero che il 90 % dei pazienti eleggibili per Bevacizumab non riesce in realtà ad accedervi.
Dato questo preambolo, appare sulla carta una soluzione ottimale riuscire ad ottenere dei farmaci che,
grazie alla tecnologia del DNA ricombinante, siano simili, dal punto di vista di efficacia, sicurezza e
qualità al farmaco biotecnologico di riferimento, anche detto originatore, con un costo, concordato
dall'AIFA, inferiore del 20%.
Pertanto un farmaco biosimilare si può definire come un farmaco simile al medicinale biologico già
in commercio a cui sia scaduto il brevetto (in genere 20 anni, ma si può arrivare in alcuni casi anche
a 25 anni), con un principio attivo simile ma non uguale al prodotto di riferimento.
I biosimilari approvati in Europa attualmente sono rappresentati nella Tabella 1.
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
FARMACO
ORIGINATORE
FARMACI BIOSIMILARI
Somatotropina Omnitrope: I° farmaco biosimilare commercializzato al mondo. Gli studi comparativi
con il farmaco originatore hanno dimostrato un effetto farmacocinetico/farmacodinamico
e clinico sovrapponibile. Gli studi post-marketing nei bambini con il deficit dell’ormone
della crescita hanno confermato tali risultati e hanno inoltre messo in evidenza un simile
effetto clinico delle terapie a medio-lungo termine.
Anche i profili di sicurezza e di immunogenicità non divergono tra il biosimilare e il
biofarmaco di riferimento.
Valtropin: biosimilare non in commercio in Italia. E’ stato confrontato con Humatrope
in 149 bambini con GHD. Dopo 12 mesi di trattamento, Valtro pin e Humatrope hanno
determinato incrementi analoghi della crescita e della velocità di crescita (velocità di
+11,4 e +10,5 cm all’anno, rispet tivamente). Valtropin, confrontato con il prodotto di
riferimento (Humatrope), è risultato equivalente in termini di qualità (ossia per le
modalità di produzione), sicurezza (per esempio, gli effetti collaterali che possono
presentarsi durante il trattamento sono analoghi) ed efficacia. Recenti studi
osservazionali su bambini però riportano un aumento del rischio dell’insorgenza di
tumori secondari (in particolare modo di tumori cerebrali) nei primi anni di
somministrazione della somatropina biosimilare soprattutto in pazienti sottoposti a
radioterapia.
Filgrastim
Sono identificati con due codici: EP06 (Filgrastim Hexal e Zarzio) e XM02 (i restanti:
Biograstim, Ratiograstim, Tevagrastim, Filgrastim Ratiopharm). Per il prodotto XM02
sono stati condotti 3 studi su pazienti con differenti condizioni patologiche (cancro al
seno n=348, cancro al polmone n=240 e linfoma non-Hodgkin n=92); per il prodotto
EP06, invece, l’efficacia clinica è stata dimostrata tramite i risultati di 4 studi di
farmacodinamica condotti su un totale di 146 volontari sani trattati con il prodotto da
analizzare o con il Neupogen. Negli studi condotti per il prodotto XM02 non sono state
individuate differenze statisticamente significative tra i prodotti biosimilari e
l’originator. Per quanto riguarda il prodotto EP06, si sono rilevate piccole differenze nel
profilo farmacocinetico tra il prodotto biosimilare EP06 e l’originator. Tuttavia, queste
differenze sono state giudicate di piccola entità e non clinicamente rilevanti.
Epoetine
5 i biosimilari registrati: Abseamed, Binocrit, Epoetina Hexal e Silapo (Epoe tina alfa);
Retacrit (Epo zeta), tutti approvati per il trattamento dell’anemia sintomatica associata
a insufficienza renale cronica (IRC) e per il trattamento dell’anemia post-chemioterapia
per tumori solidi, linfoma maligno o mieloma multiplo.
1) Retacrit: Dal punto di vista della sequenza aminoacidica e nella composizione dei
carboidrati, l’epoetina zeta (Retacrit) è identica all’eritropoietina umana endogena
isolata dalle urine di pazienti anemici.L’efficacia è stata valutata in due studi registrativi
che intendevano dimostrare l’equivalenza terapeutica dell’epoetina biosimilare rispetto
al prodotto di riferimento (Erypro) nella correzione e nel mantenimento della
concentrazione di emoglobina in pazienti anemici. Entrambi gli studi hanno dimostrato
l’eguaglianza del biosimilare vs comparator secondo i margini di equivalenza ridefiniti
con l’approvazione EMEA. In generale si può affermare che non sono apparse
differenze significative nel profilo di sicurezza tra i due farmaci, tuttavia sono stati
registrati un maggior numero di eventi avversi correlati al trattamento con epoetina
zeta, in particolare un aumento del numero di casi di ipertensione ed eventi avversi seri
che hanno coinvolto crisi ipertensive, stroke emorragici, eventi cerebrovascolari ed
ischemici nei pazienti trattati con Epo zeta rispetto a quelli trattati con il farmaco
originatore.
2) Biosimilari dell’EPO alfa e teta: tali prodotti sono stati indicati con le sigle degli studi
che li hanno analizzati: HX575 (Binocrit e Abseamed) e XM01 (Eporatio). Il biosimilare
HX575 è stato confrontato con l’originator in due studi: i risultati mostrano che il
biosimilare HX575 è efficace nel 61,7% dei pazienti trattati ma non può essere stabilita
l’equivalenza terapeutica con l’originator a causa delle dimensioni ridotte degli studi. Il
biosimilare XM01 è stato confrontato con placebo in tre studi ma gli studi di confronto
con l’originator sono limitati.
Tabella 1. Farmaci biosimilari approvati in Europa.
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fArMACi biOSiMilAri in OnCOlOgiA
Di questi in Italia sono registrati con regolare AIC: Omnitrope (2007), Binocrit (2007), Abseamed
(2008), Retacrit (2008), Ratiograstim (2009), Zarzio (2009) e Tevagastrim (2010).
Molti altri farmaci hanno inoltre il brevetto già scaduto o in scadenza, anche se ancora non sono stati
registrati biosimilari. In Tabella 2 sono riportati i più importanti:
FARMACO ORIGINATOR
SCADENZA BREVET TUALE UE
E t a n erce p t
2010
I n fli xi mab
2 0 11
Rituximab
2013
Trastuzumab
Cetuximab
2014
Darbepoetina
2016
PEG G-CSF
Adalimumab
2017
Bevacizumab
2019
?
Tabella 2. Farmaci in scadenza di brevetto.
Se teniamo presente che entro il 2015 saranno 45 i farmaci biotecnologici di cui scadrà il brevetto,
per un fatturato mondiale di 58 miliardi, ed entro il 2020 sarà scaduto il 90 % dei brevetti biotech,
per una quota di quasi 90 miliardi di dollari, ci si può rendere conto che la proiezione sul risparmio
per il Sistema Sanitario può essere di 200 milioni di euro nel 2015 e fino a 500 milioni di euro nel
2020.
Nonostante i farmaci biotecnologici rappresentino il 14 % del mercato farmaceutico totale, l’attuale
penetrazione dei biosimilari nel nostro Paese è ancora marginale (0.1% in consumi); innanzitutto,
come abbiamo appena sottolineato, non tutti i biosimilari approvati in Europa sono approvati anche
in Italia, il che mostra quanto l’Italia sia indietro rispetto ad altri paesi nel campo della ricerca. Basti
pensare che nel Regno Unito, oggi, il 63% di filgrastim dispensato dal Sistema Sanitario Nazionale è
biosimilare, in Germania il 41% ed in Francia il 29%, mentre in Italia solo il 5%; lo stesso vale per
l’eritropoetina biosimilare, utilizzata nel nostro Paese solo in 1 paziente su 1.000, contro i 4 su 10 in
Germania.
Questi dati sottolineano la presenza di diverse problematiche di varia natura che stanno rallentando
la diffusione dei biosimilari in Italia rispetto al resto dell’Europa.
Innanzitutto c’è una scarsa conoscenza e conseguentemente una scarsa esperienza nell’utilizzo di tali
farmaci, con in più una mancanza di politica chiara in merito, tant’è che in un’indagine AIOM del
2008 condotta sugli Oncologi Italiani, solo il 17 % si è dichiarato familiare col significato del termine
biosimilare, con ben il 43 % che non ne ha mai sentito parlare ed un 70 % che ritiene che per ogni
farmaco copia del biotecnologico originatore si debbano effettuare studi di confronto con la molecola
originale prima di ottenere l’autorizzazione ed un 50 % che ritiene che la numerosità della casistica
debba essere identica a quella degli studi che hanno permesso la registrazione dei farmaci originali.
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
In un analogo sondaggio del 2010 la situazione è migliorata tra gli specialisti, in particolare tra gli
Oncologi, dal momento che un buon 79% degli intervistati ne dà una corretta definizione, e
soprattutto l’86% sa che vi sono già biosimilari disponibili in Italia (vs solo il 32% del 2008), restando
sempre per la maggior parte favorevoli (83% attualmente vs 77% nel 2008) ad impedire l’automatica
sostituzione da parte del farmacista del biologico con il biosimilare, come peraltro sancito da una
norma già approvata in molti Paesi europei ma con un ddl ancora fermo in Parlamento in Italia.
Nonostante questi indubbi progressi, tuttavia, ancora 1 clinico su 5 non sa darne una corretta
definizione o li ritiene del tutto identici ai generici, per cui ancora molto resta da fare per una corretta
informazione, ed opportuno sarebbe un tavolo di lavoro tra specialisti, Istituzioni sanitarie, associazioni
mediche, aziende produttrici e pazienti proprio a tal riguardo.
Oltre alla scarsa, ed a volte errata, informazione sui biosimilari in possesso del personale medico, un
altro problema è quello della sostituibilità nella gestione del paziente già in trattamento con l’analogo
farmaco biotecnologico. Sia EMEA sia AIFA sconsigliano il passaggio automatico da farmaco
biotecnologico ad analogo biosimilare, lasciando al medico la possibilità di valutare caso per caso il
da farsi. Se questo è un problema relativo, per il momento, in Oncologia, dal momento che i farmaci
utilizzati sono solo i fattori di crescita, utilizzati ciclicamente per cui ogni volta può essere considerata
come la prima, è invece più rilevante nel trattamento delle anemie croniche nei pazienti nefropatici.
Su questo argomento vi è una duplice posizione: da una parte c’è chi critica tale orientamento
sostenendo che, come può capitare che un paziente possa fare ricorso a diverse formulazioni di
eritropoietina o a diverse vie di somministrazione senza problemi, non si comprende perchè vi siano
così tante restrizioni per il passaggio da un originatore al suo biosimilare, pur con le dovute cautele,
ovviamente. Se poi effettivamente sia EMEA sia AIFA riconoscono l’equivalenza terapeutica tra
originatore e biosimilare, tant’è che nel paziente “naive” il medico può utilizzare indifferentemente
l’uno o l’altro, non si capisce perché sia sconsigliato il passaggio in uno stesso paziente da originatore
a biosimilare. Non va poi dimenticato che il biosimilare, prodotto anni dopo l’originatore, grazie ai
progressi scientifici e tecnologici, che rendono possibile il contenimento dei costi, può anche possedere
profili di efficacia e di sicurezza persino più elevati di quelli del medicinale originatore. Insomma, non
una semplice copia, ma piuttosto un farmaco innovativo.
Dall’altra parte invece c’è chi non riconosce l’equivalenza tra biosimilari ed originatori, ed a tal
proposito giova ricordare come l’attuale Ministro alla Salute Balduzzi abbia ancor recentemente
appoggiato il Ddl 1875 dei Senatori Tommasini, Cursi e Polillo, che riprende la posizione in merito
di Assobiotec, ovvero che simile non vuol dire uguale, per cui si ribadisce, nonostante la segnalazione
in merito dell’Antitrust in Parlamento, il no all’automaticità della sostituzione per questo tipo di
farmaci, esattamente come espresso dalla letteratura internazionale.
Questo scontro tra posizioni opposte non è irrilevante perché condiziona in maniera fondamentale la
gestione delle gare ospedaliere: se si esclude il principio di equivalenza terapeutica tra i farmaci
biosimilari e gli originali, si finisce col limitare la proposizione di bandi di gara “ispirati al principio
della sovrapponibilità terapeutica”, nei quali medicinali biotecnologici e specialità biosimilari possano
concorrere ad armi pari.
In attesa di una legislazione certa, pertanto, vige un federalismo nelle gare ospedaliere, per cui le
regioni maggiormente attente al controllo della spesa sanitaria (Lombardia, Toscana, Emilia Romagna
e Campania) stanno adottando un sistema di gara a lotto unico, grazie al quale si riescono a raggiungere
sconti ben superiori rispetto al prezzo imposto da AIFA (c’è da sottolineare come sia necessario in tal
caso frazionare i trattamenti in gara, per esempio mettendo in gara una quota fissa dei trattamenti,
riservandosi una minima parte da acquistare fuori gara per garantire al clinico di accedere ai farmaci
già in uso nei suoi pazienti). Le altre regioni hanno invece allestito dei bandi con lotti separati, come
se fossero tutti farmaci differenti. Tale approccio offre il vantaggio di tutelare la libertà prescrittiva e
la continuità terapeutica, ma non consente di innescare alcuna concorrenza tra i prodotti, ottenendo
così un risparmio minimo.
12
fArMACi biOSiMilAri in OnCOlOgiA
Al di là degli aspetti legislativi e legiferativi, vi è un razionale scientifico alla base di tali posizioni
divergenti, ed è la complessità e la difficoltà di generare copie del farmaco biotech di riferimento:
non si tratta infatti banalmente di ricreare una copia esatta di un farmaco, tramite processi chimici
standardizzati ed altamente riproducibili, come avviene per i farmaci generici, perchè nel caso del
biosimilare le qualità e le caratteristiche biologiche sono determinate dalle materie prime utilizzate e
dal processo produttivo.
La nascita di un farmaco biologico infatti è complessa, dipendente da una serie di step molto rigorosi,
dalla scelta del vettore plasmidico adatto ad accogliere la sequenza genica della proteina da produrre,
alla scelta dell'opportuna linea cellulare in cui inserire il vettore per dare origine ad un'unica banca
master in grado di riprodurre in quantità la proteina, alla fermentazione, ovvero espansione del volume
della coltura cellulare fino a migliaia di litri, con iper-produzione della proteina cercata, alla
purificazione, con rimozione e filtrazione di particelle e composti estranei, fino ad arrivare al prodotto
finito ed al suo confezionamento. E' quindi abbastanza ovvio che una coltura cellulare diversa, una
metodica di fermentazione o purificazione diversa possono dare luogo a prodotti finali magari solo
lievemente diversi tra di loro all'apparenza, ma con distinti potenziali immunogenici.
A complicare le cose giunge poi la difficoltà a ricreare la struttura del biologico, in particolare i
ripiegamenti che ne determinano la natura secondaria, terziaria ed a volte anche quaternaria; basta
una glicosilazione, una denaturazione od una metilazione per modificare la struttura finale
influenzandone il profilo farmacocinetico e farmacodinamico.
Riassumendo e semplificando il discorso, se un farmaco di sintesi (quindi qualunque generico) ha
dimensioni relativamente piccole, può essere identificato attraverso precise tecniche strumentali
(spettrometria di massa e RMN) tramite cui è possibile identificare eventuali impurità, con una
sintesi ripetibile in diversi laboratori, il prodotto biologico è invece di grosse dimensioni, con un
processo di produzione non così facilmente riproducibile, dove basta poco, come abbiamo visto, per
avere un profilo farmacologico ma soprattutto di immunogenicità diverso dall’originatore.
Appare quindi fondamentale sottolineare che ci vogliono molte più precauzioni dal punto di vista
regolamentatore rispetto ai farmaci generici, prima di poter registrare e permettere l'utilizzo di un
farmaco biosimilare, innanzitutto bisogna avere degli strumenti più raffinati possibili per poter
determinare la reale similarità del farmaco, attraverso i cosiddetti esercizi di comparabilità.
Questo argomento ci dà l’opportunità di vedere in sintesi le diverse posizioni in materia legislativa
degli USA e dell’Europa, rispetto a quanto avviene in Italia.
Negli USA il Congresso ha approvato nel 2009 il Biologics Price Competition and Innovation Act, un
disegno di legge che prevede l’abbreviazione del processo registrativo dei biosimilari da parte della
FDA, evitando la riproduzione di informazioni già disponibili dal prodotto di riferimento; nel 2010 il
Patient Protection and Affordable Act ha stabilito un processo di esclusività di 12 mesi per il primo
biosimilare intercambiabile commercializzato (che aumenterebbero a 42 mesi nel caso in cui si
registrasse una violazione della copertura brevettuale da parte del produttore del secondo biosimilare).
Nel 2011 il Public Health Service Act ha impegnato la FDA ad emanare un processo di registrazione dei
biosimilari che traduce il concetto di equivalenza terapeutica in assenza di differenze significative
sotto il profilo del rischio-beneficio rispetto all’originator, preannunciando un atteggiamento positivo
rispetto all’inter-cambiabilità.
In Europa l’EMEA ha fin da subito 2005 che la dimostrazione di bioequivalenza adottata per i farmaci
chimici non può essere utilizzata per i farmaci biotecnologici, introducendo così il processo
dell’esercizio di comparabilità, che prevede la dimostrazione della sostanziale equivalenza in termini
di qualità, sicurezza ed efficacia dei nuovi biosimilari attraverso studi comparativi di farmacocinetica
e farmacodinamica rispetto al prodotto di riferimento, oltre che attraverso trial comparativi
sull’efficacia clinica e valutazioni sull’immunogenicità. I dati aggiuntivi necessari per la valutazione
sono determinati di volta in volta per ogni singolo prodotto. L’autorizzazione all’immissione in
commercio è poi subordinata alla presentazione di un programma di farmacovigilanza post-marketing.
13
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Come raffigurato nella Tabella 1, pertanto, per la registrazione dei biosimilari non si possono omettere
l'analisi dei dati relativi agli studi pre-clinici e clinici, come avviene invece per i generici. La
normativa europea rilasciata dall'EMEA prevede infatti che per i farmaci biosimilari sia seguita la
stessa disciplina generale dei farmaci biologici per i criteri di produzione, i metodi usati per analizzare
le caratteristiche chimico-fisiche, l'attività biologica e la presenza di eventuali impurità, con
esecuzione di studi pre-clinici e clinici comprendenti studi sul legame al proprio recettore, studi sugli
animali, studi di farmacodinamica e studi tossicologici, con in più l'obbligo di studi comparativi preclinici e clinici anche sui pazienti per dimostrare che il prodotto biosimilare da registrare ha un profilo
sovrapponibile al biologico originatore.
Le linee guida EMEA specificano dettagliatamente il tipo di studi da eseguirsi:
- Studi comparativi di farmacocinetica (PK) e farmacodinamica (PD) con il prodotto di riferimento,
comprendendo il profilo delle impurità; l’assorbimento, clearance ed emivita (PK); studi di
correlazione PK/PD; studi relazione dose-risposta;
- Trial comparativi sull’efficacia clinica, insieme a valutazioni sull’immunogenicità: studi di
equivalenza pre-specificati e clinicamente giustificati.
Esistono inoltre delle linee guida specifiche per prodotto, tra cui l’insulina ricombinante umana, il GH,
il GCSH e l’epoetina emesse dall’EMEA.
C’è poi l’obbligo di una farmacovigilanza attiva post-immissione sul mercato, che deve essere almeno
di 5 anni, come per ogni nuovo farmaco innovativo immesso sul mercato.
In Italia, come abbiamo visto, la situazione è invece più confusa e frammentata, con un quadro in cui
le decisioni assunte a livello centrale (EMA/AIFA) ricadono su chi è responsabile della prescrizione
(il medico) e del governo della spesa (le regioni). Infatti l’AIFA non ha previsto liste di trasparenza
per i biosimilari come invece ha fatto per i generici, per cui l’inter-cambiabilità tra questi farmaci non
risulta normata.
Vi è senza dubbio un’opportunità economica rappresentata dai biosimilari a fronte di una ragionevole
cautela nel loro impiego, con ancora forti dubbi sulla gestione delle loro estensioni d’uso ad indicazioni
previste per l’originatore ma non sperimentate per il biosimilare nel processo registrativo: l'assenza di
studi di fase III su tutte le indicazioni del biosimilare può determinare la difficoltà del medico ad
utilizzare farmaci biosimilari per un'indicazione non valutata (ricordiamo che in oncologia
l'esetensione d'uso dei biosimilari per altre indicazioni diverse da quelle del dossier registrativo
potrebbe risultare inadeguata, specie per molecole quali gli anticorpi monoclonali, con ogni nuova
indicazione terapeutica che dovrebbe essere sottoposta ad iter specifico).
Si sta comunque assistendo ad un percorso giurisprudenziale a favore dell’equivalenza terapeutica tra
biosimilare ed originatore, aspetto contenuto anche in un parere di indirizzo dell’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato, in cui si sottolinea come il processo produttivo adottato per il
biosimilare sfrutti le recenti innovazioni tecnologiche rispetto a quelle usate anni prima per il farmaco
di riferimento, rendendo quindi il biosimilare un prodotto potenzialmente persino “bio-better”.
14
fArMACi biOSiMilAri in OnCOlOgiA
Farmaci generici
Farmaci biosimilari
SVILUPPO
Performance rispetto al farmaco Bioequivalenti
originale
Simili
Di ffe ren zi azi o n e
No
Sì
Costi di sviluppo
0.5 – 5 milioni di US$
40 – 100 milioni di US$
T e m p o di s vilup p o
2 – 5 a n ni
5 – 9 a n ni
P r oduzi o n e
Semplice
Co m pl essa
Richi es t a t ri als cli nici
No
Sì
Situazione brevetti
Poco complessa
Complessa, non definita
Mod. 1 – informazioni
amministrative
Co m p l e t o
Co m p l e t o
Mod. 2 – riassunto dei moduli
successivi
Co m p l e t o
Co m p l e t o
M od. 3 – quali t à del p r od o t t o
Co m p l e t o
Co m pl e t o + eserci zi o di
comparabilità
Mod. 4 - studi pre-clinici
Non richiesto
Esercizio di comparabilità
Mod. 5 – studi cli nici
Non richi esto
Eserci zio di comparabilità
DOSSIER REGISTRATIVO
Tabella 3. Farmaci generici e biosimilari a confronto
Per quanto riguarda i costi, è vero che, in assoluto, il risparmio rispetto ai farmaci originatori è
stimabile in circa il 20 %, come abbiamo già sottolineato, ma oltre a questa analisi di base bisogna
considerare anche i costi economici e sociali di eventuali reazioni indesiderate che potrebbero
emergere nel corso della farmaco-vigilanza differita alla fase di post-marketing.
Inoltre non è ad oggi effettuabile un’adeguata analisi costo-efficacia, applicabile solo nel momento in
cui i farmaci da confrontare abbiano uno stesso risultato in termini di salute (efficacia e sicurezza).
Peraltro la difficoltà e complessità del processo produttivo dei biosimilari è tale che i costi possono
essere solo moderatamente abbattuti, se non a scapito della qualità e sicurezza del prodotto.
Un’analisi di costo-utilità, prendendo in esame sia i costi reali sia le preferenze del paziente e valutando
il numero di anni di vita guadagnati aggiustati per qualità (QALY), non è al momento disponibile per
il confronto tra originator e biosimilare.
Dal punto di vista clinico, si può pertanto affermare che sicuramente l'impiego dei biosimilari dà un
risparmio economico, non si sa se ciò si tradurrà in una reale riduzione dei costi.
Alcune aree di attenzione proposte sono:
➢ sotto il profilo chimico: opportunità di attribuire ai biosimilari un nuovo INN (International Non
proprietary Name);
➢ sotto il profilo sperimentale: conduzione di caratterizzazione dettagliata, attraverso studi in vitro
ed in vivo comparativi del biosimilare col farmaco di riferimento per la validazione del profilo
farmacodinamico e dell'attività clinica rilevante del biosimilare in oggetto; conduzione perlomeno
dello studio di tossicologia riproduttiva e di mutagenesi; la caratterizzazione ex novo, attraverso
adeguate prove di sicurezza ed efficacia e la conduzione di almeno uno studio comparativo di fase III
con l'originator;
➢ sotto il profilo farmaceutico: necessità di identificare elementi minimi che consentano un'efficace
e corretta informazione agli operatori sanitari ed ai pazienti, con segnalazione evidente della natura
15
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
del biosimilare sulla confezione ed i documenti prescrittivi, con segnalazione della mancata
conduzione di studi di tossicologia riproduttiva e di mutagenesi;
➢ sotto il profilo della gestione nella pratica clinica: definizione delle modalità di sostituzione del
farmaco biotecnologico in corso di terapia; prescrizione degli stessi ai soli pazienti naive; definizione
delle modalità di tracciabilità della gestione del paziente;
➢ sotto il profilo del monitoraggio post-marketing: oltre alla valutazione di sicurezza derivata da trial
clinico di fase III, necessità di definizione di post-marketing intensivo;
➢ sotto il profilo informativo: necessità di esporre al paziente le caratteristiche del prodotto,
indicando la necessità di aderire ai programmi di farmacovigilanza.
Se vogliamo pertanto, in conclusione, semplificare il discorso, vediamo riassunte nella Tabella 4 le due
posizioni italiane:
Contro
Pro
I farmaci originator sono supportati da
esperienze cliniche più numerose , articolate
su oltre un decennio, in genere, per cui sono
visti come la scelta terapeutica a massima
garanzia per il pz, con minime incertezze su
efficacia e sicurezza.
I farmaci biosimilari vannoconsiderati come nuovi
farmaci biologici, spesso più moderni in termini di
qualità del processo produttivo rispetto al corrispettivo
originator.
I presunti vantaggi economici del biosimilare,
con la possibilità di reinvestire in faramci
innovativi, vengono in genere disconosciute
tout court in quanto non pertinenti.
Diversi farmaci originator (per es. Aranesp , Mabthera ...) hanno modificato il loro processo produttivo nel
corso di validità della AIC, rendendoli diversi dall'originator cui fu inizialmente concessa l'AIC, ma nessuno
ha protestato nonostante, paradossalmente, si potessero considerare a tal stregua biosimilari di se stessi, per
cui non si capisce perchè la diversità del processo produttivo nei biosimilari ia invece presa come pretesto
per contrastare la diffusione dei biosimilari.
Rituximab
Le variazioni del processo produttivo non devono essere pertanto viste come un difetto, ma come modificazioni migliorative del farmaco stesso , così come le
modificazioni in itinere deglioriginator non hanno portato conseguenze né sulla sua sicurezza né sull'efficacia.
Tabella 4. Pro e contro
16
fArMACi biOSiMilAri in OnCOlOgiA
Per mediare tra le due posizioni, esistono due alternative:
1. ai biosimilari si devono richiedere i medesimi requisiti di ricerca clinica richiesti ai farmaci
originator, ma così facendo i farmci generati non potranno più essere considerati biosimilari, con
prezzi pertanto da originator;
2. ai biosimilari si richiedono minori requisiti di ricerca clinica e si estrapolano i dati di efficacia e
sicurezza per alcune indicazioni, ma neanche questa può essere considerata una soluzione accettabile.
Posizione di buon senso allora può essere:
➢ il biosimilare può essere la prima linea di trattamento per i pz naive e/o può essere oggetto di
intercambiabilità sulle indicazioni terapeutiche principali;
➢ è opportuno preservare il principio di continuità terapeutica con l'originator, utilizzando le
modalità di selezione e di approviggionamento che privilegino il prodotto economicamente più
vantaggioso per il SSN, garantendo però al contempo tale continuità;
➢ particolare attenzione va posta al monitoraggio dei pazienti sottoposti a switch originatorbiosimilare per scelta del clinico o per incapacità del sistema di realizzare l'anamnesi farmacologica al
momento della prescrizione.
Bibliografia
1. I Biosimilari: stato dell’arte.
Autori Vari
ESTAV centro 3 Minuti Numero 9 - Giugno 2012 - portale-mav.estav-centro.toscana.it
2. Approfondimento su: farmaci biotecnologici e biosimilari.
Donnarumma E.
AIFA – BIF 2008; XV (3): 128-29.
3. I Farmaci Biosimilari.
Contaldi P, Nappi L, Vitiello D.
Associazione Medica Anardi -Microscopio, portale medico scientifico - www.microscopionline.it
4. I Biosimilari in Oncoematologia.
Rosti G.
2° Conferenza SIF Milano, 02 Marzo 2012. Farmaci a brevetto scaduto: i problemi irrisolti e le
soluzioni proposte - www.sifweb.org
5. Introduzione nella pratica clinica dei farmaci biosimilari in oncologia. Documento di in-dirizzo.
Di Costanzo F, Abbracchio MP, Airoldi M, Palazzo S.
CIPOMO - Commissione interdisciplinare Biosimilari – Task force operativa.
6. Audizione del Presidente AIOM sui disegni di legge nn. 1071 e 1875 riguardante i farmaci biosimilari.
Iacono C.
AIOM 2010. - http://www.aiom.it
7. L’AIOM: funzionano le campagne di informazione, ma serve subito una legge.
Cascinu S.
BioSimilari 3 (1): 18-24 Maggio 2012
17
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Trattamento dell’ascite neoplastica dell’apparato gastroenterico con
Catumaxomab
A cura di GISCAD
Abbiamo chiesto ad alcuni esperti la loro opinione sul trattamento della ascite neoplastica
nei tumori dell’apparato gastroenterico
Domande
Luca
Ansaloni
Bergamo
La possibilità di utilizzo dell’anticorpo
trifunzionale Catumaxomab
potrebbe cambiare il modo di
affrontare il trattamento della ascite
neoplastica
Quali sono le difficoltà culturali e
operative che si potrebbero incontrare
nel pianificarne il trattamento
Dal punto di vista clinico il
trattamento dell’ascite con
Catumaxomab può solo portare a
miglioramenti e facilitazioni nella
pianificazione del trattamento. È
evidente che deve essere vinta e
superata l’obiezione dell’utilizzo di un
farmaco ad alto costo ad un fine di
esclusiva palliazione.
Quale è il paziente che potrebbe
trarre il maggior beneficio dal
trattamento con Catumaxomab
In quale punto del
percorso terapeutico
potrebbe essere
inserito il trattamento
locoregionale con
Catumaxomab
In quali altre
indicazioni
terapeutiche potrebbe
essere sviluppato
l’anticorpo
trifunzionale
Con le attuali indicazioni
registrative, il paziente con ascite
neoplastica, ma con malattia
neoplastica relativamente stabile o
“cronicizzabile” (penso soprattutto
al tumore dell’ovaio), che può
giovarsi degli eventuali lunghi
periodi di libertà da paracentesi
evacuative.
Con le attuali
indicazioni registrative,
il Catumaxomab ha il
fine unico di limitare il
sintomo “ascite
neoplastica”. Va quindi
inserito nel percorso
terapeutico a mio
avviso a prescindere
dagli altri interventi
terapeutici, se si
esclude l’eventuale
sommazione di tossicità
Un farmaco troppo
interessante per
limitarne l’uso alla
semplice palliazione del
sintomo ascite. Già i
preliminari tentativi di
utilizzarlo a fini
terapeutici di
prolungamento della
sopravvivenza nelle
carcinosi di diversa
origine (ma EPCAM
positive) danno ragione
del fatto che in futuro
ne verranno studiate le
indicazioni sia in senso
neoadiuvante che
adiuvante (riferendomi
soprattutto al tumore
dello stomaco e
dell’ovaio).
Sandro
Barni
Treviglio(BG)
Stefano
Cascinu
Ancona
Certamente la possibilità di avere un
farmaco attivo, dovrebbe cambiare il
nostro modo di approcciare la cura
della ascite. Le difficoltà sono
certamente legate al costo-beneficio,
al dover implementare una procedura
nuova per l’oncologo, ma soprattutto al
dover cambiare il concetto di
intrattabilità della ascite neoplastica
Paziente che, ancora in buone
condizioni generali, hanno l’ascite
come problema predominante della
malattia, non più trattabile con
trattamenti sistemici Un altro
setting è rappresentato dai
pazienti che momentaneamente non
possono essere sottoposti a
terapia sistemica, ma che
potrebbero riprenderla al
miglioramento delle condizioni
generali
Dopo tutti i
trattamenti sistemici o
quando questi non sono
temporaneamente
possibili per le
condizioni generali
Vedrei bene una
sperimentazione sulla
carcinosi peritoneale,
malattia ancora orfana
Penso sia indispensabile selezionare i
pazienti in maniera accurata e le
difficoltà tecnico-pratiche potrebbero
limitarne l’uso. Non bisogna scordarsi
che le terapie intraperitoneali, e non
solo in Italia, non hanno mai avuto una
ampia diffusione proprio per le
difficoltà tecniche. Questa situazione
potrebbe essere superata nei centri di
piccole dimensioni nell’ambito della
rete oncologica e della collaborazione
con centri più esperti.
Paziente con sola carcinosi
peritoneale che si esplica più con
ascite che con masse. Attesa di
vita > 2-3 mesi; PS 1-2.
Non farei questa terapia al
paziente che presenta
progressione anche in sedi diverse
A fallimento della
terapia sistemica, a
patto però di
controllare
frequentemente
l’ascite, per non
arrivare in condizioni
cliniche troppo scadute
Nella terapia adiuvante
del carcinoma gastrico,
ovarico, appendice e del
colon variante mucinosa
18
TrATTAMenTO dell’ASCiTe neOPlASTiCA dell’APPArATO gASTrOenTeriCO COn CATUMAxOMAb
Francesco Giuliani
Bari
Roberto
Labianca
Bergamo
Domenica
Lorusso
Milano
Sul piano culturale non credo ci
possano essere difficoltà considerando
che nessun trattamento può, se non in
casi sporadici, apportare un reale
vantaggio nel trattamento dell’ascite
neoplastica. Sul piano operativo
potrebbe apparire un approccio
complesso. In realtà le difficoltà sono
più apparenti che reali considerando
che il posizionamento del catetere
intraperitoneale è estremamente
semplice nelle mani di un chirurgo e/o
radiologo interventista di media
esperienza e che l’ infusione può
essere praticata senza particolari
difficoltà (essendo sufficiente una
premedicazione con paracetamolo) e
che gli effetti collaterali tipo febbre,
dolori addominali sono facilmente
gestibili
Certamente non i pazienti che
abbiano una aspettativa di vita
estremamente limitata e/o con
scadente performance status.
Considerare tale approccio alla
stregua di una terapia di supporto
non consente di ottenere un reale
beneficio neppure sulla qualità di
vita. Possono giovarsene in
particolare, pazienti con carcinoma
ovarico e pazienti con carcinoma
gastrico fermo restando che altre
neoplasie epiteliali tipo carcinoma
colo-rettale possono beneficiare di
tale approccio terapeutico.
Pazienti affetti da
carcinoma ovarico
resistenti a 2 o più
linee di trattamento o
pazienti con carcinoma
gastrico che presentino
immediata progressione
di malattia a un
trattamento
chemioterapico con
comparsa di ascite.
Nulla vieta che un
trattamento sistemico
possa essere ripreso
una volta realizzato il
controllo dell’ascite
Nel trattamento
adiuvante del
carcinoma gastrico,
considerata l’elevata
frequenza di ripresa di
malattia in cavità
peritoneale
Aspetti di gestione (il trattamento
viene spesso effettuato in regime di
ricovero, anche se la prosecuzione in
Day-Hospital dopo 1 o 2
somministrazioni appare fattibile e vi
sono già esperienze positive a
riguardo) e di sostenibilità economica
(il sistema di rimborso, ad esempio in
Lombardia, non appare ottimale).
Chi presenta ascite in fase
avanzata di malattia ma ha una
aspettativa di vita non brevissima
(almeno 3 mesi) e si può meglio
giovare di una “cronicizzazione”
della malattia con vantaggi sulla
qualità di vita. Tutto ciò nel
rispetto della attuale AIC del
farmaco
In linea di principio, in
fasi più precoci della
malattia neoplastica
metastatica
eventualmente in
combinazione con la
chemioterapia
sistemica o con
metodiche tipo
HIPECC. Naturalmente,
sono indispensabili
rigorosi studi clinici a
riguardo
Oltre a quanto già
detto, anche, ad
esempio, in neoplasie
resecate, ma ad alto
rischio di ripresa
peritoneale (es: ovaio o
stomaco ad istologia
indifferenziata).
La principale difficoltà mi sembra la
somministrazione intraperitoneale. In
Italia, ma direi in Europa, a differenza
degli Stati Uniti, non abbiamo una
particolare cultura delle terapie
intraperitoneali. Inoltre penso si
dovrebbe superare un bias legato alle
indicazioni con cui il farmaco è stato
sviluppato e cioè come farmaco per il
trattamento esclusivo dell’ascite. È
chiaro che in questo setting, se
l’alternativa è la paracentesi, il
farmaco non è competitivo nel
rapporto costi/benefici. Ma gli studi
ce lo dicono e il meccanismo d’azione
del farmaco stesso lo conferma, il
Catumaxomab rappresenta una
immunoterapia citotossica a tutti gli
effetti ed è in questa direzione che
dobbiamo cercare il setting migliore in
cui utilizzarlo. Il farmaco inoltre
potrebbe apparire non competitivo nel
rapporto costi/benefici
I pazienti ascitogeni non responsivi
alla chemioterapia. Quindi, per il
tumore ovarico la recidiva platinoresistente, per le neoplasie
gastroenteriche i tumori che
sviluppano chemioresistenza alla
prima linea di trattamento sono i
pazienti sui quali il farmaco ha
dimostrato la sua efficacia negli
studi registrativi. E’ fondamentale,
visto il profilo di tossicità del
trattamento, che non siano
pazienti a performance status
scaduto o a rischio di occlusione
Per le neoplasie coliche
e gastriche, vista la
minore responsività alla
chemioterapia di base,
probabilmente un
anticipo del
trattamento, direi al
fallimento della prima
linea, sarebbe più
opportuno Per i tumori
dell’ovaio vedrei il
farmaco utilizzabile
nelle recidive platinoresistenti, non oltre la
3-4° linea di
trattamento. linea, Ci
sono dati interessanti
in cui le pazienti
giudicate oltre il limite
di trattamento e
sottoposte a terapia
con Catumaxomab con
finalità palliativa, hanno
avuto dopo il farmaco,
un miglioramento del
PS al punto da poter
proseguire la
chemioterapia tradizionale
In sede intraoperatoria
dopo chirurgia
massimale in prima
istanza o nella chirurga
di intervallo dei
carcinomi dell’ovaio o
come strategia di
mantenimento al
termine della
chemioterapia di prima
linea nelle pazienti non
intestinale.
19
in risposta completa.
Anche il setting della
recidiva, dopo chirurgia
citoriduttiva potrebbe
rappresentare un
target interessante
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Ed ora ……… tiriamo le somme.
Maurizio Meregalli
U. O. C. di Oncologia Medica, A. O. Ospedale San Carlo Borromeo, Milano.
I pareri dei nostri esperti, a proposito del trattamento dell’ascite neoplastica con Catumaxomab,
forniscono una serie di spunti di riflessione che cercherò di schematizzare qui di seguito.
1. Il primo problema consiste nella corretta collocazione di questo farmaco in una pianificazione
terapeutica. In linea di principio, tale trattamento dovrebbe essere riservato a pazienti per i quali si
sta attuando un vero programma di terapia specifica e non una semplice palliazione nell’ambito di
una terapia di solo supporto.
2. Questo, però pone un’altra questione, relativa all’equivoco legato al concetto di palliazione: è
evidente che qui dobbiamo fare riferimento non semplicemente al controllo dei sintomi, ma ad una
prospettiva più ampia che non può prescindere da una valutazione della prognosi quoad vitam del
soggetto.
3. Ne consegue che si dovrà arrivare a definire a priori le caratteristiche dei pazienti da trattare in
un’ottica di corretto utilizzo.
4. Dunque: trattamento in un programma più ampio. Questo, però, presuppone che si risponda ad
un ulteriore quesito: l’uso di Catumaxomab dovrà essere previsto solo in sequenza dopo terapia
sistemica o si potrà pensare ad una terapia di associazione?
5. Rispondere a questa domanda non è di poco conto, perché si modifica la numerosità dei pazienti
potenzialmente da trattare. Infatti, ovviamente, nel caso di terapia sequenziale, questa potrebbe essere
attuata solo in presenza di localizzazione peritoneale come sede unica; una simile limitazione verrebbe
superata se si arrivasse a definire schemi di associazione con trattamenti sistemici.
6. Ma la risposta al quesito “sequenza o associazione” condiziona anche il “momento” (precoce o in
fase più tardiva) in cui pensare all’uso del farmaco nel contesto di una pianificazione più ampia.
7. Sorge, poi, un altro dubbio, non solo “semantico”: ascite neoplastica o carcinosi peritoneale? La
soluzione di questo dilemma non è di poco conto perché porta a variare ulteriormente e non di poco
lo spettro dei casi passibili di un trattamento.
8. Resta anche da definire le neoplasie su cui di fatto il Catumaxomab risulta efficace, sempre
nell’ottica di indirizzarne l’uso verso la patologia e non verso il “semplice” sintomo.
9. Siamo nell’ambito delle terapie target; il target di questo farmaco è ben definito. Ciò obbligherà
a ricercare la sua presenza per ottimizzarne l’uso?
10. Si è parlato degli aspetti e dei problemi tecnici, che sappiamo essere superabili con un adeguato
training, e che, come spesso accade in medicina, in genere si riducono progressivamente con
l’aumentare del numero dei casi trattati. In quest’ottica, è ipotizzabile identificare dei centri di
riferimento su cui far convergere i casi meritevoli di trattamento, al fine di razionalizzare gestione e
spesa?
Le interviste ai nostri esperti, infine, hanno portato a definire un elenco estremamente interessante
di possibili ulteriori ambiti di utilizzo: trattamento neoadiuvante ed adiuvante, carcinosi in altre sedi,
terapia intraoperatoria.
È, quindi, inevitabile auspicare che si sviluppino protocolli di studio gestiti da gruppi cooperativi, a
garanzia della qualità di conduzione degli stessi e della validità delle risposte ottenute.
20
Se fOSSi Pi: il TriAl CliniCO Che vOrrei. rifleSSiOni di giOvAni OnCOlOgi
Se fossi PI: il trial clinico che vorrei. Riflessioni di giovani Oncologi
Elena Maccaroni1, Maristella Bianconi1, Riccardo Giampieri2, Mario Scartozzi2,
Stefano Cascinu2
Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica, Università Politecnica delle Marche, Ancona
Clinica di Oncologia Medica, AO Ospedali Riuniti-Ancona, Università Politecnica delle Marche,
Ancona
1
2
La progettazione, conduzione e realizzazione di uno studio clinico è certamente uno dei punti di forza
della ricerca oncologica: sebbene molti “spunti” di ricerca possano essere ottenuti da altre forme di
analisi di dati, quali la ricerca traslazionale, è solo grazie alla realizzazione di studi clinici su pazienti
(preferibilmente randomizzati) che si possono ottenere conferme su determinate “ipotesi” che possono
essere derivate dalla ricerca di base o dalla ricerca traslazionale.
Fondamentale nel disegno di uno studio clinico è pertanto l’obiettivo, lo scopo a cui è indirizzato lo
studio, cioè di confermare o confutare una determinata ipotesi.
L’obiettivo dello studio si realizza tramite un’adeguata selezione degli endpoint, da definire nella fase
di progettazione e stesura dello studio stesso.
Una volta tracciato l’obiettivo, il secondo passaggio è quello di individuare un disegno dello studio
che sia adeguato a dare una risposta accettabile a tale quesito.
Sembrano concetti semplici ma in realtà molti dei bias che possono essere mossi nei confronti di studi
che potremmo definire “non ideali” nascono dal non rispetto di questi due punti di partenza.
Inoltre è fondamentale che lo scopo dello studio sia quantomeno di rilevanza clinica: sebbene possa
sicuramente trovare una qualche forma di applicazione clinica il condurre uno studio che dimostri
che il nostro trattamento somministrato cambia di qualche punto decimale il valore del marcatore X
senza alterare la prognosi del paziente, ovviamente uno studio di notevole rilevanza clinica sarebbe
quello in cui viene dimostrato che il trattamento somministrato migliora significativamente la
sopravvivenza dei nostri pazienti.
Per citare un esempio di studio “ideale” si potrebbe considerare uno studio che valuti “CHI” si
beneficia del trattamento con Bevacizumab. La rilevanza clinica di tale trial sarebbe sicuramente
elevata, dato che il farmaco Bevacizumab ha dimostrato efficacia in svariate tipologie tumorali anche
diverse tra di loro (adenocarcinoma del colon-retto, carcinoma mammario, carcinoma renale,
glioblastoma, carcinoma dell’ovaio, carcinoma polmonare).
Sebbene il numero di pazienti trattati con tale farmaco sia quindi notevole, non è ancora possibile
stabilire “CHI” veramente tragga un maggiore vantaggio dal trattamento. Tale quesito risulta
sicuramente ancora più rilevante se si considera che in realtà il Bevacizumab è un anticorpo
monoclinale, cioè un farmaco diretto contro uno specifico bersaglio, il VEGF-A.
Tuttavia, nonostante sia un farmaco sviluppato contro uno specifico bersaglio, non possediamo ancora
dati che dimostrino se esiste o meno un gruppo di pazienti che si beneficiano maggiormente di tale
farmaco.
Quale potrebbe essere una ipotesi razionale di studio per valutare se esiste un biomarcatore in grado
di predire l’efficacia di tale farmaco?
Una validazione prospettica di biomarcatori si avvale principalmente di 2 tipi di studi:
1. studi di fase II (meglio se randomizzati)/fase III con stratificazione dei pazienti in base ai valori dei
biomarcatori da noi scelti
21
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
2. studi di fase III in cui l’inclusione/esclusione del paziente nello studio si basa sulla presenza/assenza
di un determinato biomarcatore.
Un esempio dello studio di primo tipo è quello dello sviluppo dell’Imatinib nel trattamento dei tumori
stromali gastro-intestinali (GIST): nello studio registrativo di fase III con Imatinib il farmaco venne
sviluppato come terapia di salvataggio in pazienti con GIST avanzato (non resecabile o metastatico),
senza stratificazione in base al tipo di mutazione di c-KIT (CD 117) espressa dalla neoplasia. Tutti i
pazienti con GIST CD117 positivo ricevevano Imatinib, e solo studi retrospettivi successivi hanno
dimostrato come i pazienti che rispondevano meglio al trattamento con Imatinib erano quelli il cui
GIST esprimeva la mutazione dell’esone 11 di c-KIT (1).
Al contrario un esempio di studio di secondo tipo è quello dello sviluppo di Trastuzumab nel
trattamento dell’adenocarcinoma gastrico metastatico (TOGA trial): in questo caso i pazienti allo
screening venivano sottoposti ad analisi immunoistochimica e FISH dell’espressione di HER-2 sul
pezzo operatorio e solamente i pazienti il cui tumore esprimeva HER-2 venivano arruolati e
randomizzati a ricevere chemioterapia (Cisplatino e Fluoropirimidina) più o meno Trastuzumab (2).
Entrambi i tipi di studio presentano i loro “pro” ed i loro “contro”.
Se nella prima tipologia di studio l’analisi del biomarcatore consente di attribuirgli anche un eventuale
valore prognostico, tuttavia necessita di un campione di popolazione in studio molto ampio per poter
evidenziare una differenza statisticamente significativa tra i gruppi di pazienti arruolati.
Invece il secondo tipo di studio, sebbene non consenta di identificare il valore prognostico del
biomarcatore in esame anche qualora questo sia presente, può essere agevolmente condotto anche su
un campione di pazienti decisamente più ridotto.
Inoltre due cose da precisare in quest’ultima tipologia è che ovviamente non può essere applicata a
farmaci già approvati nella pratica clinica come standard terapeutici e che quando il razionale
biologico di un supposto valore predittivo del biomarcatore da noi selezionato è sufficientemente forte
questo disegno di studio sarebbe più adeguato per una rapida conduzione dello studio stesso rispetto
al primo tipo.
Il passo successivo, una volta identificato il disegno dello studio più adeguato, è la definizione degli
endpoints attraverso i quali confermare o confutare la nostra ipotesi formulata nell’obiettivo dello
studio: in particolare nella valutazione dell’efficacia dei farmaci biologici o a bersaglio molecolare (ad
esempio il Bevacizumab e gli altri farmaci anti-angiogenetici), la risposta obiettiva è stata fino ad ora
uno degli endpoint più utilizzati nella valutazione della efficacia di un farmaco chemioterapico.
Sorge il dubbio se questo sia effettivamente un endpoint applicabile a farmaci che notoriamente non
consentono di aumentare significativamente il tasso di risposte obiettive pur permettendo di ottenere
una stabilizzazione di malattia mantenuta anche per lunghi periodi di tempo.
E’ lecito chiedersi se altri endpoints surrogati possano essere più idonei per la valutazione dell’efficacia
di questi trattamenti: criteri di Choi (3,4)? criteri PERCIST (5)?; altri criteri quali ad esempio non la
risposta ma la NON-progressione?; o si dovrebbe utilizzare sempre e comunque la sopravvivenza
globale come endpoint primario?
Non esiste una risposta definitiva ed esauriente al momento, dato che l’efficacia di un trattamento non
dipende solo ed esclusivamente dalla risposta obiettiva ma dal contesto in cui somministriamo il
farmaco e da ciò che noi stessi ci aspettiamo da un farmaco: un farmaco che determini un aumento
significativo delle risposte obiettive per un tempo minimo in alcuni pazienti può essere di grande
rilevanza clinica in caso di chance chirurgiche o grande “tumour burden” (es. Cetuximab (6,7)) ma
avere altresì minime implicazioni in pazienti con malattia indolente e che hanno necessità di una
prolungata stabilizzazione di malattia senza effetti collaterali invalidanti legati al trattamento stesso
(es. Bevacizumab (8)).
22
Se fOSSi Pi: il TriAl CliniCO Che vOrrei. rifleSSiOni di giOvAni OnCOlOgi
Il biomarcatore del nostro studio ideale dovrebbe avere un forte razionale biologico, essere facilmente
identificabile e riproducibile (e se poco costoso meglio).
Purtroppo i biomarcatori valutati finora non corrispondono a queste caratteristiche. Nell’esempio del
Bevacizumab tutta la pathway di VEGF è stata valutata con varie metodiche (immunoistochimica,
polimorfismi dei vari fattori solubili dell’angiogenesi e dei recettori) senza trovare alcun valore
predittivo degli stessi che fosse mantenuto in più di 2 analisi e tutte confutate dalla validazione
prospettica. I polimorfismi di VEGF e dei recettori ne sono un lampante esempio: a fronte di una
ipotesi molto suggestiva (alcuni polimorfismi condizionerebbero una maggiore efficacia del farmaco
e dato che questi sono presenti in tutte le cellule dell’organismo questo spiegherebbe anche il perché
dell’accentuazione delle tossicità in pazienti selezionati ed una facilità nell’ottenere il materiale da
studiare, dato che basterebbe un prelievo ematico per avere a disposizione cellule su cui condurre
l’analisi) la validazione prospettica di tali risultati ha spesso raggiunto risultati deludenti (9). La stessa
ipertensione arteriosa intesa come biomarcatore surrogato (10) ha metodi di valutazione così diversi
che non è possibile trarre un giudizio definitivo circa il ruolo reale di questa “tossicità”.
Inoltre, quando si parla di neo-angiogenesi, oltre a considerare ciò che il tumore produce (con i vari
fattori pro-angiogenici), sicuramente cruciale è anche il ruolo del substrato, cioè del microambiente
dove i neo-vasi si formano: i fattori rilasciati dal tumore infatti interagiscono anche con le cellule
dello stroma in maniera paracrina.
Un possibile biomarcatore potrebbe pertanto essere la valutazione dell’espressione dei recettori (es.
VEGF-R o anche altri recettori meno conosciuti quali PlGF-R) su cellule dello stroma. Questo tipo
di analisi, condotta prospetticamente, consentirebbe di valutare se la nostra ipotesi di interazione tra
seed (tumore) e soil (il microambiente) sia corretta e se tale interazione si possa tradurre in una
maggiore efficacia del trattamento chemioterapico.
Esistono pertanto vari elementi che si uniscono per formare quello che può essere considerato uno
“studio ideale” e sicuramente uno non considerato finora e che rappresenta forse il più importante è
la fattibilità: infatti la stratificazione dei pazienti in base ai biomarcatori consente certamente di
rendere il nostro studio valido ma tuttavia richiede una più elevata numerosità dei pazienti da
arruolare. Questo diventa cruciale se si considera che tale valutazione (soprattutto per alcune forme
di biomarcatori quali quelli valutati in immunoistochimica) dovrebbe essere fatta in modo
centralizzato (in maniera tale da eliminare bias di differente valutazione tra due diversi
anatomopatologi). Questo si traduce in una conduzione di uno studio che quasi necessariamente
diventa multicentrico.
Pertanto, si può concludere che se fossimo i Principal Investigator di uno studio ideale vorremmo
anche che il nostro studio fosse così “allettante” da attirare l’attenzione di molti Co-Investigators!
(Figura 1) Ed è con questa nota sullo spirito di collaborazione che dovrebbe esistere nella ricerca
clinica, che si conclude questa riflessione sullo studio clinico IDEALE.
23
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Titolo del Protocollo
Tipo di Studio
Sedi dello studio
Background e Razionale
Popolazione in studio
Disegno dello studio
Obiettivo primario dello
studio
Definizione dell’obiettivo
primario
Obiettivi secondari dello
studio
Definizione degli obiettivi
secondari
Selezione prospettica di pazienti per trattamento con farmaci
anti-VEGF.
Prospettico randomizzato di fase II, non profit.
Multicentrico
Il Bevacizumab è un anticorpo monoclonale diretto contro VEGFA,
che ha dimostrato efficacia nel trattamento di diverse patologie
tumorali, in associazione a chemioterapia, tra cui il carcinoma del
colon-retto. Al momento non è stato individuato un discriminante
biologico che sia predittivo della risposta a Bevacizumab. VEGFA
viene espresso in maniera variabile nei diversi individui. Il fattore X
si è dimostrato in studi osservazionali in grado di predire le risposte
alla terapia con Bevacizumab
Pazienti con carcinoma colorettale metastatico, eleggibili per
trattamento con Bevacizumab
Lo studio è uno studio prospettico randomizzato di fase II, non
profit, in cui pazienti con diagnosi di adenocarcinoma colico, per i
quali sia clinicamente indicato trattamento con chemioterapia in
associazione a Bevacizumab, verranno sottoposti, dopo consenso, ad
analisi del fattore X su pezzo istologico ed in base ai risultati
verranno classificati prospetticamente (prima cioè della valutazione
della risposta) in un gruppo con fattore X positivo e un gruppo
fattore X negativo. La stratificazione non comporterà alcun
cambiamento della gestione clinica che avverrà come di norma della
buona pratica clinica.
Risposte obiettive (RR): verificare se il tasso di RR nei pazienti con
fattore X positivo sia superiore a quello dei pazienti con fattore X
negativo
Risposte obiettive al trattamento valutate secondo i criteri RECIST e
CHOI.
- Sopravvivenza complessiva (OS): verificare se OS nei pazienti con
fattore X positivo sia superiore a quello dei pazienti con fattore X
negativo;
- Sopravvivenza libera da progressione (PFS): verificare se PFS nei
pazienti con fattore X positivo sia superiore a quello dei pazienti con
fattore X negativo
- La sopravvivenza complessiva è definita come intervallo di tempo
tra inizio del trattamento e la morte o l’ultima visita di follow-up;
- La sopravvivenza libera da progressione è definita come intervallo
di tempo tra l’inizio del trattamento e la progressione clinica, la
morte o l’ultima visita di follow-up per pazienti persi al follow-up e
non ancora in progressione.
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Se fOSSi Pi: il TriAl CliniCO Che vOrrei. rifleSSiOni di giOvAni OnCOlOgi
Considerazioni statistiche
e numerosità del
campione
Schedula di trattamento
Principali criteri di
inclusione
Principali criteri di
esclusione
Allo scopo di identificare una differenza in termini di RR in pazienti
con fattore X negativo (tassi di risposta intorno al 40%) rispetto ai
pazienti con fattore X positivo (tassi di risposta intorno al 70%), con
una probabilità alpha di 0.05 e beta di 0.05 saranno necessari 130
pazienti.
FOLFOX o FOLFIRI in associazione a Bevacizumab.
%
Consenso informato scritto
%
Carcinoma colorettale metastatico confermato istologicamente
e con campione disponibile per valutazione biomolecolare
%
Almeno una lesione misurabile mediante TC o RM
%
Performance Status (ECOG) 0-1 all’ingresso nello studio
%
Conta dei neutrofili =/> 1.5 x 109/L, conta piastrinica =/> 100
x 109/L, HGB =/> 10 g/dL
%
Bilirubina totale < 1.5 x UNL ‡ SGOT e SGPT =/< 2.5 x UNL
(=/< 5 x UNL in pazienti con metastasi epatiche)
%
LDH < 1.5 x UNL
%
Creatinina < 1.5 x UNL
%
Patologie infettive non risolte al momento dell’ingresso in
studio
%
Radioterapia entro 4 settimane dall’ingresso nello studio
%
Qualsiasi farmaco in fase di sperimentazione entro le 4
settimane precedenti l’ingresso nello studio
%
Precedente esposizione a farmaci anti-EGFR
%
Noto abuso di droghe e/o di alcohol
%
Donne in gravidanza od in allattamento
%
Altri tumori, eccetto melanoma in situ e carcinoma della
cervice uterina non metastatico
%
Incapacità a firmare un consenso informato
Figura 1: il nostro studio “ideale”
25
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
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26
l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
L’Oncologia, la sua storia
Parte II – Dal Medioevo al secolo dei Lumi
Dario Cova
Medico e Storico, Primario Emerito Onco-Geriatra, Milano
Il Medioevo, considerato per molto tempo un periodo “buio” rispetto alla civiltà greco-romana e a
quella rinascimentale, ha subito negli anni una costante rivalutazione per l’apporto positivo in molti
campi tra cui la medicina. È pur vero che la grande stagione della medicina nel mondo antico subì con
la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 un progressivo deterioramento, ma dal punto di
vista medico Galeno e Ippocrate restano tuttavia le figure di riferimento. La diffusione del
Cristianesimo in cui l’efficacia di una cura era basata su una visione della vita in cui il destino e il
peccato giocavano un grande ruolo, cosicché i remedia physicalia erano spesso subordinati a un
intervento spirituale esasperato con la comparsa di Santi protettori delle varie malattie. L’ultimo
grande medico della tradizione greco-romana fu Paolo d’Egina (625-690), particolarmente esperto nel
campo della chirurgia alla quale dedicò diverse opere e osservazioni mediche che rimasero come guida
per diversi secoli. Il Medioevo è stato un periodo di grande fermento sia per la medicina che la
chirurgia, in cui le basi della tradizione greco-romana si sono fuse con l’apporto della medicina araba
e con le conoscenze ricavate dalla pratica quotidiana. All’estensione dell’Islam, l’influsso della civiltà
islamica sulla medicina occidentale si sviluppa e si manifesta già nell’alto Medioevo, tra il VII e l’VIII
secolo come una vera e propria rivoluzione. Dobbiamo in gran parte agli arabi se è giunto fino a noi
il sapere medico della scuola greco-romana. Con la distruzione della Biblioteca di Alessandria nel
640, il principale centro culturale del mondo antico, gli arabi divennero gli eredi e i custodi della
medicina e della scienza greco-romana. Dai califfati arabi d’oriente e occidente arrivarono in Europa
gli echi dei nomi di medici illustri come al-Razi, Avicenna e Averroè i cui lavori divennero libri di
testo per tutto il Medioevo. Al-Razi (865-930), nel suo trattato “Liber Medicinalis Almansoris”, dedica
il settimo capitolo alla chirurgia generale e il nono alla cura delle malattie con descrizioni
particolarmente e sorprendentemente precise. Ma il “principe dei medici”, come lo chiamarono gli
stessi contemporanei, fu sicuramente Avicenna (980-1037). È considerato da molti come “il padre
della medicina moderna”. I suoi lavori più famosi sono “Il libro della guarigione” e il “Canone” della
medicina rimasti incontrastati nello studio per più di sei secoli. Il “Canone” era diviso in cinque trattati
in cui Avicenna esprime intuizioni avanzate, per esempio raccomanda al chirurgo di trattare il cancro
nelle sue fasi iniziali, invitandolo ad accertarsi della rimozione completa del tessuto malato.
27
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Avicenna (980 -1037), il “Canone” della medicina, 1025 circa
Anche Averroè (1126-1198), filosofo, medico e matematico arabo, scrisse un’opera fondamentale di
medicina generale, il “Colliget”, che contiene diverse considerazioni di ordine generale sulla medicina,
così come in gran parte delle opere di Moshe ben Maimon, più noto in Italia come Mosè Maimonide
(1138-1204), medico ebreo nato nella Spagna durante la dominazione mussulmana, il quale, tuttavia
critica esplicitamente Galeno e altri autori del periodo greco-romano. I suoi scritti di medicina sono
stati di fondamentale importanza nella storia della medicina, fra essi, tutti scritti in arabo, un trattato
sulle “Cause dei Sintomi” in cui si riferiscono anche patologie correlate al cancro.
La ricchezza della tradizione medica araba declinerà lentamente: già nel XIII secolo, ma forse anche
prima, la sua tradizione è raccolta da quella che sarà chiamata la Scuola Medica Salernitana, la cui
fama giungerà fino in Germania, dove Goffredo di Strasburgo citerà la scuola di Salerno nel suo
celeberrimo “Tristano e Isotta”, scritto intorno al 1210. La posizione geografica ebbe sicuramente un
ruolo fondamentale nella crescita della Scuola: Salerno, porto al centro del Mediterraneo, subisce e
metabolizza gli influssi della cultura araba e greco-bizantina. Dal mare arrivano i libri di Avicenna e
Averroè, e dal mare giunge a Salerno anche il medico cartaginese Costantino l'Africano (1020-1087)
che visse nella città per diversi anni e tradusse dall'arabo molti testi medici. Sotto questa spinta
culturale si riscoprono anche le opere classiche a lungo dimenticate nei monasteri. Grazie alla Scuola
Medica, la medicina fu la prima disciplina scientifica a uscire dalle abbazie per confrontarsi di nuovo
con il mondo e la pratica sperimentale. È grazie all’opera nota come “Regimen Sanitatis Salernitanum”,
talora intitolato anche “Flos Medicinae” che i precetti medici attribuiti alla più antica istituzione
medica dell’occidente medievale hanno sfidato i secoli. Da studi più recenti sembra che il “Regimen”
sia più probabilmente frutto di un lavoro collettivo ed espressione delle consuetudini popolari del
tempo. Venne composto agli inizi del Trecento, epoca alla quale risale il commento del medico
castigliano Arnaldo da Villanova (1240-1313) ai 103 capitoli che lo compongono, la cui prima stampa
fu pubblicata nel 1480.
28
l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
Il “Regimen Sanitatis Salernitanum” , edizione postuma, 1480
Nel “Regimen Sanitatis Salernitanum”, relativamente al cancro, viene ripresa la teoria dell’atrabile per
spiegare l’insorgenza dei tumori. Nel “Regimen”, capitolo XLIII “De Ficubus” afferma “Scropha, tumor,
glandes ficus cataplasmati cedunt”, (Sana il fico strume, ghiande e i tumor su cui si spande), ovvero una
poltiglia di fichi cotti che, avvolta in garze, veniva posata su una parte del corpo a scopo curativo.
Il periodo medievale, quello arabo e l’Alto Medioevo rappresentano momenti di scarso rilievo nella
storia dell'oncologia. La medicina medievale per certi versi non si allontana dalle posizioni già
conquistate da quella greco-romana: i tumori vengono diagnosticati con maggiore precisione anche
negli organi più interni. A Ruggero da Frugardo, medico di origine parmense vissuto tra la metà del
XII e l’inizio del XIII secolo, più conosciuto come Ruggero di Salerno, fondatore della branca
chirurgica della Scuola, si devono i testi di chirurgia dove si riporta la prima operazione al cervello,
effettuata con una trapanazione del cranio per togliere un tumore con tutte le sue aderenze, operazione
descritta nella sua opera, il “Pratica chirurgiae”, scritta nel 1180, che per due secoli ebbe grandissima
diffusione in tutta Europa.
29
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Mondino de’ Liuzzi (1270 - 1326), in cattedra, assiste alla dissezione anatomica
compiuta da un suo assistente. Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna
Nel Duecento, in un periodo di relativo benessere, si osserva in gran parte d’Europa e specialmente
in Italia lo sviluppo di una vivace e articolata pratica medica, ovvero si assiste al successo della
medicina colta e universitaria che porta alla produzione di testi che lentamente ristabiliscono un
rapporto più stretto con il paziente. Una innovazione decisiva per l’insegnamento della medicina e per
coloro che la praticano, è l’affermarsi degli Studia, ovvero le università. A metà del ‘200, un decreto
di Federico II di Svevia rese obbligatorio lo studio dell’anatomia per coloro che esercitavano la
professione medica nel regno di Sicilia. Nel 1275 Guglielmo da Saliceto (1210-1277) dedica il quarto
dei suoi cinque libri sull’anatomia alle osservazioni dirette ma sarà Mondino de’ Liuzzi (1275-1326)
dello Studium di Bologna il primo a scendere dalla cattedra per avvicinarsi al cadavere ed eseguire
una prima dissezione già nel 1315. Il Mondino redige nel 1316 la sua celebre “Anatomia”, documento
insigne della Scuola bolognese in cui la dissezione anatomica, da molti esecrata e osteggiata, viene
riconosciuta come irrinunciabile mezzo per l’avanzamento del sapere medico.
Mondino de’ Liuzzi ebbe compagno di tirocinio Henry de Mondeville (1260-1320) che diventerà il
più celebre chirurgo francese del Medioevo, chirurgo del Re di Francia Filippo il Bello. Henry de
Mondeville, maestro della celebre scuola di Montpellier distingue una forma di cancro non ulcerato
“apostema o tumore contro natura, formato di bile nera corrotta e putrefatta, nel quale non si osserva nessuna
apertura o soluzione di continuità esteriore (cancro apostematoso)” e una forma di cancro ulcerato “che è
un’ulcerazione appariscente, rotonda, fetida, fornita di grossi margini rovesciati, sollevati, cavernosi, duri,
nodosi, lividi o neri. L’uno deriva da una causa interna, per esempio da un umore melanconico […] trasmesso
30
l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
a qualche parte, l’altro da una causa esteriore, per esempio da ferite o ulcere mal curate”. Ma ancora più
interessante è quel che de Mondeville stabilisce riguardo al trattamento: “Nessun cancro guarisce, a
meno che sia estirpato per intero: difatti, se ne resta una parte anche piccola, la malignità aumenta alla radice”.
La cura dei tumori era sostanzialmente riservata alle mani esperte dei chirurghi. Si sviluppa così,
accanto alla medicina dei physici, quella dei chirurghi che concorreranno ad attribuire all’autorità del
medico un ruolo specifico nella società come ricaduta del loro impegno presso le corti sia reali che
ducali, i centri del potere rinascimentali. È grazie a questa ritrovata autorità che nel Quattrocento,
sull’onda della rinnovata attenzione prestata alla conoscenza del corpo umano, che vede tra l’altro tra
i massimi esponenti lo stesso Leonardo da Vinci (1452-1519) con i suoi famosi atlanti anatomici,
vede il fiorire di numerosi testi didattici, grazie anche alla diffusione della nuova tecnica di stampa a
caratteri mobili, introdotta da Johann Gutenberg (1398 ca - 1468). Il Teatro Anatomico, che fin dalle
sue origini è dominato dal medico, che lo dirige e lo illustra con l’aiuto dei testi, è frequentato anche
dal chirurgo cui è dato l’incarico di svolgere l’operazione manuale del taglio e della preparazione del
corpo. Il chirurgo ricava così dalla partecipazione alla dissezione un elemento di promozione destinata
ad affermarsi nel corso di questo secolo. Giovanni de Vigo (1450-1525) fu il primo chirurgo italiano
del Rinascimento e nel suo trattato “Practica copiosa in arte chirurgica ad filium Aloisium”, scritto e
pubblicato durante il suo soggiorno a Roma alla corte papale di Giulio II riprende lo stesso concetto
di Henry de Mondeville, scrivendo che “Lo cancro in le mammille per altra via non riceve cura se non
tajando tutto lo membro con la infirmitade”. Il trattato del de Vigo fu pubblicato in quaranta edizioni e
tradotto in sette lingue e divenne il primo completo manuale delle conoscenze medico-chirurgiche
dell’epoca. Negli stessi anni dell’attività del de Vigo, vediamo operare Berengario da Carpi
(1466-1530) che fece molta pratica durante le guerre che investivano l’Italia, a partire dall’invasione
francese di Carlo VIII nel 1494, “le guerre d’Italia” del Rinascimento, come le chiama Francesco
Guicciardini (1483-1540), politico e storico. Berengario da Carpi prese a modello della sua anatomia
il già citato Mondino de Liuzzi e i suoi “Commentaria super anatomia Mondini” di circa 1000 pagine
corredate da illustrazioni di vari organi e strutture in cui descrisse tra l’altro in modo dettagliato
distinguendo i vasi chiliferi dalle vene nonché la funzione di vari organi e apparati, non a torto
Berengario viene considerato il più importante e illustre precursore di Andrea Vesalio (1514 - 1564),
medico-chirurgo fiammingo e grande anatomico del Cinquecento.
Anche Ambroise Paré (1510 - 1590), il più noto chirurgo francese del ‘500, chirurgo di ben tre re di
Francia, da Enrico II, a Francesco II e a Carlo IX, acquisisce la pratica chirurgica sui campi di battaglia
perfeziona le tecniche di amputazione utilizzando per arrestare le emorragie la legatura delle arterie
invece della cauterizzazione. La crescente importanza e prestigio acquisiti dalla chirurgia fanno sì che
il medico francese venisse interpellato anche in casi di patologie tumorali, ne descrive, infatti la
patogenesi e la cura nella sua “Opera” pubblicata a Parigi nel 1575: “La cause sono due: antecedente e
presente. La causa antecedente proviene da uno speciale modo di vivere che produce un sangue spesso bilioso
e limaccioso […]. La causa presente è l’umore melancolico, arrestato alla parte dopo la sua ebollizione […].”
Riguardo alla cura Paré afferma che si deve ricorrere alla “estirpazione” quando il cancro “è piccolo e
risiede in un parte suscettibile di amputazione” negli altri casi indica una terapia palliativa. Egli risulta il
primo ad aver riconosciuto il significato della diffusione della malattia ai linfonodi ascellari
introducendo il concetto dell’evoluzione centrifuga della malattia.
31
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
Ambroise Paré (1510 - 1590) e la sua “Opera”, Parigi, 1575
La rinascita delle conoscenze, che si osserva a cavallo tra il quindicesimo e sedicesimo secolo, vede la
maggior parte dei medici “umanisti” formarsi nelle università di Bologna, Ferrara e Padova, formazione
che avrebbe enormemente influenzato la chirurgia ma anche le ricerche anatomiche in quella che
sarà chiamata anatomia patologica e che permetterà a partire dal ‘500 l’emergere di una nuova
concezione del corpo umano e delle sue malattie. Fino ad allora la formazione del medico era
generalmente basata sui testi della medicina antica da Ippocrate a Galeno e sui commentari medievali,
in particolare il già citato “Canone” di Avicenna. Lo sviluppo della pratica di dissezione e della clinica,
la nascita dei teatri anatomici, divengono progressivamente parte integrante della formazione del
medico. In Italia, la scuola anatomico-chirurgica più importante è quella di Padova dove opera
Girolamo Fabrizio d’Acquapendente (1533-1619) il quale nel suo trattato “Le opere chirurgiche” dedica
un ampio capitolo allo studio dei tumori e, in particolare, al “canchero”. Girolamo Fabrizio
d’Acquapendente, allievo del celebre Falloppio, definisce il tumore come “un’infermità nella grandezza
accresciuta”, ed effettua un primo tentativo di differenziare i tumori benigni da quelli maligni,
associando la genesi del tumore anche a cause esterne, quali l’alimentazione, e suggerendo ipotesi
terapeutiche. Nel testo di Girolamo Fabrizio d’Acquapendente è possibile constatare come le teorie
di Galeno, riviste alla luce dei nuovi insegnamenti anatomico-chirurgici rinascimentali, siano la base
fisiopatologica e terapeutica del cancro ancora nel XVII secolo.
32
l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
Girolamo Fabrizio d’Acquapendente, edizione postuma
de “Le opere chirurgiche”, Padova, 1684
Il concetto chiave della medicina rinascimentale, ereditato dalle teorie di Ippocrate e Galeno, ancora
argomento di insegnamento, è la teoria dei quattro umori, ovvero il sangue, la bile gialla o colera, la
bile nera o melanconia e la flemma. Alla prevalenza di uno dei quattro umori è associata l’insorgenza
di forme patologiche. La prima critica a questa teoria è condotta dal medico e alchimista svizzero
Paracelso (1493-1541). Teofrasto Bombasto di Hohenheim, più conosciuto come Paracelso e per il suo
aforisma “è la dose che fa il veleno” riteneva che i tumori maligni fossero prodotti non dall’accumulo
della bile nera, ma da un sale minerale il “realgar” formatosi nell’organismo e contenuto nel sangue.
Il realgar, secondo l’alchimia, era “un composto acre e corrodente, sulfureo e arsenica”. Fu uno dei primi
a rifiutare le teorie del già citato Avicenna poiché, come vuole la tradizione, con esuberanza e tra gli
33
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 43
applausi degli studenti ne bruciò pubblicamente le opere a Basilea nel giorno di san Giovanni del
1527. Paracelso nel “De morbis Metallicis” anticipa le teorie sulla genesi delle malattie dei minatori che
troveranno ampia trattazione tra il Seicento e il Settecento.
La ribellione verso i “dogmi” della scienza medica ha tra i principali fautori il già citato Andrea Vesalio
nella cui opera “De humani corporis fabrica, libri Septem” del 1543, trattato da considerarsi l’inizio
dell’anatomia moderna, troviamo lunghe dissertazioni sulle cause, sui sintomi e sulla cura dei tumori,
intesi come tumefazione di diversa natura e significato tra le quali si inserisce anche il cancro. Vesalio
mette in discussione nel suo trattato le teorie di Galeno relative all’esistenza della bile nera come
causa del tumore, poiché dissezionando i cadaveri non v’è traccia.
Tra gli altri importanti medici del Cinquecento che dedicano attenzione alla patologia tumorale
bisogna ricordare l'anatomista Gabriele Falloppio (1523-1562) secondo il quale lo scirro condivideva
col cancro la medesima affezione, vale a dire il carcinoma. Nella sua “Chirurgia” trattò i tumori maligni
in modo molto esteso, trattando anche le cause predisponenti il cancro che divise tra “interne” ed
“esterne” ponendo attenzione sugli alimenti e sui medicamenti come causa. Affermava il Falloppio che
“quando il cancro è tranquillo sia tranquillo anche il medico”.
Nonostante l'introduzione del metodo sperimentale nelle scienze ad opera di Galileo, l'oncologia,
come del resto la medicina, ha ancora molta strada da percorrere prima di giungere alle sperimentazioni
e innovazioni in campo ezio-patologico del XVII secolo, vera e propria rivoluzione scientifica, punto
di svolta nella storia della medicina. Nel corso del ‘600, infatti, i mutamenti in campo anatomico
sono correlati alla fisiopatologia, tanto che diventa difficile distinguere fra i due campi di ricerca che
progressivamente si finalizza in una grande ricerca anatomica specializzata con ricadute sulla
descrizione e trattamento della patologia tumorale, bisogna ricordare che all’inizio del ‘600 in tutte
le università europee si studiava ancora sui testi di Ippocrate, Galeno, Maimonide e Avicenna.
Il medico cremonese Gaspare Aselli (1581-1625) aveva riscoperto nel 1622 l’esistenza delle “venae
albae et lacteae”, cioè dei vasi linfatici, già nota ai greci e poi caduta in oblio. Il lavoro viene pubblicato
nel 1627, due anni dopo la sua morte ed è considerato un contributo fondamentale allo sviluppo delle
scienze mediche, la via linfatica sarà infatti successivamente indicata come quella cui è ascrivibile la
disseminazione metastatica di numerose neoplasie.
Nel XVII secolo, assistiamo al confronto di due distinte scuole di pensiero e ricerca medica, ovvero
quella iatromeccanica e quella iatrochimica. La prima, che considerava essenzialmente il corpo umano
e le sue funzioni fisiologiche come una macchina soggetta alle leggi della matematica e della fisica, ha
tra i maggiori sostenitori il filosofo francese René Descartes (1596-1650), meglio noto con il nome
italianizzato di Cartesio, che sostituiva la linfa alla bile nera e ne faceva il nuovo umor circolante
responsabile di quella malattia ubiquitaria che, a suo avviso, era la malattia tumorale. Era la linfa
l’umore che formava il tumore, che dava luogo al cancro localizzato e circoscritto coagulandosi più o
meno rapidamente in questo o quel distretto dell’organismo. Il pensiero di Cartesio è illustrato per la
prima volta nella sua opera postuma del 1662 “De Homine”. Cartesio nel suo saggio dedica molto
spazio alla ricerca delle cause di malattia acquisita con “metodo” razionale ovvero come fosse possibile
rivoluzionare la pratica medica del tempo, quella derisa da Molière. Ulteriore prova della validità
delle sue teorie fu ritenuta la tumefazione per linfedema del braccio che presentava Anna d’Austria,
Regina di Francia, morta nel 1666 per un tumore al seno. La linfa circolante nelle “vene bianche e
lattee” di Sua Maestà si era rappresa a livello del seno determinandovi una erisipela complicata da
cancrena (una mastite carcinomatosa). Un braccio della regina era tumefatto per linfedema
avvalorando l’ipotesi cartesiana del cancro linfogenetico. Guardandosi la mano, Anna d’Austria
diceva presagendo la fine ormai prossima: “La mia mano è gonfia, è tempo di partire”. Le ultime settimane
di vita della Regina di Francia furono atroci: quando entrò in cancrena i medici le asportavano
giornalmente la carne infetta dal seno malato e Anna sopportava tutto “con una pazienza e dolcezza
ammirevoli”.
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l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
Anna d’Austria, Regina di Francia, con il figlio Luigi, futuro Re Sole
(ritratto di anonimo, Reggia di Versailles, 1639)
Nel XVII secolo, in Italia, solo pochi chirurghi furono all’altezza dei loro colleghi dei secoli precedenti,
la loro attività non reggeva il confronto con quella dei loro colleghi degli altri paesi europei quali il
chirurgo Wilhelm Fabry von Hilden (1560-1643), italianizzato in Fabrizio Hildano, definito anche il
padre della chirurgia tedesca, che fu senza ombra di dubbio il più grande chirurgo del suo tempo.
Inventore di parecchi strumenti, quali compressori circolari della mammella, forchettoni e cesoie a
ghigliottina per l’amputazione rapida della mammella, raccolse una notevole mole di osservazioni in
un'opera intitolata “Observationes medico-chirurgicae”. La sua casistica, che comprendeva circa 100
casi di neoplasie trattate con l’intervento chirurgico, è la più numerosa di quel tempo.
In Italia uno tra i più autorevoli chirurghi del Seicento fu senza dubbio Marco Aurelio Severino
(1580-1656) che insegnò all’università di Napoli. Il principio ispiratore di Severino era quello di
intervenire immediatamente, allorquando a suo parere era chiaro che il processo patologico non
mostrava segni di risoluzione spontanea. L’escissione chirurgica di un tumore misto benigno e maligno
fu descritta da Marco Aurelio Severino considerato uno dei fondatori della patologia chirurgica. Il
famoso chirurgo calabrese descrisse il fibroadenoma della mammella e consigliò i criteri da seguire
per differenziare un tumore benigno mammario da uno maligno. La tecnica nel frattempo si era affinata
con la legatura isolata di vasi, iniziata dallo stesso Parè, con ampie escissioni mammarie, in qualche
caso dissezioni ascellari effettuate da Marco Aurelio Severino e con l’asportazione dei muscoli pettorali
già effettuata da Bartolomeo Cabrol (1529-1603), allievo prediletto del Parè, come descritto nel suo
“Alfabeto anatomico”, pubblicato nel 1594.
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Tecnica dell’amputazione della mammella,
da “Armarnentarium chirurgicum” di Giovanni Sculteto, 1653
Nel Seicento ebbe grande notorietà l’“Armamentarium chirurgicum” del Giovanni Sculteto nome
italianizzato del medico tedesco Johannes Scultetus (1595-1645), nativo di Ulm, ma addottoratosi a
Padova, che maturò una notevole esperienza operatoria per aver partecipato in qualità di chirurgo
alla Guerra dei Trent’anni. Nel 1653 pubblicò una opera dal titolo “Armamentarium chirurgicum” che
divenne il testo chirurgico più popolare del XVII secolo, egli descrisse con particolare competenza
l’intervento per il trattamento del cancro della mammella. Ma l’invenzione del microscopio, dovuta
a Antony van Leeuwenhoek (1632-1723), fu indubbiamente fondamentale e di grandissima
importanza perché permise nuove classificazioni in campo medico, in particolare affinando gli studi
e le conoscenze della patologia tumorale.
Il più straordinario microscopista del XVII secolo fu Marcello Malpighi (1628-1694) che dimostra,
mediante l’osservazione microscopica, l’esistenza di capillari, la struttura del fegato, del rene e della
milza aprendo definitivamente la via per lo studio dei tessuti e degli organi. Malpighi, grazie alle sue
tecniche di preparazione dei tessuti per l’esame al microscopio che verranno raccolte nel 1687
nell’“Opera omnia”, svolse un ruolo di enorme importanza nel successivo sviluppo della anatomia
patologica. Con la scoperta dei capillari, si viene a chiudere quel vuoto lasciato aperto da William
Harvey (1578-1757), il più grande fisiologo del ‘600, che aveva teorizzato l'esistenza di capillari, ma
non è stato in grado di dimostrare la loro esistenza a causa della mancanza di strumenti adeguati: non
è stato infatti capace di capire al livello microscopico come il sangue passasse dalle arteriole alle
venule. Antonio Maria Valsalva (1666-1723), allievo prediletto del Malpighi, medico e anatomista,
introdusse un ingegnoso metodo che consentiva di realizzare interventi chirurgici meno vulnerabili e
anemizzanti e che consisteva nel fasciare strettamente la base del tumore in modo da privarlo di gran
parte dell'apporto ematico, quindi di materiali nutritizi, provocandone una riduzione volumetrica,
dopo di che veniva effettuato l'intervento.
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l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
Bernardino Ramazzini (1633- 1714), “Opera omnia”, edizione postuma del 1717
La ricerca medico-scientifica della seconda metà del Seicento, si indirizza allo studio delle cause sia
endogene che esogene dell’insorgenza delle malattie ovvero tende a stabilire delle correlazioni tra
ambiente e patologie. Tra tutti emerge la figura di Bernardino Ramazzini (1633- 1714) che, nella sua
opera, “De morbis artificum” del 1700, cita quadri clinici di pazienti affetti da “mal da lavoro” o di
coloro che subiscono danni alla salute in virtù del loro malsano stile di vita, quale ad esempio l’uso
della polvere di tabacco “[…] tutti ammettono che dal suo uso eccessivo vengono di conseguenza danni non
ordinari […]”. Le cause di malattia legate al lavoro erano già state evidenziate da Paracelso, nel già
citato “De morbis Metallicis”, ma il Ramazzini con la sua opera scrive il primo grande trattato sulle
malattie professionali, testo peraltro destinato ad essere tradotto in molte lingue.
Il Settecento, secolo conosciuto come l’età dell’Illuminismo, è caratterizzato dal razionalismo che
domina le teorie mediche che riflettevano un’epoca in cui si tendeva a classificare e a raggruppare,
ovvero quella tendenza “sistemica” che investì tutte le discipline più o meno connesse alla medicina.
Nel Settecento si ebbe una approfondita rivalutazione degli studi più propriamente clinici, questo
rinnovato interesse per la clinica ebbe come conseguenza l’affermazione di studi su varie entità
nosologiche compreso quelli sul cancro. Nella storia dell’oncologia il Settecento si presenta come un
secolo di svolta poiché il nuovo approccio a questa patologia, in termini di cause e decorso, viene
dalle osservazioni non solo sulle strutture normali del corpo, ma anche su quelle patologiche osservabili
sul cadavere con la ricerca di segni riconducibili a quanto osservato nella pratica clinica, grazie ai
contributi e allo sviluppo della anatomia patologica.
Concorrerà a questa svolta Giovanni Batista Morgagni (1682-1771), allievo del Malpighi, con studi
sulla correlazione tra sintomo clinico e lesione cadaverica. Aveva già 79 anni quando pubblicò il suo
“De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis”, il frutto di lunghissimi anni di osservazione
non solo al letto del malato, ma al tavolo anatomico, il risultato di una minuziosa ricerca intesa a
correlare le alterazioni rilevate all’autopsia con i segni e i sintomi del paziente. Scopre una nuova
entità morbosa nei polmoni che definisce col termine “Cancerosus”.
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Giovan Battista Morgagni,
“De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis”
Venezia 1761
Giovan Battista Morgagni, descrivendo ben 700 autopsie, correlate con le osservazioni cliniche per
lo studio dei tessuti, afferma che ogni malattia ha una precisa sede e una determinata causa. A
proposito del carcinoma mammario il grande patologo padovano così scriveva “Si formò il tumor
canceroso nel destro lato in vicinanza dell’ascella, sopra una donna che contava cinquant’anni…Nell’incidere
l’organo si versò molto siero giallognolo che si era tutto formato nelle cellette delle membrane adipose”. Il
Settecento è ricco di ipotesi sulla natura del cancro, come quella che pone l’accento sul carattere
infiammatorio della patologia tumorale dovuta a Ernst Georg Stahl (1659-1734), Herman Boerhaave
(1668-1738) e John Hunter (1728-1793). Un importante contributo è stato l’avere iniziato a
sospettare che il cancro non fosse una malattia generale, ma locale e dovuta anche a cause esterne.
Formulando un’ipotesi ezio-patogenetica esterna, infatti, due grandi medici hanno lasciato il segno
nella storia dell’oncologia: Percival Pott (1714-1788), chirurgo inglese, secondo cui il cancro allo
scroto, dal quale venivano frequentemente colpiti gli spazzacamini, era imputabile ai residui di
fuliggine depositati su quella zona del corpo. Similmente nel 1795, il tedesco Samuel Thomas
Sömmering (1755-1830) associava il cancro del labbro con i danni provocati dal fumo della pipa. La
ricaduta di questi studi sarà destinata ad avere un grande futuro che si proietta fino ai nostri giorni per
il continuo affermarsi e diffondersi di nuove patologie legate all’ambiente e alle condizioni di vita.
Un contributo fondamentale all’oncologia è quello dato da Claude Deshayes Gendron (1663-1750).
Nel suo trattato “Recherches sur la nature et la guerison des cancers” frutto delle sue esperienze sia come
anatomico, sia come clinico, nella cura del cancro all’università di Montpellier, descrive il cancro
come “Una trasformazione delle parti nervosa, ghiandolare, dei vasi linfatici in una sostanza uniforme, dura,
compatta, indissolubile, capace di accrescersi e di ulcerarsi […] proponiamo per guarirli l’amputazione,
l’estirpazione, il fuoco e i caustici […]”.
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l’OnCOlOgiA, lA SUA STOriA
Claude Deshayes Gendron,
“Recherches sur la nature et la guerison des cancers”,
Parigi. 1700
Il francese Jean Astruc (1684-1766) nel suo “Tractatus de tumoribus et ulceribus” descrive in dettaglio
la degenerazione dello scirro in cancro, laddove vi sia congestione: “ogniqualvolta il tumore scirroso si
accompagna ad un dolore acuto si prevede la degenerazione in cancro”. Alla fine del Settecento, la necessità
di strutturare la chirurgia all’interno della medicina si fece più evidente, tanto che un medico
autorevole, come il già citato Boerhaave affermò che “le malattie esterne, affidate alla cura del chirurgo,
dovrebbero essere prese in considerazione come prima cosa, altrimenti niente di regolare o di giusto potrà
essere eseguito o sviluppato nella pratica della medicina”.
Come è facilmente intuibile in oncologia la figura del medico e del chirurgo diventano un tutt’uno.
La chirurgia acquista durante questo periodo un ruolo importante e contribuisce a rendere il cancro
una malattia non necessariamente incurabile. Il chirurgo tedesco Lorenz Heister (1683-1758) nel suo
trattato “Institutiones chirurgicae” dedicò un’intera parte ai tumori. Egli non si allontanò molto dalle
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concezioni allora dominanti e, anche nelle definizioni, non dissentì dai vecchi concetti: “Tumorem
medici omne id appellant, quicquid in humano corpore contra naturam increvit vel intimuit”, in particolare
descrisse la trasformazione dello scirro in cancro, che rappresentava l’ultima fase dell’evoluzione di un
processo infiammatorio in carcinoma.
Nel celebre trattato di chirurgia del 1746 del francese Georges de La Faye (1701-1781), più volte
ristampato e tradotto in italiano nell’edizione stampata a Venezia nel 1772, “Chirurgia completa secondo
il sistema de’ moderni” viene illustrata la tecnica di asportazione impiegata nei casi di cancro in diverse
sedi “quando il cancro è mobile ed esterno, si dee fare l’estirpazione. L’operazione si fa differentemente secondo
le parti […] le più ordinarie sono quelle del labbro e delle mammelle”. La patologia tumorale della mammella
così come nei secoli precedenti è oggetto di grande attenzione, campo di eccellenza della tecnica
chirurgica. L’approccio generale è quello del chirurgo francese Jean Louis Lepetit (1674-1750) che
consiglia di rimuovere “le radici del cancro” unitamente alla fascia pettorale. Lepetit e lo scozzese
Benjamin Bell (1749-1806) furono i primi a rimuovere, oltre alla mammella, i linfonodi e la parete
muscolare.
Figura importante della chirurgia del Settecento è il fiorentino Angelo Nannoni (1715-1790),
favorevole al trattamento chirurgico del tumore della mammella e ne delinea le tecniche. Egli è inoltre
uno dei primi a comprendere che vi era una reale possibilità che il tumore si diffondesse attraverso i
vasi e raggiungesse parti anche molto distanti tra loro. È del 1763 il suo trattato “Delle malattie della
mammella” nel quale afferma che “[…] quindi poca o molta che sia la porzione della mammella interessata,
nel cancro, sembrami prudente demolirla affatto con taglio circolare alla base”.
Il chirurgo più che il medico quindi è il primo a riconoscere il tumore come un male locale che colpisce
determinati tessuti, come descritto nel trattato “Delle membrane” del 1799 di Marie François Xavier
Bichat (1771-1802) dove il medico francese chiarì definitivamente che i tumori sono costituiti da un
parenchima e da uno stroma, il primo rappresentante la parte specifica del tumore, il secondo
l'armatura vascolo connettivale e, a proposito del tumore della laringe, definisce la continuità tra il
cancro ulcerato e non ulcerato come “due manifestazioni diverse di una stessa lesione anatomica, due
aspetti di uno stesso tessuto patologico”. Il medico francese quindi vede i tumori come fenomeni locali
che bisogna estirpare tempestivamente e se ciò non avviene allora il cancro diviene, anche secondo
il chirurgo Joseph Claude Anthelme Récamier (1774-1852), una malattia generale a causa delle
metastasi, neologismo da lui coniato. Nasce in questo scorcio del Settecento, grazie al Bichat l’istologia
come ricerca funzionale all’anatomia patologica destinata ad essere funzionale e fondamentale
all’oncologia negli anni a venire.
In Italia, all’Ospedale Maggiore di Milano, la Ca’ Granda dei milanesi, opereranno due chirurghi con
interesse nell’ambito della patologia tumorale quali Giovanni Battista Palletta (1748-1832) e
Giovanni Battista Monteggia (1761-1815). Il Palletta considerato il miglior chirurgo della Milano
napoleonica tratta i “cancheri” con approcci di tipo “farmacologico” e in modo assai curioso con
“lucertole vive prese internamente”. Il Monteggia, che sarà anche chirurgo militare nella stagione
napoleonica che inizia a Milano nel 1796 con l’entrata di Napoleone, abbraccia la teoria del tumore
come male locale, trattando in particolare lo “scirro delle poppe” e lo “scirro canceroso dell’utero”.
Il Settecento, il “secolo dei lumi”, pone fine alla teoria oncogenetica che risaliva ad Ippocrate e che
aveva percorso senza soluzione di continuità tutta la storia della medicina occidentale, afferma l’idea
ormai dominante del cancro come una malattia locale con la ferma e diffusa indicazione della chirurgia
come mezzo preferenziale di cura delle forme tumorali, favorita in questo anche dai progressi in campo
chirurgico che caratterizzano gli inizi del secolo successivo.
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2012
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