Cesare Campori Il Generale Ernesto Montecuccoli Le guerre che

Cesare Campori
Il Generale Ernesto Montecuccoli
Atti e memorie delle RR. Deputazioni di Storia Patria, vol. VI, 1872
Le guerre che nel secolo XVII dilacerarono la Germania, alle quali più che altro dié moto uno zelo
spesso mal consigliato degli imperatori che s’avvisavano col ferro e col fuoco imporre ai popoli le
norme del credere, sicché chiamarono questi a difesa loro i principi protestanti e persino i turchi,
porsero modo a taluni uomini di singolare ingegno a salire in fama di valenti condottieri di eserciti.
Fu tra questi il conte Ernesto Montecuccoli che dopo aver militato 23 anni negli eserciti imperiali
ora contro i turchi ed ora contro armate di Olanda, di Svezia, di principi tedeschi e di Francia, morì
generale di artiglieria e comandante le truppe imperiali nell’Alsazia.
Nasceva egli nel 1584 nel Frignano, e probabilmente nel paterno feudo di Montese, dal conte
Alfonso e da Sidonia de Golgin che Isabella d’Austria vedova di Carlo IX re di Francia gli dette in
isposa allorché al servigio di lei come cavallerizzo maggiore, e più come confidente suo, a lungo
dimorò in Praga: e di un anno lo aveva preceduto alla vita Girolamo primogenito della famiglia.
Passarono i due fanciulli coi genitori da prima in Allemagna e più tardi in Toscana, avendo anche in
quest’ultimo paese diversi offici civili e militari sostenuto il padre loro finché a capo di un corpo di
truppe ausiliarie toscane morì egli in Brettagna nel 1607.
Già da 3 anni trovavasi a quel tempo Ernesto nelle milizie imperiali ad impararvi, come al duca
Cesare d’Este scriveva suo padre, il modo di rendersi atto col tempo a servire il suo sovrano
naturale: e fatto aveva le sue prime armi contro i turchi che sino dal 1590 tenevano il campo contro
l’imperatore da prima per le ruberie da esso non impedite che gli uscocchi facevano sul territorio
ottomano, e poscia per sostener essi le pretensioni di Giorgio Boscai fattosi re di Transilvania e
d’Ungheria, come campione che era de’ protestanti in quelle contrade. Militava Ernesto sotto la
disciplina di Giorgio Basta napoletano che fu uno de’ buoni generali del tempo suo. Quetate poi,
mercé accordi, le cose d’Ungheria, tornò Ernesto in Italia in diverse cose occupato e in dar sesto
agli affari della sua famiglia. Reduce di Germania nel 1609 combatté come volontario insieme ad
altri italiani nella guerra per la successione de’ ducati di Juliers e di Cleves che finirono col venire,
contro il desiderio dell’imperatore, in potestà dell’elettore di Brandeburgo. All’assedio di Juliers
perdette Ernesto tre cavalli e il bagaglio, la prima questa di quelle contrarietà della fortuna che non
rade ebbe ad incontrare. Passato quindi in Ungheria contro Betlhen Gabor fattosi re, rimase egli
prigioniero di guerra, né avrebbe sì tosto racquistata la libertà se il duca di Modena non avesse
astretto i parenti suoi a porre insieme il denaro necessario al riscatto. Uscì di prigionia con grado di
colonnello. Venuto a Modena per qualche tempo nel 1616 fu poi a lungo adoperato in quella guerra
detta dei 30 anni che di sangue e di rovine empì l’Allemagna, ed imprese militari produsse per
opera singolarmente di Gustavo Adolfo, di Wallenstein, di Piccolomini, e di altri generali svedesi,
tedeschi ed italiani che famosi sono rimasti nelle storie.
Prese parte Ernesto primamente alla guerra della Boemia, la quale sollevatasi a difesa della religion
protestante s’era eletta a re Federico elettore del Palatinato, ed assisté ancora come colonnello
capitano della guardia imperiale alla presa di Praga avvenuta nel novembre del 1620, venendo tosto
dopo promosso generale.
Fu al cominciare del secondo periodo della guerra dei trent’anni, cioè nel 1625, che accolse Ernesto
presso di sé, caldamente dalla corte estense raccomandatogli, il giovinetto suo cugino Raimondo del
quale ei fu maestro e guida nella carriera militare, preparando così alla casa d’Austria uno de’ più
famosi campioni suoi. Volle il saggio mentore che nelle diverse categorie di milizie si addestrasse
l’alunno suo allora sedicenne, semplice soldato ora tra i fanti ed ora nella cavalleria, finché dato
buon saggio di sé meritasse i gradi che passo passo lo condussero ai supremi. Seco lo trasse quindi a
combattere in Fiandra e in Olanda, quando a lui fu dato il comando di un corpo ausiliare che si
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congiunse agli spagnoli governati dal celebre Ambrogio Spinola. Come si diportasse in quella
intricatissima guerra il generale Ernesto, da queste gravissime parole di Ugo Grozio agevolmente si
ritrae: “Numquam res ordinum pejori loco visae sunt quam cum Ernestus Montecucculus Bataviam
premeret”. Se non che non erano dall’aura popolare secondati gli sforzi delle armi austro-ispane
contro le libertà batave, che finirono infatti coll’ottenere, dopo iterate tregue al combattere, il
sopravvento.
Chiamato Ernesto a militare sotto il Tilly, sostituito al Wallenstein caduto in disfavore, nel comando
delle truppe imperiali che oppor si dovevano in Pomerania a Gustavo Adolfo re di Svezia venuto
allora in Germania, un grave pericolo lo incolse nel gennaio del 1631, quando preso in mezzo ei
trovossi da un corpo di svedesi; scampato dal qual pericolo un altro affrontar dovette, costretto in
circostanze sfavorevoli a misurarsi cogli svedesi stessi, nel qual fatto 200 de’ suoi corazzieri
rimasero sul campo. Colto poi da infermità si ridusse egli in Vienna, non potendo per ciò prender
parte a quella prima battaglia di Lipsia vinta da Gustavo Adolfo nella quale il cugino suo, capitano
allora nel reggimento di corazzieri di esso Ernesto, rimase ferito e prigioniero, entrando poi sei mesi
appresso come sergente maggiore (grado equivalente all’attuale di maggiore) in un reggimento di
fanti che Ernesto stava allora ponendo insieme in Passau.
Le vittorie di Gustavo Adolfo la stessa Vienna posero in pericolo, e colà benché mal fermo in salute
accorreva co’ suoi soldati Ernesto, ma cresciutagli l’infermità (che era, secondo credo, la gotta della
quale si sa ch’ei patì) presso al suo letto si raccolse, per volere dell’imperatore, il consiglio di
guerra, che fermò i modi acconci a riordinare l’esercito di Tilly, mentre rimarrebbero i 18 mila
uomini di Ernesto a difesa di Vienna. E poiché fu cessata quella procella e si era il Montecuccoli
rinfrancato in salute, fu egli inviato a sedare le discordie sorte nel campo di Tilly, e poscia con
grado di sergente generale di battaglia, che era l’ottavo tra quelli de’ generali, e corrispondeva per
avventura a quello di capo di stato maggiore di armata, ebbe carico di star presso al duca di Lorena
che si era, col dichiararsi per l’imperatore, tratto sopra gli eserciti francesi che mal governo fecero
delle cose sue. A quel tempo il Wallenstein nuovamente chiamato a sostenere le periclitanti sorti
dell’impero, voleva Ernesto presso di sé e il grado gli diede di generale d’artiglieria, ma non
consentì l’imperatore che si levasse per allora dalla Lorena e lo chiamò poscia a Vienna, ove a
lungo con lui si consultò. Trasse quindi ad Alsazia ove per altro, ogni cosa andando a soqquadro,
breve tempo si fermò, passando invece a contrastare con scarse forze l’irrompente piena degli
svedesi che, vinto Tilly, erano entrati in Baviera. E là una volta gli accadde di trarre con finte mosse
di soldati che sempre erano i medesimi, un corpo di truppe di quella nazione in inganno, ond’è che
stimandolo a capo di troppi soldati perché fosse possibile il resistergli, a lui si arrendessero. Del
qual fatto così si tenne offeso il re Gustavo, che fece proposito di volere ad ogni costo avere Ernesto
nelle mani: se non che nella celebre battaglia di Lützen avvenuta poco di poi, cioè il 16 novembre
1632, trovò quel famoso guerriero la morte. A codesta battaglia, che fu senza vittoria per entrambi
gli eserciti, presero parte bensì Raimondo come tenente colonnello di un reggimento di cavalleria, e
due principi estensi da Ernesto poco innanzi introdotti nell’armata cesarea, ma non forse egli stesso
che pur campeggiava non lungi di là.
La morte di Gustavo Adolfo potuto avrebbe troncare quella micidial guerra, se seguitando i consigli
di Wallenstein avesse l’imperatore Ferdinando II con un’ampia amnistia a sé ricongiunti i sudditi
che da lui si erano alienati. Ma fermo nel desiderio di vendetta e nell’odio suo ai protestanti,
antepose egli di continuare con eserciti disfatti e mancanti di provvigioni e con smunto l’erario la
guerra.
Fu allora che Wallenstein ad Ernesto, che dopo occupate e talvolta perdute alcune fortezze bavaresi
s’era posto ai quartieri d’inverno ad Ingolstadt, inviò pressanti inviti acciò ritornasse in Alsazia per
vedere di salvare all’imperatore Brissac che era ormai la sola fortezza che in quelle parti non
avessero gli Svedesi potuta occupare. Quasi presago della sorte che colà lo attendeva, cercò egli da
prima di schermirsi da quell’impresa, ma insistendo Wallenstein, si mise a far leve a proprie spese
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di sbandati di varii corpi e di quattro mila uomini licenziati dall’elettor di Baviera, e innanzi ancora
di avere quelle truppe riunite, con pochi si pose in cammino1.
Non scarsi furono i pericoli da lui corsi in quel viaggio, avendo anche dovuto una volta travestirsi
da contadino per passare di mezzo agli alloggiamenti svedesi, ond’è poi che il Bolognesi ministro
estense a Vienna scrivendone al suo sovrano prorompesse in queste concitate parole: “Questi sono i
buoni bocconi che si danno alla nazione italiana! Mandare un cavaliere che ha servizio così lungo a
rischio manifesto e di vita e di riputazione, perché dove va non vi sono provvigioni se non da
disperato”. Giunto Ernesto in Alsazia raggranellò quanti uomini atti alle armi gli fu dato trovare, ma
furono poi questi dagli Svedesi tagliati a pezzi. Colla gente nondimeno che gli tenne dietro trovò
egli modo di entrare in Brissac e di rifornirlo di viveri per sei mesi; e di là con frequenti sortite, in
una delle quali l’intero presidio di Bossingen fece prigioniero, si dié a molestare gli assedianti.
L’audacia di quel generoso capitano fe’ scorto il conte del Reno il quale di questi era capo, che la
fortuna già così prospera potuto avrebbe farglisi d’un tratto contraria, e pensò un’astuzia per
impodestarsi del troppo azzardoso suo avversario. Commise pertanto ad un tenente colonnello
Colombac di tendergli, allorché di nuovo uscisse da Brissac, un agguato; e perché non tardò guari
Ernesto a tentare nuova impresa, gli accadde di trovarsi a fronte poche compagnie di svedesi, le
quali dandosi alla fuga lui che le inseguiva trassero in mezzo all’esercito assediante. Con disperato
valore si difesero esso ed i suoi, se non che il cavallo di lui imbizzarritosi lo trasse fuor di strada
impacciandosi in un prato paludoso, e là impotente a difendersi, da due colpi di spada a da tre
archibugiate venne Ernesto ferito. Cadde egli allora pressoché esanime in mano degli svedesi che
generosamente la sventura di lui ebbero poi a deplorare. Cento de’ suoi erano parimente rimasti sul
campo.
Affrettavasi l’imperator Ferdinando, che molto lo amava, a procacciargli il riscatto, ma così gravi
erano le ferite ricevute che in breve lo trassero a morte in Colmar ov’era stato condotto, nell’età
ancor vegeta di 49 anni, 23 de’ quali passati militando per l’impero.
Di lui lo storico Gualdo Priorato commilitone suo lasciò scritto: “Era di placidissimo aspetto, di
dolci costumi, di maniere amabili... né vi sarebbe stato in Germania capitano che l’avesse avvanzato
d’intelligenza quando la fortuna avesse voluto esser condottiera delle sue vittorie”. E noi alla
fortuna aggiungeremo la previdenza de’ ministri di Vienna; perché la mancanza di questa lo lasciò
talora senza viveri e senza munizioni o soldati, ond’è che con poco seguito più volte avesse a
trovarsi a fronte di eserciti grossi e ben provveduti d’ogni cosa. Nondimeno quanto umanamente era
possibile di fare per lui fu fatto in ogni occasione, e la vittoria coronò non di rado le imprese di lui.
Generoso largitore del proprio, alle necessità egli sovvenne de’ soldati e degli amici, ond’è che al
fratello Girolamo erede suo non lasciasse egli se non debiti, compensati per altro da crediti talora
vistosi, uno de’ quali di 1880 talleri che senza carico di frutti prestato aveva a Cornelio Bentivoglio,
che dopo militato in Fiandra fu generale di Francesco I d’Este.
Dell’affetto di Ernesto alla patria più lettere di lui fanno dimostrazione, nelle quali l’opera sua ei
profferisce ad ogni bisogno, e la cura ch’ei si prese di favorire i molti modenesi, che a lui
raccomandati andarono a quel tempo alle guerre di Germania. Alla patria infine un vanto egli
crebbe altresì quando cogli esempi e cogli ammaestramenti suoi il sentiero della gloria schiudeva a
Raimondo Montecuccoli, il quale tanta reverenza ebbe per lui che, quasi non osando chiamarlo
cugino, ad usar titolo di sommessione lo disse anche in documenti officiali suo zio, con che più
storici furono tratti in inganno, reputando che tale ei gli fosse, non ponendo mente che cugino era
detto da Raimondo lo stesso Girolamo fratello del generale Ernesto.
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A queste leve allude forse Raimondo nel suo Memoriale all’imperatore indirizzato nel 1680, dicendosi creditore
tuttavia di gran parte dei 270 mila fiorini spesi da Ernesto e da Girolamo (de’ quali fu erede) nell’assoldare tre
reggimenti in servigio dell’impero.
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