RICCARDO MUTI
Verdi, l’italiano
Ovvero, in musica, le nostre radici
a cura di Armando Torno
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-06094-3
Prima edizione: novembre 2012
www.riccardomutimusic.com
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Verdi, l’italiano
Oh patria terra, alfn io ti rivedo,
Terra sì cara e desiata! Ognora
In sul lido ospital, che m’accogliea,
Sempre di te la mente si pascea!
oberto,
in oberto, conte di s. bonifacio
atto i, scena iii
Nell’aprile 1848 Verdi scriveva al librettista Francesco Maria Piave, arruolato a Venezia nella Guardia Nazionale, una lettera nella quale afermava:
Sì, sì, ancora pochi anni, forse pochi mesi, e
l’Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa
dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa
ti passa in corpo?… Tu credi che io voglia
ora occuparmi di note, di suoni?… Non c’è
né ci deve essere che una musica grata alle
orecchie degli Italiani nel 1848. La musica
del cannone!
Verdi è fglio del Risorgimento e, da parte sua,
vi fu anche una partecipazione attiva agli avvenimenti risorgimentali: ricordiamo che nel 1861 fu
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eletto deputato del Parlamento italiano e nel 1874
fu nominato senatore a vita; il suo stesso cognome
era diventato vessillo dei rivoluzionari: gridando
e apponendo sui muri la scritta «Viva v.e.r.d.i.»,
infatti, volevano in realtà scrivere «Viva Vittorio
Emanuele Re d’Italia».
È, tuttavia, nelle sue opere che troviamo il maggior contributo alla causa, perché la sua musica era
popolare, nel vero senso del termine: era un linguaggio che andava dritto al cuore delle persone,
trasmettendo il proprio messaggio. Coinvolgeva
tutti in maniera travolgente – dai salotti alle strade,
alle osterie, agli organetti di barberia – e diventava
proprietà del popolo, il quale poi a volte ci scherzava anche sopra, storpiando i versi per fare delle caricature. Come, per esempio, i versi del terzo
atto del Rigoletto: «Un dì, si ben rammentomi, / O
bella, t’incontrai... / Mi piacque di te chiedere, / E
intesi che ci stai», invece di «che qui stai».
Oggi, purtroppo, qualche cosa è cambiato nella pronuncia dei cantanti o nel tipo di ascolto del
pubblico o nella pigrizia che sta invadendo l’animo
di tutti. Abbiamo bisogno dei sottotitoli, in tutti
i teatri sono ormai stati installati davanti a ogni
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poltrona i display su cui scorre il testo del libretto
mentre l’opera è in scena, se no non capiamo nulla.
All’epoca, invece, anche con un livello di istruzione inferiore, la gente capiva ed era in grado di ripetere a memoria le arie. Tant’è che Verdi non voleva
che si divulgasse il motivetto della Donna è mobile
prima del tempo, perché sapeva che poi sarebbe
stato carpito da tutti e fschiettato prima ancora
che l’opera andasse in scena.
Quando ero ragazzo, i padri della patria erano Vittorio Emanuele, Mazzini, Garibaldi e Verdi. E non
solo: a quell’epoca venivano trasmessi alla nostra
cultura e immaginazione come dei santi, erano immacolati. Poi, dopo, abbiamo scoperto che erano
uomini anch’essi, aldilà della genialità nei vari campi, con le loro passioni e le loro debolezze umane.
Senza dubbio, non si può parlare del primo Verdi
senza riconoscere il suo contributo alla causa della
libertà italiana: egli ebbe grande infuenza sui patrioti, con la sua musica praticamente li armò, alcune delle sue opere ebbero maggiore efetto di cento
inni nazionali.
Bisogna tuttavia aggiungere che il suo inten133
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to iniziale non era stato quello di adoperarsi per
la causa della rivoluzione. Semplicemente, sapeva che quel tipo di musica avrebbe incontrato il
favore del pubblico perché corrispondeva alla disposizione d’animo della popolazione in quel momento storico.
Non bisogna infatti mai dimenticare che Verdi,
come ogni altro compositore, voleva il successo;
per questo all’epoca scelse di scrivere in un certo
modo: per farsi un nome. Diciamo che, da arguto
contadino qual era, aveva capito quanto il momento storico fosse adatto per proporre opere a sfondo
patriottico.
Quando pensiamo alle opere patriottiche di Verdi,
la nostra mente va subito al Nabucco, che fu rappresentato per la prima volta alla Scala il 9 marzo
1842. E questo perché il Nabucco, col Va’, pensiero,
si continua ancora a cantare, in genere in maniera
sbagliata, a voce ampia, mentre Verdi lo vuole sottovoce, grave, lento, come deve essere il canto di
un popolo esiliato.
La partitura del Nabucco non è assolutamente
elementare: ha delle preziosità. Ha una sinfonia,
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molto famosa, giustamente. E anche se Verdi,
come abbiamo detto, non aveva pensato al Nabucco quale grimaldello del Risorgimento contro gli
austriaci ed era stato attratto più dal fatto biblico, è
chiaro che gli elementi risorgimentali erano dentro
di lui: la partitura della sinfonia già contiene elementi anti-Radetzky e questo dagli austriaci veniva
avvertito.
Alla Scala aleggiava un clima teso, le forze armate austriache che riempivano il teatro provavano un certo timore e Radetzky mandava segnali di
preoccupazione a Vienna, che Vienna peraltro non
raccoglieva con grande interesse.
Il Va’, pensiero fu la molla che spinse Verdi a scrivere il Nabucco e il successo dell’opera fra i rivoluzionari italiani e l’entusiasmo che provocò spinsero poi Verdi a battere il chiodo sull’unifcazione
dell’Italia.
Anche Attila ha il taglio di un’opera fortemente patriottica. Nella scelta delle tonalità, nel fatto che è
molto veloce, succinta e concisa, mostra uno scatto
e una forza, come se fosse la summa di una serie di
inni nazionali, di inni di Mameli di alto livello.
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(Io ho sempre detto che l’inno di Mameli non
va sostituito, perché dentro c’è il vigore, quasi lo
spirito garibaldino, che è giusto che un inno abbia.
Non sono d’accordo con quelli che ne fanno una
sorta di profonda pagina di meditazione.)
È difcile defnire chi era Attila, perché ancora
oggi il direttore d’orchestra, musicisti o registi discutono sulla fgura di Attila e su quella di Ezio,
il grande generale che nella storia sconfsse Attila
e che nell’opera, attraverso Odabella e altri personaggi, riesce a far sì che Attila venga ucciso.
Certamente è un gigante nella partitura verdiana
e non è di sicuro un personaggio con pelle di tigre,
rozzo e volgare, anzi: è dotato di grande nobiltà e
si impone sugli altri, con la sua fgura e con il suo
senso dell’onore, e anche con le sue passioni, i suoi
amori, il desiderio della vita, la sete di conquista.
Si impone in maniera grandiosa di fronte alla
potenza militare dell’impero romano, rappresentato da Ezio, e anche di fronte a tutto il mondo della
sacralità di Roma, rappresentato da Papa Leone.
L’incontro tra Attila e il Papa, peraltro, è una grande pagina di musica, un momento davvero straordinario.
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Quindi la fgura di Attila nell’opera di Verdi
non è quella del selvaggio, ma di una grandissima
personalità, di un re, di un conquistatore, di un
ammaliatore, dotato di un grande senso dell’onore,
capace di rivolgersi a Ezio considerando la grandezza del suo interlocutore e ritenendolo un suo
pari, quindi degno di grande rispetto.
Per quanto riguarda l’aspetto esecutivo, mi piace sottolineare che anche nell’Attila bisogna avere
il coraggio di staccare i tempi e di avere un taglio
netto nella defnizione delle articolazioni ritmiche,
che non devono suonare come «banda».
In quest’opera, tutte le fgure, anche le più
piccole, come Uldino, il braccio destro di Attila,
hanno una grande valenza: ricordano delle statue
greche.
L’ingresso di Odabella è quello di una grande
virago. Infatti è una delle parti più difcili nel
repertorio verdiano, perché richiede un soprano
drammatico, capace di tagliare lo spazio del teatro
come una lama, ma anche di cantare con estrema
morbidezza, quasi come un fauto.
L’Attila ha anche momenti di grandissima scoperta timbrica da parte del giovane Verdi; per
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esempio l’aria del murmure, del ruscello, cantata
da Odabella, è scritta da Verdi con uno strumentale singolare: un corno inglese, che contrappunta la
linea del soprano, un violoncello solo, un contrabbasso solo e un’arpa.
Verdi, avendo capito che attraverso la musica poteva scuotere il clima politico, ed essendo diventato uno dei personaggi più importanti del Risorgimento, seguitò a scrivere opere che rifettessero
un atteggiamento rivoluzionario, in maniera più o
meno palese.
Pensiamo, per esempio, alla prima scena del
quarto atto del Macbeth, quando il coro canta: «Patria oppressa! Il dolce nome / No, di madre aver
non puoi, / Or che tutta a fgli tuoi / Sei conversa
in un avel». È celata, ma non è altro che una lamentazione risorgimentale. Così come la conclusione stessa del Macbeth, che vede la liberazione
dall’oppressore.
Verdi, però, continuerà a essere uomo del Risorgimento anche dopo; tant’è vero che quando,
nel 1881, riprende Simon Boccanegra, dopo più di
vent’anni, pur nel rifacimento di quest’opera tanto
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soferta, non modifcherà l’elemento epico del popolo: la grandezza qui è proprio nella proposizione
della lotta tra plebe e nobiltà come elemento trainante.
Concordo con Massimo Mila quando, nell’Arte
di Verdi, scrive: «Il popolo come forza politica non
aveva mai avuto una più vigorosa caratterizzazione
musicale se non nelle Passioni di Bach».
Era eco di quella forza rivoluzionaria che Verdi
aveva dentro di sé e che mai lo abbandonerà.
Per concludere questo capitolo, vorrei fare un’ultima considerazione.
Ho voluto dare a questo libro il titolo Verdi,
l’italiano, non tanto per l’aspetto patriottico che
traspare in tante sue opere, come abbiamo appena
visto, quanto invece per l’italianità, in senso lato,
di cui esse sono intrise.
Nelle opere di Verdi, infatti, c’è la vita e c’è la rifessione sulla morte, però si respira tutto il nostro
carattere italiano, dando a questa parola il signifcato più vasto possibile: traspaiono il desiderio, la
passione, l’amore, il silenzio, la delusione, talvolta
anche l’insolenza, l’aggressività o l’intolleranza, che
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comunque fanno parte della nostra cultura, della
nostra natura.
Verdi è l’artista che meglio è riuscito a esprimere
il nostro temperamento. Non si può generalizzare,
perché ovviamente l’Italia è fatta di tanti diversi
italiani, però c’è un modo di essere italico che Verdi rappresenta in maniera vivida e in questo senso
mi piace parlare di «italianità verdiana».
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