ALCUNE RIFLESSIONI TEOLOGICHE SU GV 6 E IL PASSAGGIO DALLA TEOLOGIA SIMBOLICA ALLA TEOLOGIA DELLA PRESENZA SOSTANZIALE di Stefano Maria Moschetti SJ Desidero innanzi tutto spiegare il titolo del mio contributo, e così anticiparne contenuti e finalità. Intendo esporre brevemente le relazioni Eucaristia-Incarnazione così come sono esposte nel cap. 6 di Giovanni; soprattutto cogliervi l’insegnamento sul simbolismo del pane, tutto orientato alla forte affermazione del realismo (verbo εiμί) della carne “eucaristica”: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Possiamo così individuare nel discorso-dialogo sul pane della vita la più ampia e profonda catechesi neotestamentaria sul Mistero Eucaristico, sia la fonte delle affermazioni, costanti, del forte realismo della carne, e del sangue del Signore (eστί), sia i fondamenti della teologia simbolica del primo millennio, e della teologia della sostanza e presenza sostanziale del II millennio. Una riflessione necessariamente rapida, ma che ci consentirà nel costante riferimento al discorso-dialogo di Gv 6, di seguire le grandi linee del passaggio dalla teologia simbolica a quella della sostanza e della presenza sostanziale. Saremo così in grado di fare “sogni” fondati, realistici per questo nostro terzo millennio. Giovanni 6: il Pane della vita: il Figlio incarnato, la sua “carne” eucaristica, nel suo darsi, essere nei segni. Nell’introdurre il discorso sul Pane di vita di Gv 6, per raggiungere le finalità indicate, sono necessarie alcune premesse, brevi, sulla struttura del Vangelo di Giovanni: il c. 6 sta nel cuore della prima parte del suo vangelo, il libro dei segni, segni della Pasqua; della stessa Pasqua tratterà ampiamente la seconda parte, dai cc. 13 al 21. Centralità letteraria che corrisponde alla centralità dei contenuti: viene esposta una visione totale del progetto salvifico per l’uomo, nei tempi della Chiesa. Il c. 6, sin dal suo inizio, risulta già tutto orientato alla comprensione dell’Eucaristia: la moltiplicazione dei Pani nell’approssimarsi della Pasqua giudaica, e la sua realizzazione coi verbi prendere, ringraziare, dare (v. 11), costitutivi il Memoriale dell’Ultima cena; l’affermare che trattasi di segno (vv. 14.26), il rilievo dato al verbo εuκαριστέιv (v. 23), ringraziare, indicano chiaramente che tutto è indirizzato all’accoglienza del Pane che è la carne di Gesù data per la vita del mondo, in una ritualità conviviale. Giovanni intende introdurre così la sua Chiesa, semplicemente la Chiesa, alla totalità del progetto di vita del Padre per l’uomo: il Verbo incarnato nella sua Pasqua, nel suo ascendere al Padre da cui è disceso, introduce nello Spirito Santo, alla intima comunione con sé ed il Padre, chiedendo insistentemente di rimanere in questa unità di vita risorta: il contenuto dei discorsi dell’Ultima cena. Il mangiare nella convivialità eucaristica il pane che è la sua carne data per la vita del mondo, il bere il suo sangue, già realizza questa intima comunione, questo μέvειv (v. 56), rimanere, che è vita, vita eterna, anticipo della piena risurrezione (v. 54). Che si tratti della totalità del progetto di salvezza risulta evidente anche dalla confessione, a nome dei Dodici fatta da Pietro in questo contesto: “Signore, da chi andremo, Tua hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che Tu sei il Santo di Dio” (v. 69). Soltanto con l’Eucaristia, contenuti, sacramentalità, il progetto di Dio risulta compiutamente annunziato. In quanto è il Memoriale della Pasqua, riassume in sé tutto lo stare corporeo del Figlio del Padre con noi, il portarci alla comunione col Padre, nel suo corpo ecclesiale. Il ministero petrino è al servizio della totalità di questo progetto, che l’Eucaristia contiene e realizza nel tempo della Chiesa. Il Vangelo di Giovanni si chiuderà nuovamente con un dialogo con Pietro, l’affidargli ancora l’intera vita della Chiesa, ed inoltre, deve essere notato, similmente dopo una convivialità con i discepoli, sul lago1. Ma ci è utile ricordare come anche i sinottici pongano la confessione-conferimento del primato a Pietro a conclusione della sezione del pane (moltiplicazione dei pani ripetuta, fermento dei farisei e di Erode, il solo pane sulla barca ... Mt 14, 13-16, 12; Mc 6, 33-8, 26). Inoltre Luca ricorderà nel contesto dell’ultima cena, l’istituzione del suo Memoriale affidato ai Dodici, come Gesù ha pregato perché la fede di Pietro non venga meno, conferendogli il servizio di confermare nella stessa fede i suoi fratelli (22, 31-32). Se Pietro viene incaricato di confermare nella fede i fratelli, realizzare il simbolo della celebrazione autentica e dei contenuti veri della professione, compare nella finale di Gv 6 anche colui che si pone di traverso, che lacera la comunione di fede, il διάβoλoς. Nel discorso-dialogo di Gesù con i Giudei di Gv 6, si possono individuare due parti, indicate nei vv. 2648 e 49-59. Nei vv. 26-48 prevale il tema della fede in Gesù pane della vita eterna disceso dal cielo; il Padre ci attira a Lui: la sua incarnazione2. Nei vv. 49-59 diventa esplicito il tema del pane che è la carne di Cristo, per la vita del mondo, del suo Sangue, alimenti necessari: la sua Eucaristia. 1 Cfr. H. SCHLIER, «Il cap. 6 del Vangelo di Giovanni e la concezione giovannea dell’Eucaristia», in La fine del tempo (= Biblioteca di Cultura religiosa 16), Paideia, Brescia 1974, pp. 135 s. ove, nella nota 40 cita H. Schürmann. Anche R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni, parte seconda: Commento ai cc. 5-12, (= Commentario teologico del Nuovo Testamento IV/2), Paideia, Brescia 1977, pp. 153-157. 2 Cfr. R. SCHNACKENBURG, o.c., p. 73; J. BETZ, «Eucaristia come mistero centrale», in Mysterium Salutis, IV/II, Queriniana, Brescia 1975, pp. 256 s.; H. SCHLIER, o.c., pp. 128-129. Nel dialogo con i Dodici (vv. 60-71), la carne di Cristo, che si deve necessariamente mangiare nella convivialità eucaristica, sarà indicata nella sua qualità di corpo glorioso di Lui, in quanto salito al cielo; anche il discorso che lo annuncia è composto di parole che sono spirito e vita. Tutto è narrato per porre in risalto la persona di Gesù: sua l’iniziativa di sfamare le folle perché lo seguono (vv. 5-10), il pane moltiplicato è distribuito direttamente da Lui (v. 11). Tutto è concentrato sulla sua persona da accogliere, comprendere nel suo operare, dare il Pane, indicato come segno di realtà salvifiche ulteriori (2.14.26). Di fronte alle incomprensioni della folla fugge sul monte solo (v. 15). Anche il suo camminare sulle acque pone in risalto Gesù, la sua signoria sugli elementi, lo spazio ed il tempo: rapidamente toccò la riva (v. 21). L’assenza di Gesù è buio e fatica. Nel suo presentarsi “Sono io, non temete”, usa l’assoluto eγώ εiμι (come in 8, 24.28.58), la formula della auto-rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.3 Tutto è orientato alla comprensione dell’Eucaristia: il tema del pane di vita riassume tutta la rivelazione del progetto salvifico del Padre in Gesù, la sua preparazione vetero-testamentaria, nella manna dell’esodo, nel pane della sapienza (vv. 31-35), nel pane distribuito ai poveri dal profeta Eliseo (2 Re 4, 42-44). Tutto ora si concentra sulla persona di Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Il pane disceso dal cielo, il solo che dà la vita eterna, non è qualcosa ma Qualcuno. Deve essere accolto con fede, l’opera che Dio ora richiede (vv. 29.40.47). Si insiste sul credere in Gesù, vero pane disceso dal cielo: il Padre attrae a Lui4. La Parola creatrice del prologo, la stessa incarnata, piena di grazia e di verità, la sola in grado di svelare il Padre (1, 17 s.), l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (1, 36), colui che offre l’acqua viva della conoscenza di Dio, che realizza il culto in spirito e verità (4, 10-25), si presenta ora come il Pane della vita, quello vero, disceso dal cielo. Il pane che realizza il vero esodo, il suo passare per noi al Padre. Ed è insieme il Pane della sapienza, del progetto del Dio della creazione e salvezza, così vicino nella sua intatta trascendenza all’uomo, per renderlo suo amico e familiare (Sap 7, 22-27). Ma non si tratta solo di assimilazione di conoscenze sapienziali: nel cuore del progetto sapienziale c’è Qualcuno, lo stesso Figlio, Verbo fatto uomo, incarnato, una incarnazione spinta sino alla Croce. Si deve accogliere nella fede, non solo il suo insegnamento sapienziale, ma Lui stesso, rimanere in Lui, il suo essere filiale tutto relativo al Padre, il Figlio che ci introduce fraternamente, nello Spirito Santo carità, nella pienezza Cfr. R. SCHNACKENBURG, o.c., «Origine e significati della formula γώ εμι Excursus VIII», pp. 87-102. Come inoltre fa notare lo stesso Schnackenburg, a p. 155, nel c. 6 di Giovanni sono “eccezionalmente frequenti i detti γώ εμι (20.35.48.51). Ad essi potrebbe corrispondere il σ ι della professione di Pietro (69)”. 3 Cfr. H. SCHLIER, o.c., p. 128: “Inoltre: la fede è un ‹atto di attrazione› del Padre, che si realizza ‹nell’ascoltare› e ‹nell’imparare› ciò che si è ascoltato. In quanto tale essa riceve la vita. In altre parole: viene messo in evidenza il duplice aspetto della fede di cui si tratta, e precisamente che essa è contemporaneamente dono di Dio e decisione dell’uomo; non esecuzione di una prestazione, ma effetto dell’azione divina [...]. Si tratta di una fede che non si scandalizza dell’umanità di Gesù. Per i ‹Giudei› che ‹mormorano›, la richiesta di questo uomo Gesù di essere il pane della vita, è una assurdità. E i ‹Giudei› rappresentano infatti l’uomo che non vuole credere. ‹Non è costui il figlio di Giuseppe del quale conosciamo il padre e la madre? E cosa dice ora: Io sono disceso dal cielo?› (6, 42). La fede però supera questo scandalo. Essa accetta che Dio agisca attualmente così e non altrimenti, in questo Gesù ed in nessun altro luogo”. 4 della vita risorta. Una intima immanenza, restare Lui in noi e noi in Lui, che trasfigura la nostra realtà creaturale e la introduce, senza dissolverla, nelle relazioni Padre-Figlio. Giovanni sottolinea il forte realismo, l’Essere di Dio, della persona di Cristo, con l’uso dell’γώ είμί, l’“Io sono” assoluto delle teofanie veterotestamentarie: così l’“Io sono” sul lago (v. 20). Inoltre l’“Io sono” della sua identificazione col pane disceso dal cielo (48.58), che già sappiamo essere il Verbo incarnato, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Pane disceso dal cielo, oggetto di fede (Incarnazione-Eucaristia) da assumersi in un concreto gesto rituale conviviale “e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51) Giovanni sottolinea questo forte realismo, da cogliersi, in primo luogo, nel contesto dei segni: σημεα, segno della moltiplicazione dei pani, segno del camminare sul lago, che preparano l’accoglienza del Pane della vita, che è la carne del Signore, nella ritualità della convivialità eucaristica. Essa viene costituita dagli stessi gesti della moltiplicazione dei pani (prendere, ringraziare, dare), per i quali si rende presente, nella sua signoria sullo spazio ed il tempo, l’“Io sono” nel suo corpo dato, asceso al cielo, Crocifisso glorioso. Il realismo della carne eucaristica, la teologia simbolica Il pensiero credente dei Padri della Chiesa ha in un primo tempo anzitutto colto, quasi in esclusiva, questo forte realismo del corpo e del sangue; diciamo quasi in esclusiva, perché i segni del pane e del vino non sono il primo oggetto di riflessione teologica. Questo si nota con evidenza in Ignazio di Antiochia, in Ireneo e Cipriano5. In questo forte realismo del corpo dato e del sangue versato, nei segni eucaristici, si è sviluppata la prima teologia del mistero eucaristico, che cercava intelligenza delle relazioni tra il corpo, il sangue ed i segni che li esprimono: la teologia simbolica dei Padri. Questo è avvenuto sia in Oriente, sia in Occidente; il platonismo, il primo orientamento filosofico utilizzato per l’intelligenza del dato rivelato poteva offrire qualche spunto utile: un eικώv, simbolo, quello platonico, non privo di realtà intrinsecamente contenuta, partecipazione del mondo iperuranico delle Idee. Il realismo del corpo dato e sangue versato nei simboli eucaristici è così forte, che Ireneo, e non è solo, argomentava la realtà del corpo incarnato del Signore, contro le difficoltà gnostiche, dal realismo riconosciuto del corpo eucaristico nella celebrazione del memoriale del Signore6: l’insegnamento di Giovanni sul pane della IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Smirnesi 7, 1: i Doceti sono rimproverati di astenersi “dall’Eucaristia e dall’orazione perché non riconoscono che l’Eucaristia è la carne del nostro Salvatore Gesù Cristo, quella carne che soffrì per i nostri peccati e che il Padre nella sua bontà, risuscitò”. Vedi anche Filadelfesi 4. Inoltre: GIUSTINO, Apologia I 66, 1-4; CIPRIANO, Lettera 63 al Vescovo Cecilio: “La passione del Signore è infatti il sacrificio che noi offriamo”. IRENEO, Contro le eresie, IV, 17, 5. Altre testimonianze in: L. LIGIER, Il sacramento dell’Eucaristia, PUG 1974, [ad uso degli studenti], pp. 154-160. 5 6 Cfr. citazioni nello studio di Y. CONGAR, «Doctrines christologiques et theologie de l’Eucharistie (simples notes)», in RSPh 66(1982) 233 s. vita, eucaristia e incarnazione, realtà nel segno, è pienamente accolto ed operante nella vita e nel pensiero credente della Chiesa. Passaggio dalla teologia simbolica a quella sostanziale Sappiamo come questa teologia simbolica, prima intelligenza del dato rivelato, entrò in crisi, sia in oriente che in occidente, negli ultimi secoli del primo millennio. Ovunque la terminologia si era logorata nei suoi termini (tipo, antitipo)7; l’Oriente conobbe l’iconoclastia, incomprensione dell’immagine, simbolo. L’Occidente, senza incorrere in polemiche così acute e violente, conosceva simili difficoltà nell’apertura necessaria ai popoli così detti barbari, con tendenza a svuotare il simbolo della sua realtà significata, una liturgia che corre il rischio di scadere a rappresentazione drammatica8. 7 Cfr. L. LIGIER, o.c., pp. 160-169. 8 Cfr. S. MARSILI, «La teologia della celebrazione della Eucaristia nell’epoca pre-tridentina», in Anàmnesis 3/2: La liturgia eucaristica: teologia e storia della celebrazione, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 93 s. Ricordiamo con dolore come in questo contesto di vuoto teologico, si discute aggressivamente sul pane azzimo, materia valida del sacrificio, e la Chiesa d’Oriente ed Occidente conoscano il primo grave scisma (sec. IX, Fozio): l’unità della Chiesa è sempre in stretta, necessaria relazione con la verità dell’Eucaristia: il corpo eucaristico realizza il corpo ecclesiale. La Teologia discute infatti ora delle relazioni tra i tre corpi: il corpo celeste del crocifisso glorioso, il suo corpo eucaristico, detto mistico, perché nel Mistero celebrato, il corpo ecclesiale. Dalla relazione tra il corpo mistico eucaristico e quello celeste del Crocifisso glorioso dipende la qualità del corpo ecclesiale, la sua unità9. Qui ritroviamo operante quella relazione tra Incarnazione-Eucaristia, nella totalità del progetto di vita per l’uomo, che abbiamo segnalato, evidente in Gv 6. Nei secoli della teologia simbolica ha funzionato, nella riflessione credente, a partire dal forte realismo del corpo eucaristico per affermare il realismo del corpo dell’incarnazione. Ora chiaramente professato il mistero dell’incarnazione nei concili trinitari-cristologici di Nicea, Efeso e Calcedonia, il movimento è piuttosto inverso: dalla cristologia all’Eucaristia. Ma ci si muove sempre, potremo dire, all’interno dell’insegnamento giovanneo10, il forte realismo realizzato dal verbo essere, Io sono (v. 20), il pane è la mia carne, per la vita del mondo (v. 51); si passa semplicemente nella discussione teologica e insegnamento magisteriale dall’indicativo ad un sostantivo formato dal participio: είμί, ouσία. Sappiamo che Nicea ha dovuto eliminare ogni dubbio circa l’identità di Cristo, di fronte ad un invadente arianesimo: Cristo sta dalla parte di Dio Padre, o dalla parte della creatura? Evidentemente nella rivelazione giudeo-cristiana, per il dogma della creazione, non si dà alcuna via di mezzo; e l’insegnamento della rivelazione, specialmente Giovanni, è esplicito nell’affermare che Cristo è uno, col Padre, una sola operazione, una sola parola, una sola cosa col Padre. La risposta corretta, da inserirsi nel simbolo della fede è che si tratta dello stesso “essente”, stessa ouσία, oμooύσιoς col Padre, consustanziale al Padre. Come nella sua umanità, Gesù Cristo sarà dichiarato, da Calcedonia, consustanziale a noi. La Teologia, ed il Magistero, all’inizio del nostro millennio, per indurre maestro Berengario a risolvere le sue incertezze sulla relazione prima ricordata tra il corpo eucaristico di Cristo ed il suo corpo Crocifissoglorioso celeste, alla destra del Padre, ricorrerà alla stessa categoria ontologica, oσία, già usata per superare la crisi ariana, la relazione tra Cristo ed il Padre11. Quale è quindi la corretta fede sulla relazione tra il corpo eucaristico ed il corpo del Glorioso? Si tratta di identità, della stessa sostanza, la verità della sostanza e la proprietà della natura, come si esprimerà il Concilio 9 Cfr. H. DE LUBAC, Corpus Mysticum. Eucaristia e Chiesa nel Medioevo, Opera omnia 15, Jaca Book, Milano 1982, pp. 112-114. 10 Va da sé che Giovanni presuppone la narrazione sinottica dell’istituzione del memoriale eucaristico; 1 Cor 11, 23-30, che possiamo indicare come il testo più antico circa l’istituzione dell’ultima cena è situabile intorno agli anni 53-56. Cfr. A. PIOLANTI, Il Mistero eucaristico, LEV, Città del Vaticano 1983, pp. 112-147. Cfr. P.-L. CARLE, Le sacrifice de la nouvelle alliance, consubstantiel et transubstantiation (De l’Incarnation à l’Eucharistie), Taffard, Bordeaux 1981, pp. 223-308, per l’uso teologico di ouσία, substantia, vedi pp. 262-285, in particolare p. 261, ove nota come già Baldovino di Canterbury, nel 1170, notava la parentela morfologica tra oμooύσιoς μεταoύσιoς; ma neppure a Trento si supponeva una filiazione storica. P-L Carle fa notare non trattarsi di una parentela morfologica gratuita: Calcedonia parlava di “consustanziale” dell’umanità di Cristo con la nostra, e si dà una sequela ininterrotta di usi nel tempo dei Padri e della rinascita carolingia di questo termine a proposito dell’umanità di Cristo, quella che si rende presente nell’Eucaristia. Il suo uso per convincere Berengario con una professione senza incertezze, risulta del tutto spiegabile. 11 Romano del 1079, DH 700. Qui si tratta dell’identità dell’ouσία del corpo eucaristico e del corpo glorioso, cui è ipostaticamente unita la divinità, la persona del Figlio. All’identità sostanziale, tra il pane che è la carne data per la vita del mondo e il corpo del Crocifissoglorioso in cielo, corrisponde la differenza dei modi di presentarsi: a noi nei segni, nelle specie del pane, del vino, mentre in cielo, la stessa realtà, sostanza, si presenta nel suo modo così detto naturale. Questo discorso sulla sostanza e specie, apparenze verso di noi, è necessariamente congiunto al discorso della conversione delle sostanze12, il termine tecnico di transustanziazione (Lateranense IV, De fide catholica, DH 802). L’Oriente, ormai purtroppo scismatico (1054, Michele Cerulario), conobbe un superamento della crisi della teologia simbolica pur esso realizzato usando le stesse categorie: ci si muove sempre all’interno della stessa tradizione ecclesiale, il servizio decisivo del ministero petrino. Ci si muove sempre nella stessa fede, col supporto delle stesse categorie, tanto che al Concilio di unione di Lione, il II, non ci sarà nessuna difficoltà per l’imperatore Michele Paleologo a professare: “La stessa romana chiesa effettua l’Eucaristia col pane azzimo, tenendo per fermo ed insegnando, che nello stesso sacramento il pane è veramente transustanziato nel corpo ed il vino nel sangue del nostro Signore Gesù Cristo” (DH 860). La fede nel mistero eucaristico è talmente comune che nella Bolla sull’unione coi Greci, Laetentur coeli (Concilio di Firenze), del 6 luglio 1439, neppure più se ne parla. Se ne parlerà invece nella Bolla sull’unione con gli Armeni, Exultate Deo, del 22 novembre 1439 (DH 1321). È bene ricordare la natura teologica della categoria oσία, in quanto è stata usata sia per la corretta salvifica comprensione del mistero dell’Incarnazione (Gesù Cristo è una sola cosa col Padre, della sua stessa sostanza divina) sia per la corretta salvifica comprensione della carne eucaristica (è la stessa del Crocifisso glorioso, è diverso solo il modo di manifestarsi a noi nei segni, specie). Questa categoria ouσία è teologica, esprime il forte realismo, fondato nello stesso essere, proprio della rivelazione in Giovanni, del Pane di vita13. Non dipende dall’accoglienza di nessun sistema filosofico, dimostra invece la capacità creativa del pensiero credente, come è riuscito a formulare il dato rivelato in modo opportuno, corrispondente a nuove esigenze della cultura ed in perfetta continuità con le categorie della parola ispirata: la radicazione nell’essere. Come era già avvenuto per la filosofia platonica, capace di offrire un simbolo contenente in sé la realtà significata, così anche ora per la categoria sostanza e le specie-apparenze, può essere di qualche aiuto la filosofia aristotelica della sostanza ed accidenti: ma come strumenti razionali che si cerca di utilizzare per l’intelligenza del dato rivelato14: esso si presenta e sviluppa con categorie proprie, che il servizio autorevole 12 L’affermazione che il pane ed il vino, per la preghiera eucaristica diventino corpo e sangue del Signore, è comune già nel secondo secolo: cfr. L. LIGIER, o.c., pp. 200-207. Per l’ingresso dei concetti di “sostanza” e di “transustanziazione” vedi, stesso luogo, pp. 212-220. 13 Abbiamo già fatto notare che Giovanni presuppone l’insegnamento dei sinottici e di Paolo, sull’istituzione ed il realismo dell’Eucaristia; vedi nota 10. 14 Cfr. le osservazioni di J. DE FINANCE, Citoyen de deux mondes, Univ. Greg., ed.-Téqui, Roma - Paris 1980, p. 292. P-L CARLE, o.c., p. 269, fa notare l’uso teologico di substantia nella teologia latina, che traduce il greco ouσία, esistente, e solo secondariamente l’aristotelico soggetto degli accidenti. petrino autentica, riconosce corrette. Come avvenne nel Concilio Romano del 1079 (DH 700) e nel Concilio Lateranense IV del 1225 (DH 802). Sostanza e presenza sostanziale La categoria sostanza, ouσία, porterà con sé la categoria presenza, παρoυσία, ed ancora una volta sia in Occidente che Oriente. Anche se in Oriente, specialmente dopo il Concilio di Trento, il razionalismo comincia, anche se con ritardo, ad insidiare la fede dell’ortodossia orientale. La terminologia usata per una corretta professione del mistero eucaristico è la stessa che in Occidente, che ha conosciuto molto prima questi problemi15. Troviamo il primo uso magisteriale della categoria “presenza” nella Bolla Transiturus di Urbano IV, istitutiva della solennità del Corpus Domini (1264, DH 846-847). Questo ritardo risulta del tutto comprensibile: la categoria di presenza è propria della filosofia cristiana (vedi Fides et ratio n. 76), esprime i contenuti propri della rivelazione giudeo-cristiana: il Dio personale della creazione-alleanza si avvicina all’uomo, già creato secondo la sua immagine, si presenta nel Figlio incarnato, visita con amore sino gli inferi della condizione umana; nel Memoriale eucaristico ci è data la carne del Crocifisso -glorioso, per introdurci alla intima comunione di vita con sé. La categoria presenza raccoglie in sé questa qualità di interiorità spirituale, corporalmente espressa, che si apre all’altro, per trasformarlo introducendolo nel proprio ambito spirituale-vitale, realizzare comunione di vita16. Possiamo brevemente ricordare come tutta la storia dell’alleanza consista nell’evento di un Dio che invita, chiama, si avvicina, vuole camminare, stare con il suo popolo, essere Emanuele, Dio con noi, per noi, in noi17. Gesù porta a pienezza questa relazione vitale di Alleanza, di intima e vivificante presenza: è il Dio con noi, che sarà per sempre nella chiesa apostolica, con e in ciascuno dei suoi discepoli. L’incarnazione del Verbo, il suo prolungarsi dopo l’Ascensione al cielo, in modo umano, sensibile in pluralità di modi, sarà quindi molteplice nella sua Chiesa: nella sua parola e guida pastorale: “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10, 16); “Pasci i miei agnelli, le mie pecorelle” (Gv 21, 15 s.); “In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18, 18). 15 Cfr. L. LIEGER, o.c., pp. 178.218-220. Cfr. R. BUSA, La terminologia tomista dell’interiorità. Saggio di metodo per una interpretazione della metafisica della presenza, PUG, Roma 1949; K. RAHNER, «De praesentia Domini in communitate cultus: synthesis theologica», in Acta congressus internationalis de Theologia Concilii Vaticani II, ed. A. Schönmetzer, Typis polyglottis Vaticanis, 1968, pp. 330 s.; J.A. JUNGMANN, «De praesentia Domini in communitate cultus et de rationibus cur haec doctrina dudum oscurata et hodie reintegranda sit», stesso luogo, pp. 296-299; B. NEUNHEUSER, «De praesentia Domini in commmunitate cultus: quaestionis evolutio historica et difficultas specifica», stesso luogo, pp. 316-329. 16 17 Cfr. Y.-M. CONGAR, Le Mystere du Temple, (= Lectio divina 22), Cerf, Paris 1958. Il Verbo incarnato si fa presente nella comunità riunita in preghiera: “In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20). Il Verbo incarnato è presente nella comunità riunita in preghiera, come è presente per la fede nel cuore dei suoi discepoli: “Cristo abiti per la fede nei vostri cuori” (Ef 3, 17), come vuole essere riconosciuto, assicurare la dignità anche dei fratelli più piccoli: “L’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Ma è nel suo Memoriale, il memoriale della pienezza della sua incarnazione, della sua Pasqua, è nel pane della vita che è la sua carne data per la vita del mondo, che ricapitola tutto il suo stare in mezzo a noi, è qui che troviamo la sua presenza più intensa, perché è presente lui stesso, nel portarci, nel suo sacrificio, nel suo corpo dato e nel suo sangue versato, sino al Padre, in una esistenza rinnovata, risorta. Una presenza non solo vera, reale, ma, inoltre, sostanziale e corporale18. Può essere di qualche utilità ricordare come si è giunti all’uso teologico-magisteriale di presenza sostanziale. La categoria sostanza, esplicitando il forte realismo della teologia dei Padri, ha portato con sé l’ingresso nella teologia di espressioni che preparano il concetto ultimo di presenza: si comincia a dire che Cristo “est in sacramento, speciebus”, come anche “est sub”, “continetur in”, “continetur sub”: un essere in, sub speciebus, per realizzare l’esse ad, che edifica il corpo ecclesiale, la conformazione a Cristo dei discepoli, la lor unità nella carità (Lateranense IV [1215], DH 802)19. Come già ricordato, nella bolla Transiturus del 1264, per la prima volta il Magistero parla di presenza: “... in questa sacramentale commemorazione di Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza” (DH 846). La categoria presenza, in greco παρoυσία, presenta ancora una volta il verbo essere, εμί, nella sua forma ouσία derivata dal suo participio, qualificato dall’avverbio presso, παρά, vicinanza dinamica, efficiente: si rimane sempre nell’ambito del Pane di vita, la carne del crocifisso glorioso, nel suo Memoriale, nei segni conviviali, che dà la vita, trasforma nello Spirito Santo i suoi discepoli, persone, comunità. La Chiesa, sia occidentale che orientale, non abbandonerà più le categorie di ouσία, παρoυσία, presenza sostanziale per transustanziazione, nel definire il mistero rivelato del Mistero eucaristico. Ne sperimentò particolare esigenza per superare il dramma, e fu questa volta un autentico dramma, della profonda incomprensione e lacerazione ecclesiale del sec. XVI. Certo agli inizi del 1500 tutto sembrava di ostacolo a vivere una sincera e vivificante comunione ecclesiale: il formarsi delle nazioni con l’eclissi della cristianità politicamente unificata; il nominalismo affermato in teologia, cioè quell’eccesso di pietà verso i decreti arbitrari di Dio che faceva perdere di vista la comune apertura umana verso l’assoluto, la capacità della mente umana di formare concetti universali. Si stenta 18 Cfr. A. CUVA, La presenza di Cristo nella liturgia, ed. Liturgiche, Roma 1973. 19 Cfr. L. LIGIER, o.c., pp. 170-178. in questo contesto di pensiero debole, a formulare una teologia di comunione, della subordinata e libera cooperazione dell’uomo alla Grazia20. Il vero dramma della lacerazione della Chiesa si realizzò quando per l’ansietà radicata di evitare l’esaltazione delle opere umane, della auto-salvezza dell’uomo, si manomise nel canone della Messa tutto ciò che sapeva di sacrificio, perché inteso come opera umana21. Si indebolisce, diventa incerta la presenza sostanziale, come in Lutero, ancor più in altri riformatori, un vago simbolismo22. Con il recente accordo ecumenico sulla “giustificazione”23 si è posta una pietra miliare per un cammino che possa condurre a quella piena professione di fede nel Mistero eucaristico tale da realizzare, con l’accoglienza del servizio petrino, l’unità della Chiesa. ***** E qui può incominciare il nostro sogno per il terzo millennio; un sogno fondato, fondato sulla presenza sostanziale-corporale del Signore Gesù, pane di vita eterna, sul paradigma di quanto già avvenuto nel primo e secondo millennio. Il primo millennio, se si eccettua la crisi ai tempi di Fozio, non ha conosciuto insormontabili difficoltà sulla teologia e la celebrazione dell’Eucaristia; il comune, reciproco riconoscimento della celebrazione eucaristica è un contesto valido per risolvere le questioni cristologiche e trinitarie; lo abbiamo già constatato ai tempi dei concili ecumenici di Nicea, di Efeso e di Calcedonia per le chiese così dette Calcedonesi. Ma la comune celebrazione, secondo il mandato del Signore e la tradizione apostolica del Mistero eucaristico, risulta ora un fattore decisivo per evidenziare la comune fede cristologica, secondo le stesse formule di Efeso e Calcedonia, con quelle stesse chiese, di tendenza nestoriana o monofisita, che dopo Efeso e Calcedonia si isolarono con vita autonoma. Come risulta dalla realizzazione dei recenti accordi Cattolici-Assiri e Cattolici-Copti Ortodossi sulla cristologia24. È sintomatico che lo scisma tra oriente e occidente avviene proprio nel contesto della debolezza della teologia simbolica eucaristica, dell’iconoclastia, discussione sui pani azzimi, disputa tra il B. Roberto Pascasio e il suo monaco Ratramno, le dottrine eterodosse di Maestro Berengario. Cfr. G. COLZANI, Antropologia teologica. L’uomo paradosso e mistero, EDB, 1997, che espone bene questa complessa situazione nelle pp. 218238. 20 21 Cfr. Y. CONGAR, «Lutherana. Théologie de l’Eucharistie et Cristologie chez Luther», in RSPh 66(1982) 179. Cfr. J. RATZINGER - W. BEINERT, Il problema della transustanziazione ed il significato dell’Eucaristia, Ed. Paoline, Roma 1969: J. Ratzinger tratta della presenza sostanziale in Calvino a pp. 16-22, ed in Lutero a pp. 23-35. 22 23 24 Cfr. Il Regno - Documenti 44/15(1999) 476-480. Cfr. Enchiridion Oecumenicum 3, EDB 1995: Dialoghi Cattolici-Assiri nn. 758-762; Dialoghi Cattolici-Copti ortodossi nn. 1947-1952.1996-2000. Vi ha contribuito la poderosa opera storico-teologica di A. GRILLMEIER, Gesù Cristo nella fede della Chiesa, vol. I: Dall’età apostolica al Concilio di Calcedonia (451), Paideia, Brescia 1982. Il consolidarsi di una teologia che estende la categoria di sostanza, dall’incarnazione al pane di vita, che restituisce pieno vigore di contenuti di fede alla celebrazione, corrisponde nella chiesa occidentale alla riforma di Gregorio VII, il recupero del senso del ministero, le sue esigenze, qualità di vita, per il servizio pastorale, il rifiorire della vita monastica con la diffusione delle Congregazioni di Cluny, con i Certosini e Cistercensi, poi con Francescani e Domenicani. Si consolida l’evangelizzazione a Nord ed Est. Osservazioni simili si possono fare per la chiesa orientale, la sua resistenza nel tormento dell’invasione turca. Una via di grande speranza ecumenica è il recupero teologico, magisteriale delle molteplici presenze del Signore alla sua Chiesa, presenze vere e reali, tutte da considerare in relazione a quella unica, non confondibile per intensità di presenza, perché sostanziale e corporale, la presenza eucaristica. Sono tutte presenze legate, sequela dell’incarnazione del Verbo: la sua presenza nella sua Parola annunciata, nel suo Ministro che celebra, regge il popolo di Dio, nella sua comunità riunita in preghiera, che compie opere di carità, nel cuore dei credenti, nei fratelli, specie i più bisognosi. È l’insegnamento che troviamo in modo progressivo nella Mediator Dei (DH 3840), nella Sacrosanctum Concilium del Vaticano II (DH 4007), nella Mysterium fidei di Paolo VI (DH 4412). La categoria presenza, appunto perché formatasi nel contesto dell’Alleanza, il suo vertice nell’Incarnazione del Verbo, del Mistero pasquale ed il suo Memoriale, risulta la più atta a unire tra di loro, tutto ciò che rappresenta frutto e sequele dello stare con noi del Verbo incarnato, la sua perenne attività santificante nello Spirito Santo. Le chiese ora separate, la cui triste divisione sempre avvenne in un contesto di debolezza, anche naufragio, di fede eucaristica, accentuano una delle varie presenze reali del Signore: i Riformati del secolo XVI si presentano come chiesa della Parola, gli Ortodossi come chiesa dell’Eucaristia, i Cattolici inoltre come chiesa dell’unico Pastore. Si tratta dei molteplici modi della presenza salvifica del Signore Gesù da porsi non in alternativa, ma in relazione, progressiva. Tutti concorrono alla realizzazione della presenza non solo reale, ma sostanzialecorporale dell’Eucaristia, e trovano in essa la loro pienezza di senso e di valore25. Nel dialogo ecumenico ci si muove, con carità ritrovata, sul terreno comune di un millennio e mezzo di unità della Chiesa, in cui nella comune celebrazione eucaristica della presenza sacrificale del Crocifisso glorioso, si condivideva Scrittura ispirata, tradizione viva, sacramenti, successione apostolica in comunione col successore di Pietro. Ogni chiesa offre la sua fede nelle presenze reali di Cristo nella parola, preghiera comune, servizio pastorale, sacramenti, azione caritativa: si tratta di considerarle insieme, sequela dell’incarnazione-pasqua del Verbo, prolungarle sino a quella presenza unica, sostanziale e corporale, propria del sacrificio eucaristico. La parola annunciata nella Chiesa raggiunge il suo massimo di efficacia nella parola del sacramento, come poi tutte le parole, attività della chiesa sono ordinate all’evento-parola dell’Eucaristia: qui è presente tutto 25 Cfr. O. SEMMELROTH, Teologia della parola, Ed. Paoline, Bari 1967; K. RAHNER, «Parola ed Eucaristia», in Saggi sui sacramenti e l’escatologia, Ed. Paoline, Roma 1969, pp. 109-172. Cristo, corpo, sangue, anima e divinità, nel suo Sacrificio, nel suo passare per noi al Padre, per tutti introdurre nell’amore del Padre, realizzare l’unità nella carità-Spirito Santo del suo corpo ecclesiale. Nell’Eucaristia abbiamo la massima penetrazione del Crocifisso glorioso nella vita della Chiesa, per tutta rinnovarla, qualificarla, presenza unica, sostanziale e corporale, che offre il loro autentico senso, significato di verità, fine a tutte le altre presenze reali. La qualità di vita della Chiesa, nelle sue articolazioni, ministeri, attività si comprende e si realizza pienamente in relazione alla presenza sostanziale-corporale eucaristica. Il ministero petrino è al servizio dell’autenticità di tale progetto di presenza vivificante, unica: è indissolubilmente legato ad essa. Qui può concludersi il nostro sogno per il terzo millennio, non sogno ma realtà del Pane della vita, la Carne data per la vita del mondo, la presenza sostanziale-corporale del Crocifisso glorioso, che vivifica ed unisce nello Spirito Santo-carità la sua Chiesa. [Testo presentato per il Convegno di Studi, Incarnazione ed Eucaristia, del 10 / 12/ 1999, in preparazione al Terzo Millennio]