Società Filosofica Feronia Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana L’insegnamento della filosofia in Italia e il futuro dell’educazione europea di Francesco Paolo Firrao Libertà e servitù volontaria La fortuna del Discorso di Etienne de La Boétie di Donato Maraffino Sette saperi per il futuro Edgar Morin e la riforma educativa di Maria Letizia Parisi Lo specchio di Lacan Intorno a Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io di Antonino Zaffiro A theory of freedom between reality and simulacrum di Francesca Torella Umanesimo ed umanità in J. Maritain di Laura Foti Una formazione logica di Pasquale Iezza Guide to the Study of Philosophy Massime per lo studio e l’uso della filosofia Educazione ed autoformazione di Laura Foti Juvenilia Eventi 2013 e Anticipazioni 2014 2 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao L’insegnamento della filosofia in Italia e il futuro dell’educazione europea di Francesco Paolo Firrao Francesco Paolo Firrao, è stato docente di storia e filosofia nei licei, docente a contratto in Filosofia del linguaggio; cultore della materia filosofica nella Scuola di Formazione della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze; è autore di testi ad uso liceale ed universitario ed esperto in ambito didattico filosofico e consulente editoriale. I l tema propostomi in quest’occasione dagli Amici della Sfi di Latina non può essere trattato senza collocarlo in un complesso quadro problematico che mette in discussione ogni suo termine: insegnamento della filosofia in Italia; futuro dell’educazione europea. Solo dopo l’analisi critica di questi segmenti semantici si potrà avanzare un’ipotetica relazione tra l’insegnare filosofia in Italia e l’attesa di una realtà che deve ancora realizzarsi: il futuro dell’educazione europea. Un futuro, quello a cui ci dirigiamo che trova sempre più difficoltà a farsi vedere in un orizzonte offuscato da nebbie prodotte da conflitti tra stati che faticano a riconoscersi come parti integranti dell’Unità Europea ( da ora U.E. ). A che cosa serve, oggi, la filosofia? Qual è il suo senso per le nuove generazioni di giovani destinati a vivere in un’età storicamente complessa con forti caratteri di globalità? In che stato di salute si trova la filosofia, in un contesto culturale che rispetto al recente passato mostra profondi e radicali cambiamenti non solo nei contenuti, sempre più vari e diversi, ma anche nei generi e negli stili comunicativi; quale deve essere il suo compito come disciplina d’insegnamento curricolare all’interno di un sistema d’istruzione in stretto rapporto con una società civile che avverte con sempre maggiore forza l’irrompere di problemi sociali, di cambiamenti identitari con il conseguente mutamento nei ruoli sociali e di cittadinanza, delle innovazioni tecnologiche nei mezzi di comunicazione di massa? In termini più sintetici è da chiedersi con sempre maggiore forza: che cosa insegna chi insegna filosofia e cosa apprende chi la studia? Solo rispondendo a queste domande si può affrontare la successiva questione sulla funzione dell’insegnamento della filosofia nel futuro dell’educazione europea. Oggi stiamo vivendo in un’epoca storicamente rilevante che per i profondi cambiamenti culturali e civili, vista in una prospettiva futura, sarà definita epocale, di spartizione storico – culturale. Si sta passando dall’era della stampa su carta a quella digitale, dei tablet, di internet considerato come canale privilegiato dell’acquisizione di informazioni. Informazioni, non conoscenze. Perché l’una si trasformi in conoscenze sono necessari interventi cognitivi che non possono essere prodotti dalle tecnologie, bensì dal soggetto che acquisisce le informazioni. E’ su questa distinzione che andrebbe letta ed interpretata l’espressione con cui è caratterizzata dai mass media la nostra società: società delle conoscenze. Chi produce conoscenze? Pensare che esse siano il prodotto delle tecnologie informatiche è un grosso errore che rischia di ridurre l’uomo ad un semplice robot. La conoscenza è e rimane un prodotto della mente umana, delle sue ricche potenzialità non solo razionali, ma anche emotive. Conoscere non è solo sapere ‘puro’, formale, è anche amore per ciò che si sa; è anche desiderio di condividere ciò che si sa; è anche ricerca di maggiore chiarezza tramite il confronto con l’altro: è dialogo. In questo scenario cognitivo si colloca la filosofia che, oggi, nonostante sia oggetto di eventi culturali di massa, come gli annuali festival emiliani o sarzaresi, tanto per citare quelli di più ampia risonanza pubblicitaria, e di visibilità da parte dei filosofi che ormai non mancano mai ai talk shows televisivi, osservando i tabulati statistici delle iscrizioni universitarie, la pubblicità sui quotidiani per le iscrizioni alle facoltà, gli esiti delle prove di esami di maturità ed altro, sembra aver perso la propria identità e di conseguenza il proprio valore didattico. Si ha la sensazione che il vecchio sistema dei saperi filosofici si sia smantellato dando origine ad una moltitudine di frammenti di saperi non ancora ben organizzati dal punto di vista epistemico. Sembra che si riviva un’ulteriore nuova fase ‘sofistica’, in cui la retorica prevale sulla dialettica; la parola sul pensiero. 3 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao Lo scenario non cambia, anzi appare più contradditorio, se si guarda l’altra faccia della medaglia, ovvero l’insegnamento della filosofia negli Ordinamenti del sistema d’istruzione italiano. Sembra essersi esaurito il dibattito sul senso e sulle modalità didattiche per un insegnamento della filosofia aperto a tutti, più efficace per la formazione giovanile ad una vita più consapevole ed eticamente più responsabile, più bilanciata sul ‘900 rispetto ai secoli precedenti. Eppure questo dibattito, che ha avuto nell’ultimo trentennio del secolo scorso la sua fase più alta per ampiezza ed impegno da parte dei docenti e del Ministero della P.I., oggi MIUR, anche se oggi sottotono, ha tracciato un solco che in un certo qual modo ha modificato la cornice didattica dell’insegnamento della filosofia, ponendo in discussione l’insegnamento della filosofia come rassegna di teorie, di pensatori, avulsi dai loro contesti culturali e non sempre significativi per le problematiche dei giovani studenti di oggi. Dove va la filosofia, oggi? E’ una domanda formulatami da alcuni studenti durante un incontro recente in un liceo pugliese. Al di là della risposta da me formulata in un contesto argomentativo che è improprio esprimere in questa sede, la domanda esprime molto bene l’esigenza giovanile di sapere l’orientamento attuale della riflessione filosofica dopo una stagione a forte carattere ideologico. Strettamente connessa a questa domanda è quella riguardante la funzione formativa dell’insegnamento della filosofia dopo un lungo periodo storico in cui essa è stata abbinata a stagioni ideologiche cattoliche, laiche, di sinistra marxista o di destra liberale o pseudo liberale. La fine delle ideologie ha creato un vuoto culturale ‘positivo’ in quanto impegna gli intellettuali a rivedere la propria identità e, quindi, la propria funzione nella società democratica o in progressivo avanzamento democratico. Alla filosofia ed al suo insegnamento in Italia, in particolare, in Europa in un senso più ampio, e nel globo in uno ancora più ampio e complesso, si aprono scenari che richiedono in particolar modo un profondo ripensamento sulla sua identità disciplinare. Nell’ambito più strettamente circoscritto dell’insegnamento della filosofia in Italia si registrano atteggiamenti verso la disciplina che, oltre a riflettere le inquietudini del mondo accademico e una certa difficoltà a declinare didatticamente l’ampio e, a volte, confuso paradigma culturale filosofico, mostra anche una non chiara impostazione metodologica. Non tutto è da riportare alla più o meno preparazione dei docenti di filosofia, in particolare, che quotidianamente devono confrontarsi con la sempre più complessa burocrazia scolastica, che si muove sull’onda dell’equivocata autonomia scolastica, e con le roccaforti disciplinari dei cosiddetti saperi ‘forti’ e d’indirizzo specifico, al di là di un piano organico di progettazione formativa globale dei giovani. Manca nella scuola di oggi quel senso di appartenenza dei docenti e degli studenti ad una loro identità culturale che li rende soggetti privilegiati della cultura del propria comunità cittadina, nazionale e internazionale. Un’identità questa che può trovare nella filosofia quel sapere inter-culturale capace di tessere al di là dei rapporti esterni tra saperi, una profonda riflessione critica sui fondamenti comuni a tutti i saperi. Le oscillazioni sul valore dell’insegnamento della filosofia, che negli ultimi decenni del secolo scorso si sono fatte sempre più complesse e disorientanti, hanno condizionato non sempre positivamente le scelte riformistiche della scuola italiana,salve alcune iniziative di alto valore professionale e culturale di singoli docenti. Si pensi ai tanti progetti di riforma da quella promossa da Beniamino Brocca a quelle di Giovanni Berlinguer e della Letizia Moratti, prima, e della Maristella Gelmini, dopo, fino a Francesco Profumo. Tanti progetti di riforma per una riforma strisciante negativa de-costruttiva, poco funzionale alle finalità formative delle nuove generazioni giovanili che si rivolgono sempre più alle dilaganti agenzie dei mezzi d’informazione (internet) e dei social network. Da questo stato di ‘disorientamento’ si può uscire solo riproponendo la questione sullo statuto epistemologico della filosofia e, contestualmente, su quello dell’insegnamento della disciplina filosofica in sé ed in rapporto con gli altri saperi, in particolare con quello scientifico, in un orizzonte formativo che tenga conto della realtà sociale, politica e culturale in cui vivono ed agiscono le nuove generazioni giovanili. Una riflessione così impostata, in cui la rivisitazione del valore epistemologico della filosofia e del suo insegnamento è strettamente strutturata alla visione della contemporaneità socio–culturale dei giovani studenti a cui si vuol offrire l’opportunità di confrontarsi con il pensare filosofico, richiede una scansione metodologica, ponendo in primo piano le finalità formative dell’insegnamento filosofico. Troppo è stato detto e scritto sulle finalità dell’insegnamento della filosofia, per cui è opportuno soffermarsi su alcuni punti nodali. Primo. Nel corso storico politico del cosiddetto secolo breve, il XX°, la società europea, non solo italiana, ha vissuto diverse fasi che hanno avuto come momento epocale il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, segno tangibile del conflitto ideologico est/ovest. Questo evento è stato 4 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao 1 J. Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, pag. 198 preceduto dall’affermazione in tutta l’area orientale dei valori democratici occidentali e del vento globale liberistico economico –finanziario. I confini tracciati a Yalta (1945) dai vincitori del secondo conflitto mondiale (1939 – 1945) sono travolti dai nuovi eventi politici post-bellici e la stessa Unione Europea, sorta nello stesso 1945 per far fronte alle urgenze economiche necessarie per la ricostruzione post-bellica, divenuta nel frattempo un saldo punto di riferimento per gli Stati europei, tanto che gli Stati aderenti passano dagli iniziali 6 a 12 nel 1986, deve far fronte alla ‘nuova’ Germania, non più divisa tra ovest ed est, e ai movimenti che segnano la fine dell’URSS. Dal 9 novembre 1989, con la caduta delle ‘ideologie’, in tutti settori culturali si è aperta una stagione di riflessione per la rivalutazione delle posizioni teoriche liberaldemocratiche, più attente alla valorizzazione dell’uomo / soggetto di pensiero critico, creativo e più responsabile di sé verso sé e gli altri. In questa direzione, tra le tante in campo, vanno le riflessioni di Hilary Putman, espresse nel suo saggio Rinnovare la filosofia (1998) e sorrette da riferimenti al pensiero di John Dewey. Solo una filosofia ‘rinnovata’, forte dal punto di vista epistemologico e debole da quello ontologico può essere in grado di fornire gli strumenti utili ai giovani studenti a leggere criticamente la realtà in cui essi vivono ed interagiscono. A fondamento di questo processo di rinnovamento epistemologico della filosofia si pone l’esigenza deweyana di rendere concreta la democrazia come orizzonte culturale di vita civica in cui ciascun cittadino partecipa con il suo libero e critico pensare alla realizzazione di una società aperta e creatrice di progresso. Un pensare critico principalmente verso se stesso, capace di mettersi in discussione e di non affermarsi mai come pensiero assoluto, dotato di certezze e di verità indiscutibili; un pensiero ‘fallibilista’, che tramite il dubbio afferma la verità. Verità che non ha un’identità trascendente la realtà, ma è realtà mutata, progresso e civiltà sempre maggiori per gli uomini, per la loro felicità terrena. Felicità che non s’identifica quasi mai con il benessere materiale, ma con quell’equilibrio, anche materiale, ma di natura culturale tra sé e l’ambiente fisico e sociale in cui ciascun individuo vive ed interagisce. Uscire dalle verità assolute vuol dire vivere mentalmente sempre attenti alla validità concreta delle verità, al loro apporto alla soluzione dei problemi umani che non hanno mai uguali valori funzionali alla vita dell’uomo reale, non astratto dal tempo storico e dallo spazio geografico. E’ il modello di ricerca pubblica baco- niano, che la scienza moderna ha accolto su sollecitazione filosofica, che, come sottolinea lo stesso Dewey, paradossalmente sembra essere rimasto fuori dalla stessa disciplina filosofica. Infatti, Bacone aveva compreso la grande importanza del fattore sociale nello sviluppo delle conoscenze. Come scrive Dewey in “Democrazia e educazione”: “lo scopo del pensiero è di aiutare a raggiungere una conclusione, a prevedere una possibile fine in base a ciò che è già dato. Poiché la situazione nella quale ha luogo il pensiero è di dubbio, il pensiero è un processo di indagine, di esame delle cose, di investigazione. L’atto di acquisire è sempre subordinato all’atto dell’indagare.” 1. Conoscere, quindi, è altro dall’essere informato, così come è ben diverso dal sapere. Se il conoscere è un atto di ricerca strumentale finalizzato alla soluzione di un problema, di cui materia sono le informazioni, il sapere esprime l’atto finale del conoscere, libero da scopi puramente pratici, organizzato concettualmente e espressione della libertà umana. Una società fondata sul sapere è, in altri termini, una società libera e democratica. L’insegnamento della filosofia, se vuole essere veramente strumento di crescita sociale democratica, non può non porsi in quest’orizzonte di senso, ispirato ai principi deweyani e di pensatori a noi contemporanei, come Edgar Morin. Un pensare filosofico che sviluppi abilità del pensare critico attraverso un piano didattico che non si risolva in una successione storica di pensatori avulsi da contesti culturali in cui i loro pensieri si sono alimentati mettendo a fuoco problematiche e tematiche che appartengono al codice genetico culturale umano. Problemi e temi universali nella loro identità formale, ma storici nella loro strutturazione semantica e nella loro formulazione linguistica e sintattica. Capire come essi emergono in un contesto biografico, storico politico e culturale, vuol dire cogliere l’originalità ed individualità del singolo pensatore e con lui quelle dell’epoca in cui esso si esprime. Insegnare filosofia entro queste coordinate vuol dire guidare il giovane studente a formarsi un proprio orizzonte di senso nel quale strutturare le sue domande sulla realtà, sulla vita, sul suo stesso pensare; a sapersi collocare nel contesto culturale dei suoi studi, della comunità di appartenenza; a condividere con gli altri i propri problemi, rendendosi disponibile all’ascolto ed al rispetto dei principi che qualificano una prassi educativo democratica. Ma perché tutto ciò possa realizzarsi, è necessario che muti la visione che i docenti, per fortuna non tutti, hanno dello studente come una mente da riempire di nozioni pre- 5 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao preconfezionate, già organizzate e pronte per essere ingerite, non assimilate. Lo studente, di qualsiasi ordine e grado d’istruzione, è prima di tutto una ‘persona’ e, come tale, un soggetto complesso in cui la mente ha un’identità multifunzionale con altrettante capacità organizzative e creatrici; un soggetto capace di riflettere su di sé, su gli altri e di interagire con la realtà. E’ ovvio che nessuna singola persona è identica ad un’altra: ciascuna ha la sua identità individualizzate che la distingue dalle altre nell’aspetto fisico ed in quello mentale, nella sua unità biopsichica unica e irripetibile, come i singoli filosofi, letterati, artisti e politici. In questa prospettiva lo studente di filosofia non si configura più come termine passivo di un processo di apprendimento che ha nel docente l’agente unico, bensì come centro di riferimento di un circuito dialogico che promuove in lui processi di autoriflessione sulle proprie pre-comprensioni, sui propri pre-concetti in un libero e critico confronto con il pensiero dei filosofi. In questo contesto dialogico l’insegnante diventa un interlocutore – regista delle dinamiche stimolatrici delle capacità meta cognitive, meta riflessive che rendono lo studente consapevole e critico nei confronti delle capacità mentali sia proprie che degli altri. Perché questo circuito ermeneutico del pensiero filosofico non venga percepito vuoto, astratto da contesti concreti, perché esso non si perda in un vuoto di parole, ‘flatus vocis’, è necessario che al pensare corrisponda un pensato, oltre un pensatore; ed il ‘pensato’ è lo scritto filosofico in cui si oggettivizza il pensare del filosofico. Senza i testi, la loro lettura recitata in modo che emergano i passaggi del discorrere filosofico, il pensiero filosofico rischia di essere ‘loqui vacua’. Il disinteresse di molti studenti per lo studio della filosofia nelle scuole italiane è da imputare principalmente nell’uso pedissequo del manuale come fonte prioritaria delle informazioni, oggi coadiuvato da internet; nella tendenza, ancora in uso, anche se in forma meno ossessiva rispetto al passato della ripetizione mnemonica di informazioni bibliografiche e di categorie concettuali nei loro specifici termini linguistici. In alternativa si sta diffondendo il cosiddetto metodo dialogico in cui il docente stimola con domande la sensibilità problematica degli studenti assumendo il ruolo di mediatore d’informazioni e di soggetto principale dotato di modelli interpretativi certi. Il panorama d’oggi dell’insegnamento della filosofia non si esaurisce tutto nelle strette mura scolastiche, nella metodologia del docente, ma si amplia con l’imprenditoria editoriale scolastica sempre presente e attivamente agente nel dare orientamenti nella didattica disciplinare della filosofia, in particolare. Avendo avvertito i contrastanti orientamenti dei docenti nell’impostazione didattica della materia d’insegnamento, gli editori, tutti, piccoli e grandi, hanno offerto al mercato scolastico vari modelli manualistici in cui il sistema espositivo tradizionale della storia della filosofia è stato variamente corretto, aggiornato, ampliato o ridotto, con o senza riferimenti ai testi, con schemi sintetici confezionati, mappe concettuali già confezionate ed tanto altro, al fine di facilitare sia l’insegnamento, sia l’apprendimento di una materia che, secondo il loro parere è difficile gestirla come potrebbero essere le materie scientifiche e letterarie. Ormai ogni casa editrice presenta un vasto repertorio di manuali con più edizioni, a volte rinnovate annualmente. In conclusione il panorama fin qui delineato offre uno scenario che per essere ben gestito ha bisogno di punti fermi e chiari tra cui quello di una identità disciplinare della filosofia, materia di studio. Un’identità che, come sopra detto, può essere riacquisita dalla filosofia e dal suo insegnamento solo tramite il recupero della loro vera natura epistemica, di sapere aperto, fuori da ogni rigido dualismo, rivolto alla ricerca di significati alle domande di senso avvertite da chi pone a fondamento della propria esistenza il pensare critico. Per essere colto nella sua autentica natura epistemica, come sottolinea Putnam, il pensiero filosofico deve liberarsi dalle rigide contrapposizioni, come ad esempio fra lo scientismo di molti analitici e l’irrazionalismo dei continentali; deve evitare di rifugiarsi in sempre nuove forme di esoterismo o di rimanere bloccata in quei crampi mentali e metafisici denunciati dall’irrequieto Wittgenstein. E’ alla ricerca scientifica, al suo statuto epistemologico, che la filosofia ‘rinnovata’ deve guardare, alle istanze della scienza contemporanea fondata su libertà e criticità; deve confrontarsi con la realtà, collegarsi alle crisi e alle tensioni della condizione umana, evitando sempre di porsi come un sistema immutabile di concetti, fuori dal tempo, dallo spazio, collocato in un mondo artefatto, fuori dalla umana comprensione. Il dialogo filosofico, come suggerisce Dewey in Rifare la filosofia, deve far emergere la complessità, i limiti e le contraddizioni presenti in ogni prospettiva filosofica. Perché ciò si realizzi nella pratica d’insegnamento non è necessario optare per la storia della filosofia o per la problematica filosofica. Questione questa che ha occupato molto spazio del dibattito novecentesco italiano sulla didattica filosofica. La natura teoretica della filosofia, che si esprime nell’incessante ricerca, nella 6 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao 2 J. Dewey, Rifare filosofia, Donzelli, Roma,1998, pag. 157 messa in discussione dei risultati, è presente costantemente in ogni sua forma storica, in quanto, per sua intrinseca natura il pensare filosofico ha una forza distruttrice di certezze. Putnam, seguendo lo strumentalismo deweyano, evidenzia il primato della ragion pratica su quella della ragion pura. In altri termini obiettivo della filosofia, compresa della sua forma insegnata, è quello di fornire all’uomo strumenti concettuali perché egli possa vivere consapevolmente nella sua società. “L’acquisizione di competenze, il possesso di conoscenze, di cultura, non sono dei fini: sono segni di crescita e dei mezzi perché continui”. 2 Senza la cultura, intesa come Weltanschaunng, ossia concezione del mondo da un punto di vista individuale, che può essere condiviso fino a divenire una visione collettiva della realtà, della vita, il progresso sociale e la crescita individuale non possono continuare nella loro via verso il bene pubblico da intendere in stretta connessione con quello individuale A questo scopo è da grande aiuto l’istruzione e con essa lo studio rigoroso della filosofia nel pieno rispetto della sua identità epistemologica che si compone non solo della conoscenza del pensiero dei singoli filosofi contestualizzati nel loro tempo e nei loro spazi geopolitici, ma anche della riflessione critica sul senso delle varie e storiche teorie filosofiche su questioni inerenti l’uomo, il mondo e Dio, tanto per usare i tre ambiti teoretici indicati dal grande filosofo Immanuel Kant. Prima di ampliare il campo di riflessione sull’insegnamento della filosofia in Italia a quello della sua utilità per un’educazione europea del futuro, è opportuno puntualizzare alcuni aspetti che pur sopra citati: 1. Se si è persuasi che uno dei principali compiti della scuola consista nel rendere consapevoli gli studenti della tradizione cui appartengono, delle forme di cultura e delle discipline scientifiche che in essa sono venute via via emergendo e che costituiscono un insostituibile patrimonio conoscitivo e pratico-applicativo, sembra difficile mettere in discussione la rilevanza dell’insegnamento della filosofia. Se si ritiene necessaria la conoscenza degli sviluppi economici, sociali, politici, scientifici e letterari della nostra civiltà, come si può pensare di non rendere partecipi gli allievi di un’esperienza intellettuale come quella filosofica che di tali sviluppi ha rappresentato uno dei fattori principali? Come si può pretendere che i giovani comprendano vicende storiche come la Rivoluzione francese o il costituirsi di discipline scientifiche come la fisica senza che venga loro insegnato alcunché di filosofia? 2. Non c’è dubbio che i modi con cui i filosofi hanno rivendicato l’importanza didattica della loro disciplina abbiano talvolta peccato di esagerazione. Spesso si è attribuita all’indagine filosofica una rilevanza superiore a quella che di fatto ha avuto, oppure - e magari in conseguenza di questo - si è sostenuta la centralità e financo l’imprescindibilità di essa per la formazione scolastica. Ciò mi pare senz’altro eccessivo, perché il fatto che la filosofia abbia avuto un ruolo fondamentale nella formazione della nostra tradizione passata non significa automaticamente che debba continuare ad averlo pure per il futuro, né che il suo apprendimento vada considerato indispensabile rispetto ad eventuali nuove esigenze fatte nascere dai mutamenti politici, culturali e scientifici continuamente in atto. E tuttavia sarebbe davvero strano se per contrastare certe esagerazioni ‘filosofico-centriche’ si finisse per negare tutto il resto. Se ci si attiene al criterio della rilevanza della filosofia entro il nostro sviluppo culturale, proprio non si vede perché i filosofi dovrebbero sentirsi ‘imbarazzati’ nel difendere la presenza dell’insegnamento della loro materia accanto all’insegnamento della storia civile e politica, della storia della letteratura e dell’arte, delle lingue straniere e delle varie discipline scientifiche. Solo considerazioni specifiche, legate alla necessità di soddisfare altre esigenze ritenute prioritarie, potrebbero portare a negarle un posto nel generale processo educativo medio superiore. 3. Altrettanto singolari appaiono le perplessità espresse sul valore formativo dell’insegnamento filosofico, sull’idea cioè che esso educhi, o possa educare, allo spirito critico, che aiuti a formarsi visioni del mondo consapevoli e unificanti, che contribuisca a sviluppare la capacità di argomentare e di vagliare le affermazioni altrui e così via. Contro questa idea, alcuni hanno fatto osservare - in modo più canzonatorio che argomentato - che spesso sono proprio i filosofi a non eccellere in spirito critico nel campo della loro disciplina e magari in altri ancora. Ma il problema, naturalmente, non è quello di determinare quanto spirito critico sia capace di ‘sprigionare’ questo o quel docente di filosofia rispetto, poniamo, al docente di matematica o a quello di letteratura italiana. Pare ovvio che possano esserci 7 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao insegnanti di filosofia ottusi e dogmatici e insegnanti di scienze naturali o di materie letterarie intelligenti e mentalmente aperti. Chi sostiene il valore critico dell’insegnamento filosofico intende riferirsi al patrimonio concettuale della disciplina così come esso si trova consegnato nei grandi classici del pensiero. E che la filosofia, intesa in questo senso, sia stata depositaria di una forte dose di spirito critico e di consapevolezza argomentativa può essere negato solo da chi, evidentemente, non è in grado di apprezzare tali caratteri in tutta la loro forza pur storicamente documentata. Che poi se ne contrasti l’insegnamento sostenendo che lo spirito critico non è indispensabile perché ci sono molti valenti scienziati, letterati, uomini d’affari che non ne posseggono affatto è affermazione che, se anche fosse vera (del che tendo a dubitare), proverebbe ben poco: sarebbe come contestare l’insegnamento a tutti delle quattro operazioni o della lingua italiana per la ragione che ci sono sempre stati braccianti o manovali che facevano ottimamente il loro mestiere senza disporre di quelle cognizioni. 4. Infine, vi è un’ultima considerazione che dovrebbe rendere attenti alle sorti riservate all’insegnamento della filosofia. In uno dei libri più interessanti usciti in questi ultimi anni sui problemi della scuola, Lucio Russo ha mostrato come una delle tendenze maggiormente deprecabili dell’attuale andazzo pedagogico sia quella verso una scuola «per consumatori». Nella sua prospettiva, ciò significa una scuola caratterizzata da una forte avversione per l’astrazione e quindi tesa ad eliminare «dall’insegnamento gli strumenti intellettuali tradizionalmente basati sull’uso di concetti teorici». Di contro a questo orientamento, egli fa osservare che “in realtà lo studio della scienza esatta, e in particolare della fisica, non può basarsi né sulle ‘forme d’intelligenza intuitiva e immaginativa’ che piacciono tanto ai nostri ‘saggi’, né sulla percezione delle “rappresentazioni mentali” immaginate dai nostri esperti di tecnologie didattiche. La scienza esatta si è anzi sviluppata, sin dall’antichità, proprio superando l’illusione di poter costruire semplici schemi intellettuali basati direttamente sulla realtà percepibile ed elaborando faticosamente i linguaggi astratti e teorici suscettibili di descrivere non solo il mondo sensibile, ma infinite realtà progettabili”. 3 8 Unione Europea: e la nave va… La riaffermazione dell’identità epistemologica della filosofia e la sua ripercussione nella pratica del suo insegnamento nelle scuole, così come sopra sommariamente delineate, ci permettono di affrontare, come enunciato nel titolo di questo scritto, il rapporto tra insegnamento della filosofia e educazione europea. Prima, però, di delineare nello specifico il modello di filosofia funzionale alla formazione del cittadino europeo, idoneo ad affrontare le sfide che provengono dalla realtà geopolitica europea d’oggi, è opportuno delineare l’attuale quadro di quest’ultima. Considerando l’attuale complessa situazione geopolitica europea viene spontaneo in mente il ricordo del bellissimo film surrealista del grande regista Federico Fellini dal titolo E la nave va, in cui si narra l’odissea di un gigantesco transatlantico che naviga in tempestosi mari artificiali, che conserva nelle sue viscere ogni genere di passeggero, senza giungere mai alla sua destinazione portuale. Oggi l’U.E. può essere immaginata, appunto, ad una Nave in un mare tempestoso, disorientata, che fa fatica a trovare una sua giusta direzione. Nonostante questa situazione, che spesso è denunciata come una malattia mortale, i Paesi che ne fanno parte non abbandonano la nave, anzi ad essa si avvicinano nuovi passeggeri, trasportati da imbarcazioni di ogni tipo, che chiedono con insistenza di salire a bordo. Forse un’immagine più calzante all’attuale quadro europeo è la famosa Corazzata Potemkin che ben evidenzia il contesto navale in cui un’imponente nave da guerra ( la corazzata ) è circondata da tanti bastimenti con capienza e tonnellaggio diversificati, che agitano allegramente banderuole per richiamare l’attenzione della corazzata. A prescindere da immagini coreografiche, entrando più nel merito della riflessione in atto sullo status dell’U.E. in funzione di un modello di educazione europea realizzabile tramite la filosofia, è prioritario chiedersi qual sia l’immagine dominante che le Comunità facenti parte dell’Europa hanno di se stesse? In termini sintetici si può dire con cognizione storica che l’immagine forgiata dall’immaginario collettivo delle diverse comunità che fanno parte dell’U.E. è e continua ad essere quella di Stato Nazionale, ovvero di spazio pubblico in cui un insieme di etnie legate tra loro da legami di nascita, di proprietà della terra e, in genere, di natura sociale, è retto da leggi che regolano i loro diritti e doveri tramite soggetti collettivi, come lo Stato, con strumenti aggreganti in miti che veicolano valori di stampo universale, come ‘responsabilità’ dell’individuo nei confronti del gruppo etnico; Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 3 L. Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 1998, pp.26, 97-98 Francesco Paolo Firrao 4 J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 1998. ‘emancipazione’ della natura sia interna che esterna del gruppo etnico; ‘dignità’ per sottolineare l’inalienabile differenza di ciascun individuo dagli altri e dall’Altro in senso neutro ed ampio. In altri termini nell’immaginario collettivo domina il senso della propria Libertà garantita da valori che rimandano alla propria appartenenza etnica, alla propria rappresentanza politica statale ed ai grandi valori socialmente e politicamente aggreganti. Soffermandoci un po’ con spirito critico sui valori costitutivi dello Stato nazionale non possiamo non annotare che essi si basano sulla differenza e sulla separazione etnica, naturale e sociale; che essi non garantiscono relazioni internazionali tra gli Stati. Il sogno degli Stati Uniti d’Europa è espressione del timore che le individualità nazionali possano dare origine a conflitti bellici; è un sogno che lentamente e progressivamente tende a trasformare i diversi ‘popoli’ in unico spazio comune pubblico, in un’Europa immaginata come la denomina Montesquieu: una nazione di nazioni. Uno stato costruttore di un Io comune che non si traduce mai in una realtà concreta; che è piuttosto un faro che da molto lontano, tanto da essere immerso nella nebbia e da essere invisibile ad occhio nudo, guida la nave e tutte le imbarcazioni che tentano di seguirla nel suo girovagare in cerca della corretta rotta.E’ ancora giovane l’U.E. per essere una nave capace di costruire intorno a sé una flotta: E la nave va. Per una filosofia inter-culturale Quale modello educativo, oggi, per la formazione del cittadino europeo? Come la filosofia, sia come forma di sapere, ricerca di risposte ai problemi su cui s’interroga da sempre l’uomo, ogni singolo uomo, sia il suo insegnamento, al di là dei differenti sistemi scolastici in cui essa è collocata, può contribuire alla formazione della coscienza europea, di appartenenza alla comunità europea? Sono queste le domande a cui si deve dare una risposta che eviti il rischio di rendere un modo di pensare o d’insegnare, praticato in uno degli Stati dell’U.E. superiore o inferiore all’altro. Perché questo rischio non si realizzi è necessario assumere come punto di riferimento un punto valoriale che ci permetta di riflettere al di là di particolari posizioni filosofiche teoretiche o pratiche, ontologiche, metafisiche, politiche, metaforicamente immaginabili come lottatori in un ring di box. Non poniamo l’attenzione sui lottatori, ma sui confini che permettono loro di muoversi in un campo ben limitato entro cui il loro confronto si svolge con regole e procedure senza le quali esso sarebbe una battaglia sfrenata con il rischio del loro totale annientamento. Qualsiasi proposta etica o giuridica dovrebbe assumere sempre come suo principio di base quello che J. Habermas indica come “universalismo sensibile alle differenze”4, dando un senso nuovo all’eurocentrismo, che ne corregga quello tradizionale di appropriazione di culture storicamente differenti. Al tiranno Periandro del VII – VI sec. a. C. è attribuito un detto che potrebbe suggerire un punto di vista funzionale ad un nuovo universalismo non solo eurocentrico, ma anche globale: il detto in lingua greca dice “ Meleta to pan “ che tradotto vuol dire “ bada al tutto”, “abbi cura del tutto”. E’ l’invito all’uomo a prendersi cura del mondo, stabilendo con esso rapporti senza assumere atteggiamenti di dominio, di affermazione di sé, come potrebbe far intendere il detto socratico ‘conosci te stesso’ di fronte al mondo. La differenza sostanziale del presupposto per un neo-eurocentrismo universale non si concretizza più nel conoscersi di fronte al mondo, bensì nel prendersi cura del mondo, ovvero nell’inter- medietà con il mondo. E’ quest’ultimo un carattere dell’essere uomo che, onde evitare equivoci, andrebbe meglio chiarito. Oggi si parla spesso di ‘inter-cultura’ affiancata a volte a ‘multicultura’. Il senso dell’inter-medietà dell’uomo con il mondo va affiancato a quello di ‘inter-cultura’, in cui quest’ultimo termine, cultura, va intesa come ciò che esprime la ‘cura’ degli uomini verso il mondo. 9 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Francesco Paolo Firrao Quella ‘cura’ che è tradizione intesa come trasmissione di ciò che si tramanda come messaggio da leggere ed interpretare, per cui il rapporto con la cultura è un rapporto con la tradizione che c’è, ma che attende di essere interpretata. Il rapporto interculturale, così concepito, esprime il rapporto interno alla cultura, alle culture, che si concretizza per l’uomo in una medietà sempre aperta con il mondo, con la ‘mondità del mondo’ che ha il suo luogo privilegiato nel linguaggio. Capire è interpretare; ed interpretare è entrare in contatto vivo con il messaggio, con il linguaggio dei topoi interculturali, ossia con i luoghi dell’interculturalità: il politico, l’arte, la religione, la scienza, l’assistenza sociale, l’istruzione, il corpo, l’economia, la guerra, la pace, la nazione. Nel circuito ermeneutico interculturale il soggetto, il singolo uomo, entra a far parte di una dinamica dialettica in cui la sua identità si ridefinisce continuamente in dimensioni sempre più ampie, riaffermando la propria entità umana, ovvero la propria libertà che rende uomini tutti gli uomini. E’ la libertà, il valore posto a fondamento di tutti i modelli formativi non solo europei, su cui si costruiscono storicamente e culturalmente i sistemi educativi.Solo nella libertà gli uomini possono con – vivere, altro dall’incontrarsi, consapevoli che la loro reciproca libertà può trasformarsi nel suo opposto, creando padroni e servi, dominatori e dominati, potenti e sottomessi. Nel 1924 il poeta francese Paul Valery nel suo saggio L’Europeo scrive “E’ degno di nota il fatto che l’uomo europeo non sia definito dalla razza, né dalla lingua, né dai costumi, ma dai desideri e dall’ampiezza della volontà”5. Che cos’è libertà se non desiderio di incontrarsi con l’Altro per convivere ideali, sogni; volontà di costruire un mondo sempre più umano? Come? ‘[….] attraverso un eroismo della ragione’ 6 dice Husserl nella sua conferenza del 1935 su La crisi dell’umanità europea e la filosofia. Una ragione non più dettata dalla volontà di potenza, ma dall’ampia volontà di costruire un’identità nazionale con eguale valore delle differenti culture nazionali e luogo di una produzione di senso collettivamente vincolante nel contesto delle società nazionali, capace di convergere le politiche verso una cultura politica comune per una società europea di cittadini responsabili verso tutti e non solo verso coloro che appartengono alla loro razza: comunità nazionale. Come passare dalla cultura illuminata e illuministica alla cultura al mondo, all’interculturalità; da un cultura che si pone come unica interprete delle culture in quanto portatrice di verità illuminante, ad una cultura aperta alla comprensione del senso di cui tutte le culture sono portatrici con il fine di creare un tessuto culturale comune su cui ritagliare identità sempre più aderenti ai cambiamenti globali? Tramite un tessuto composto, da un lato dai fili dell’ordito, accuratamente teso, che corrispondono alle numerose culture nazionali con la loro precisa identità e che affondano le proprie origini in un passato remoto; dall’altro, dai fili della trama del pensiero che tramite la comprensione della lingua dell’altro e la traduzione da una lingua all’altra evince il linguaggio del mondo. In altri termini la trama che relaziona in un Tutto comune nella diversità originaria non può non essere la cultura in colloquio in cui il mondo ci parla in tutti i sensi senza essere mai nessuno di essi. Un mondo che è ‘medietà’, che non è una dimensione, ma dà dimensioni; definibile con l’es gibt, ‘si sa’, con cui Heidegger sottolinea la modalità con cui prendono forma i rapporti fra cielo e terra, fra uomini e dei, fra parola e cosa. Come scrive il filosofo spagnolo Josè Ortega y Gasset nel 1930 in La ribellione delle masse: “Se oggi dovessimo fare l’inventario del contenuto della nostra mente - opinioni, principi, desideri, supposizioni – scopriremmo che la gran parte di esso non deriva dalla Francia per il francese, né dalla Spagna per lo spagnolo, bensì dal comune sostrato europeo” 7. Sostrato, ovvero che sta sotto, che è nella comune radice culturale in continua espansione, in profondo divenire. 10 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 5 Mosè, Platone, Dante, Il cuore dell’Europa, di Trichet Jean Claude, in Corriere della Sera, 9 agosto 2009 6 Trichet Jean Claude, idem 7 Trichet Jean Claude, idem Francesco Paolo Firrao 8 H. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, trad. it. a cura di E. Filippini, il Saggiatore, Milano, 2000, pp. 347 – 348 Trichet Jean Claude, Mosè, Platone,Dante. Il cuore dell’Europa in Corriere della Sera, 9 agosto 2009 In conclusione si può rispondere al tema del titolo della relazione affidatami, che la medietà come iter-medietà della comunicazione, come la cultura in colloquio con il passato per captare alle radici il presente e, quindi, proiettarsi verso il futuro, inteso come realtà da costruire sulle fondamenta storiche di una cultura trasmessa e sempre oggetto di nuove più critiche interpretazioni, trova nell’identità epistemologica della filosofia la sua espressione culturalmente più adeguata. In un insegnamento della filosofia che ha il suo carattere dominante nel dialogo tra studenti e docenti, in cui dominanti, anzi esclusivi siano i problemi e tramite questi i filosofi con i loro testi, in un’ottica aperta che rimette tutto in discussione in quanto l’obiettivo formativo non è l’apprendimento di una nozione, bensì l’acquisizione di un proprio punto di vista con cui rivolgersi al mondo ben comprendendo che anche quest’ultimo ‘si dà’ culturalmente nella medietà interculturale. Si pensi a quanto scrive il grande filosofo E. Husserl, guida intellettuale di tutto il percorso da noi seguito nella riflessione sui due temi del nostro scritto: “L’Europa non è più un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì uno spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali! […] Infine questi ideali infiniti valgono anche per la sintesi sempre più vasta delle nazioni, una sintesi in cui ciascuna nazione, proprio BIBLIOGRAFIA J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, Roma, 1998. J. Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 198 L. Illetterati, Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didattiche, Utet, Novara, 2007. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 1998 H. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, tr.it. a cura di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 2000, pp. 347 – 348 ) Putnam, Rinnovare la filosofia, Garzanti Libri, Milano, 1998 Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani, 1986 L. Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 1998 per il fatto di perseguire il proprio compito ideale nello spirito dell’infinità, offre alle altre ciò che ha di meglio. Attraverso questa offerta e la sua accettazione si amplia e si innalza la totalità sopranazionale, con tutte le società che si articolano in essa, colma dello spirito di un compito superiore e articolato in una molteplicità infinità, l’unico tuttavia che sia infinito” 8 Conclusione Il filo rosso, che ci ha guidato in queste riflessioni sull’insegnamento della filosofia in Italia e sul suo contributo ad un’educazione europea del futuro, ha come suo principio di fondo la convinzione che il continente europeo ha un’identità, tutta da ridefinire, che va oltre i suoi incerti e fluidi confini geografici; che questa identità non può non essere un’identità riflessiva: l’Europa non può esistere a prescindere da un ‘sapere’ sull’Europa, da un’< eurosofia >.Da un sapere all’interno del quale la filosofia svolge un ruolo centrale, accanto ad altri saperi, nelle costruzione di un’identità condivisa e comunque condivisibile In questa prospettiva filosofica la specificità delle diverse tradizioni di pensiero s’inserisce e si valorizza all’interno di una comune tradizione, capace di dar vita ad uno spazio culturale aperto e condiviso, in cui le identità culturali di tutti e di ciascuno si afferma in un’unica identità aperta alle sollecitazioni che provengono dall’altro da sé e allo stesso tempo aperta alla radice comune che rende possibile il loro legame. La Radice europea è nella comune capacità di dialogo, che ha segnato la lunga, tortuosa e spesso cruenta storia culturale europea. Tutto questo non può non essere filosofia: Eurosofia. 11 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Donato Maraffino Libertà e servitù volontaria La fortuna del Discorso di Etienne de La Boétie di Donato Maraffino Donato Maraffino, docente di storia e filosofia presso il liceo scientifico G.B.Grassi diLatina, impegnato nell’ambito della riflessione e ricerca di filosofia morale e saggista di storia della mentalità e della medicina; responsabile di diverse iniziative editoriali, di approfondimenti tematici. 9 La Boétie, nacque a Sarlat, il 1º novembre 1530 e morì a Germignan, il 18 agosto 1563 10 Per un’ampia bibliografia sulle traduzioni e commenti del Discorso cfr. Un ambigua utopia repubblicana di Enrico Voccia (http://it.scribd.com/doc/ 6531339/Etienne-de-laBoetie-Discorso-sullaservitu-volontaria ) e Nicola Panichi, Plutarchus redivivus? La Boétie e i suoi interpreti, Isituto Italiano Studi Filosofici, Napoli, 1999. 11 In questo saggio abbiamo utilizzato la traduzione di Luigi Geninazzi, Etienne De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Milano,1979. Per economia di spazio eviteremo il continuo riferimento al testo di Geninazzi, dando per inteso che tutti i passi sono selezionati dalla sua traduzione. 12 Vedi Essais, Montaigne Michel de, a cura di Fausta Garavini, Milano, 1966 1. Introduzione L a fortuna del Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie9 è stata quantomai incerta: pamphlet amato e odiato a seconda delle stagioni civili e variamente interpretato nelle sue finalità politiche già a pochi anni dalla sua pubblicazione che avvenne dopo il 1570, nella Francia attraversata dalle guerre di religione. Affidato in punto di morte dall’autore alle amorevoli cure del suo amico Montaigne, finì, non si sa come, nelle pubblicazioni ugonotte prima, cattoliche poi, al punto che lo stesso Montaigne, nel tentativo di mettere forse al riparo la persona dell’amico dalla damnatio memoriae, evitò di inserirlo negli Essais. E da allora fino alla II guerra mondiale e oltre, una lunghissima querelle interpretativa ne ha alcune volte esaltato, altre oscurato, la vita editoriale, tanto che lo stesso titolo dell’opera, ha subito più volte modifiche, come attestano sia le edizioni in lingua francese che quelle italiana, inglese e tedesca.10 Il tentativo di Montaigne di evitarne uno stravolgimento interpretativo, non ha potuto impedirne una lettura e divulgazione antimonarchica, antiassolutista tanto da timbrarne irreversibilmente e indelebilmente i caratteri di saggio rivoluzionario con il fuoco illuminista e rivoluzionario del 1789, repubblicano risorgimentale nell’800 poi e addirittura anarchico nel 1920. 12 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Questa divulgazione ne ha invece oscurato la bellezza e l’eleganza, quale componimento di argomentazione morale, come si doveva attribuire ad un testo che al suo centro pone la seguente domanda metapolitica: “Così dunque se ogni essere che ha sentimento della propria esistenza vive l'infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli animali, che pur sono fatti per servire l'uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l'uomo, l'unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?” 11 Dal testo sgorgano le annotazioni sui vizi umani, della disponibilità all’autoinganno, alla finzione, all’indolenza, all’assuefazione, alla creduloneria, all’ambizione, alla cortigianeria, in una sorta di disegno fenomenologico della mentalità e dei comportamenti servili, che, ed è qui la straordinaria sua attualità, creano le condizioni non della formazione dell’istituzione monarchica, ma della sua trasformazione tirannica. Etienne de La Boétie elabora così un pensiero controcorrente rispetto alla giustificazione contrattualistica e giuridica della nascita del potere assoluto del suo tempo, delineando una sorta di analitica dei sentimenti e dei comportamenti che vuole spiegare le derive tiranniche e assolutistiche della società e la conseguente crisi dei corpi intermedi che per lunghi secoli erano la base dell’equilibrio fra il potere centrale e le autonomie comunali e territoriali. E quanto questo approccio sia anche utile nel decifrare gli enigmi della democrazia e della formazione del consenso oggi è facile comprenderlo dalle suggestioni o dai rinvii che propongono le categorie disseminate nel Discorso, che passeremo in rassegna e che vogliamo proporre al Lettore. 2. Il tempo del Discorso di Etienne de La Boétie Se si presta fede alle affermazioni del suo amico Montaigne, Etienne de La Boétie scrisse il Discorso tra il 1546 e il 1552.12 La genesi dell’opera è quindi collocabile nel periodo iniziale delle lotte religiose tra calvinisti e cattolici che sconvolsero il Regno di Francia tra la fine del governo di Enrico II e di Francesco II. Donato Maraffino 13 Vedi Charles Thilly, La Francia in Rivolta, Napoli, 1990 14 Goulart Simon, Contr’Un, Mémoires de l’Estat de France sous Charles Neufiesme (…), edizione clandestina, 1576 e Eusebe Philadelphe, Le Réveille-matin de Français et de leurs voisins, edizione clandestina, 1974; successive edizioni avvennero nel 1578 e 1579. (immagine) Hanging of Anne du Bourg 1521-59 Place de Greve; http://www.artchive.com /web_gallery/F/FranzHogenberg/Hanging-ofAnne-du-Bourg-1521-5 9-Place-de-Greve.html 15 Prova ne è la prima copia del manoscritto De Mesmes fatta da Henry de Mesmes e Claude Depuy, amici di Montaigne, in data incerta ma prima delle pubblicazioni di cui a nota precedente. 16 Essais, Montaigne Michel de , a cura di Fausta Garavini, Milano, 1966 In realtà, se è innegabile la crescita del numero degli ugonotti francesi negli anni ’30, è il periodo degli anni quaranta e cinquanta, quello che vede lo sviluppo del calvinismo francese e gli scontri violenti con i cattolici in un crescendo di attentati a esponenti del “partito” ugonotto e, all’opposto, la distruzione delle reliquie, delle immagini devozionali, oltre che la contesa sull’uso delle chiese. Alla fine del regno di Enrico II, il conflitto si radicalizzò e nel 1559, dopo la morte del re, le diverse famiglie della nobiltà si schierarono in alleanze funzionali alle loro ambizioni e credi religiosi. Ma se si vuol fissare un evento come spartiacque in questo periodo di lotte civili e religiose questo è sicuramente la rivolta della Guienna e di Bordeaux contro l’aumento delle tassazioni regali del 1548 e la tendenza alla centralizzazione fatta di tassazioni aggiuntive, rafforzamento degli eserciti e cancellazione delle autonomie medioevali. L’estensione della tassa sul sale dalle province settentrionali a tutto il regno inoltre provocò la rivolta delle comunità e spesso la messa in fuga dei gabellieri del Re.13 Questo tentativo di centralizzazione si rivelò quindi difficile, perché intrecciato con la rivolta religiosa ugonotta nelle aree sud ovest della Francia e in alcune città commerciali e manifatturiere come appunto Bordeaux. La reazione del Sovrano fu terribile, con centinaia di morti e la soppressione delle autonomie cittadine. Spesso la rabbia popolare si rivolse contro gli esecutori degli ordini regali, quella nuova borghesia degli affari che assumeva cariche pubbliche dal sovrano con l’obiettivo di dare certezza al prelievo fiscale e sopperire alle spese militari necessarie nelle guerre all’estero. In questo contesto si svolge la vicenda umana e civile di Etienne de La Boétie e l’elaborazione del testo sulla servitù volontaria. La prima e postuma pubblicazione del saggio avverrà parzialmente solo nel 1574, dopo più di venti anni dalla morte dell’autore e dopo il massacro della Notte di S. Bartolomeo (1572). E non ci sembra casuale che tali pubblicazioni avvennero ad opera di protestanti francesi e svizzeri14. In questo lasso di tempo quindi è avvenuta la costruzione interpretativa del Discorso come pamphlet antiassolutista e rivoluzionario. E’ quindi possibile che esso sia circolato di mano in mano in diversi ambienti politici e religiosi o negli schieramenti degli aderenti alle famiglie nobiliari in lotta.15 Infatti, Montaigne negli Essais fa riferimento al Discorso nel tentativo di correggere la vulgata interpretativa ugonotta affermando: “E' un discorso che egli chiamò "La Servitude volontaire"; ma quelli che non l'hanno conosciuto, l'hanno in seguito assai impropriamente ribattezzato "Le Contr'un". Lo scrisse a mo' di saggio, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni. Da tempo va per le mani delle persone d'ingegno, raccomandandosi per i suoi grandi meriti: perché è fine e succoso quant'è possibile. E tuttavia si deve ben dire che non sia il meglio che egli avrebbe potuto fare; e se all'età in cui l'ho conosciuto, più maturo, si fosse proposto un disegno simile al mio, di metter cioè per iscritto i suoi pensieri, vedremmo parecchie cose di raro pregi (...) Ma di lui non è rimasto che quel discorso, e anche questo per caso, e credo che egli non l'abbia più visto dopo che gli sfuggì dalla penna»16. Perché Montaigne vuole declassare il pamphlet a esercitazione retorica giovanile e contemporaneamente indica il testo come un prodotto delle convinzioni dell’autore? Forse è possibile una risposta tenendo conto in maniera induttiva delle differenti valutazioni degli atteggiamenti morali dei due amici. Ma su questo torneremo più avanti. L’altro scenario da analizzare per comprendere la ricchezza del Discorso deve riferirsi al dibattito filosofico e giuridico apertosi alla fine del ‘400 sulla genesi del potere, sulle norme e i limiti delle libertà e delle autonomie. Con la composizione nel 1513 de Il Principe di Machiavelli, pubblicato per la prima volta nel 1532, inizia il confronto tra la legittimazione religiosa medievale del potere e “l’autonomia” del principe, l’origine e i caratteri del suo governo, specialmente in Francia, dove lo scontro religioso assunse caratteri tragici e quindi la discussione sui limiti del potere diventò più impellente. In questo largo scenario di contrasti assumono particolare rilevanza gli scritti di Bodin Sei libri della Repubblica (1576) e di Giovanni Botero, Della Ragion di Stato 13 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Donato Maraffino (1589) fino all’ideazione del sistema di filosofia politica di Hobbes nel De Cive del 1642 e nel Leviatano del 1651. Sul versante opposto, critico dell’assolutismo nascente, si assiste alla divulgazione dello scritto Politica di Johannes Althusius nel 1603, il De Iure belli ac pacis e il De Veritate religionis christianae di Ugo Grozio, nel 1625-1627 e infine De Jure natura et gentium di Samuel Pufendorf che viene edita nel 1672. Quindi la composizione dell’opera avviene proprio nella fase ascendente della riflessione morale e politica del tempo di fronte al nascere delle prime tendenze assolutistiche, cosa che ci sembra interessante perché la rilettura umanista di Seneca, Epitteto, Cicerone, Tito Livio, Plutarco17 e dei classici greci diventano per de La Boétie un’argomentazione indiretta contro il relativismo morale propugnato dal Machiavelli e il tentativo di sottolineare come i comportamenti dei sovrani non possono essere esclusi dalla valutazione morale in nome di un astratto realismo e della ragion di stato. E’ come se l’autore, nel tentativo di interpretare il nuovo fenomeno dell’accentramento dei poteri riprenda la classica categoria del tiranno e quelle delle libertà delle comunità, delle virtù repubblicane (virtù civiche) e cerchi di spiegare così la condizione di maggiore servitù ed eclissi della libertà del proprio tempo. Se collocato in questo lungo travaglio della filosofia politica si comprende meglio la valenza extratestuale del saggio di La Boétie e, in effetti, a questo contesto, si riferisce lo stesso quando scrive “Ma non voglio ora addentrarmi nella questione così spesso dibattuta se gli altri modi di governare la cosa pubblica siano migliori della monarchia. Se dovessi entrare in merito a tale questione, prima di discutere a quale livello si debba collocare la monarchia tra i diversi tipi di governo, porrei il problema se essa si possa dir tale, dato che mi sembra difficile credere che ci sia qualcosa di pubblico in un governo dove tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro momento la discussione di questo problema che richiederebbe di essere trattato a parte e si trascinerebbe dietro ogni sorta di disputa politica.” Tale atteggiamento contrario al “realismo” di Machiavelli è stato ben rilevato18, ma si deve sottolineare che forse oltre che il diretto confronto con i testi, è l’intensa partecipazione alla vita culturale dell’Università di Orleans (1547-1548) e l’insegnamento del magistrato Anne de Bourg19, a veicolare l’attenzione del giovane autore verso la riflessione sul potere e gli atteggiamenti umani. E’ nel contesto della discussione politico-religiosa del “cenacolo” di de Bourg che probabilmente avviene la maturazione del Discorso e degli atteggiamenti di tolleranza religiosa tra studenti e insegnanti, in 17 Vedi Nicola Panichi, op.cit. 18 un contesto di dialogo e confronto tra persone che sulla riforma calvinista avevano pur posizioni diverse. Durante questa manciata di anni viene eletto a membro del Parlamento di Bordeaux (1557), stringe amicizia con Montaigne, e incontra il cancelliere del regno Michel de l'Hospital che gli affida il compito di emissario conciliatore tra le parti in lotta a Bordeaux e nella zona dell'Agenais (1560), lui che essendo cattolico restava fermamente convinto della necessità di una riforma morale e dei costumi della Chiesa e di un compromesso tollerante della diversità dei riti e delle credenze. L’intensa partecipazione al dibattito sul conflitto religioso è testimoniata dal commento all’editto di Caterina dei Medici del 1562 nel quale si regolava il rapporto tra cattolici e calvinisti francesi. In esso l’autore richiamandosi al contenuto del Discorso e sottolineando il valore delle libertà per tutti, compresa la libertà di culto, commenta favorevolmente il compromesso improntato ad una conciliazione tra esigenze diverse. 3. Servitù volontaria La finalità del discorso, oltre a voler evitare la querelle della genesi del potere e delle sue varie forme, consiste nel voler indagare il fenomeno delle cause della sua trasformazione tirannica e più precisamente nel rispondere al quesito “(…) come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca sopportarlo anziché contraddirlo. E' un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c'è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo del tutto inumano e selvaggio”. 14 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Vedi introduzione di Luigi Geninazzi, Etienne De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Milano,1979 19 Anne du Bourg, “professore di Diritto all’Università di Orléans nonché Consigliere al Parlamento della città di Parigi, era assai noto sia per la sua vasta ed indiscussa cultura giuridica sia per la sua dichiarata fede protestante, che lo portò, di fronte alla persona stessa del re Enrico II, a contestare vivamente la repressione antiugonotta. La sua coraggiosa presa di posizione gli costò la vita: nel 1559 venne condannato all’impiccagione ed il suo corpo fu successivamente bruciato.” In Enrico Voccia, Un’ambigua utopia repubblicana , op.cit.,pag.5 (immagine) The Calvinist Iconoclastic Riot of August 20 1566, 1588; http://www.artchive.com /web_gallery/F/FranzHogenberg/The-Calvinist-Iconoclastic-Riot-of -August-20-1566,1588.html Donato Maraffino E in questo passaggio è già evidente come l’autore voglia analizzare non esclusivamente i mezzi e le modalità dell’edificazione di una tirannide, ma sondare la dinamica più profonda dei comportamenti sociali e morali dei sudditi che possa spiegare tali trasformazioni e le modifiche delle relazioni tra libertà personali e coscienza, in quella tendenza alla dimenticanza di un bene supremo, la libertà appunto, a favore dell’esaltazione di altri “beni” che, siccome meno importanti, non qualificano la natura umana. Così gli uomini si dispongono all’accettazione del servaggio: “In una sola cosa, non so come mai, sembra che la natura venga meno così che gli uomini non hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà, un bene così grande e dolce che una volta perduto vengono dietro tutti i mali, mentre tutti i beni che solitamente l'accompagnano, corrotti dalla servitù, non hanno più né gusto né sapore”. Tale “devianza” antropologica che appare a Etienne de La Boétie connaturata anch’essa all’uomo, non avviene però casualmente, ma attraverso una concomitante presenza di stimoli contrari alla vera libertà che si condensano nei vizi. E’ proprio la presenza di questi vizi che, pur se originati dalle paure umane, sono stimolati e usati dal potente per creare prima e rafforzare poi, le abitudini e i “riti” servili. 4. Abitudine e assuefazione tale fenomeno attraverso la descrizione di due tendenze: la prima relativa ad un movimento quasi meccanico, quello delle abitudini alla sottomissione, ritmato dai passaggi delle generazioni e quindi dalla dimenticanza della libertà, la seconda quello stabilizzarsi di tale dimenticanza attraverso l’estinguersi dell’immaginazione creativa (sollevare lo sguardo un poco in avanti) e l’incapacità di pensare uno status diverso da quello di sudditi. “Ma è anche vero che la consuetudine, la quale ha un grande influsso su tutte le nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto nell'insegnarci a servire, e come Mitridate che si abituò a bere il veleno, ci rende alla fine assuefatti a trangugiare normalmente il veleno della servitù senza sentirne l'amaro”. E più avanti “E nessuno crederebbe come un popolo, dopo essere stato sottomesso, sprofondi subito in una tale dimenticanza della libertà che non gli è più possibile risvegliarsene per riacquistarla, ma serve così di buon grado il tiranno che a vederlo si direbbe non già che ha perso la sua libertà ma che si è guadagnato la sua servitù”. In questo contesto la forza e la violenza primitiva del potere spiega solo l’incipit della tirannide così si può affermare che: “E' pur vero che all'inizio l'uomo serve a malincuore, costretto da forza maggiore; ma quelli che vengono dopo, non avendo mai visto la libertà e non sapendo neppure cosa sia, servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza”. Accanto all’abitudine si colloca l’assuefazione. Tale condizione è insieme conseguenza naturale della dimenticanza della libertà e effetto dell’azione consapevole del tiranno che stimolando l’uso smodato dei beni secondari, rende la servitù sociale una condizione normale. Dalle parole dell’Autore si deduce come oltre alla mentalità servile, si deve quindi strutturare una “coscienza del signore” centrata sul sentimento di superiorità e di ipervalutazione del bene-potere. Così La Boetie finisce per toccare un punto critico del realismo di Machiavelli ovvero l’insindacabilità delle decisioni del Principe circa il bene comune e quindi l’assenza dei limiti morali nell’esercizio del potere. Ma, mentre il giusnaturalismo contrattualista, spiegherà la dittatura come conseguenza dell’assenza dei limiti giuridici nell’azione del sovrano, il nostro autore vede tale situazione come conseguenza di una degradazione morale. Tant’è che la tirannia la vede possibile come forma di potere in ogni stato, ogni società poltica e relazione umana. Una funzione particolare in questa analisi riveste l’abitudine e il conseguente feno- 5. Autoinganno e creduloneria Un altro sentimento che costituisce meno dell’assuefazione. Etienne de La Boétie passa puntigiosamente in rassegna l’humus dell’atteggiamento servile è 15 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Donato Maraffino l’autoinganno, ovvero quel movimento interiore spesso condiviso o contaminante che consiste nell’investire gli altri di capacità e sentimenti diversi da quelli reali, creandosi una convinzione della loro superiorità più spinti dall’incertezza che dalla razionalità dei fatti. Così: “Per inganno gli uomini perdono sovente la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da altri, più spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi”. E quando gli eventi sembrano confermare le “credenze” ecco che si crea un’aureola di mistero e si attribuiscono alla persona del sovrano capacità taumaturgiche. “E' davvero pietoso ricordare quanti stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani di un tempo per impiantare la loro tirannia, di quali mezzucci si siano serviti trovandosi davanti una plebaglia fatta apposta per loro (…). E che dire di un'altra bella favola che i popoli antichi prendevano per oro colato? Essi credevano fermamente che l'alluce di Pirro re dell'Epiro facesse miracoli e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi a voler rincarare la dose, erano convinti che quel dito, quando alla morte di Pirro ne venne bruciato il corpo, fosse sfuggito al fuoco e si fosse ritrovato integro in mezzo alle ceneri. Così il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi poterci credere”. Inoltre facendo leva sulle paure e l’insicurezza e la necessità di protezione “Gli imperatori romani non dimenticavano neppure di assumere comunemente il titolo di tribuno del popolo(..) In questo modo, con il favore dello stato, si garantivano la fiducia del popolo come se quest'ultimo dovesse accontentarsi del nome,senza sentire gli effetti concreti della tirannia. E oggi non si comportano molto meglio coloro che ogni qualvolta compiono un crimine, anche molto grave, lo ammantano di qualche bel discorso sul bene comune e sull'utilità pubblica ”. E non solo l’immaginario popolare si è costruito questi poteri straordinari, ma anche raffinati giuristi del tempo teorizzavano anche che quando il sovrano è cadavere, fino al compimento del rito di passaggio della sovranità, questa permane come una seconda natura che non si estingue con il suo ultimo respiro ma permane in un “secondo corpo”.20 E se tali considerazioni valgono per i sovrani, è facile immaginare come tali poteri si potevano attribuire ad un tiranno tanto da fargli concludere che: “(…) è per suo amore che andate così coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad affrontare la morte. Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un corpo e niente di più (…). Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali calpesta le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco”? 6. Spettacoli, gratitudine e convenienza. Inoltre, perché il processo di consolidamento degli atteggiamenti servili si compia è necessaria una sorta di convergente uniformità: “Ma per tornare all'argomento da cui non so come mi sono lasciato deviare, non s'è mai dato il caso che i tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo all'obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il popolo più grossolano e ignorante. Ma ora arrivo al punto che a mio avviso costituisce l'origine nascosta del dominio, il sostegno e il fondamento della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le sentinelle, le squadre di ronda proteggano il tiranno secondo me si sbaglia di grosso. Credo che gli siano d'aiuto più come cerimoniale o come spauracchio che non per la fiducia che dovrebbe avere in tutto questo apparato di difesa”. Non solo. Ma perché lo spirito di libertà si perda, i tiranni sono i più solerti ad usare spettacoli, giochi e feste per stimolare la distrazione del popolo “Ed è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull'istante alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali esotici, esposizioni di medaglie e di vari dipinti, e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l'esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo”. Così paragonando il presente al passato l’autore riporta l’evento di quando “Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un attimo ai suoi voleri; ma non volendo distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi di guardia un esercito, per garantirsene la sottomissione, ricorse a questo espediente: vi fece collocare bordelli, taverne e giochi pubblici e bandì un'ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne uso come volevano. E questa specie di guarnigione gli rese così buon servizio che da allora non ci fu più bisogno neppure di un solo colpo di spada contro gli abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a inventare ogni tipo di 16 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 20 Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, 2012 “La terza forma di regalità, che subentra a quella giuricentrica, è quella politicocentrica. “Essa si sviluppa quando la nozione di corpus mysticum della Chiesa viene rasposta allo Stato. Conseguenza di questa trasposizione è l’attribuzione allo Stato, in quanto persona ficta, delle prerogative dell’universalità e dell’immortalità. La sacralizzazione dello Stato e la mistica della Patria che ne risultano si modellano sul martirologio cristiano e fondano la pretesa del sacrificio delle vite individuali nel suo nome. Per completare questo modello è necessario aggiungere unulteriore elemento. Un re mortale non può infatti essere il capo di un corpo politico che la finzione vuole immortale. Il sovrano dovrà dunque essere a sua volta immortale. Per fondare la credenza in questa ulteriore finzione, si sviluppano, nella giurisprudenza e nel rituale, diversi elementi: l’idea della continuità dinastica, modellata sulla funzione dell’incoronazione del papa; la finzione della corona come entità autonoma e stabile, al di là dell’avvicendarsi di diversi sovrani sul trono; e infine, la nozione di dignità regale, che deve assicurare la coesistenza tra il corpo naturale del re e il suo corpo politico.” Dai due corpi del Re al corpo assoggettato, di Massimo Mezzanzanica, Università degli Studi dell’Insubria, Varese, Como Donato Maraffino gioco a tal punto che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi, trassero dal loro nome il termine "ludi". Così La Boètie può amaramente concludere che: “Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura”. E “Non vi è uccello che si lasci prendere così agevolmente nella pania o pesce che abbocchi in fretta all'amo quanto facilmente si facciano allettare dalla schiavitù tutti i popoli appena ne avvertono il più leggero profumo sotto il naso”. Ma non basta. Perché la società conservi questo stato di sottomissione e conservi gli atteggiamenti servili, bisogna andare ben oltre l’uso della forza perché: “Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere di fanti, non sono insomma le armi a difendere il tiranno; capisco che al primo momento è difficile crederlo ma è così. Sono sempre cinque o sei persone che lo mantengono al potere e gli tengono tutto il paese in schiavitù. E' sempre stato così: questi cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno e, sia perché si son fatti avanti da soli sia perché il tiranno stesso li ha chiamati, sono diventati complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi divertimenti, ruffiani dei suoi piaceri, soci nello spartirsi il frutto delle ruberie. Questi sei personaggi inoltre tengono vicino a sé seicento uomini dei quali approfittano facendo di loro quel che han fatto del tiranno. I seicento a loro volta ne hanno seimila sotto di sé ai quali conferiscono onori e cariche, fanno assegnare loro il governo delle province oppure l'amministrazione del denaro pubblico così da ottenerne valido sostegno alla propria avarizia e crudeltà, una volta che costoro abbiano imparato a mettere in atto le varie malefatte al momento opportuno; d'altra parte facendone di ogni sorta questi seimila possono mantenersi solo sotto la protezione dei primi e sfuggire così alle leggi e alla forca. E dopo tutti questi la fila prosegue senza fine: chi volesse divertirsi a dipanare questa matassa si accorgerebbe che non seimila ma centomila, anzi milioni formano questa trafila e stanno attaccati al tiranno (…) Così appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, e non intendo con questa un branco di ladruncoli conosciuti da tutti che in una repubblica possono fare ben poco, sia in bene che in male, bensì tutti coloro che sono posseduti da un'ambizione senza limiti e da un'avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello grande”. Insomma il tiranno, attraverso l’arte della poltica piegata a esigenza della conservazione del potere, deve costruire una fitta rete di convenienze, imperniata sui beni secondari (denaro, benessere familiare, riconoscimenti giuridici, uso della violenza e della prepotenza, privilegi di casta) in una piramide sociale nella quale la mobilità dei collaboratori e quindi le attribuzioni degli onori, dei privilegi e del potere verso l’alto e il basso sono frutto delle sue decisioni. In questo contesto i valori positivi del convivere umano, come l’onestà, l’amicizia o solidarietà, sono stravolti o messi ai margini, tanto che: “(…) il tiranno non è mai amato e non ama: l'amicizia è un nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si mantiene con dei favori ma con l'onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell'altro è la conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. Non ci può essere amicizia dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra loro non vi è compagnia ma complotto: non si vogliono bene ma si sospettano reciprocamente, non sono amici ma complici”. E così “Questi miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno rimangono abbagliati dalla sua magnificenza e attratti da questo splendore si avvicinano, senza accorgersi che si stanno buttando in una fiamma che non mancherà di divorarli, allo stesso modo di quel satiro curioso che secondo un'antica favola vedendo brillare il fuoco trovato da Prometeo ne fu talmente impressionato che si accostò per baciarlo e si bruciò. O come la farfalla, che credendo di trarre chissà quale piacere si avvicina troppo alla fiamma, attratta dal suo chiarore, e ne prova invece l'altra qualità, quella del bruciore”. Insomma, una piramide di potere capace di riproporre in ogni livello la relazione servile e, contemporaneamente, creare una stabilità delle reti di accondiscendenze e l’assuefazione alla perdita di significato della libertà di coscienza e dell’agire etico. 7. Seme di ragione e tirannia “Gli uomini coraggiosi per conquistare il bene che desiderano non temono di affrontare il pericolo; la gente intraprendente non rifiuta la fatica. Invece gli uomini deboli e pressoché storditi non sanno né sopportare il male, né ricercare il bene, limitandosi a desiderarlo. La debolezza del loro animo toglie loro l'energia per arrivare al bene; mantengono solo quel desiderio che è insito nella natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi e agli ignoranti, ai coraggiosi ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino 17 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Donato Maraffino ad avere il desiderio di tutte quelle cose che li potrebbero rendere felici”. E tra tali beni uno emerge per coessenzialità all’uomo: la libertà. Su questo presupposto antropologico La Boétie individua l’uso della ragione, che può mantenere aperta la prospettiva umana del vivere o invece se usata male, farla decadere. “Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla.(…) allora non c'è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo.” così si esprime sin dalle prime pagine Etienne De La Boétie mettendo in relazione poi libertà e ragione quando afferma “Penso di non sbagliarmi dicendo che c'è nella nostra anima un seme naturale di ragione il quale, una volta che sia mantenuto da buoni consigli e abitudini, fiorisce in virtù, mentre a volte non potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo, muore soffocato”. Invece “(…) bisogna credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci in certo modo in un'unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno potesse riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande dono della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre idee ad una comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di stringere sempre più saldamente il vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c'è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo”. Alla fine afferma “E' ben vero che si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù”. Tanto da fargli concludere che: “Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare con lo studio e la scienza; e quand'anche la libertà fosse andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi”. 8. Desistenza morale e non collaborazionismo Dopo questa ampia ricognizione sugli atteggiamenti umani è chiaro che diviene anche per l’autore inevitabile chiarire le modalità di liberazione dalla condizione servile. Verso la soluzione del diritto di resistenza anche violenta, teorizzata dal pensiero medioevale e religioso di fronte ad un principetiranno che attenta al “bene comune” o alla “libertà religiosa”, evocata come giustificazione della rivolta protestante o cattolica, Etienne de La Boétie oppone un profondo scetticismo. Non tanto sul principio in quanto tale, ma, in base agli insegnamenti della storia antica, sulla sua efficacia nell’evitare che dalle ceneri della tirannia non ne nasca un’altra. Al nostro autore preme sottolineare che non è tanto il riconoscimento della possibilità di usare la violenza legittima a cambiare gli uomini, ma una loro autoriforma morale, che nessun potere o contro potere rivoluzionario potrà mai compiere. Quindi per La Boétie è possibile un movimento opposto che potremmo chiamare di desistenza morale. Così per il nostro “Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre più grande e più trova legna più ne brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi sopra dell'acqua, semplicemente non alimentandolo, così i tiranni più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più ottengono mano libera, più li si serve e più diventano potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se non si cede al loro volere, se non si presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza colpo ferire, rimangono nudi e impotenti, ridotti a un niente proprio come un albero che non ricevendo più la linfa vitale dalle radici subito rinsecchisce e muore”. E uscendo di metafora l’autore sottolinea che “(…) non c'è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non attribuirgli niente; non c'è bisogno che il paese si sforzi di fare qualcosa per il proprio bene, è sufficiente che non faccia nulla a proprio danno”. Infine, perché si compia fino in fondo l’autoriforma morale, è necessario cambiare non solo le “credenze” e la relazione con il potere, ma soprattutto la disposizione e la relazione verso gli altri orientando il proprio agire al bene. E così con un invocazione civile conclude: “Impariamo dunque finalmente a 18 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Donato Maraffino comportarci bene; ad onore nostro o per l'amore che portiamo alla virtù, o meglio ancora per l'amore e l'onore di Dio onnipotente che è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice delle nostre mancanze, teniamo lo sguardo rivolto al cielo”. 21 Essais, Montaigne Michel de , vol.1.1, cap, op.cit Ora è proprio questa conclusione che si mantiene a metà tra invocazione retorica e naturale conclusione di una opzione etica nell’opposizione alla deriva tirannica, che probabilmente alimentava il confronto tra l’autore e il suo amico Montaigne. E’ innegabile che i legami di amicizia e di vicinanza intellettuale tra Montaigne e La Boétie siano stati profondi, per l’amore verso i classici, per la ricerca del senso morale e civile e nell’analisi dell’animo umano e della storia e della filosofia greca e latina e nel rifuggire da una cultura accademica e formalistica e da un umanesimo retorico. Gli stessi temi ricorrenti nel Discorso di La Boétie, la consuetudine, la natura e la libertà, i vizi umani, li ritroviamo negli Essais. Ma allora qual era la differenza nella valutazione o la divergenza che probabilmente non avrebbe mai fatto scrivere a Montaigne un saggio come quello sulla servitù volontaria? La risposta si può trovare in quella venatura di scettiscismo che percorre tutta l’opera di Montaigne e che nel Discorso non c’è. Basta osservare quello che intorno alla diagnosi delle faccende umane e anche nella relazione tra governati e governanti Montaigne afferma quando parla di abitudine e cambiamenti in un passaggio rilevante degli Essais: “I popoli allevati nella libertà e l’autogoverno considerano qualsiasi altra forma di governo mostruosa e contro natura. Quelli che sono abituati alla monarchia, fanno lo stesso. E qualsiasi possibilità di cambiamento che la fortuna offre loro, persino quando con grande difficoltà si siano liberati dal fastidio d’un padrone, si precipitano a stabilirne uno nuovo con altrettante difficoltà (…)” e più avanti: ”La società non sa che farsene dei nostri pensieri; ma quello che resta cioè le nostre azioni, il nostro lavoro, i nostri beni, e la nostra propria vita bisogna prestarlo e abbandonarlo al suo servizio e alle opinioni comuni” e infine “ E’ molto dubbio che si possa trovare un vantaggio tanto evidente nel cambiamento di una legge già accettata, qualunque essa sia, quanto c’è di male a rimuoverla: poiché un ordinamento pubblico è come una costruzione di diversi pezzi tenuti insieme con tal legame chè è impossibile rimuoverne uno senza che tutto il corpo ne risenta” . 21 In questi passi e nel Discorso, appare evidente come entrambi gli amici rifiutano l’efficacia della violenza nel realizzare i dettati razionali e di libertà e nel cambiare le strutture lunghe delle abitudini delle società. E per entrambi la “dittatura” della pubblica ipocrisia del potere va di pari passo con la resistenza dei vizi umani. Ma mentre Montaigne ne conclude uno scetticismo che lascia come sola opzione la libertà di ricerca nell’interiorità, la “separatezza civile”, anche quando si è impegnati per “il bene comune”, La Boétie rivendica anche, e in più, una possibilità: un movimento di negazione morale che ridia spazio al seme di ragione che è in noi, che cresce con la libertà, prima di tutto e per dare senso al tutto. 19 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Maria Letizia Parisi I sette saperi per il futuro Edgar Morin e la riforma educativa di Maria Letizia Parisi Maria Letizia Parisi, fino al 2011 docente di storia e filosofia presso il liceo scientifico G.B.Grassi di Latina. Attualmente presidente della sezione di Latina della S.F.I. Il campo di interesse e indagine in cui opera è la filosofia della scienza e gli approfondimenti tematici sulla filosofia della conoscenza del ‘900. 1. La necessità di una nuova etica E dgar Nahoum detto Edgar Morin (Parigi, 8 luglio 1921) è un filosofo e sociologo francese. Nella sua vita è stato testimone e partecipe degli eventi storici che hanno caratterizzato il “secolo breve”: è in Francia durante l’invasione tedesca; è tenente delle forze combattenti nella Resistenza, dove adotta il nome di battaglia di Morin, che preferirà rispetto al cognome vero; prende parte alla liberazione di Parigi nell’agosto del 1944; nel 1955 anima un comitato contro la guerra in Algeria; nel 1968 è coinvolto nelle rivolte studentesche di quel periodo e scrive una prima serie di articoli per Le Monde e una seconda serie intitolata "La rivoluzione senza volto". Nel 1969 trascorre un anno al Salk Institute a La Jolla, California, dove entra in familiarità con la rivoluzione negli studi di genetica iniziata con la scoperta del DNA; queste influenze culturali contribuiranno alla sua visione combinante cibernetica, teoria dell'informazione e teoria dei sistemi; nel 1983, in una sua analisi del comunismo sovietico, anticipa la Perestrojka di Michail Gorbacev. Questi ed ancora altri episodi della sua vita lo hanno accompagnato verso la convinzione di dovere operare per l’avvicinamento del mondo accademico a quello della formazione e contro la frammentazione della ricerca, condizione questa che non permette di rispondere alle necessità di un mondo globalizzato. Morin sostiene che da sempre la cultura è stata scissa in due grandi blocchi: quello umanistico e quello scientifico, per cui il primo affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani e sul sapere in generale, mentre il secondo, ritagliando nella ricerca i campi della conoscenza, genera straordinarie scoperte senza riflettere però sul destino umano e sul divenire della scienza stessa. L’autore non ha la presunzione di fornire una nuova etica della società globalizzata, una cosiddetta antropoetica, ma vuole evidenziare il ruolo fondamentale dell’informazione nella formazione umana, in una cultura che ormai oltrepassa i confini delle nazioni e che deve adeguarsi alle trasformazioni scientifiche e tecnologiche in atto. Secondo Morin queste sfide devono essere affrontate attraverso la riforma dell’insegnamento e la riforma del pensiero, in senso paradigmatico e non programmatico, relativamente alla nostra attitudine a organizzare la conoscenza. Le sue indicazioni 20 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina sono rivolte direttamente agli educatori al fine di ottenere, nello svolgimento della loro attività formativa, quello che Michel de Montaigne riassumeva in una frase: "È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena". La distinzione è tra "una testa nel quale il sapere è accumulato e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso" e una "testa ben fatta", che comporta "un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso". Secondo l’autore, una "testa ben fatta", mettendo fine alla separazione tra le due culture, consentirebbe di rispondere alle formidabili sfide della globalità e della complessità nella vita quotidiana, sociale, politica, nazionale e mondiale. Questa scissione non permette ai progressi della scienza e delle tecnologie di adeguare la ricerca alle grandi domande su cui la cultura umanistica continua ancora a riflettere: “Chi siamo?, Dove siamo?, Da dove veniamo?, Dove andiamo?” Morin, sintetizzando le tesi esposte nelle sue opere, enuclea i seguenti sette temi che devono diventare fondamentali nell’insegnamento, temi attualmente ignorati o dimenticati, che devono essere integrati nelle discipline esistenti: 1 - Conoscenza della conoscenza, cioè studio dei caratteri cerebrali, mentali, culturali della conoscenza umana, di ciò che sono i suoi dispositivi, le sue menomazioni, le sue difficoltà, le sue propensioni all’errore e all’illusione. 2 - Sviluppo delle attitudini naturali della mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto o in un insieme, superando la frammentarietà della conoscenza per ambito disciplinare, che rende spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e la totalità. Il nuovo modo di conoscere deve essere capace di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso. 3 - L’unità complessa della natura umana, nel contempo fisica, biologica, psichica, culturale, sociale, storica, è completamente disintegrata nell’insegnamento, attraverso le discipline. Ciascuno, ovunque sia, dovrebbe prendere conoscenza e coscienza sia del carattere complesso della propria identità sia dell’identità che ha in comune con tutti gli altri uomini. Maria Letizia Parisi 22 Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, pag. 49 4 - La storia dell’era planetaria, che inizia nel XVI secolo con la comunicazione tra tutti i continenti determinando il destino ormai planetario del genere umano; la conoscenza degli sviluppi dell’era planetaria e il riconoscimento dell’identità terrestre devono divenire uno dei principali oggetti dell’insegnamento. 5 - Riflessione sulla precarietà di ogni tappa della conoscenza perché, nonostante le scienze ci abbiano fatto acquisire molte certezze, nel corso del XX secolo ci hanno anche rivelato innumerevoli campi d’incertezza. I percorsi formativi scolastici dovrebbero comprendere un insegnamento delle incertezze che sono apparse nelle scienze fisiche, nelle scienze dell’evoluzione biologica e nelle scienze storiche. 6 - Studio delle radici dell’incomprensione fra gli esseri umani, le sue modalità, i suoi effetti. La comprensione è nel contempo il mezzo e il fine della comunicazione umana. Data l’importanza dell’educazione alla comprensione, a tutti i livelli educativi e a tutte le età, lo sviluppo della comprensione richiede una riforma delle mentalità. 7 - La nuova “antropo-etica”, conseguente all’innovazione dell’insegnamento, deve essere capace di riconoscere il carattere ternario della condizione umana, che consiste nell’essere contemporaneamente individuospecie-società. Il contesto politico di questa nuova umanità è senz’altro democratico, unica condizione in cui l’individuo può avere la consapevolezza di essere contemporaneamente parte di una società e parte di una specie. 2. Trasformazione della scienza nel corso del ‘900 Il vissuto dell’autore attraversa tutto il secolo XX, quindi egli è testimone delle importanti trasformazioni avvenute nell’ambito scientifico, e l’attenzione che pone a questi temi è evidente per i numerosi riferimenti presenti nelle sue opere; in modo particolare egli cita il cambiamento dello scenario cosmologico, luogo del nostro abitare, cambiamento che non può non generare una riflessione sulla nostra esistenza e della nostra coscienza in funzione di queste innovazioni. Nelle parole che seguono, Morin lascia trasparire lo stesso stupore che deve avere provato l’umanista rinascimentale dopo la lettura del De Revolutionibus Orbium Coelestium di Copernico, stupore da cui nasce la necessità di ripensare l’essenza dell’uomo, la sua origine, il suo destino, il suo stare nel mondo: “Abbiamo da poco abbandonato l’idea di un universo ordinato, perfetto, eterno, optando per un universo nato nella radiazione, in divenire dispersivo, nel quale ordine, di- sordine e organizzazione giocano in un modo che è allo stesso tempo complementare, concorrente e antagonista. Siamo in un gigantesco cosmo in espansione, costituito da miliardi di galassie e da miliardi di stelle, …” 22 Questa è la visione del cosmo che nasce dalla trasformazione epistemologica delle scienze della fine dell’800 e non è possibile non paragonare questo contesto culturale, gravido di cambiamenti in ogni campo della ricerca scientifica, con quello del XVI secolo in cui avvenne il passaggio dal modello cosmologico geocentrico di Tolomeo a quello eliocentrico di Copernico. 2 - 1 La rivoluzione copernicana La rivoluzione copernicana si è sviluppata e compiuta durante il Rinascimento e Copernico stesso, attratto dalla nuova cultura umanistica irradiatasi dall’Italia in Europa, ha subito l’influenza di questa corrente, per cui venne in Italia dalla lontana Frauenburg, e, preso dallo spirito del tempo, egli stesso ne accrebbe con la sua teoria la portata rivoluzionaria. Il suo modello cosmologico sradicava la Terra dal suo centro e la poneva in orbita attorno al Sole, assimilandola così agli altri pianeti. Il 1543, anno di pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium, segna la scansione temporale della storia scientifica dopo di cui ogni campo dell’umana attività inizierà un nuovo corso. Nella cosmologia geocentrica (tolemaica) tutto era centrato sull’uomo; scienza, fede, filosofia concordavano nella rappresentazione di un cosmo chiuso e perfetto, i cui elementi, i pianeti e la sfera delle stelle fisse, si muovevano lungo orbite circolari perché solo questo movimento, senza inizio e fine, poteva essere attribuito ai corpi celesti, la cui natura non li sottoponeva a generazione e corruzione. Copernico quindi, contro l’evidenza dei sensi, pone la Terra in orbita attorno al Sole, immobile al centro dell’universo, in un cosmo enormemente dilatato ma che conserva la sua caratteristica peculiare di cosmo finito, contenitore rassicurante per la visione umana dell’universo. La nuova posizione della Terra, non più centrale e in movimento, stravolge la rappresentazione che l’uomo del Rinascimento ha di se stesso e lo costringe a riflettere sulla propria essenza, sulla sua origine e sul proprio destino, secondo la nuova prospettiva fisica e cosmologica. 2 - 2 L’universo relativistico e la teoria del Big-Bang La rivoluzione, a cui fa riferimento Morin, si compie quattro secoli più tardi e distrugge il modello meccanicistico costruito da Keplero e Newton dopo Copernico, modello in cui tutto il cosmo era dominato da un’unica legge che unificava terra e cielo: la legge di 21 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Maria Letizia Parisi gravitazione universale. La relatività generale di Albert Einstein (1879-1955) sovverte gli stessi concetti di tempo e spazio: l’universo non è più una struttura spaziale (spazio euclideo) immutabile in cui si svolgono i fenomeni prodotti dalle forze fisiche; diviene uno spazio-tempo “deformabile”, quello che i matematici chiamano una varietà a quattro dimensioni (tre per lo spazio, una per il tempo), struttura deformata dalla presenza della materia. Quando nel 1917 Einstein propone il primo modello di universo relativistico si trattò di una svolta radicale, ma questo universo è ancora chiuso, cioè di volume e di circonferenza perfettamente finiti e misurabili, chiuso ma senza frontiere perché infinitamente percorribile. Il modello di Einstein si basa sull’ipotesi di un universo statico e il raggio dell’ipersfera (questa è la denominazione del nuovo universo) non varia nel corso del tempo. La rivoluzione concettuale della relatività viene affiancata dai progressi in campo osservativo del primo secolo XX; un contributo fondamentale fu dato dalla messa in opera del telescopio di 2,50 metri di diametro di Mount Wilson negli USA. Edwin Hubble (1889-1953), esplorando il cielo con questa nuova sonda cosmologica, nel 1924 mostrerà che una nebulosa (la NGC 6822) è collocata molto lontano, fuori dalla nostra galassia: così questo astro diventa il primo oggetto definitivamente assegnato a una regione esterna al nostro sistema galattico. La seconda scoperta capitale riguarda l’evoluzione temporale dell’Universo. Fin dai primi anni del Novecento si accumulano indizi che farebbero credere che le galassie si allontanino sistematicamente dalla nostra, con velocità proporzionali alla loro distanza. Nel 1927 il fisico belga Georges Lemaitre formula l’ipotesi che l’intero spazio si dilati nel corso del tempo e questa espansione trascina con sé l’insieme delle galassie. Nel 1929 nuovamente Edwin Hubble, analizzando le righe spettrali delle galassie, scopre in esse un caratteristico spostamento verso il rosso, fenomeno spiegabile in base al colore della luce con cui percepiamo i corpi celesti, colore che varia secondo la distanza in cui questi si trovano rispetto al nostro punto di osservazione (la Terra). Quindi era lecito ipotizzare un moto di allontanamento delle galassie; tale spostamento risultava approssimativamente proporzionale alla distanza delle galassie. Facendo il cammino a ritroso nel tempo da questo movimento di espansione delle galassie è facile concludere che materia e radiazioni, che si trovano oggi sparpagliate nell’universo, dovessero essere un tempo concentrate (teoria del Big Bang). cistico della scienza operato dalla trasformazione della cosmologia e della biologia è sintetizzato da Morin nel seguente frammento: “… e abbiamo appreso che la nostra Terra è una minuscola trottola che gira attorno ad una astro errante ai bordi di una piccola galassia di periferia. Le particelle dei nostri organismi sarebbero apparse fin dai primi secondi del nostro cosmo dodici miliardi (forse) di anni orsono; i nostri atomi di carbonio si sono formati in uno o più soli anteriori al nostro; le nostre molecole si sono raggruppate nei primi tempi convulsivi della Terra; queste macromolecole si sono associate all’interno di vortici, uno dei quali – tra i più ricchi nella sua diversità molecolare – si è metamorfosato in un’organizzazione strettamente chimica: un’autorganizzazione vivente.” 23 23 I sette saperi, pag. 49 24 Kurt Gödel (1906-1978), matematico, logico e filosofo austriaco, naturalizzato americano 25 Gregory John Chaitin (nato nel 1947), matematico, filosofo e scienziato informatico, argentino naturalizzato americano 26 I sette saperi, pag. 89 Spazio vuoto, atomi, vortici, le parole di Morin ricordano la filosofia di Leucippo e Democrito, dove ordine e disordine determinavano la nascita e la morte di infiniti mondi; come i filosofi atomisti, l’autore non si avventura in alcuna ipotesi metafisica sulla nostra essenza, ma rimane nel perimetro della scienza della natura, anche se la riflessione sull’Essere è implicita in tutta l’indagine che egli conduce toccando ogni ambito della ricerca scientifica, preoccupato di non oltrepassare il limite della nostra possibilità di conoscere. 2 - 3 La crisi dei fondamenti in matematica: teoremi di Incompletezza di Gödel e di Chaitin La riflessione di Morin sulla necessità di un ripensamento etico fa riferimento anche alla crisi dei fondamenti nella ricerca matematica del XIX e XX secolo e questa è la sua citazione relativamente ai due famosi Teoremi di Incompletezza dimostrati da Kurt Gödel24 nel 1931, e alla risposta di Gregory Chaitin25, che permette di superare il limite posto da Gödel: “Una delle più grandi acquisizioni del XX secolo è stata la dimostrazione di teoremi di limitazione della conoscenza, per quanto concerne sia il ragionamento (teorema di Lo sgretolamento del modello meccani- Gödel, teorema di Chaitin) sia l’azione.” 26 22 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Maria Letizia Parisi 27 “Probabilmente la domanda fondamentale della filosofia della matematica è: che cosa sono i numeri? La risposta che il platonismo matematico dà a questa domanda è qualcosa del genere: i numeri sono entità oggettive astratte, reali, sussistenti per sé e indipendenti da noi. […] Nella concezione platonista, gli enunciati della matematica hanno un contenuto descrittivo e, in particolare, descrivono queste entità indipendenti, indicandone le loro sempiterne proprietà. Perciò il matematico non inventa o crea i fatti matematici, ma li scopre, è l’esploratore di un territorio intelligibile.” Francesco Berto, Tutti pazzi per Goedel, 2008 Mondolibri SpA, Milano, pag. 173 28 I sette saperi, pag. 81 Sono poche parole ma dimostrano come il pensiero di Morin abbia posto le proprie fondamenta sulla roccia della teoria matematica. Kurt Goedel, il quale ha prodotto una delle più incredibili sequenze argomentative del pensiero umano, dimostra nel 1931 il Primo Teorema di Incompletezza: In ogni formalizzazione coerente della matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali – vale a dire sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto – è possibile costruire una proposizione, sintatticamente corretta, che non può essere né dimostrata né confutata all’interno dello stesso sistema. Semplificando “un sistema coerente contiene una proposizione che non può essere né dimostrata né confutata; coerenza e completezza non possono coesistere all’interno di un sistema”. Il Secondo Teorema di Incompletezza si ottiene formalizzando una parte della dimostrazione del primo teorema e afferma che: Sia T una teoria matematica sufficientemente espressiva da contenere l’aritmetica: se T è coerente, non è possibile provare la coerenza di T all’interno di T. Semplificando: “nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza”. Le conseguenze dei Teoremi di Incompletezza sono un attacco al formalismo sia in matematica che in filosofia, dove i principi sono formulati sulla base della logica formale, e ne consegue che verità e falsità non sono assoluti ma relativi ad ogni specifico sistema formale. Sembra però che Kurt Goedel abbia affermato la sua convinzione del fatto che gli esseri umani possiedono una modalità intuitiva (Goedel era platonista27), non solo computazionale, per arrivare alla verità e che quindi il suo teorema non pone limiti a ciò che può essere riconosciuto come vero dall’uomo e alla fecondità delle sue ipotesi. Successivamente Gregory Chaitin afferma che il teorema di incompletezza di Goedel è stato formulato prima dell’avvento degli algoritmi e dei computer, anche se questi stessi confermano l’incompletezza dei sistema assiomatici e la loro ricorrenza, ma non la loro patologia. La capacità intuitiva umana può verificare la verità dei sistemi assiomatici e la loro fecondità. Questa la sua citazione: “Una matematica veramente realistica dovrebbe essere concepita in linea con la fisica, come un ramo della costruzione teorica del mondiale reale, e dovrebbe adottare lo stesso sobrio atteggiamento cauto verso estensioni ipotetiche dei suoi fondamenti, come viene esposto dalla fisica.” Il riferimento ai Teoremi di Incompletezza di Goedel viene fatto da Morin nel 5° capitolo del suo libro I sette saperi, che viene introdotto con le parole di Euripide: “Gli dei ci creano tante sorprese; l’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre la via.” 28 Queste parole sottolineano il permanere della nostra incapacità di prevedere il futuro, e la storia insegna come decisioni prese in risposta a particolari eventi abbiano poi determinato processi inattesi. L’imprevedibilità del futuro era così sentita nelle culture del passato che si pensava di assicurarsi la benevolenza del dio anche con sacrifici, spesso umani. Sappiamo dalla storia che i totalitarismi erano particolarmente attenti ai focolai di devianza, e l’eventualità di questi pericoli veniva prevenuta con un’attenta organizzazione di controllo . Ma la devianza è nella natura dei fatti umani ed è causa di cambiamento: questa disorganizza il sistema mentre lo riorganizza. I Teoremi di Incompletezza di Goedel dimostrano matematicamente l’incapacità di verificare la coerenza all’interno di un sistema e Morin utilizza questi teoremi per confermare le parole di Euripide e dimostrare che ancora oggi l’avvenire resta aperto e imprevedibile: il problema è imparare ad affrontare le incertezze. Su questo tema è stata realizzata la serie di Matrix, film ambientati in una ipotetica società di umani diventati produttori di energia per le macchine e controllati da un sistema computerizzato che, inviando stimoli alle loro menti, fa vivere loro una vita virtuale. Ma periodicamente nasce un eletto, un umano che intuisce questo controllo e non risponde più agli ordini del sistema. L’Architetto del sistema risolve il problema inserendo nel sistema la devianza particolare verificatasi nell’eletto, ma questo non risolve i casi futuri che presenteranno nuove devianze. E’ esattamente quello che affermava Goedel nei suoi Teoremi di Incompletezza: nessun sistema può essere coerente e completo perché è incapace di verificare la sua correttezza dall’interno. 3. L’errore e l’illusione Le teorie sopra esposte non possono essere relegate solo nell’ambito matematico e fisico ed essere considerate materiale per addetti ai lavori; per questo Morin afferma che la frammentazione dei saperi conduce all’indebolimento del senso di responsabilità e della solidarietà, per cui ognuno tende ad occuparsi ed essere responsabile solo del proprio campo specializzato perdendo la capacità di concepire il globale e il percorso della conoscenza. L’ipotesi dell’origine dell’universo, verificata dalla scoperta del red shift delle galassie, deve aiutare la nostra mente a liberarsi dall’errore e dall’illusione. 23 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Maria Letizia Parisi Solo la scienza e il metodo scientifico possono fornire all’uomo i giusti mezzi per individuare gli errori presenti nella mente, nell’intelletto e nella ragione, anche se la scienza stessa non è esente da questo rischio a causa dei paradigmi radicati nel profondo. Morin intende per paradigma: La promozione/selezione dei concetti dominanti dell’intellegibilità ed afferma: “Il paradigma prescrive e proscrive; effettua la selezione e la determinazione della concettualizzazione e delle operazioni logiche. Designa le categorie fondamentali della intelligibilità e opera il controllo del loro uso. Così gli individui conoscono, pensano e agiscono secondo i paradigmi inscritti culturalmente in loro.” 29 L’autore cita il paradigma di Cartesio che dal XVII secolo domina la filosofia, la scienza, la fede della cultura occidentale e ha strutturato ed ancora struttura ogni approccio umano alla conoscenza. L’Ordine, la Materia, lo Spirito, la Struttura sono concetti dominanti che escludono ad un livello profondo i loro concetti antinomici; il paradigma diventa il principio di selezione delle idee che vengono o integrate nelle argomentazioni o escluse. Il paradigma sottende alle operazioni logiche che decidono l’inclusione o l’esclusione degli assiomi. Le teorie, le dottrine o le ideologie poggiano le loro radici su di un paradigma, localizzato nell’inconscio, ma che indirizza il fluire del pensiero cosciente. Quindi il paradigma determina i concetti, ne organizza i discorsi e domina le teorie. La prospettiva che nasce da questa consapevolezza è di un mondo sdoppiato fra coloro che si lasciano dominare dai paradigmi e coloro che invece si pongono problemi di esistenza, di comunicazione, di coscienza, di destino. Un altro aspetto che minaccia la nostra libertà di pensiero è rappresentato dall’imprinting culturale. Il termine è preso in prestito da Konrad Lorenz e dalle sue ricerche sui cuccioli animali, ma esprime efficacemente il condizionamento della cultura nei riguardi degli umani, dapprima all’interno della famiglia, poi nelle scuole e infine nelle università e nella professione. Si riesce chiaramente a dedurre quanto l’imprinting culturale influenzi la selezione delle idee, le quali obbediscono raramente alla verità anzi ne intralciano la ricerca. Così credenze ed idee, prodotti della nostra mente, acquistano vita propria e possono possederci. Morin utilizza il concetto di noosfera, sfera delle cose della mente, per esprimere il potere della sfera ideale, che dall’alba dell’umanità ha prodotto “miti, deliri, massacri, crudeltà, adorazioni, estasi, sublimità, sconosciuti nel mondo animale”. Egli afferma: “Nata interamente dalle nostre anime e dalle nostre menti, la noosfera è in noi e noi siamo nella noosfera. I miti hanno preso forma, consistenza, realtà a partire da fantasmi formati dai nostri sogni e dalle nostre immaginazioni. Le idee hanno preso forma, consistenza, realtà a partire dai simboli e dai pensieri delle nostre intelligenze. Miti e idee sono ricaduti su di noi, ci hanno invaso, ci hanno dato emozione, odio, estasi, furore. Gli umani posseduti sono capaci di morire o di uccidere per un dio, per un’idea.” 30 Questo termine non è di Morin ma è stato coniato nel XX secolo all’apparire dei problemi creati dallo sviluppo della popolazione mondiale, dalla carenza delle fonti energetiche, dalle crisi economiche ricorrenti e comunque da tutti i problemi generati dalla globalizzazione. Il grande studioso russo Vladimir Ivanovic Vernadskij (18601945) ha dato avvio agli studi sulla noosfera come anche a quelli sulla biosfera. Nel suo libro Lineamenti di geochimica pubblicato a Parigi nel 1924 Vernadski scriveva: “L’equilibrio nella migrazione degli elementi che si era stabilito in lunghi tempi geologici, è infranto dall’intelletto e dall’attività degli uomini.” Uno scenario che rappresenta esattamente come l’uomo e le sue idee abbiano influito sul cambiamento non solo dell’umanità ma del sistema Terra nella sua totalità biochimica. Il termine noosfera entrò nel linguaggio scientifico con Edouard Le Roy (1870-1954) – scienziato e filosofo, membro dell’Accademia Francese delle Scienze, esponente del modernismo cattolico. Per confermare questo gioco complesso di asservimento reciproco uomini-idee Morin cita Marx: “I prodotti del cervello umano hanno l’aspetto di esseri indipendenti dotati di corpi particolari, in comunicazione con gli umani e tra di loro.” 31 Quindi l’errore e l’illusione vengono continuamente alimentati e rinnovati dalle conoscenze se l’educazione non assume su di sé il difficile ruolo di adeguare i percorsi formativi alla realtà culturale in trasformazione. Gli interrogativi dell’uomo sul mondo debbono essere posti in prospettiva di apertura alla attuale complessità perché le condizioni bio-antropologiche dell’essere umano, quelle socioculturali e quelle noologiche non lo aiutano a liberarsi dall’asservimento alle idee che egli stesso ha prodotto. Se volgiamo uno sguardo verso la storia passata troviamo conferma alle conseguenze prodotte dal dominio delle idee sugli uomini: è necessario essere consapevoli che per evitare errore e illusione bisogna ricercare ed elaborare metapunti di vista che superino il limite posto dalle nostre condizioni. Questo compito è dell’educazione. 24 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 29 I sette saperi, pag. 24 30 I sette saperi, pag. 28 31 I sette saperi, pag. 28 Maria Letizia Parisi 4. Insegnare la condizione umana 4 - 2 La nuova identità terrestre 4 - 1 Homo complexus 32 Cfr. P.D. Mac Lean. “The triune brain”, a cura di F.Q. Smith, The neurosciences, Second Study Program, Rockefeller University Press, New York, 1970 33 I sette saperi, pag. 60 34 I sette saperi, pag. 77 L’educazione del futuro dovrebbe comprendere fra le altre discipline un insegnamento della condizione umana, condizione complessa in cui concorrono molteplici fattori, di cui oggi conosciamo molto ma, rimanendo separati in tanti segmenti, non consentono la visione del tutto. “L’umano è un essere nel contempo pienamente biologico e pienamente culturale”: il dilemma natura-cultura è stato superato e dai progressi delle neuroscienze sappiamo che l’emergere della mente nella storia evolutiva del cervello umano ha prodotto l’avvento della cultura, risultato della retroazione della mente sul cervello. La triade cervello-mentecultura spiega la competenza per agire e sapere apprendere ma anche la capacità di coscienza e di pensiero. Ma questo non basta per rappresentare la complessità dell’essere umano, il cui cervello integra in sé il paleoencefalo, fonte dell’aggressività e delle pulsioni primarie, il mesencefalo, centro dell’affettività e della memoria a lungo termine, la corteccia, ipertrofizzata negli umani in una neocorteccia, sede delle capacità analitiche, logiche, strategiche che la cultura consente di attuare pienamente32. Il risultato dell’interazione della triade cervello-mente-cultura è magistralmente dipinto da Morin: “L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e di dismisura; soggetto di un’affettività intensa e instabile: sorride, ride, piange, ma sa anche conoscere oggettivamente, è un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso, angosciato, gaudente, ebbro, estatico; è un essere di violenza e di tenerezza, di amore e di odio; è un essere pervaso dall’immaginario e che può riconoscere il reale; è un essere che conosce la morte e che non può credervi, che secerne il mito e la magia, ma anche la scienza e la filosofia; è posseduto dagli Dei e dalle Idee, ma dubita degli Dei e critica le Idee, si nutre di conoscenze verificate ma anche di illusioni e di chimere. E quando, con il venir meno dei controlli razionali, culturali, materiali, l’oggettivo e il soggettivo, il reale e l’immaginario si confondono, quando le illusioni sono egemoni, quando la dismisura è scatenata, allora l’homo demens assoggetta l’homo sapiens e subordina l’intelligenza razionale al servizio dei suoi mostri.” 33 Questa è la condizione comune di tutti gli esseri umani che giustifica la ricchissima diversità degli individui, dei popoli, delle culture, ma che ci accomuna tutti come cittadini della Terra. L’era planetaria è iniziata dal 1492 quando i cinque continenti sono entrati in contatto fra di loro dando inizio a scambi di ogni tipo: prodotti agricoli, animali, malattie, parassiti. Lo sviluppo tecnologico dell’occidente ha esportato l’economia industriale in tutto il mondo determinando flussi migratori da nazione a nazione. Questi contatti culturali, economici, politici hanno legato indissolubilmente tutti i continenti fra di loro e non c’è posto nel mondo che non dipenda in qualche modo dall’attività di una qualche lontana comunità terrestre. Oggi la complessità del mondo ci sommerge e le infinite informazioni di cui possiamo disporre superano le nostre possibilità di intelligibilità; la causa di questa difficoltà sta nella nostra formazione che non ha sviluppato la capacità di contestualizzare, di mettere in relazione le parti con il tutto, di pensare la multidimensionalità. Emerge la necessità di una riforma di pensiero che ci aiuti a sviluppare potenzialità ancora ignote dell’intelligenza, della comprensione, della creatività per concepire il contesto, il globale, il complesso. La proposta di cambiamento che Morin ci offre e di cui tutta l’umanità deve essere partecipe è sintetizzata nelle seguenti parole: “L’unione planetaria è l’esigenza razionale minima di un mondo ristretto e interdipendente. Tale unione ha bisogno di una coscienza e di un sentimento di reciproca appartenenza che ci leghi alla nostra Terra considerata come prima e ultima Patria. Se la nozione di patria comporta un’identità comune, nata da un rapporto di affiliazione affettiva a una sostanza nel contempo materna e paterna, come comunità di destino, allora possiamo introdurre la nozione di Terra-Patria.” 34 Il nuovo modo di essere nel pianeta è prendere coscienza della nostra unità pur nella diversità, è abbandonare il sogno del dominio dell’universo e alimentare l’aspirazione alla convivialità; è accrescere la responsabilità e la solidarietà; è sviluppare i contatti per accrescere la comprensione. La ricerca di un avvenire migliore deve essere complementare e non più antagonista. Ma il concetto di identità comune tocca il problema filosofico dell’essenza umana, di cui Morin ha parlato solo in termini oggettivi (scientifici). Per giustificare la nozione introdotta di Terra-Patria però egli ricorre al linguaggio heideggeriano del dasein (esserci), del prendersi cura e di destino. Per Heidegger, che rammenta il pensiero dei primi filosofi, il nuovo umanismo è ancora più radicale e, a causa delle devastazioni di senso prodottesi in questa epoca, l’uomo deve tornare ad esistere nella verità dell’essere: 25 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Maria Letizia Parisi “l’e-sistenza non può mai essere pensata come una specie particolare tra le altre specie di esseri viventi, dato che l’uomo è destinato a pensare l’essenza del suo essere, e non solo a raccontare storie naturali e storiche sulla sua costituzione e la sua attività. […] Il fatto che la fisiologia e la chimica fisiologica possano indagare sull’uomo come organismo dal punto di vista delle scienze naturali non è una prova che l’essenza dell’uomo sia nell’organico, cioè nel corpo, come è spiegato scientificamente.” 35 l’ente non sia un’attenzione per l’Essere. Egli, ponendosi nella radura dell’essere, porta l’uomo a prendersi cura dell’ente in direzione dell’essere, però, affermando che siamo tutti figli della stessa sostanza che ha origine dall’aggregazione di elementi cosmici, pone l’uomo in una dimensione puramente fattuale mentre, se il cammino della sua riflessione lo ha portato verso la filosofia heideggeriana è perché probabilmente anche lui ha intuito quel senso di spaesatezza in cui l’uomo moderno si trova da quando la tecnica si è impadronita come Heidegger afferma che l’essenza del- metafisica dell’essenza umana. l’uomo non è quella di animale razionale perché questa definizione pensa l’uomo a Dice Heidegger: partire dalla sua animalitas e non pensa in “Il desiderio di un’etica si fa tanto più urdirezione della sua humanitas: l’essenza gente quanto più il disorientamento manifedell’uomo appartiene alla verità dell’Essere. sto dell’uomo, non meno di quello nascosto, L’esserci (l’uomo) è l’e-statico stare-dentro aumenta a dismisura. Al vincolo dell’etica nella verità dell’essere perché l’uomo, pos- occorre dedicare ogni cura, in un tempo in sedendo il linguaggio, è l’unico fra gli enti a cui l’uomo della tecnica, in balia della masporsi all’ascolto dell’essere. Il prendersi cura sificazione, può essere portato ancora a una per Heidegger è solo dell’uomo perché stabilità sicura solo mediante un raccogliL’Essere si manifesta nel pensiero e il lin- mento e un ordinamento del suo progettare guaggio è avvento diradante-velante del- e del suo agire, nel suo insieme, che corril’essere stesso. Solo l’uomo e-siste in sponde alla tecnica.” 36 quanto gettato nella radura dell’Essere, e il Adesso è possibile avvicinare i due ausuo destino è il prendersi cura. tori perché la necessità di una nuova etica viene giustificata sia dalla prospettiva filosoMorin non si sofferma sull’essenza del- fica heideggeriana sia da quella antropolol’uomo né in una prospettiva metafisica né gica di Morin a causa della nuova in riferimento del suo rapporto con l’Essere dimensione umana all’interno di una società e la sua nozione di Terra-Patria non va oltre massificata e globalizzata. Il nuovo inizio di la concezione naturalistica della storia Heidegger sta nella maggiore attenzione al umana. Questo non vuol dire, come afferma pensiero, che, manifestandosi nel linguagHeidegger, che questa sua attenzione per gio, non deve cadere sotto il domino della tecnica. Per Morin il nuovo inizio sta nella fondazione di una nuova etica, che sappia adempiere la necessità per l’umanità di comprendersi sia a livello intellettuale o oggettivo, sia a livello di comprensione umana intersoggettiva. Morin non nega che, nonostante lo sviluppo tecnologico dei collegamenti attraverso il pianeta, condizione che ha facilitato la comunicazione fra culture diverse, le difficoltà della comprensione si siano accresciute di pari passo; quindi la comprensione, non essendo stata influenzata dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione, deve essere insegnata, insieme con gli altri saperi indicati dall’autore, e inserita nelle finalità dell’educazione, perché: “Gli ostacoli alle due comprensioni sono enormi: sono non soltanto l’indifferenza, ma anche l’egocentrismo, l’etnocentrismo, il sociocentrismo, che hanno come tratto comune il fatto di situarsi al centro del mondo e di considerare come secondario, insignificante o ostile tutto ciò che è straniero e lontano.” 37 26 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 35 Lettera sull’Umanismo, Martin Heidegger, Piccola Biblioteca Adelphi, 1998, pag. 46 36 Lettera sull’Umanismo, Martin Heidegger, Piccola Biblioteca Adelphi, 1998, pag. 88 37 I sette saperi, pag. 100 Maria Letizia Parisi 38 I sette saperi, pag. 120 5. Una nuova etica In effetti la nuova etica che Morin propone risiede semplicemente in una maggiore consapevolezza del legame del singolo individuo con la specie umana, principio che è stato affermato fin dalle civiltà dell’antichità. Egli infatti cita il latino Terenzio, che fece dire ad un personaggio delle sue opere “Homo sum, nihil humani a me alienum puto” [Sono umano, nulla di ciò che è umano mi è estraneo]. Successivamente il cristianesimo predicò il principio dell’uguaglianza fra gli uomini in quanto appartenenti ad un’unica specie e questo principio è stato BIBLIOGRAFIA Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, 2010 Raffaello Cortina Editore, Milano Niccolò Copernico, De Revolutionibus orbium coelestium, A cura di Alexandre Koyré, traduzione di Corrado Vivanti, 1975 Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino Thomas S. Kuhn, La Rivoluzione Copernicana, traduzione di Tommaso Gaino, 1972 Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino Alexandre Koyré, La rivoluzione astronomica, Copernico Keplero Borelli, Feltrinelli Editore mantenuto vivo nel corso dei secoli da correnti filosofiche, politiche, culturali. Quindi se si vuole realizzare un’etica propriamente umana, ossia un’antropoetica, questa deve essere strutturata come un anello a tre termini: individuo - specie - società in cui ogni individuo, assumendo su di sé la complessità del proprio essere, deve decidere di realizzare la propria umanità all’interno del destino umano. La coscienza individuale del proprio legame con la società e della loro esistenza reciproca insegna la democrazia. Democrazia attiva, in cui gli individui controllano la società di cui fanno parte e rigenerano continuamente l’anello complesso che produce i cittadini. Questa rigenerazione del senso civico poggia sulla rigenerazione della solidarietà e della responsabilità, ossia sviluppa la nuova coscienza di un’antropoetica. La comunità di destino planetario che così si realizza attua quella relazione fra le parti, individui singoli, e il tutto, la specie umana. “La comunità di destino deve lavorare affinché la specie umana – pur continuando a valere la sua istanza biologico-riproduttrice – si sviluppi in Umanità, ossia in coscienza comune e in solidarietà planetaria del genere umano.” 38 Jean-Pierre Luminet, Marc Lachièze-Rey, Finito o Infinito?, traduzione di Stefano Moriggi, 2006 Raffaello Cortina Editore – Milano Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti?, traduzione di Luca Guzzardi, 2007 Raffaello Cortina Editore - Milano Francesco Berto, Tutti pazzi per Goedel, La guida completa al Teorema di Incompletezza, 2008 Mondolibri SpA Milano Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo, I dieci esperimenti più belli nella storia della scienza, 2007 Mondolibri SpA Milano Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1995 27 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Antonino Zaffiro Antonino Zaffiro, Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo psicoanalitico lacaniano, vive e lavora a Latina dove esercita attività libero professionale. Si occupa da sempre di clinica psicoanalitica. Oltre alla psicoterapia svolge attività di docenza e di formazione professionale. 39 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, Vol. 1, Einaudi Torino, 1974 e 2002, pag. 87. 40 Cfr. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Vol. 1, op. cit., pag. 151 e seguenti. 41 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 87. 42 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 89. 43 Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, Vol. 4, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pag. 479. 44 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 88 – 89. 45 Tale questione è messa bene in luce nella disamina che Lacan fa della paranoia come regressione topica (non genetica) allo stadio dello specchio (cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti, Vol. 2, op. cit., pag. 564). 46 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 88 – 89. 47 Si presume, con Freud, che la psicoanalisi non possa che ricapitolare quanto l’arte ha già disvelato (cfr. S. Freud – Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di Wilhelm Jensen, in Opere, Vol. 5, op. cit., pag. 293). Lo specchio di Lacan Intorno a lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io di Antonino Zaffiro 1. Comprensione precoce L acan pone subito il lettore di fronte a una questione spinosa: la funzione dell’io (je), nell’esperienza che l’analisi ce ne dà, ci oppone a ogni filosofia uscita direttamente dal cogito cartesiano39. Si era interessato della questione già tre anni prima, riarticolando il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa in termini di cogitatum, appartenente al campo del perceptum, del pensato e dell’estensione, e cogitans inteso come azione che non può essere colta nel proprio compiersi ma solo nei propri effetti40. Il percipiens risulta come dato a valle del proprio stesso pensare, da porre in aprés coup come causa voluta più ancora che necessitata di elementi che, di loro, non giustificano esistenza alcuna. Causa efficiente? Insistere su una causa che deve esserci appare sospetto. Stessa logica, a maggior ragione, dovrà valere per il verbo di cui percipiens e perceputm, cogitans e cogitatum, si pongono come participi. Per quanto riguarda “la funzione dell’io (je) nell’esperienza che l’analisi ce ne dà”41, ne consegue una priorità logica – non crono-logica – della res extensa (perceptum, cogitatum), da cui sia il percepire (cogitare) che il percipiens (cogitans) discendono come petizioni di principio, non come dati di fatto. Se il soggetto si manifesterà come participio presente del verbo, cioè, non per questo potrà giustificare una propria sussistenza in termini di res. Unica esistenza certa, dunque, sarà quella rientrante nel dominio dell’estensione (il già pensato), estensione costituente il soggetto e non da questi costituita42. Se esistenza e pensabilità sono dimensioni fra loro indipendenti, il dualismo in termini di res di Cartesio non è più sufficiente per cogliere la cifra del loro rapporto. Bisognerà iniziare a contare in base tre – un verbo e due participi – o, meglio ancora e vedremo come, in base quattro – un verbo, due participi e un resto di carne. 2. Un accenno sul Simbolico (e sui suoi resti) Per pensare l’estensione – perceptum, cogitatum – si dovrà supporre un sistema logico, sistema che derivi a propria volta da una volontà (bisogno?) di presa su di essa. Tale sistema, una volta messo in moto, funzionerà poi auto-nomamente, cioè a pre- 28 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina scindere da qualsiasi intervento esterno, matematico come lo “ordigno fine di mondo” del Dottor Stranamore di Kubrick. È quello che più tardi Lacan denominerà Simbolico. Che la volontà di cui sopra – il soggetto, che è tale proprio perché vuole – debba poi essere incarnata in una res diviene ora un’ipotesi di secondo grado. Meno problemi a questa incarnazione pone forse il bisogno, radicato nel corpo, salvo presentarne di nuovi quando si cerca di concepirlo nell’ambito di una soggettività. Il concetto di istinto, cioè, sufficiente per spiegare il corpo vivo dell’animale, non si applica bene all’umano. Sarà per rendere operativa tale questione che Freud conierà la pulsione43. 3. Psicologia Fra i sei e i diciotto mesi il bambino, messo davanti allo specchio, mette alla prova l’altro piccolo essere che vede stagliarsi al di là del vetro. Si muove, si agita, fa mille mosse fino a fissare, previa convalida dell’adulto, quello che Lacan definisce “un aspetto istantaneo dell’immagine” 44. Per quanto sul momento essa provochi al bambino un giubilo incontrollato, si tratta a ben vedere di una situazione paradossale. L’altro, nella sua compiutezza di forma percepita, si trova nella posizione di godere di una condizione di assoluto privilegio rispetto a quella di un soggetto ancora goffo e impacciato nei propri movimenti. È un io ideale (moi), completo nella sua qualità di perceptum prima che il percipiens, soggetto (je), possa compiersi nel proprio atto di percepire. Per dire meglio: è una forma che gode di anteriorità logica rispetto a un soggetto che non può concepirsi che tramite il passaggio alienante per quella immagine che è, si, di lui ma non è lui 45. Si evidenziano dunque due campi strutturalmente separati: quello dell’intenzione dal lato del soggetto, e quello del già compiuto dal lato dell’Altro. Una compiutezza – dice Lacan – che raggiungerà solo asintoticamente il divenire del soggetto, una Gestalt che gli è costituente prima di essere da questi costituita e che ne prefigura come alienante ogni teleologia46. È una condizione vivibile pacificamente per il soggetto? La faccenda non è così semplice. Lady Macbet47, che pure era riuscita a compiere l’atto tanto agognato solo per il tramite del marito, non regge la portata fatale di un passo che non conosce ritrattazioni. Antonino Zaffiro 48 W. Shakespeare, Macbeth, Atto 3, Scena 2. 49 Cfr. S. Freud: Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico – in Opere, Vol. 8, op. cit. – pag. 643. 50 Cfr. N. Fusini, Di vita si muore, Mondadori, Milano, 2013. 51 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 91. 52 Per essere rigorosi dovremmo specificare che la posizione che il soggetto assume è nei confronti dell’Altro – nell’illustrazione, coincidente con la lastra dello specchio, la quale genera lo spazio virtuale in cui appare l’immagine – e non dell’altro – nell’illustrazione, l’immagine percepita oltre lo specchio. Tale specificazione, però, esula dagli intenti di questo articolo, che si propone come un commento ad uno scritto determinato di Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in cui tale distinzione non viene affrontata così nel dettaglio. Per un maggiore approfondimento si rimanda a J. Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache, in Scritti, Vol. 2, op. cit., pag. 664 – 679. 53 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro I: Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino, 1978, pag. 92 e seguenti; pag. 154 e seguenti; pag. 171 e seguenti. 54 Cfr. A. P. A. (a cura di), DSM , IV, TR, Masson, Milano, 2000. 55 Dal greco σύμπτωμα, coincidenza, il sintomo è propriamente il manifestarsi come correlate di due o più cose, non necessariamente percepibili tutte, una per una, sincronicamente o diacronicamente. Con il termine sintomo si intende pertanto quel costrutto logico che tiene insieme, come unicum o insieme, una serie elementi altrimenti indipendenti tra di loro. 56 Cfr. J. Lacan, Dei nostri antecedenti, in Scritti, Vol. 1, op. cit., pag. 66. 57 Cfr. Soren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, SE, Milano, 2007 e La malattia mortale, Mondadori, Milano, 1998. 58 D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano, 1974, pag. 68n. 59 D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi , op. cit., pag. 67. 60 Cfr. D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, op. cit., pag. 64. Dapprima “nulla è ottenuto, tutto è sprecato, allorché il nostro desiderio e appagato senza contentezza” 48, poi l’angoscia che aveva attanagliato il suo tentennante consorte trova in lei – non in lui – il proprio compimento definitivo49. Amleto, dal canto suo, troverà una efficace soluzione nel continuo rimandare l’atto, nell’essere sempre – si potrebbe dire – non ancora se stesso 50. L’angoscia fa da limite al campo del soggetto e, contemporaneamente, da segnale di questo stesso limite, come una sorta di Rubicone personale. Il passaggio nel campo dell’Altro è fatale e, se da una parte tenta il soggetto, dall’altra l’angoscia lo ripone prudentemente in una condizione in cui può ancora aggiustare il tiro, ri-conoscersi, ri-provare, ri-trattare. È il campo del soggetto come dominio logico della coazione a ripetere, governato dalle leggi del principio di piacere. Una svolta o un cambiamento che sia reale non potranno che compiersi al gnale di un Disturbo Dissociativo della Coscienza54. Come può esserci dissociazione, di là. però, se non di qualcosa che è già associato? La coscienza, cioè, è già di suo un 4. Dramma Lo stadio dello specchio segna perciò sintomo, un insieme di elementi tra loro seuna situazione che è tragica, un dramma parati ma percepiti come dato unitario55. Se che oscilla dall’insufficienza (dal lato del l’atto di tenerli insieme coincide con – non è soggetto) all’anticipazione (dal lato dell’Al- compiuto da – un je, moi ne sarà un riconotro)51. La realtà a cui si crede, il perceptum, scibile segno, la possibilità per il soggetto di l’altro come proprio simile, sarà sempre poter dire io sono…. e, allo stesso tempo, la visto… creduto… è! – indicativo presente – necessità esperita di un predicato nominale più perfetto di come il soggetto, il percipiens, (identificazione) che metta un termine a riuscirà mai a concepire. Se da quel mo- questa frase, nella normalità così come mento in poi c’è qualcuno (je) che pensa – nella patologia56. Se con Kierkegaard l’angoscia è il sentisi badi bene – anche se stava già pensando prima, prima non c’era ancora chi pensava mento che si palesa dall’incertezza e dalo, per dirlo meglio, chi pensava non aveva l’instabilità del futuro57, la percezione, si nessuna identità (moi) in cui riconoscersi. potrebbe dire, della frase io sono…. come Ottenerne una, però, lo segnerà irreparabil- tronca, è nel diario del paranoico Schreber mente dall’altro lato dello specchio, come che troviamo la più chiara descrizione di questa schisi. Le voci, infatti, si manifestano mancante. Ancora una volta, una riformulazione del dal lato del soggetto come “espressioni Cogito cartesiano diventa obbligatoria: il grammaticali incomplete” 58 che lo tormensoggetto può pensare se stesso nell’atto di tano imponendogli una “coazione a penDal lato del perceptum, pensare ma non può cogliere, con il pen- sare”59. siero, il proprio pensare puro. Il Cogito, in- correlativamente, egli non troverà nient’altro fatti, è cogito di qualche cosa e in che figure umane sorte per miracolo, uomini quest’ottica la priorità logica del perceptum fatti fugacemente, elementi irreali messi lì solo per prendersi gioco del soggetto60. sul percipiens diviene consequenziale. Sarà a seconda della posizione assunta Nelle parole di un paziente psicotico: “la dal soggetto nei confronti del perceptum che vede quella macchina? Non è vera”. Nel film Jona che visse nella balena di questo, immagine del percipiens nel campo dell’Altro52, diventerà concepibile e, di ri- Roberto Faenza, una donna deportata in un flesso, renderà l’essere umano operativo campo di concentramento nazista si ritrova come soggetto, preso in un miraggio di com- a confrontarsi con un’altra detenuta. Le pletezza53. Egli si crederà primario ma non basta il tempo di realizzare che non si tratta sarà che un effetto. Egli si crederà intero ma di un’altra donna ma di lei stessa, oramai irsolo per non scoprirsi attaccato all’amo della riconoscibile nella propria immagine riflessa in uno specchio, che cade a terra svenuta. propria stessa divisione. La povera donna non morirà per gli stenti patiti nel campo, ma ricoverata in un mani5. Psichiatria Il non riconoscersi nello specchio è, se- comio sovietico. condo la nosografia psichiatrica ufficiale, se29 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Antonino Zaffiro Se i segni della potenza perturbante dello stadio dello specchio si possono trovare ovunque nell’esperienza quotidiana, non necessariamente essi sono da ridurre al solo registro del visivo. Ogni musicista, ad esempio, sa bene quanto ri-sentire una propria registrazione abbia su di lui un effetto ben diverso dal qui ed ora del sentirsi suonare mentre suona61. L’ascolto differito della propria voce rende tale dimensione, se possibile, ancora più evidente. A un livello di astrazione ancora maggiore, si pone la citazione, l’analista che ripete le parole del paziente. Le stesse parole appena pronunciate sul lettino, ascoltate provenire dal luogo dell’Altro in una differenza di tempi che disorienta se confrontata con la simultaneità del dire soggettivo, suonano diverse al soggetto e acquistano la portata dirompente del trauma, in Freud, Unabreagierbarkeit Darstellung, rappresentazione a cui è impossibile reagire (in termini di abreazione)62. Se il res dell’espressione res cogitans risulta ora comprensibile in termini di petizione di principio, come pensare però il buco a cui il soggetto viene a coincidere? Si tratta di riuscire a pensare un paradosso poiché ogni pensiero, una volta formulato, si verrà a porre automaticamente dal lato dell’Altro. Più radicalmente: per il soggetto pensante non è pensabile alcun pensiero che non sia – in quanto pensato – già dell’Altro68. Questo buco impensabile viene dunque a essere il corpo frammentato del soggetto, che può riunirsi in una Gestalt (moi, io ideale) solo in termini di alienazione nel campo dell’Altro o, ancora più concretamente, di espropriazione da parte dell’Altro. Se il corpo del soggetto – nell’ipotesi che esista – si trova come intero dal lato dell’Altro, dal lato del soggetto non resteranno al contrario che membra sparse e intenzioni brute69. 7. Cosa sono io per te 6. Biologia Se l’essere umano è tale perché il suo habitat è più simbolico che naturale63, se lo stadio dello specchio mette il soggetto (come Innenwelt) in relazione all’Altro (come Umwelt)64, allora questa esperienza che il cucciolo d’uomo è chiamato a compiere ne segnerà per sempre lo sviluppo. Lo stadio dello specchio, cioè, rompe la fissità dell’istinto per lasciare spazio al problema della pulsione, problema proprio per la definizione che Freud dà di essa: concetto limite tra psichico e corporeo, richiesta di lavoro che il corpo pone alla mente65. Per l’io (je) è problematica ogni attivazione, un pericolo ogni spinta istintuale proprio perché, per poter pensare il proprio corpo come unità, Gestalt, in-dividuo, moi, io-ideale non diviso, ecc., egli dovrà necessariamente passare per il campo dell’Altro66. Di chi è il corpo quando si attiva? Esistono, ad esempio, erezioni o orgasmi a comando? È il corpo come intero o è un occhio, un orecchio, un cuore, un organo separato dagli altri quello che, di volta in volta, si ammala o testimonia una sofferenza? Se il corpo che si muove da sé – e neanche in maniera unitaria – è da porre dal lato del soggetto, è però dal lato dell’Altro che lo troveremo come dato percettivo indiviso. Je non si presenterà che come buco nell’Umwelt, non buco in termini di dato percepito – altrimenti assumerebbe la forma degli uomini fatti fugacemente di Schreber67 – ma buco percipiente, misconosciuto grazie alla copertura operata su di esso dal moi. È solo a condizione di questa copertura che la coscienza potrà prendere consistenza in qualità di luogo o insieme del perceptum. La singolarità dell’oggetto percepito, dal canto suo, diverrà allora secondaria alla sua funzione di tenere non-vuoto il posto del moi. Se l’ideale del soggetto è dal lato dell’Altro, cos’è il soggetto per l’Altro? È la domanda fondamentale di ogni nevrotico, alle volte espressa nella forma Cosa vuoi da me. “L’anima di entrambi vuole qualcos’altro, che non è capace di esprimere; di ciò che vuole, piuttosto, essa ha un presentimento e parla per enigmi”70: ci troviamo nel campo tracciato dall’intersezione dell’essere con il linguaggio e che si manifesta come vuoto, esperienza della castrazione. In questo campo al negativo il desiderio sorge come questione che annoda il soggetto con l’Altro e lo stadio dello specchio si pone ancora una volta come fatale71. Vedere se stessi oltre lo specchio da una posizione di mancanza o, al contrario, essere visti da questa immagine come detentori di quello che, a questo punto, deve risultare mancante dall’altra parte. Ecco che la espropriazione di cui parlavamo poc’anzi si manifesta nelle fattezze di un oggetto privilegiato, parte per il tutto, fulcro dell’attenzione del soggetto dell’inconscio e metonimia del suo corpo come intero72. È il fallo come oggetto immaginario (cioè presente nel campo generato dallo specchio), risultato della castrazione come operazione simbolica operata dall’Altro sul soggetto a partire da un corpo vivo e reale nella sua qualità di pulsione – corpo cioè che, vivendo, chiede un lavoro alla mente, con tutto quello che ne consegue73. Il fallo come oggetto perduto, che conferisce realtà al campo in cui viene riposto e che causa correlativamente il desiderio nel campo che lo ha perduto, viene qui a testimoniare di una insondabile decisione dell’essere74. Se dal lato del soggetto ci sarà pur sempre un corpo in frammenti, infatti, dal lato dell’Altro la scelta che si pone al 30 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 61 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro II: L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, op. cit., pag. 113. 62 Cfr. S. Freud, Abbozzi per la «Comunicazione preliminare», in Opere, Vol. 1, op. cit. – pag. 142 e nota. 63 Cfr. J. Lacan, I complessi familiari, Einaudi, Torino, 2005. 64 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit. pag. 90 – 91. 65 Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, op. cit. pag. 479. 66 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit. pag. 92. 67 A rigor di logica, gli uomini fatti fugacemente di Schreber descriverebbero in realtà l’orlo di questo buco, cucendo – per dir così – i limiti del percepibile (cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, op. cit. pag. 567 e seguenti). 68 Il rimando al concetto di onniscienza divina diviene ora una logica conseguenza. 69 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit. pag. 91. 70 Platone, Simposio, Adelphi, Milano, 1979, pag. 47. 71 Cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, op. cit. pag. 564. 72 Sul concetto di metonimia in psicoanalisi cfr. J. Lacan – L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud – in Scritti – Vol. 1 – op. cit. – pag. 500 e seguenti. 73 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro IV: La relazione d’oggetto, Einaudi, Torino, 1996 e 2007. 74 Cfr. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, op. cit. pag. 171. Antonino Zaffiro per cogliere qualcosa del reale della pulsione. Per far questo l’analista dovrà essere in grado – come soggetto – di mantenere una posizione non coincidente con quella dell’immagine speculare, da coscienza a coscienza. Dovrà cioè tener fede all’inconscio, ponendosi non tanto con il proprio ascolto ma proprio con il proprio essere, reale pulsionale, in una prospettiva simbolica, ortogonale a quella di un io che crede di sapere quel che dice. 75 Cfr. D. P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, op. cit. pag. 24 n. 76 Cfr. D. P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, op. cit. pag. 24n 77 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro X: L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, illustrazione pag. 152. 78 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro III: Le psicosi, op. cit. pag. 84 e seguenti. 79 Cfr. J. Lacan, Intervento sul transfert, in Scritti, Vol. 1, op. cit. pag. 209. 80 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro II: L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, op. cit. pag. 309 e seguenti. 81 A differenza di Freud, Lacan propone un termine preciso all’analisi, termine che non ha niente a che vedere con la remissione di quei sintomi che hanno portato quel soggetto a chiedere l’aiuto di un analista (cfr. J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, op. cit., e Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola, in altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, pag. 241 e seguenti - op. cit.). 82 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII: L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1994 e 2008, pag. 401 e seguenti. 83 Cfr. J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, Vol. 2, op. cit., pag. 590. 84 Cfr. J. Lacan, Intervento sul transfert, op. cit., pag. 219. 85 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 93. 86 Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro X: L’angoscia, op. cit., pag. 124 e seguenti. 87 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 93. 88 Cfr. J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, op. cit., pag. 615. soggetto sarà quella fra un moi alienante (è il caso della nevrosi – il fallo è lasciato all’Altro) e uomini fatti fugacemente75 (nel caso della psicosi – il fallo resta dal lato del soggetto e la realtà è quella di un corpo – e di un pensiero – in frammenti). In mancanza di un moi che instauri la realtà del perceptum, inoltre, queste apparenze76 saranno nella condizione di manifestarsi in quanto percipiens, di vedere cioè il soggetto ovunque si trovi. Sarà dal suo lato, infatti, che la realtà come dominio del percepibile verrà a porsi. Sarà allora egli stesso che ogni volta si vedrà vedersi (o si penserà pensarsi), senza però poter assumere come proprio il suo stesso sguardo (o pensiero), che verrà ipso facto addebitato all’Altro77 (ecco il manifestarsi allucinatorio delle voci): ciò di cui si tratta, cioè, qualunque cosa sia il dato percepito, è lì per il soggetto78. Essendo la sua realtà quella di un corpo in frammenti, infine, ogni pensiero o ogni azione – che non potrà essere che dell’Altro – avrà su di lui un effetto di reale, concreta, percezione di smembramento (vedi i fenomeni di furto del pensiero o i deliri somatici della psicosi). Se l’io della coscienza si rivolge all’altro, è all’Altro che il soggetto dell’inconscio parla ed è a questo secondo dire che l’analista deve prestarsi80. L’analisi personale di chi vuole porsi come analista, portata fino al suo termine con l’assunzione da parte del soggetto futuro analista della propria mancanza a essere81 si pone dunque come conditio sine qua non dell’analisi stessa, unica via per far sì che, nell’avere a che fare con un paziente, ci sia dell’Altro in gioco. Non esistono allora né una manualistica né una tecnica ma esiste un’etica, quella del desiderio dello psicoanalista come condizione soggettiva (si è analista, non si fa l’analista)82, unica via che non chiuda la porta al dire soggettivo, la libera associazione sul piano del significante, con una comprensione sul piano del senso, in cui je incontrerebbe moi e che avrebbe come unico risultato quello di eliminare ogni possibilità per un dire inedito83. Si tratta, per quanto riguarda lo psicoanalista, di mantenere la posizione paradossale del puro dialettico84, poiché è proprio con i paradossi caratteristici di una singolare esistenza che egli si trova a confrontarsi nel corso del proprio lavoro. Sono i paradossi della vita del soggetto, infatti, che divenutigli insopportabili lo conducono a formulare una domanda d’analisi ed è oltre un insopportabile definito dall’angoscia che questi potrà escogitare una soluzione nuova. Se da una parte avremo allora la questione nevrotica, con il suo continuo rivolgersi all’Altro, interrogandolo, per trovare una impossibile soluzione alla propria mancanza, nella correlativa avremo la certezza psicotica in cui è l’Altro, sempre e comunque, a prendere l’iniziativa. 8. Ontologia negativa Lo stadio dello specchio, come apparato logico, taglia fuori l’io della coscienza dal novero dei possibili interlocutori. Nel campo della psicoanalisi, esperienza dialettica79, non sarà cioè con questo io immaginario che l’analista dovrà rapportarsi ma con il soggetto simbolico dell’inconscio, unica via 31 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Antonino Zaffiro 9. I problemi di una pratica immaginaria da cui si vede, quella posizione che il sogLa supposta autosufficienza della coscienza, dice Lacan, “lega ai misconoscimenti costitutivi dell’io [je] l’illusione di autonomia in cui confida” 85. L’io speculante, cioè, costituitosi come buco necessario a una percezione normata dall’Altro, può adempiere a questa funzione solo misconoscendo se stesso e, contestualmente, prendendosi per qualcun altro (moi). La prospettiva esistenzialista – ma discorso analogo vale per ogni epistemica, ego psychology, cognitivismo o alleanza terapeutica che dir si voglia, purché orientata alla comprensione o al suo correlato corporeo comunemente detto empatia – non si confà all’esperienza psicoanalitica perché non tocca il fondo del proprio stesso discorso. Quando questo viene a minacciare il soggetto, infatti, essa si chiude a riccio e, dove dovrebbe compiersi l’atto, la traversata di questo buco (e dell’angoscia che ne risulta) nel registro del dire, ecco invece l’agito restaurativo (sul piano del senso) dell’immagine nello specchio 86. L’esistenzialismo, dice Lacan, “si giudica dalle giustificazioni che dà degli impedimenti che di fatto ne risultano” 87. Quello che si vede accadere nella pratica quotidiana del lavoro in campo socio sanitario, se svolto in un prospettiva che ha l’io della coscienza (e non il soggetto dell’inconscio) come proprio fulcro, è che il matto non può essere mai il clinico ma solo il paziente. Più quest’ultimo sarà classificato tale, inoltre, più il clinico potrà bearsi della propria adesione – questa, si, folle – a un ideale alienante di normalità. Lui, unico detentore, metro e arbitro dell’esame di realtà e del bene del prossimo88. La clinica snatura così lo spirito della propria etimologia per tramutarsi in imposizione violenta al soggetto-paziente di come essere. Nel far questo risparmia al soggetto-clinico l’incontro angosciante con il non poter riconoscere il proprio moi nelle fattezze dell’altro. Dove dovrebbe esserci la clinica, ecco apparire la violenza. Dove dovrebbe esserci la cura, ecco apparire la persecuzione. L’etica viene dunque a delinearsi come campo specifico del discorso analitico, diverso e inconciliabile con qualsiasi prospettiva normalizzate: la psicoanalisi “ci distoglie dal concepire l’io [je] come centrato sul sistema percezione-coscienza, come organizzato dal «principio di realtà» in cui si formula fra i pregiudizi scientisti quello più contrario alla dialettica della conoscenza” 89. 10. Il soggetto dell’inconscio getto ha nei confronti dell’Altro, sarà allora negli inciampi di questa che troveremo le tracce del soggetto: sogni, lapsus, atti mancati, motti di spirito, tutte quelle fatalità 90, cioè, che segnano il misconosciuto tragitto della coazione a ripetere. Ripetere che cosa? La verità che quel singolo essere umano scrive imperterrito, senza accorgersene, nel corso della sua (psicopatologia della) vita quotidiana91. La nevrosi, presa nella sua definizione più estensiva92, sarà pertanto la misura della “inerzia propria delle formazioni dell’io [je]” 93, la forza di ciò che la coscienza, mai così in malafede nel suo esame di realtà, considererà al di là di ogni ragionevole dubbio. È un ribaltamento prospettico dell’ecce homo. 11. Tu sei questo Se la coscienza è misconoscimento, se il linguaggio è in un rapporto problematico con il soggetto, cosa resta dal lato di quest’ultimo? Resta appunto un resto, una libbra di carne avanzata al fiero pasto che il linguaggio ne ha fatto. Qualunque ne sia il motivo, ciò che conta è che il linguaggio abbia esaurito, con l’analisi, la sua portata di captazione del soggetto (je) nel miraggio del senso (moi). Da quel momento in poi, preso nella sua dimensione di articolazione significante pura e per parafrasare una frase del tardo Lacan, il linguaggio potrà essere uno strumento di cui quella libbra di carne potrà fare a meno, a patto di servirsene94. È un resto che marca, marchia, morde un soggetto mai così vicino alla propria carne – da un corpo in frammenti alienato all’Altro a un brandello di carne, scarto del linguaggio – resto che va assunto dal soggetto, al di là di ogni logica, come cifra ultima del proprio essere95. È in questa prospettiva che Lacan può dire che “le sofferenze della nevrosi e della psicosi sono per noi la scuola delle passioni dell’anima”96 ed è sempre in questa prospettiva che va assunta la frase di Freud Wo Es war, soll Ich werden97. Non è di sostituzione che si tratta, di mettere la toppa dell’ideale a copertura della beanza nel linguaggio, ferita del corpo, in cui appare l’inconscio, ma di addivenire come soggetto, di essere, cioè, come verbo e come azione. In una parola: è l’atto analitico come al di là dell’angoscia, principio al soggetto di un inedito modo di stare al mondo 98. A questo passo l’analista accompagna chi era nell’impasse. Compierlo o meno sta al soggetto. Se coscienza è non vedere la posizione 32 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 89 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 93. 90 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 93. 91 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 93. 92 Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 93. 93 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (je), op. cit., pag. 93. 94 Verso la fine del suo insegnamento, Lacan noterà come ci possa essere un utilizzo del linguaggio (anche come articolazione significante) in termini di puro godimento. È quello che definirà Lalingua e che affronterà nelle sue implicazioni nel corso dei suoi ultimi Seminari (cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII: Il sinthomo, Astrolabio, Ubaldini, Roma, 2006 e A. Zenoni, La psicosi e l’al di là del padre, Franco Angeli, Milano, 2001, pag. 131 e seguenti). 95 È da questo momento in poi che possiamo forse riprendere in esame il dualismo cartesiano, mai del tutto calabile nella logica analitica, a patto però di riformularlo in termini di res loquens (dal lato di un soggetto a brani, pulsione pienamente assunta – in una parola: sinthomo; cfr. J.Lacan, Il Seminario, Libro XXIII: il sinthomo, op. cit.) e res extensa (i detti e l’immagine di un corpo come intero, dal lato dell’Altro). Cfr. S. Zizek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano, 2003. 96 J. Lacan Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, op. cit., pag. 94. 97 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), in Opere, Vol. 11, op. cit., pag. 190. 98 Cfr. J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi e L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Vol. 1, op. cit., pag. 407-408 e 519. Laura Foti Umanesimo ed umanità in J. Maritain di Laura Foti Laura Foti, vive a Latina ed insegna filosofia e storia presso il Liceo Classico D. Alighieri. Si occupa di didattica della filosofia contemporanea e di psicologia della scrittura 99 J. Maritain, Confessione di fede, 1940 L’ uomo vuole affidarsi a Dio, vuole affidarsi all’Amore, vuole affidarsi all’Umanità… la storia dell’uomo è semplicemente la storia dell’uomo che ritorna a Dio… La vita dell’uomo è spesso paura, sbigottimento dell’essere di fronte all’ Essere… L’uomo non sa se oscillare fra la “condanna” della propria libertà e la capacità di vivere la propria libertà … Maritain sa che l’uomo si può salvare dalla paura del “vuoto” e dalla nullificazione totale solamente se il suo percorso antropologico si apre al divino ed alla fede, perché l’uomo, solo attraverso la logica, comprende la dicotomia fede – ragione, ma, solo attraverso il contrasto fede – ragione, l’uomo stesso arriva a conoscere la categoria del sentimento. La modernità per essere tale deve ispirarsi al cristianesimo attraverso la figura di un uomo, Cristo, che non ha mai chiuso a se stesso ed all’umanità le porte della speranza e della capacità di amare. Nel pensiero antico ogni uomo è persona, ogni uomo è “natura spirituale dotato della libertà di scelta e costituente un tutto indipendente di fronte al mondo”, ma l’uomo aveva un grosso limite: è troppo proteso verso il divino per comprendere l’umanità di Cristo, attraverso la quale arriviamo alla nostra umanità. L’etica personale, spesso, viene trascurata in nome dell’oggettività della legge morale. Scrive J. Maritain: «Conobbi san Tommaso in seguito alla mia conversione al cattolicesimo. Dopo aver studiato con tanta passione tutte le dottrine filosofiche moderne, trovandovi solo delusioni e grandi incertezze, provai quasi un'illuminazione della ragione; la mia vocazione filosofica mi apparve chiara nella sua pienezza…. guai a me se non tomistizzo, scrivevo in uno dei miei primi libri, e in trent'anni di lavoro ho sempre seguito la stessa linea di condotta, con il desiderio di conoscere sempre più profondamente le ricerche, le scoperte, le angosce del pensiero moderno, cercando di farvi penetrare sempre più la luce che ci viene da una sapienza elaborata nei secoli e che resiste allo scorrere del tempo” 99 “Tu non possiedi la Verità è la Verità che possiede te” (San Tommaso- “De Veritate”)… con J. Maritain, la filosofia tomista esce dalle università, dai libri, per entrare nel mondo dell’uomo, il mondo “laico”, per diventare parte della cultura dell’uomo, che vive attraverso l’impegno politico e sociale e decreta nell’azione concreta il nuovo essere uomo. Non serve cercare una Verità, non serve Capire: la comprensione della Vita è nella vita stessa, nella quotidianità del gesto, nell’amore del quotidiano, nel voler bene , nell’avere gli altri sempre come impegno sociale... non serve, quindi, cercare la Verità, essa è, infatti, nella capacità che c’è in ognuno di noi di accettare il proprio viatico, anche se con dolore oppure con gioia e chi lo sa… la vita riserva molti doni… La filosofia tomistica permette a Maritain di recuperare la verità su Dio, la verità è che Dio è comunque dentro di noi (S. Agostino) ma è anche nella totalità delle nostre azioni, nel recupero del senso dell’umanità intesa nel valore più alto e grande della FILOSOFIA. Filosofia come amore verso noi stessi, verso l’umanità e verso il sapere nella sua totalità, purchè esso non ci allontani dalla vita di tutti i giorni… Spesso non c’è una vera differenza fra il sapere filosofico degli autori precristiani e quelli cristiani: cambiano le situazioni ma l’uomo che cerca se stesso attraverso l’Ineffabile, l’uomo che cerca la particella dell’antimateria, l’uomo che si scopre piccolo ed umile di fronte all’ Infinito, questo Uomo è quello di sempre. Il pensiero di Maritain, quindi, non è contaminazione del tomismo ma una evoluzione stessa della filosofia del grande filosofo, una filosofia che esce fuori dalla “difensiva” e si pone al centro della quotidianità del cristiano. 33 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Laura Foti Tra noi e l'inferno o il cielo c'è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile del mondo. Blaise Pascal(Pensieri) L’uomo è, quindi, un “animale dotato di ragione, la cui suprema dignità consiste nell'intelligenza”; è uomo in quanto libero individuo in relazione personale con l’Ineffabile, la cui suprema virtù consiste nel cum- prendere l’essenza della nostra esistenza, di abbracciarla tutta, per potersi sentire appagato di vita nella vita stessa. L’uomo vuole affidarsi a Dio, vuole affidarsi all’Amore, vuole affidarsi all’Umanità ed, in quanto fede- fiducia, affidarsi a Dio significa seguirlo, significa ritrovare la nostra possibilità nella possibilità che Egli stesso ci ha donato, significa ritrovare la consapevolezza dell’ umanità in qualsiasi essere umano, perché in ognuno di noi c’è la comprensione del tutto. L’uomo spesso vive la propria esistenza come precarietà, ma si tratta di una precarietà “minima” perché sicuramente ognuno di noi vive per una missione e tale ricerca deve essere alla base della nostra vita, affinchè il caso e la noia non ci avvolgano e non ci annichiliscano “L'uomo non raggiunge la sua perfezione che soprannaturalmente, egli non cresce se non sulla croce. Un umanesimo è possibile, ma a condizione che esso abbia per fine Dio attraverso l'umanità del Mediatore, e che egli predisponga i suoi mezzi a questo fine essenzialmente soprannaturale: umanesimo dell'incarnazione; a condizione che esso si ordini tutto intero all'amore e alla generosità redentrice”.100 La storia è il monumento dell’uomo che vive perché crede nell’umanità ed è nell’andare verso gli altri che l’essere umano si ritrova… è nell’altro che io vedo il riflesso di una creazione, della mia creazione, è per l’altro che spesso piango ed è nell’altro che spesso gioisco… i cerchi della Vita e della Verità si chiudono e si …incontrano: la storia dell’uomo è semplicemente la storia dell’uomo che ritorna a Dio… La concezione antropologica, che sta a fondamento della filosofia di Maritain è quella della filosofia «classica», che da Platone in poi, vede nelle mondo delle Idee e quindi in un mondo “sopra di noi” il Bene supremo a cui l’uomo tende ed aspira. Dall’ Umanesimo in poi, spesso la filosofia scientifica ha voluto riabilitare l’uomo ed il mondo terreno senza tenere conto delle sue aspirazioni e della volontà che c’è nell’uomo di credere in Dio: un mondo senza Dio è un mondo senza l’uomo e se vogliamo credere nell’umanità e nelle sue possibilità dobbiamo credere anche nelle sue debolezze e nella sua “non- capacità di comprendere”. 34 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina 100 In: Le docleur angélique, Desclée De Brouwer, Paris 1930, p. 28. Francesca Torella A theory of freedom between reality and simulacrum101 di Francesca Torella Introduction Francesca Torella, già allieva del Liceo Scientifico G.B.Grassi di Latina, oggi studentessa universitaria 101 Elaborato classificato al secondo posto nelle selezioni nazionali delle Olimpiadi di Filosofia 2012. T he possibility of conceiving a complex idea as the one generally called “liberty”, implies a consubstantial dyscrasia between the methaphysical sphere and the juridical-economic one. It could seem a obstrouse matter but, deeply analyzing our condition of man, leaving in a society thrown in a profound crysis, it seems admisible to ask a question: can we really consider our freedom on actual fact, despite the subtle conditioning that a “globalized, unsettled market society” imposes on our free will, or is it just a starling simulacrum? The great paradox The Kafkaesque perspective of being falsely free, should stimulate a serouius analysis both on the potential and the actual limits of our liberty: if we accept, as Kant theorized, that the limit of our freedom is the other person, we must admit, at the same time, that the world in which we live in hides many paradoxies: as a matter of joke, the hypercapitalistic, modern society as well as the prevailing tendency to consumism cannot be conceived if released from its ingrained “egoistic” spirit; capitalism means profit and, to obtain this supreme purpose, everything is allowed, even the violation of the ”moral person” that clashes with “the violation of man’s degnity and freedom” (as Erich Fromm noticed). Looking for the lost Relationship The dyscrasia that we mentioned in the introduction coincides whith the intrinsie comflit between a “man” defined by Aristoteles as a “social animal” and, the modern society, in which idea of the relation-ship as the basic presupposition of human nature, has been over-shadowed by the imperative of profit. It does not mean that, overtaking the “the limit of the human relationship”, man acquires an absolute freedom, as a matter of fact the “relationship” is the necessary presuppotion for freedom itself and, a liberty etimologically intended as “absoluta” could not be possible for a man that actually exists, only as a Being in the “world”, with the “others”. The key-point is that renouncing to this indispensable requisite (the authentic human relationship), we have generated a hyper-consumistic society that illude us with the shining simulacrum for boundless liberty (freedom to buy what we want, to go wherever we desire), a frivolous and illusory liberty that “exist” untill we have a credit-card to use. The unconsiousness of the silkwarn Nietzsche considers the freedom of the man’s will an “original mistake” that is inborn in human mind and that cannot be removed, because of it represents the foundamental spur to act: “man is like the silk-warn, that looks for the liberty of its will, while spinning” (Thus spoke Zarathustra). This quotation should make us reflect on the dynamics of our existence as “man-consumers”: what if we were like Nietzsche’s silkwarn, that looks for freedom while working to erect its limits? maybe we do not realize that we look for freedom just where there is extreme necessity, because we tend to consider the structure of the society as not deriving from its members while, probably, we “are” the reflection of the system in which we exist and, as Bauman affirms, we live in a system that manipulates its members, making them feel free while reducing them to be simply an unconscious “year” of the “hyper-consumistic machine” of the post-capitalistic society. That’s the jungle From this point of view, we can better understand the authentic meaning of Hayek’s statement: “who owns all the means, established all the aims”. We cannot disprove this assertion but we must admit that we aare dealing with a “liberal”, civilized society, regualated by the “law of the jungle” (the strongest win): it sounds paradoxical, does not it? The point is that if we admit a society in which having more “economic power” means having much more opportunity we are legittimating a world where there will always be a clean fragmentation of man’s “potential of freedom”, in clear contrast with the egalitarian ideal of the Enlightenment and, hopefully, with the common sense. Conclusion As Hume stated, the only thing we cannot bound, is “man’s freedom of imagining and transposing his ideas”; just the ourness of the infint liberty of our imagination should represent the principal stimulus to start thinking about a new way of organizing our society possibly conceiving one in which the human relationship recovers its centrality. 35 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Pasquale Iezza Una formazione logica di Pasquale Iezza Pasquale Iezza, dirigente della scuola media statale “G. Volta” di Latina, studioso e cultore di filosofia L a scuola ha la finalità principale di contribuire alla formazione di un allievo consapevole delle proprie potenzialità e protagonista attivo della comunità di cui fa parte. Gli insegnanti hanno il compito di dare ai propri studenti risposte di senso, chiare e coerenti. Per dar senso alle cose bisogna saper organizzare il pensiero in modo da rispondere ai diversi perchè. Pensare in modo logico è un’attività impegnativa e mai scontata, è apertura all’esterno senza mai perdere di vista il mondo interiore. Il grande pericolo è quello di impigliarsi nella rete infinita delle informazioni che, sovraffollando i pensieri, ci allontanano dalla reale conoscenza. Abitare la complessità cercando di comprenderla significa districare con pazienza il pensiero dal groviglio dei dati che occupano la mente per seguire un percorso lineare: la formazione è il filo di Arianna che porta dalla complessità alla linearità. A dipanare il tutto è la logica: il vero bandolo della matassa, la rete che tiene tutto unito. Non è funzionale pensare l’universo come una somma di fenomeni slegati gli uni dagli altri ma è più plausibile vederlo come un insieme di fatti coerenti all’interno di un sistema che li abbraccia. La visione del sapere allora si allarga perché non discrimina più gli ambiti della conoscenza, il percorso formativo logico sostituisce la didattica per materie, per discipline, con la didattica per competenze. La competenza è la capacità di usare conoscenze diverse, abilità e capacità personali, per adattarsi ai diversi contesti ambientali risolvendo i problemi in modo efficace, in questo modo un sapere non è più impermeabile all’altro, c’è sempre la possibilità di una trasversalità ed una trasferibilità delle idee. Con un sistema integrato si mettono in comunicazione i diversi ambiti della ricerca, così non ci saranno più discipline che vanno ciascuna per conto proprio, ma saperi aperti, conoscenze interconnesse l’una con l’altra mediante un continuo scambio ed un dialogo sempre aperto. Il punto di contatto, di coesione dei saperi è proprio la logica che ci permette di comprendere la natura unitaria delle conoscenze. I quattro assi culturali: linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico, storicosociale, sono assi solitari ma, se avranno come architrave di unione la logica, potranno costituire le nuova fondamenta dei processi di conoscenza. Solo un pensiero che si riconosce nell’agire comunicativo e dialogico può porsi come fulcro di operazioni logiche e argomentative in grado di offrire ri- 36 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina sposte sensate. La dimensione ecologica della mente, la scienza critica della formazione, la ricerca epistemologica ci consegnano questa base critica da cui partire per avviare un nuovo percorso educativo. Al centro di questa riflessione ci sono i ragazzi, spesso poco orientati, che chiedono agli adulti risposte chiare e coerenti. Il Ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, in apertura dell’anno scolastico 2013/14, ha detto agli studenti: “Ragazzi, siate ribelli e non accettate le cose come sono”. E allora è bello immaginarsi il Ministro “the brave” che, per dare l’esempio, inizi a scagliare le prime tre frecce per centrare il bersaglio del cambiamento. Prima freccia: sono ormai maturi i tempi per cambiare il nome dell’amministrazione scolastica in Ministero della Pubblica Formazione. La proposta ha senso perché per costruire un ragazzo o una ragazza non basta solo estrarre fuori qualcosa dal suo interno (e-ducere), né collocare su strati successivi i saperi che provengono dall’esterno (in-struere), ma bisogna dare forma ad una persona completa che metta in relazione l’esperienza individuale con i contenuti culturali acquisiti. Il Piano dell’Offerta Formativa (POF) ha sostituito il Piano Educativo d’Istituto (PEI), il Miglioramento dell’Offerta Formativa (MOF) integra il Fondo dell’Istituzione Scolastica (FIS), la laurea in Scienze della Formazione ha preso il posto di quella in Pedagogia, oggi si parla esclusivamente Pasquale Iezza di qualità dell’offerta formativa, di successo formativo, di esperienze formative formali e non formali, di polo formativo, tutte le scuole sono “Istituti di Formazione”, nel Regolamento dell’Autonomia, il D.P.R. 8 marzo 1999, n° 275 prevale il termine formazione rispetto ad istruzione ed educazione. I termini usati nella riflessione pedagogica, istruzione ed educazione, ad un’analisi più attenta, appaiono complementari e sono, comunque, entrambi presenti in ogni processo formativo, ecco perché con la parola formazione si opera una sorta di sintesi che potrebbe permettere il superamento di qualsiasi contrapposizione e confusione. Terza freccia: il Ministero della Pubblica Formazione deve essere al passo con i tempi. Gli studenti, oggi, hanno sviluppato un nuovo tipo di intelligenza, l’intelligenza digitale, per cui è fondamentale che gli insegnanti siano formati ed aggiornati su questa nuova grande possibilità che hanno per entrare in contatto con loro. Solo così si lasciano le abitudini e le convinzioni statiche, si conosce e si agisce per elaborare nuove modalità di comunicazione, si costruiscono interazioni coinvolgenti, si formulano categorie del sapere da mettere in discussione. Il tecnicismo, la specializzazione, il pensiero convergente, il ripetere meccanicamente cose già apprese, non permettono ai ragazzi e ai docenti di costruire insieme un percorso diverso. E’ giusto, allora, per il rispetto dell’individuo, cercare di sviluppare un pensiero che sia divergente, che abbia cioè le seguenti caratteristiche: 1) fluidità: facilità di spostamento di un’idea da un ambiente di apprendimento all’altro (dalla lavagna in ardesia alla LIM o da un foglio di carta al tablet); 2) flessibilità: capacità di adattare, di piegare il proprio pensiero alle differenti situazione e ad un mondo in continua evoluzione, sensibile alle innovazioni tecnologiche e sociali; 3) originalità: possibilità di cogliere la novità, di uscire fuori dagli schemi precostituiti e convenzionali. Seconda freccia: nel nuovo Ministero della Pubblica Formazione è utile inserire la logica come attività formativa stabile, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di II grado, in modo tale che gli studenti siano in grado di spiegarsi e di razionalizzare il percorso che li fa giungere ad una soluzione. Spiegare un percorso logico significa saper argomentare, cioè giustificare una scelta e sostenere un punto di vista sulla base di fatti verificabili. Questa capacità argomentativa è una competenza indispensabile nella vita di tutti i giorni, qualsiasi attività si decida di intraprendere. Talvolta è esplicita e trasparente, semplice come la risposta cui tende; tal’altra appare informe, indefinita e vaga; nascosta, velata, non riusciamo neppure a trovarla se non alla fine Dalle tre frecce scagliate con convindel percorso di conoscenza che essa stessa zione e precisione per centrare il bersaglio ci ha spinto a compiere. Noi in quanto es- del cambiamento può nascere una rivoluseri razionali utilizziamo naturalmente la lo- zione del sistema scolastico. gica, però, è importante: • capire come ragionare per arrivare a conclusioni giuste in base a quello che già conosciamo; • studiare i nessi logici, i processi, il funzionamento, i collegamenti dei nostri pensieri per costruire argomentazioni valide; • in definitiva è fondamentale iniziare a praticare la scienza di come pensiamo, per non cadere nelle azioni illogiche che possono provocare danni irreparabili: per noi, per gli altri, per l’ambiente. La risoluzione di quesiti di natura logicodeduttiva è richiesta, in misura sempre crescente, in tutte le prove di selezione del personale, nei test di accesso alle facoltà universitarie a numero chiuso e nei concorsi a cattedre per i futuri docenti. E’ necessario allora, nell’ottica del cambiamento, esercitare, valutare, potenziare, nelle scuole italiane, le capacità che ci permettono di ragionare. 37 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Guide to the Study of Philosophy da : http://www.philosophypages.com/sy.htm pling with the material on your own. You can't develop intellectual independence if you rely for your information on the opinions of other people, even when they happen to be correct. • Consider the context Philosophical writing, like literature of any genre, arises from a concrete historical setting. Approaching each text, you should keep in mind who wrote it, when and where it was published, for what audience it was originally intended, what purposes it was supposed to achieve, and how it has been received by the philosophical and general communities since its appearance. Introductory matter in your textbooks and the Internet resources accessed through the course syllabus will help you get off to a good start. • Take your time Welcome to the study of philosophy; I hope that you will enjoy your pursuit of the discipline and find it rewarding in many ways. In this document, I've gathered some information that may be of assistance to you as you proceed through a formal course of study. You may also wish to consult the Teaching and Studying Resources page of Episteme Linksand the Dictionary of Philosophical Terms and Names. Contents • Reading Philosophical Texts Using Electronic Texts • Philosophical Dialogue The Electronic Forum • Writing Philosophy Writing Research Papers Writing Essay Exams Reading Philosophical Texts The assignments in your course require you to engage in a close reading of significant texts written by the major philosophers of the Western tradition. Since you may have had little experience in dealing with material of this sort, the prospect may be a little daunting at first. Philosophical prose is carefully crafted to achieve its own purposes, and reading it well requires a similar degree of care. Here are a few suggestions: • Do the assigned reading The philosophical texts simply are the content of the course; if you do not read, you will not learn. Coming to class without having read and listening to the discourse of those who have is no substitute for grap38 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Careful reading cannot be rushed; you should allow plenty of time for a leisurely perusal of the material assigned each day. Individual learning styles certainly differ: some people function best by reading the same text several times with progressively more detailed attention; others prefer to work through the text patiently and diligently a single time. In either case, encourage yourself to slow down and engage the text at a personal level. • Spot crucial passages Although philosophers do not deliberately spin out pointlessly excessive verbiage (no, really!), most philosophical texts vary in density from page to page. It isn't always obvious what matters most; philosophers sometimes glide superficially over the very points on which their entire argument depends. But with the practice you'll be getting week by week, you'll soon be able to highlight the most important portions of each assignment. • Identify central theses Each philosophical text is intended to convince us of the truth of particular propositions. Although these central theses are sometimes stated clearly and explicitly, authors often choose to present them more subtly in the context of the line of reasoning which they are established. Remember that the thesis may be either positive or negative, either the acceptance or the rejection of a philosophical position. At the most general level, you may find it helpful to survey the exam study questions in your course study aids file as you read each assigned text. • Locate supportive arguments Philosophers do not merely state opinions but also undertake to establish their truth. The methods employed to support philosophical theses can differ widely, but most of them will be expressed one of the forms of logical argumentation. That is, the philosopher will (explicitly or implicitly) offer premises that are clearly true and then claim that a sound inference from these premises leads inexorably to the desired conclusion. Although a disciplined study of the forms of logical reasoning is helpful, you'll probably learn to recognize the most common patterns from early examples in your reading. • Assess the arguments Arguments are not all of equal cogency; we are obliged to accept the conclusion only if it is supported by correct inference from true premises. Thus, there are two different ways in which to question the legitimacy of a particular argument: - Ask whether the premises are true. (Remember that one or more of the premises of the argument may be unstated assumptions.) - Ask whether the inference from premises to conclusion is sound. (Here it will be helpful to think of applying the same pattern of reasoning to a more familiar case.) If all else fails, you may question the truth of the conclusion directly by proposing a counter-example which seems obviously to contradict it. • Look for connections Since these texts occur within a tradition, they are often directly related to each other. Within your reading of a particular philosopher, notice the way in which material in one portion of the text links up with material from another. As the semester proceeds, consider the ways in which each philosopher incorporates, appropriates, rejects, or responds to the work of those who have gone before. Finally, make every possible effort to relate this philosophical text to what you already know from courses in other disciplines and from your own life experiences. Above all else, don't worry! You'll spend most of your class time going over the assigned readings, often in great detail. You'll have plenty of opportunities to learn what other readers have found, to ask questions for clarification of puzzling passages, and to share your own insights with others. As the semester proceeds, you will grow ever more confident in your own capacity to interpret philosophical texts. Using Electronic Texts The philosophers' pages here will pro- vide you with convenient access to electronic versions of most of the texts you'll be reading and to other texts by the same or related authors. Please learn to make use of these materials regularly. I think you'll find that e-texts offer a number of advantages for research in philosophy: • With a little practice, you'll find the virtual library easy to get around in. Welldesigned hypertext files are particularly useful, but even straight text files are often easier to manipulate than physical books. • It is much more convenient to compare related texts in electronic than in print form. (The trilingual version of Descartes's Meditations is an excellent example. • Using the utilities provided with your browser or word-processing software makes it easy to search the text for key words or phrases and to excerpt crucial passages for further study. Exciting prospects! As David Hume wrote in a different context, "When we run over libraries, persuaded of these principles, what havoc must we make?" Before committing any of our old print volumes to the flames, however, we might consider a few words of caution: • Not every significant text is available in electronic form. Although many worthwhile projects are busy expanding the number of texts on-line, the process of conversion from print media to reliable etext is time-consuming and labor-intensive. It will be a long time before Internet resources can begin to rival the holdings of even a small research library. • Because of copyright restrictions, the electronic texts available on the Internet rarely include the best critical editions or the most recent translations of the work of major philosophers. (For those we must still rely on more costly print or CDROM media.) When using e-texts in the preparation of a written assignment, you'll want to refer to the more definitive print versions before quoting directly. • Not all of the readily available e-texts are of the highest quality; scanning errors are common, and proof-reading is sometimes spotty. Although I've tried to identify reliable versions, I've certainly not checked every word myself. Again, be sure to double-check against a more standard print version of the text. • Finally, in my own experience, at least, for the kind of leisurely, ruminative readingthat most philosophical texts require, a physical volume—the kind of thing you can spread out on your lap or mark up with a pencil or even heave across the room—is still hard to beat. 39 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Philosophical Dialogue Verbal discussion of serious topics is in no way tangential to the practice of philosophy. From Socratic gatherings to the philosophical conventions of today, thinking things through out loud—and in the presence of others—has always been of the essence of the philosophical method. (Most philosophical texts embody this give-andtake, either in explicit use of dialogue form or by a more subtle alteration of proposal, objection, and reply in expository prose.) Your philosophical education demands that you enter into the great conversation of Western thought. A few suggestions may help: • Be prepared Productive dialogue presupposes informed participants. This means that during every class session, each of us will have read the material assigned for the day, we will pay careful attention to what others have already said, and we will think carefully before speaking. Of course, each of us will often be mistaken, but none of us should ever speak randomly. • Respect others Joint participants in dialogue show a deep, personal respect for each other. We owe it to each other to listen well and to give each other the benefit of doubt in interpreting charitably what has been said, trying always to see the worthwhile point. Although we will rarely find ourselves in total agreement on the issues at stake, we will never attack or make fun of each other personally. • Expect conflict Disagreement with an expressed opinion and criticism of its putative support isnot disrespectful; it is an acknowledgment that we are taking the matter seriously. The more significant the issue under discussion, the more likely our exchanges will become passionate, even heated. But we must always deal with each other fairly, helping each other to see the light. fication of the meaning of something that has already been said or for the justification of a claim that has already been made. (Those who are naturally quiet may find that a well-timed question is the most comfortable way to participate in the dialogue.) Above all, remember that philosophical discussion is a cooperative activity, aiming at a mutual achievement of truth (or, at least, convergence on a shared opinion). It is not a competition in which "points" are to be scored against an opponent. We are working together, and each can learn from all. The Electronic Forum Conducting an on-line discussion during the semester enables us to expand our study of philosophy beyond the spatial and temporal boundaries of traditional class meetings. If you've not participated in this way extensively before, it may take a little energy to get started, but you'll soon find this medium a comfortable one for communicating with the entire group. Early in the session, we'll get to know each other and learn to manage our networking tools effectiely. Here are a few general ground rules for getting started on the electronic forum: • Check the discussion space frequently Every member of the class will be contributing multiple messages each week—perhaps one or two substantive efforts and several short comments. This means that your list of messages will pile up pretty quickly. You'll want to read it daily, or at least several times a week, so that you have a chance to chime in on a subject before we move on to something else. • Avoid lengthy quotes When responding to someone else's comments, don't quote the whole message—we've all seen it already. Just mention the person's name, the date of the message, and quote the few crucial lines that provide a context for what you want to say. (Some identification is a good idea, since we'll all be "speaking" at once.) • Quality counts more than quantity • Never be deliberately offensive Lacking the visual cues present in faceto-face communication, typed electronic messages can easily seem more harsh than they were intended to be. Even in the passion of a vigorous philosophical exchange, let's try to be considerate of each other on both sides—in writing and in reading—by assuming the best. No "flaming," please. Remember that this substitute for the more traditional methods of discussion is still unfamiliar for some of us. That's no rea• Ask questions Not every contribution to the dialogue son to be timid: let's plunge in, try everything needs to be the proposal or defence of a we can think of, learn from our mistakes and thesis. It is always proper to ask for a clari- from our successes, and enjoy the adventure. No discussion will be perfectly balanced among its participants, and each of us will have days on which we are quieter or more vocal. But no one should dominate the conversation, nor should anyone be utterly silent. If you find yourself speaking too much, try to listen more; if you find yourself saying too little, look for opportunities to contribute. But always remember that it is what you say, not the fact of your speaking, that matters. 40 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Writing Philosophy Write to learn. Expressing your thoughts is an excellent way of discovering what they really are. Even when you're the only one who ever sees the results of your explorations, trying to put them down in written form often helps, and when you wish to communicate to others, the ability to write clear, meaningful prose is vital. Here are some suggestions for proceeding: • Understand the assignment Whether you're completing a specific assignment or developing your own project, it is important to have the aims firmly in mind. Focus on a single question you wish to address, be clear about your own answer to it, and explicitly state a thesis that answers the question. You will often want to divide the central issue into several smaller questions, each with its own answer, and this will naturally lead to a coherent structure for the entire essay. • Interpret fairly Most of your writing projects will begin with a careful effort to interpret a philosophical text, and this step should never be taken lightly. Your first responsibility is to develop an accurate reading of the original text; then your criticism can begin. Focus primarily on the adequacy of the arguments which support the stated conclusions. If you disagree, you can look for the weaknesses of that support; if you agree, you can defend it against possible attacks. the thesis. Padding with irrelevant or redundant material is never worthwhile. Be particularly careful in your use of material prepared by others: do not plagiarize, paraphrase without attribution, quote directly often or at length, or rely extensively on a single secondary source. • Write clearly It is your responsibility as writer to express yourself in a way that can be understood. Use specific, concrete language in active voice whenever you can. Define your terms explicitly and use them consistently throughout your paper. Finally, you may find it helpful to keep an appropriate audience in mind as you write. Don't write just for the instructor and your classmates—that is, don't assume that your audience has professional knowledge of the philosophical texts or total awareness of every conversation that has taken place, inside and outside the classroom. Unless otherwise directed by the details of a particular assignment, think of yourself as presenting the material to a friend, your parents, or a class: intelligent, interested people who are well-informed generally but who lack your knowledge of the philosophical issues. Write to teach. Paper Submission Guidelines All written assignments should be submitted in the designated form, and should include a clear indication of the course and assignment number. Be sure to observe the designated due date; work that is turned in late will automatically receive a significantly • Support your thesis Don't just state your own position; make reduced grade. it the conclusion of a line of reasoning. It is reasonable to expect any assiClaim only what you can prove (or are, at least, prepared to defend), and support it gnment prepared outside class to be written with evidence and argument. Philosophy is well, with careful attention to grammar, spelnot just a list of true opinions, but the reaso- ling, and usage. Philosophical writing should avoid offensive sexual, racial, ethnic, relined effort to provide justification. gious, and material or physical bias. • Consider alternatives Be sure to explore arguments on all sides of the issue you address. Of course you will want to emphasize the reasoning that supports your thesis, but it is also important to consider likely objections and to respond with counter-arguments. Be especially carefully in your use of examples: the best positive example can only clarify meaning and lend some evidentiary confirmation, but a single counter-example disproves a general claim completely. • Omit the unnecessary Include in your written work only what is germane to your topic: after the first draft, mercilessly eliminate from your text anything that does not directly and uniquely support You may employ any one of the methods of attribution described in The Chicago Manual of Style, but must be consistent in both notes and bibliographies. Direct quotations from the philosophers should be taken from the standard edition of the works or the definitive English translation as listed in Richard T. DeGeorge, The Philosopher's Guide or from the texts you have been asked to read for this course. If you make significant use of an electronic source, remember that this deserves documentation, too, including the author's name, titles for both the page and the site, a complete Uniform Resource Locator, and the date on which you viewed it on-line. 41 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Thus, for example, work on George Berkeley's philosophy might include references to: • George Berkeley, A Treatise concerning the Principles of Human Knowledge, Section 22. HTML edition by David R. Wilkins. •<http://www.maths.tcd.ie/pub/HistMath/People/Berkeley/ HumanKnowledge/HumanKnowledge.html#Sect22 > Accessed 30 September 1998. • "George Berkeley," The Internet Encyclopedia of Philosophy, ed. by James Fieser.<http://www.utm.edu/research/iep /b/berkeley.htm> Accessed 25 April 1999. • Garth Kemerling, "Berkeley's Immaterialism," Philosophy Pages. <http://www.philosophypages.com/hy/4r. htm> Accessed 14 October 2000. • Peter B. Lloyd, "Berkeley's Metaphysics," Berkeley Studies. <http://easyweb.easynet.co.uk/~ursa/philos/berkmet a.htm> Accessed 23 June 1999. question means, ask me for a clarification. Take a moment to organize your thoughts on the subject, and dive in. • Stick to the point Make sure that your essay is directly relevant to the question asked. Although you will know a great deal more about the philosopher or topic at issue than your answer requires, it will be read only for information and/or argumentation that responds to the specific question. If you believe that additional material is required, indicate clearly and explicitly how it connects with the matter at hand. • Use your time wisely Although essay exams in philosophy are not meant to be intensely time-pressured, they must be completed within certain limits. You may be asked to write four or five short essays during an exam, allowing fifteen or twenty minutes for each. Don't get so absorbed in one question that you spend much more than its share of the available time; if you have more to say, jot down a note or Although you're welcome to use such two, move on to another question, and resources, it is not possible to write an ade- turn to complete your answer if time allows. quate research paper using on-line materials alone. Print resources are far more • Make every word count extensive, detailed, and reliable. Although it is always helpful to write clearly—that is, in complete, grammatically corIn addition to these formal criteria, please rect sentences—there is no need to craft consult the general suggestions for Writing beautiful prose. Avoid lengthy prefatory, Philosophy above. transitional, and summary verbiage. Get the Writing Essay Exams essentials down on paper, and trust the instructor to evaluate your essay by its quaSince a significant portion of your grade lity, not its quantity. for this course will depend upon assessment of your knowledge and skill as reflected in examinations, here are a few suggestions for dealing with essay exams: • Be prepared Rely heavily upon the study questions distributed at the outset of the course: look over them at the beginning of each unit; use them to guide your reading of the texts and our discussion in class; and review them before the exam. If you have considered these issues fully, nothing on the exam itself can surprise you. Arrive promptly for the exam, and try to be well-rested, and relaxed. • Understand the question Before beginning to write, read each question carefully and completely; it will ask that you address a specific issue in a particular way. Pay close attention to words (such as "Describe...," "Explain...," "Compare and contrast...," "Assess...," and "Evaluate...") that suggest the appropriate mode of response. If you are uncertain what a 42 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Laura Foti Educazione ed autoformazione di Laura Foti Laura Foti, vive a Latina ed insegna filosofia e storia presso il Liceo Classico D. Alighieri. Si occupa di didattica della filosofia contemporanea e di psicologia della scrittura L a pedagogia , attraverso la pratica di essa che, comunemente, chiamiamo didattica è una scienza in quanto è costituita da un sistema organico di saperi che ha come destinatario privilegiato il bambino, prima e poi , l’adulto. Non a caso “paidòs” = ragazzo ed “achei”= portare (nella etimologia classica del termine pedagogia), indicano un “viaggio” didattico dove il progetto empatico docente- discente è alla base per insegnare ed allo stesso tempo imparare. Il concetto di educazione implica ovviamente un panorama molto ampio : educazione pedagogica in senso etico-morale, in senso affettivo ed in senso culturale : l’impegno pedagogico ( e la sua traduzione in didattica) implica non solo quantità di tempo verso il discente ma soprattutto una qualità di tempo che deve essere continuamente vagliata e posta a continua critica (kantianamente intesa) dal docente. La didattica pedagogica , quindi, ha come fine ultimo non quello di creare teorie generali dell’educazione, ma quello di costituire modelli di intervento educativo spendibili all’interno di ogni società. La pedagogia , infatti, rielabora modelli già proposti verificandone prima le condizioni attuative, ma soprattutto valutando risorse per progettare e , di conseguenza attuando interventi educativi precisi e mirati, per “accertare non ciò che lo studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che sa”, alla quale andrebbe aggiunto l’avverbio “consapevolmente”. (M. Pellerey). Secondo Mario Pellerey la pedagogia , quindi , elabora un progetto che sta alla base dell’intervento educativo da attuarsi attraverso cinque situazioni didattiche: Primo principio. Una competenza sia generale, sia di studio, sia di lavoro si sviluppa in un contesto nel quale lo studente è coinvolto, personalmente o collettivamente, nell’affrontare situazioni, nel portare a termine compiti, nel realizzare prodotti, nel risolvere problemi, che implicano l’attivazione e il coordinamento operativo di quanto sa, sa fare, sa essere o sa collaborare con gli altri. Ciò vale sia nel caso delle competenze legate allo sviluppo della padronanza della lingua italiana, della lingua straniera, della matematica e delle scienze, sia alla progressiva padronanza delle tecnologie e tecniche di progettazione, realizzazione e controllo di qualità nel settore di produzione di beni e/o servizi caratterizzanti il proprio indirizzo, sia per quanto riguarda quelle che nel documento sull’obbligo di istruzione sono chiamate competenze di cittadinanza. Anche un coinvolgimento indiretto può aiutare a sviluppare tali competenze, cioè la possibilità di fare non solo esperienze dirette, ma anche esperienze vicarie, cioè l’interiorizzazione di modalità d’azione messe in opera da altri, che possono essere rievocate e valorizzate in circostanze simili. Tutto ciò è favorito dal partecipare ad attività di alternanza scuola lavoro. Un ruolo centrale, come risulta dalla stessa definizione europea di competenza, è svolto dalla qualità della conoscenze e delle abilità sviluppate nei vari ambiti di studio. Esse infatti devono essere non solo acquisite a un buon livello di comprensione e di stabilità ma devono anche rimanere aperte a una loro mobilizzazione e valorizzazione nel contesto di ogni attività di studio, di lavoro o di una vita sociale. Secondo principio. La progettazione di un’attività formativa diretta allo sviluppo di competenze dunque deve tener conto della necessità che le conoscenze fondamentali da questa implicate siano acquisite in maniera significativa, cioè comprese e padroneggiate in modo adeguato, che le abilità richieste siano disponibili a un livello confacente di correttezza e di consapevolezza di quando e come utilizzarle, che si sostenga il desiderio di sviluppare conoscenze e abilità nell’affrontare compiti e attività che ne esigono l’attivazione e l’integrazione. Per questo è necessario l’individuazione chiara delle conoscenze e abilità fondamentali che le varie competenze implicano e del livello di profondità e padronanza da raggiungere e, dall’altra, l’effettuazione di un bilancio delle conoscenze, delle abilità già acquisite 43 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Laura Foti ed evidenziate da parte dello studente (o, eventualmente, delle competenze da lui già raggiunte). Dal confronto tra questi due riferimenti è possibile elaborare un progetto formativo coerente (POF). Ciò è abbastanza evidente nel caso delle competenze riferibili allo scrivere, al leggere e alla matematica, competenze che condizionano non poco lo sviluppo di qualsiasi altra competenza. Terzo principio. La consapevolezza, che tutti gli insegnanti dovrebbero raggiungere circa il ruolo degli apporti delle loro discipline allo sviluppo delle competenze intese, favorisce la presenza di un ambiente di studio nel quale studenti e docenti collaborano in tale direzione. Si tratta di promuovere una pratica formativa segnata dall’esigenza di favorire un’acquisizione di conoscenze e abilità del cui valore ai fini dello sviluppo personale, culturale e professionale indicate nelle competenze finali da raggiungere siano consapevoli sia i docenti, sia gli studenti. Ciò implica l’uso di metodi che coinvolgono l’attività degli studenti nell’affrontare questioni e problemi di natura applicativa (alla propria vita, alle altre discipline, alla vita sociale e lavorativa) sia nell’introdurre i nuclei fondamentali delle conoscenze e abilità, sia nel progressivo padroneggiarli. Quarto principio. L’ambiente nel quale si svolgono le lezioni dovrebbe assumere sempre più le caratteristiche di un laboratorio nel quale si opera individualmente o in gruppo al fine di acquisire e controllare la qualità delle conoscenze a e abilità progressivamente affrontate, mentre se ne verifica la spendibilità nell’affrontare esercizi e problemi via via più impegnativi sotto la guida dei docenti. Un vero e proprio laboratorio di scrittura in italiano, eventualmente sostenuta dall’uso personale e/o collettivo di tecnologie digitali, nel quale si possano anche redigere relazioni su quanto esplorato nelle scienze o nelle tecnologie, oltre che commenti alle proprie letture; un vero e proprio laboratorio di introduzione e di applicazione dei concetti e dei procedimenti matematici, mediante la soluzione di problemi anche ispirati allo studio parallelo delle scienze o delle tecnologie; esercitazioni nella lingua straniera, valorizzando, se ci sono, quanti ne manifestano una maggiore padronanza o mediante la lettura e/o ascolto collettivo di testi tecnici in inglese. Si tratta di promuovere una metodologia di insegnamento e apprendimento di tipo laboratoriale, alla quale si potrà accostare con ancor maggior profitto l’utilizzo delle previste attività da svolgere nei laboratori. In particolare una didattica per progetti risulterà del tutto proficua. Lavorare per progetti, infatti, consente di cogliere lo scopo di molti apprendimenti anche di tipo ripetitivo, come quelli connessi con lo sviluppo di alcune abilità strumentali. L’impostazione di un lavoro collettivo al fine di conseguire il risultato o prodotto finale del progetto permette anche di far pratica di attività di natura progettuale, gestionale e collaborativa. Quinto principio. Infine, occorre ribadire che nella promozione delle varie competenze previste, anche a livello di biennio iniziale, va curata con particolare attenzione l’integrazione tra quanto sviluppato nell’area generale, comune a tutti gli indirizzi, e quanto oggetto di insegnamento nell’area specifica di ciascun indirizzo. In particolare nel promuovere le competenze di natura tecnica proprie di ciascun indirizzo occorre evidenziare i collegamenti esistenti con le conoscenze e le abilità introdotte negli assi matematico e scientifico-tecnologico e, viceversa, facilitare l’applicazione dei concetti, principi e procedimenti degli assi matematico e scientificotecnologico alla costruzione delle competenze tecniche e tecnologiche. Questa impostazione implica una particolare cura nella progettazione didattica dei vari insegnamenti e nella loro realizzazione, cercando in primo luogo una sistematica collaborazione tra i docenti delle varie discipline coinvolte e, in secondo luogo, favorendo una costante verifica della capacità di collegamento da parte degli studenti tra quanto appreso nell’area comune e quanto affrontato nell’area di indirizzo e viceversa. (Pellerey - “Insegnare per sviluppare competenze”).Proprio per questo nelle scuole nasce il POF come progetto dell’Offerta Formativa, che parte dal Progetto Educativo che è uno strumento di lavoro per rendere l'azione educativa mirata, continuativa ed efficace perché rispondente ai bisogni reali degli allievi. Il Progetto Educativo nasce da scelte di fondo condivise e si esprime concretamente nella programmazione. La programmazione, infatti, costituisce l’espressione concreta del Progetto Educativo stesso. Il Progetto Educativo offre una visione globale della realtà in cui si opera, cogliendo correlazioni, orientamenti e necessità. Esso favorisce la valorizzazione e la distribuzione delle risorse, il contenimento di azioni dispersive, l’offerta di proposte di qualità. In tal modo, si può veramente pensare in termini di sviluppo assicurando la miglior qualità di proposta a tutti gli alunni. Pensare all'educazione dei bambini /ragazzi in termini di progetto è un modo di stimolare ed educare a un atteggiamento attivo verso la realtà e i problemi, da affrontare con rigore ed essenzialità, facendo un miglior uso di risorse. Il Progetto Educativo, quindi, persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea verticale esprime l’esigenza di impostare una formazione che possa poi continuare lungo l’intero arco della vita; quella orizzontale indica la 44 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Laura Foti M. Laeng Atlante della pedagogia, 1990 2 E. Morin: Il Metodo 5. L’identità umana, 2002 necessità di un’attenta collaborazione fra la nel quale poi verrebbe calato a riempirlo di scuola e gli enti extrascolastici. volta in volta un contenuto. La vera metodologia pedagogica è quella immanente Ma la pedagogia è anche la scienza che della ricerca (Aldo Agazzi: “Il discorso pestudia il processo educativo in tutti i suoi dagogico. Prospettive attuali del personaliaspetti ed in tutti i suoi agenti educativi quali smo educativo), che si costruisce con essa famiglia, scuola, gruppi sociali e lungo tutta e si definisce, spesso, nel momento in cui si la durata della vita (Raffaele Laporta), alla esplica, per non entrare in contraddizioni base di essa vi deve essere una coerenza con i soggetti. In pedagogia, talvolta, alcuni di mezzi e fini come scriveva chiaramente autori hanno corso il rischio di pensare di J. Dewey per cui l'esperienza educativa aver scoperto le leggi generali dell’insegnadeve partire dalla quotidianità nella quale il mento-apprendimento, rischiando così di soggetto vive per assumere, nel tempo, un appiattire il senso universale del percorso percorso esperienziale dove interagiscono didattico maieutico che ci insegna come l’incontinuamente vissuto ed esperienza in segnamento parta dal socratico “conosci te una forma sempre più piena ed organiz- stesso” per arrivare a non definirsi come inzata. L'esperienza è realmente educativa segnamento stesso ma come progetto di rinel momento in cui produce l'espansione e cerca permanente. Questo ci fa capire l'arricchimento dell'individuo, conducendolo anche in parte la tendenza di vari autori a verso il perfezionamento di sé e dell'am- tenere distinta la metodologia dalla didattica biente (J. Bruner). Un ambiente in cui ven- intesa in maniera più ristretta come l’arte gono accettate le pluralità di opinioni di dell’insegnare un determinato contenuto: è diversi gruppi, talvolta anche in contrasto meglio parlare di metodologia dell’educatra loro, favorisce lo sviluppo progressivo zione morale (che comporta non solo condelle caratteristiche dell'individuo. Inoltre l’ tenuti cognitivi ma anche etici e sociali) impatto pedagogico può essere affrontato piuttosto che di didattica della stessa. Agli nelle situazioni più svariate: quali difficoltà studenti che oggi chiedono “ma la scuola a genitori e figli, svantaggi sociali e/o conflitti cosa ci servirà” si può rispondere che la paculturali, inserimento delle persone diver- rola servire ha un significato positivo ed uno samente abili, reinserimento dei detenuti, negativo: la scuola è cultura e la cultura può riabilitazione dei tossico dipendenti e/ o ma- non servire mai ma domina, la cultura è lati1. chiarezza a partire dal rapporto con noi Nel percorso pedagogico dobbiamo te- stessi (come evidenziato da Pellerey). nere a mente, come scrive M. Laeng Comunque il rapporto educazione-di(Atlante della Pedagogia) che ogni cultura è dattica- cultura è un rapporto molto stretto, un “sistema”, vale a dire un’ “unità di diffe- infatti, il sociologo Bauman ci ricorda come renze”; “infatti la cultura si caratterizza so- l’aspetto positivo della pedagogia, attraprattutto perché sorpassa il dato puramente verso il veicolo della didattica, evita l'"omonaturale, spesso essa è creazione artifi- geneizzazione", evita l'omologazione, cioè ciale, che l’uomo realizza producendo l’eco- l'assorbimento passivo di abitudini che la nomia, la tecnologia, le lingue, le arti e le mente non riesce a filtrare, ma che prende scienze, che si trasmettono come patrimo- attraverso una passività esperienziale, nella nio di generazione in generazione”.Oggi quale l’interazione fra soggetto- oggetto e sappiamo che in un percorso pedagogico pressoché nulla. vi sono i momenti di “natura” separati dai Talvolta, la società “contrasta” l’espemomenti di “cultura”, in un dualismo tipico rienza pedagogico- didattica perché pensa dell’educazione occidentale dove la natura di poterne fare a meno ma il sociologo Bauè vista come un insieme di predisposizioni man ci ha avvertito: nella società di oggi “le naturali attraverso le quali il docente inte- situazioni in cui agiscono gli uomini si moragisce con il discente attraverso la libertà dificano prima che i loro modi di agire rienegativa (Rousseau), libertà che vede l’at- scano a consolidarsi in abitudini e tualizzazione dell’individuo come ente au- procedure”. L’intervento della scuola e nella tonomo e capace di scegliere tra le varie scuola può favorire il sorgere di nuove stratificazioni culturali eteronome quali la esperienze e di nuovi pensieri, solo la nascienza e la fede; il momento di cultura o li- scita di nuove prospettive e frontiere pedabertà positiva, invece, viene rappresentato gogiche possono aiutare la sopravvivenza dalla capacità di insegnare, attraverso della società perché come scrive il filosofo schemi categoriali, sistemi e regole nelle Edgar Morin, “l’educazione deve contribuire quali l’individuo vive in uno stato di perenne all’autoformazione della persona che diimperativo etico dove l’agire riflette la coa- venterà cittadino, passando per la scuola”.2 zione interiore dell’individuo. (E. Kant“Critica ragion pratica”). Va dunque superata l’opinione che si possa dare un metodo pedagogico “a priori” o per così dire “vuoto” 45 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Gianmarco Russo L’uomo nietzscheano come prefigurazione dell’esistenzialismo ateo di Sartre: di Gianmarco Russo Gianmarco Russo, studente del Liceo Ginnasio “D.Alighieri” di Latina «La grandezza dell'uomo sta in questo, che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo amare è il fatto che egli è un passaggio e un tramonto» (Friedrich Wilhelm Nietzsche, Also sprach Zarathustra) «Se l'uomo possiede una comprensione preontologica dell'essere di Dio, non sono né i grandi spettacoli della natura, né la potenza della società che gliela hanno conferita: ma Dio, valore e scopo supremo della trascendenza, rappresenta il limite permanente a partire dal quale l'uomo si fa annunciare ciò che egli è. Essere Uomo è tendere a Dio; o, se si preferisce, l'Uomo è fondamentalmente desiderio d'essere Dio» (Jean Paul Sartre, L'être et le néant) I due brevi testi qui riportati, il primo tratto dallo Also sprach Zarathustra di Nietzsche e il secondo contenuto nel capolavoro dell’esistenzialismo sartriano, gettano luce sulla concezione dell’uomo fornita dai due filosofi alla luce del raffronto tra uomo e Dio. Lo iato esistente fra uomo e Dio sembra essere la chiave di volta per comprendere le due posizioni, sebbene a quest’ultime non sfuggano affatto definizioni che esprimono, come propria dell’uomo, la sua capacità di auto progettarsi. Nietzsche, dopo aver fatto proclamare da Zarathustra che «Dio è morto» (che in tedesco suona «Gott ist tot!»), gli fa annunziare lo Übermensch, il tanto conosciuto e volgarizzato “Superuomo” (o, come traduce in maniera assai significativa Vattimo, “Oltreuomo”), come ciò che è al di là dell’uomo stesso. Lo Übermensch nietzsceano, il punto archimedeo della speculazione del filosofo di Röcken, è colui che è in grado di accettare la dimensione tragica e dionisiaca dell’esistenza; dir di sì alla vita; di «reggere» (secondo il lemma proposto sempre dal Vattimo) la morte di Dio e la perdita delle certezze assolute; di emanciparsi dalla morale del cristianesimo; di far propria la prospettiva dell’eterno ritorno; di porsi come volontà di potenza; di procedere oltre il nichilismo; di affermarsi come attività interpretante e prospettica. A prescindere di una chiarificazione della terminologia nietzscheana utilizzata per i concetti di dionisiaco, volontà di potenza, nichilismo e prospettivismo, che in questa sede può risuonare pleonastica, ci sembra davvero rilevante sottolineare come l’uomo di Nietzsche al crocifisso preferisca Dioniso, al cristianesimo sostituisca il culto di se stesso (in un atteggiamento che potremmo definire «umano, troppo umano»!), ad uno «scopo» anteponga un «ponte». Così, in un atteggiamento che gli proviene da Nietzsche e, fra gli altri, da Feuerbach, ma con in più il concetto dello scacco cui l’uomo è destinato, Sartre, come emerge 46 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina dalle poche righe più su proposte, concepisce l’uomo come ente limitato permanentemente da Dio nell’atto della propria auto progettazione che, nei termini dell’ultimo Sartre, si configura come un “nuovo umanismo”, per di più (non poteva essere altrimenti) ateo. Sotto quest’ottica, l’uomo sartriano è ciò che egli stesso può o vuole farsi, egli è costantemente problema a se stesso e soluzione di questo problema, continuamente progetta il suo modo d'essere o di vivere (e questo progetto entra a costituire in qualche grado e misura il suo modo d'essere o di vivere effettivo). E Sarte non è nemmeno immune dal presentare limitazioni di questa progettabilità: limitazioni che agiscono specialmente nel fatto che ogni progetto trova già, in qualche misura, come dati (cioè come relativamente immodificabili) gli elementi di cui si avvale; che tutto ciò che esso può progettare nel futuro è già stato in qualche modo o forma nel passato; e che pertanto il passato condiziona entro certi limiti (riconosciuti più o meno estesi) il futuro dell'uomo. Questo è il senso in cui Heidegger ha detto che il progetto è il modo d'essere fondamentale dell'uomo; e in cui Sartre ha parlato di un progetto fondamentale del mondo. Non solo: Sartre ha insistito sulla libertà assoluta della progettabilità e ha considerato puramente arbitraria o gratuita la scelta di un progetto qualsiasi. L’uomo come auto progetto è il centro dell’ umanismo sartriano che, come si può ben comprendere, costringe a negare l’esistenza di Dio. Infatti, se Dio esistesse, ci sarebbe, prima e al di sopra dell'uomo, un'istanza che penserebbe e determinerebbe la natura umana: in tal caso, l'essenza dell'uomo sarebbe anteriore alla sua esistenza e la condizionerebbe. Ma l'uomo non sarebbe allora realmente libero. O Dio, o la libertà umana: le due cose non possono coesistere. Ritorniamo dunque, nella nostra analisi, al punto di partenza: Sartre modificando i toni disperati e drammatici e gli aspetti nichilistici del pensiero nietzscheano, individualistici e pessimistici (cui, tuttavia, in un primo momento era pienamente devoto), senza rinunciare all’assunto fondamentale per cui l’esistenza è libertà incondizionata, aggiunge che la libertà è al tempo stesso anche responsabilità, facendo dell’esistenzialismo una filosofia, sì atea, ma comunque dell’impegno per l’uomo e per la sua emancipazione materiale e spirituale, che coniugava (inutile nasconderlo) con il marxismo. Marika Incandela Liberi: riflessione sulla condizione della libertà di Marika Incandela Ogni moto, movimento, ogni essere vivente risulta essere condizionato da leggi naturali immutabili ed eterne; gli stessi uccelli, per secoli emblema della libertà, dell’essere davvero libero, nel corso della loro esistenza seguono dettami fissati nel loro codice genetico, non certo libero arbitrio. E dunque perché l’uomo dovrebbe essere esente da tutto questo? Lo stesso Voltaire, scrive: Marika Incandela, studentessa del Liceo Ginnasio “D.Alighieri” di Latina “In realtà, sarebbe ben strano che tutta la natura, tutti gli astri obbedissero a delle leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi, potesse agire come gli piace solo in funzione del suo capriccio”.102 102 Voltaire: “il Filosofo ignorante” 103 B.Spinoza Tutte le opere, ed. Bompiani Conseguentemente se la nostra volontà è subordinata al determinismo delle leggi di natura non sembra possibile dare legittimità alla nostra condizione di “esseri liberi”, ma se la nostra volontà viola le leggi di natura, allora davvero l’uomo, questo “piccolo animale alto cinque piedi” rappresenta una “misteriosa eccezione” all’ordine di natura messo in luce dalla scienza. C omunemente nei dizionari di lingua italiana il termine libertà si riferisce alla facoltà dell’uomo di pensare e agire in piena autonomia. Quando, però, si è davvero liberi? Cosa significa esserlo davvero? Liberi poi da cosa? Da costrizioni morali e materiali, da regole, vincoli, obblighi, impedimenti, schemi mentali, tradizioni. Liberi da tutto ciò che ci circonda, dal nostro passato, dall’ambiente in cui viviamo, dal nostro patrimonio genetico. Liberi da tutto ciò che attimo dopo attimo ci modella, ci determina. Liberi da tutto ciò che ci ha formato e che ci formerà. Liberi, quindi da noi stessi, dai nostri limiti e da quell’apparato mentale che ci caratterizza. Ed è in questo senso che Spinoza ha potuto ridurre la libertà a una pura credenza,illusione, la stessa che avrebbe una pietra, che, cadendo sotto l’azione di gravità, pensasse di “essere liberissima e di persistere nel movimento per nessun’altra causa se non perché lo vuole”103. E ancora la libertà umana che ciascuno di noi,ingannandosi,si vanta di avere, si risolve nella consapevolezza dei nostri “appetiti”, ma nella completa ignoranza delle cause dalle quali questi scaturiscono. La libertà viene ad essere, dunque, un’illusione ma anche una condizione necessaria dell’essere umano. Una condizione che risulta essere vana al di là delle parole e che con ogni probabilità si risolve,concretaE, dunque, la libertà che percepiamo nel mente, nella necessità, nella “condanna” a momento in cui operiamo le nostre scelte o discutere di libertà e di libero arbitrio da quando compiamo le nostre azioni sarebbe parte nostra. vana, del tutto illusoria. E l’idea, che le leggi della natura siano così condizionanti da non permetterci di operare alcuna scelta appare alquanto inquietante e, al contempo, necessaria. 47 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi 48 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina LECAN Eventi Fra le attività previste nello statuto della S.F.I., per il perseguimento delle proprie finalità, è inclusa l’organizzazione delle Olimpiadi di Filosofia, che quest’anno sono alla loro XXII edizione. Quindi anche per quest’anno scolastico 2013-2014 il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) – Direzione Generale per gli Ordinamenti scolastici e per l’Autonomia scolastica – e la S.F.I., nell’ambito delle iniziative volte alla valorizzazione delle eccellenze, hanno organizzato la XXII Olimpiade di Filosofia, riservata agli studenti e alle studentesse del secondo biennio e del quinto anno della scuola superiore di secondo grado. Le finalità che si vogliono perseguire nell’organizzazione di queste olimpiadi sono: promuovere l’educazione filosofica nella scuola secondaria ed aumentare l’interesse per la filosofia negli studenti, incoraggiare lo sviluppo di competizioni filosofiche nazionali, regionali e locali fra gli studenti pre-universitari, contribuire allo sviluppo del pensiero critico, inquisitivo e creativo, promuovere la riflessione filosofica nelle scienze, nell’arte e nella vita sociale, coltivare la capacità della riflessione etica sui problemi del mondo moderno, e, mediante questi percorsi, incoraggiando gli scambi intellettuali e assicurando opportunità di contatti personali fra i giovani di differenti paesi, promuovere la cultura di pace. OLIMPIADI DI FILOSOFIA La Società Filosofica Feronia è sezione della Società Filosofica Italiana, che ha tenuto il primo congresso a Milano nel lontano 20 settembre1906. La S.F.I. è perciò la più antica delle associazioni italiane a carattere filosofico e come tale è riconosciuta dalla Federazione Internazionale delle Società di Filosofia. Essa, inoltre, ha ottenuto nel 1992 l’attribuzione della personalità giuridica ed è stata inserita nell’elenco degli Enti di ricerca ammessi a godere dei benefici del 5 per mille dell’IRPEF. L’Associazione, cui aderiscono professori e ricercatori universitari, docenti di scuola media superiore, cultori della materia, laureati in discipline filosofiche, fin dall’inizio si è assunta il compito d’incrementare gli studi filosofici con convegni, pubblicazioni, costituzione di centri locali di studio, nonché di mantenere questa disciplina nel curriculum degli studi secondari ed universitari. Infatti, nel 1906 la S.F.I. si riuniva per la prima volta a Milano per difendere la presenza della filosofia nella scuola italiana, presenza che era stata minacciata da un disegno di legge che si stava discutendo in Parlamento. Da allora la S.F.I. ha tenuto ben trentacinque congressi oltre che una nutrita serie di seminari, conferenze, convegni su argomenti filosofici, organizzati dai circoli prima e dalle sezioni poi. Pertanto, si può affermare con sicurezza che la S.F.I. ha contribuito in maniera incisiva al mantenimento della filosofia nelle nostre istituzioni scolastiche e culturali, tanto che la larga presenza di queste discipline connota, in senso positivo, la nostra cultura e la nostra scuola nel confronto con gli altri Paesi europei. La gara si svolge attraverso due canali distinti; A, canale nazionale (in lingua italiana); B, canale internazionale (in lingua straniera, scelta fra francese, inglese, tedesco, spagnolo). La prova consiste in un saggio su tema filosofico, il cui argomento generale per le olimpiadi di questo anno sarà: Abitanti del mondo tra identità e differenze. La valutazione dei saggi per entrambi i canali saranno effettuate: • per la selezione d’Istituto da un’unica Commissione di docenti dell’Istituto di appartenenza • per la selezione regionale da un’unica Commissione regionale designata, d’intesa con il MIUR, dalla S.F.I. • per le gare nazionali da un’unica Commissione nominata, d’intesa con il MIUR, dalla S.F.I. Le gare per designare i vincitori dei canali, nazionale e internazionale, si terranno a Roma rispettivamente il 9 e il 10 aprile 2014. L’11 aprile saranno premiati i primi tre classificati del Canale Nazionale e i primi due classificati del Canale Internazionale. I due studenti italiani vincitori del Canale Internazionale parteciperanno alle International Philosophy Olympiad (IPO) di Vilnius. La Società Filosofica Feronia dalla sua fondazione si è attivata, per promuovere e coordinare la partecipazione dei licei di Latina e provincia a questa importante competizione, che ritiene momento fondamentale per la crescita personale degli alunni e opportunità di approfondimento disciplinare. 49 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi 50 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi Società Filosofica Feronia Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana 27 maggio 2013 ore 20,00 Conversazioni in simposio il consenso e il DISCORSO SULLA SERVITU' VOLONTARIA di Etienne De La Boétie relazione prof. Donato Maraffino 27 Maggio 2013 ore 20,00 Pizzeria – ristorante “Al Parco” Via Tito Speri, Latina 51 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi 52 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi 53 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi 54 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Eventi Società Filosofica Feronia Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana "Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'Io" Incontro del 6 Maggio 2013 ore 20,30 Relatore prof. Zaffiro Antonino 55 Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina Società Filosofica Feronia Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana Finito di stampare nel mese di GENNAIO 2013 Tipografia LatinaGrafica Srl Va A. Coletta, 22/24 04100 Latina tel.&fax 0773 611121 FONTI: http://www.settemuse.it/pittori_scultori_europei/albrecht_durer05.htm (3) http://medicinadigruppo.altervista.org/Medicina/sto08_1.htm(9) http://www.filosofia.sns.it/index.php?id=172&L=0(10)http:// www.aldogiannuli.it/2013/09/unitapolitica-europea/(11)http://commons.wikimedia.org/wiki/File:La_Bo%C3%A9tie_-_ %C5%92uvres_compl%C3%A8tes_Bonnefon_1892.djvu(19) http://www.geaonlus.it/wp/(26) Hans_von_Aachen_Joking_couple (31) Lacan (31) Maritain (33) Ripa_dignity_allegory(34) http://www.echeion.it/arte-letteratura/la-passeggiataperche-non-ci-sentiamo-quasi-mai-nel-posto-giusto/ (37) tutti a bordo-dislessia FILOSOFIA (42) http://www.reggioemilia150.it/Sezione.jsp?idSezione=21 (47) http://www.nuovaedilvaleggio.it/ cmf/index.php?option= com_content &view=article&id=49&Itemid=62 (49)