Società Filosofica Feronia
Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana
L’insegnamento della filosofia in Italia e il futuro
dell’educazione europea
di Francesco Paolo Firrao
Libertà e servitù volontaria
La fortuna del Discorso di Etienne de La Boétie
di Donato Maraffino
Sette saperi per il futuro
Edgar Morin e la riforma educativa
di Maria Letizia Parisi
Lo specchio di Lacan
Intorno a Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io
di Antonino Zaffiro
A theory of freedom between reality and simulacrum
di Francesca Torella
Umanesimo ed umanità in J. Maritain
di Laura Foti
Una formazione logica
di Pasquale Iezza
Guide to the Study of Philosophy
Massime per lo studio e l’uso della filosofia
Educazione ed autoformazione
di Laura Foti
Juvenilia
Eventi 2013 e Anticipazioni 2014
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Francesco Paolo Firrao
L’insegnamento della filosofia in Italia
e il futuro dell’educazione europea
di Francesco Paolo Firrao
Francesco Paolo
Firrao, è stato
docente di storia
e filosofia nei licei,
docente a contratto
in Filosofia del
linguaggio; cultore
della materia
filosofica nella Scuola
di Formazione della
Facoltà di Lettere
e Filosofia,
Università degli Studi
di Firenze;
è autore di testi ad uso
liceale ed universitario
ed esperto in ambito
didattico filosofico
e consulente
editoriale.
I
l tema propostomi in quest’occasione dagli
Amici della Sfi di Latina non può essere
trattato senza collocarlo in un complesso
quadro problematico che mette in discussione ogni suo termine: insegnamento della
filosofia in Italia; futuro dell’educazione europea. Solo dopo l’analisi critica di questi
segmenti semantici si potrà avanzare
un’ipotetica relazione tra l’insegnare filosofia
in Italia e l’attesa di una realtà che deve ancora realizzarsi: il futuro dell’educazione europea. Un futuro, quello a cui ci dirigiamo
che trova sempre più difficoltà a farsi vedere
in un orizzonte offuscato da nebbie prodotte
da conflitti tra stati che faticano a riconoscersi come parti integranti dell’Unità Europea ( da ora U.E. ).
A che cosa serve, oggi, la filosofia? Qual
è il suo senso per le nuove generazioni di
giovani destinati a vivere in un’età storicamente complessa con forti caratteri di globalità? In che stato di salute si trova la
filosofia, in un contesto culturale che rispetto
al recente passato mostra profondi e radicali cambiamenti non solo nei contenuti,
sempre più vari e diversi, ma anche nei generi e negli stili comunicativi; quale deve essere il suo compito come disciplina
d’insegnamento curricolare all’interno di un
sistema d’istruzione in stretto rapporto con
una società civile che avverte con sempre
maggiore forza l’irrompere di problemi sociali, di cambiamenti identitari con il conseguente mutamento nei ruoli sociali e di
cittadinanza, delle innovazioni tecnologiche
nei mezzi di comunicazione di massa? In
termini più sintetici è da chiedersi con sempre maggiore forza: che cosa insegna chi insegna filosofia e cosa apprende chi la
studia?
Solo rispondendo a queste domande si
può affrontare la successiva questione sulla
funzione dell’insegnamento della filosofia
nel futuro dell’educazione europea.
Oggi stiamo vivendo in un’epoca storicamente rilevante che per i profondi cambiamenti culturali e civili, vista in una
prospettiva futura, sarà definita epocale, di
spartizione storico – culturale. Si sta passando dall’era della stampa su carta a
quella digitale, dei tablet, di internet considerato come canale privilegiato dell’acquisizione di informazioni. Informazioni, non
conoscenze. Perché l’una si trasformi in conoscenze sono necessari interventi cognitivi
che non possono essere prodotti dalle tecnologie, bensì dal soggetto che acquisisce
le informazioni. E’ su questa distinzione che
andrebbe letta ed interpretata l’espressione
con cui è caratterizzata dai mass media la
nostra società: società delle conoscenze.
Chi produce conoscenze? Pensare che
esse siano il prodotto delle tecnologie informatiche è un grosso errore che rischia di ridurre l’uomo ad un semplice robot. La
conoscenza è e rimane un prodotto della
mente umana, delle sue ricche potenzialità
non solo razionali, ma anche emotive. Conoscere non è solo sapere ‘puro’, formale,
è anche amore per ciò che si sa; è anche
desiderio di condividere ciò che si sa; è
anche ricerca di maggiore chiarezza tramite
il confronto con l’altro: è dialogo.
In questo scenario cognitivo si colloca la
filosofia che, oggi, nonostante sia oggetto di
eventi culturali di massa, come gli annuali
festival emiliani o sarzaresi, tanto per citare
quelli di più ampia risonanza pubblicitaria, e
di visibilità da parte dei filosofi che ormai non
mancano mai ai talk shows televisivi, osservando i tabulati statistici delle iscrizioni universitarie, la pubblicità sui quotidiani per le
iscrizioni alle facoltà, gli esiti delle prove di
esami di maturità ed altro, sembra aver
perso la propria identità e di conseguenza il
proprio valore didattico. Si ha la sensazione
che il vecchio sistema dei saperi filosofici si
sia smantellato dando origine ad una moltitudine di frammenti di saperi non ancora
ben organizzati dal punto di vista epistemico. Sembra che si riviva un’ulteriore
nuova fase ‘sofistica’, in cui la retorica prevale sulla dialettica; la parola sul pensiero.
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Francesco Paolo Firrao
Lo scenario non cambia, anzi appare più
contradditorio, se si guarda l’altra faccia
della medaglia, ovvero l’insegnamento della
filosofia negli Ordinamenti del sistema
d’istruzione italiano. Sembra essersi esaurito il dibattito sul senso e sulle modalità didattiche per un insegnamento della filosofia
aperto a tutti, più efficace per la formazione
giovanile ad una vita più consapevole ed eticamente più responsabile, più bilanciata sul
‘900 rispetto ai secoli precedenti. Eppure
questo dibattito, che ha avuto nell’ultimo
trentennio del secolo scorso la sua fase più
alta per ampiezza ed impegno da parte dei
docenti e del Ministero della P.I., oggi MIUR,
anche se oggi sottotono, ha tracciato un
solco che in un certo qual modo ha modificato la cornice didattica dell’insegnamento
della filosofia, ponendo in discussione l’insegnamento della filosofia come rassegna
di teorie, di pensatori, avulsi dai loro contesti culturali e non sempre significativi per le
problematiche dei giovani studenti di oggi.
Dove va la filosofia, oggi? E’ una domanda formulatami da alcuni studenti durante un incontro recente in un liceo
pugliese. Al di là della risposta da me formulata in un contesto argomentativo che è
improprio esprimere in questa sede, la domanda esprime molto bene l’esigenza giovanile di sapere l’orientamento attuale della
riflessione filosofica dopo una stagione a
forte carattere ideologico.
Strettamente connessa a questa domanda è quella riguardante la funzione formativa dell’insegnamento della filosofia
dopo un lungo periodo storico in cui essa è
stata abbinata a stagioni ideologiche cattoliche, laiche, di sinistra marxista o di destra
liberale o pseudo liberale. La fine delle ideologie ha creato un vuoto culturale ‘positivo’
in quanto impegna gli intellettuali a rivedere
la propria identità e, quindi, la propria funzione nella società democratica o in progressivo avanzamento democratico. Alla
filosofia ed al suo insegnamento in Italia, in
particolare, in Europa in un senso più
ampio, e nel globo in uno ancora più ampio
e complesso, si aprono scenari che richiedono in particolar modo un profondo ripensamento sulla sua identità disciplinare.
Nell’ambito più strettamente circoscritto
dell’insegnamento della filosofia in Italia si
registrano atteggiamenti verso la disciplina
che, oltre a riflettere le inquietudini del
mondo accademico e una certa difficoltà a
declinare didatticamente l’ampio e, a volte,
confuso paradigma culturale filosofico, mostra anche una non chiara impostazione
metodologica. Non tutto è da riportare alla
più o meno preparazione dei docenti di filosofia, in particolare, che quotidianamente
devono confrontarsi con la sempre più complessa burocrazia scolastica, che si muove
sull’onda dell’equivocata autonomia scolastica, e con le roccaforti disciplinari dei cosiddetti saperi ‘forti’ e d’indirizzo specifico,
al di là di un piano organico di progettazione
formativa globale dei giovani. Manca nella
scuola di oggi quel senso di appartenenza
dei docenti e degli studenti ad una loro identità culturale che li rende soggetti privilegiati
della cultura del propria comunità cittadina,
nazionale e internazionale. Un’identità questa che può trovare nella filosofia quel sapere inter-culturale capace di tessere al di
là dei rapporti esterni tra saperi, una profonda riflessione critica sui fondamenti comuni a tutti i saperi.
Le oscillazioni sul valore dell’insegnamento della filosofia, che negli ultimi decenni del secolo scorso si sono fatte sempre
più complesse e disorientanti, hanno condizionato non sempre positivamente le scelte
riformistiche della scuola italiana,salve alcune iniziative di alto valore professionale e
culturale di singoli docenti. Si pensi ai tanti
progetti di riforma da quella promossa da
Beniamino Brocca a quelle di Giovanni Berlinguer e della Letizia Moratti, prima, e della
Maristella Gelmini, dopo, fino a Francesco
Profumo. Tanti progetti di riforma per una riforma strisciante negativa de-costruttiva,
poco funzionale alle finalità formative delle
nuove generazioni giovanili che si rivolgono
sempre più alle dilaganti agenzie dei mezzi
d’informazione (internet) e dei social network.
Da questo stato di ‘disorientamento’ si
può uscire solo riproponendo la questione
sullo statuto epistemologico della filosofia e,
contestualmente, su quello dell’insegnamento della disciplina filosofica in sé ed in
rapporto con gli altri saperi, in particolare
con quello scientifico, in un orizzonte formativo che tenga conto della realtà sociale, politica e culturale in cui vivono ed agiscono le
nuove generazioni giovanili.
Una riflessione così impostata, in cui la
rivisitazione del valore epistemologico della
filosofia e del suo insegnamento è strettamente strutturata alla visione della contemporaneità socio–culturale dei giovani
studenti a cui si vuol offrire l’opportunità di
confrontarsi con il pensare filosofico, richiede una scansione metodologica, ponendo in primo piano le finalità formative
dell’insegnamento filosofico.
Troppo è stato detto e scritto sulle finalità
dell’insegnamento della filosofia, per cui è
opportuno soffermarsi su alcuni punti nodali.
Primo. Nel corso storico politico del cosiddetto secolo breve, il XX°, la società europea, non solo italiana, ha vissuto diverse
fasi che hanno avuto come momento epocale il 1989, anno della caduta del Muro di
Berlino, segno tangibile del conflitto ideologico est/ovest. Questo evento è stato
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Francesco Paolo Firrao
1
J. Dewey,
Democrazia
e educazione,
La Nuova Italia,
Firenze,
pag. 198
preceduto dall’affermazione in tutta l’area
orientale dei valori democratici occidentali e
del vento globale liberistico economico –finanziario. I confini tracciati a Yalta (1945)
dai vincitori del secondo conflitto mondiale
(1939 – 1945) sono travolti dai nuovi eventi
politici post-bellici e la stessa Unione Europea, sorta nello stesso 1945 per far fronte
alle urgenze economiche necessarie per la
ricostruzione post-bellica, divenuta nel frattempo un saldo punto di riferimento per gli
Stati europei, tanto che gli Stati aderenti
passano dagli iniziali 6 a 12 nel 1986, deve
far fronte alla ‘nuova’ Germania, non più divisa tra ovest ed est, e ai movimenti che segnano la fine dell’URSS. Dal 9 novembre
1989, con la caduta delle ‘ideologie’, in tutti
settori culturali si è aperta una stagione di
riflessione per la rivalutazione delle posizioni
teoriche liberaldemocratiche, più attente alla
valorizzazione dell’uomo / soggetto di pensiero critico, creativo e più responsabile di
sé verso sé e gli altri.
In questa direzione, tra le tante in campo,
vanno le riflessioni di Hilary Putman,
espresse nel suo saggio Rinnovare la filosofia (1998) e sorrette da riferimenti al pensiero di John Dewey. Solo una filosofia
‘rinnovata’, forte dal punto di vista epistemologico e debole da quello ontologico può
essere in grado di fornire gli strumenti utili ai
giovani studenti a leggere criticamente la realtà in cui essi vivono ed interagiscono. A
fondamento di questo processo di rinnovamento epistemologico della filosofia si pone
l’esigenza deweyana di rendere concreta la
democrazia come orizzonte culturale di vita
civica in cui ciascun cittadino partecipa con
il suo libero e critico pensare alla realizzazione di una società aperta e creatrice di
progresso. Un pensare critico principalmente verso se stesso, capace di mettersi
in discussione e di non affermarsi mai come
pensiero assoluto, dotato di certezze e di
verità indiscutibili; un pensiero ‘fallibilista’,
che tramite il dubbio afferma la verità. Verità
che non ha un’identità trascendente la realtà, ma è realtà mutata, progresso e civiltà
sempre maggiori per gli uomini, per la loro
felicità terrena. Felicità che non s’identifica
quasi mai con il benessere materiale, ma
con quell’equilibrio, anche materiale, ma di
natura culturale tra sé e l’ambiente fisico e
sociale in cui ciascun individuo vive ed interagisce. Uscire dalle verità assolute vuol
dire vivere mentalmente sempre attenti alla
validità concreta delle verità, al loro apporto
alla soluzione dei problemi umani che non
hanno mai uguali valori funzionali alla vita
dell’uomo reale, non astratto dal tempo storico e dallo spazio geografico.
E’ il modello di ricerca pubblica baco-
niano, che la scienza moderna ha accolto su
sollecitazione filosofica, che, come sottolinea lo stesso Dewey, paradossalmente
sembra essere rimasto fuori dalla stessa disciplina filosofica. Infatti, Bacone aveva
compreso la grande importanza del fattore
sociale nello sviluppo delle conoscenze.
Come scrive Dewey in “Democrazia e educazione”: “lo scopo del pensiero è di aiutare
a raggiungere una conclusione, a prevedere
una possibile fine in base a ciò che è già
dato. Poiché la situazione nella quale ha
luogo il pensiero è di dubbio, il pensiero è
un processo di indagine, di esame delle
cose, di investigazione. L’atto di acquisire è
sempre subordinato all’atto dell’indagare.” 1.
Conoscere, quindi, è altro dall’essere informato, così come è ben diverso dal sapere.
Se il conoscere è un atto di ricerca strumentale finalizzato alla soluzione di un problema, di cui materia sono le informazioni, il
sapere esprime l’atto finale del conoscere,
libero da scopi puramente pratici, organizzato concettualmente e espressione della libertà umana. Una società fondata sul
sapere è, in altri termini, una società libera e
democratica. L’insegnamento della filosofia,
se vuole essere veramente strumento di
crescita sociale democratica, non può non
porsi in quest’orizzonte di senso, ispirato ai
principi deweyani e di pensatori a noi contemporanei, come Edgar Morin. Un pensare
filosofico che sviluppi abilità del pensare critico attraverso un piano didattico che non si
risolva in una successione storica di pensatori avulsi da contesti culturali in cui i loro
pensieri si sono alimentati mettendo a fuoco
problematiche e tematiche che appartengono al codice genetico culturale umano.
Problemi e temi universali nella loro identità
formale, ma storici nella loro strutturazione
semantica e nella loro formulazione linguistica e sintattica. Capire come essi emergono in un contesto biografico, storico
politico e culturale, vuol dire cogliere l’originalità ed individualità del singolo pensatore
e con lui quelle dell’epoca in cui esso si
esprime. Insegnare filosofia entro queste
coordinate vuol dire guidare il giovane studente a formarsi un proprio orizzonte di
senso nel quale strutturare le sue domande
sulla realtà, sulla vita, sul suo stesso pensare; a sapersi collocare nel contesto culturale dei suoi studi, della comunità di
appartenenza; a condividere con gli altri i
propri problemi, rendendosi disponibile all’ascolto ed al rispetto dei principi che qualificano una prassi educativo democratica.
Ma perché tutto ciò possa realizzarsi, è
necessario che muti la visione che i docenti,
per fortuna non tutti, hanno dello studente
come una mente da riempire di nozioni pre-
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Francesco Paolo Firrao
preconfezionate, già organizzate e pronte
per essere ingerite, non assimilate. Lo studente, di qualsiasi ordine e grado d’istruzione, è prima di tutto una ‘persona’ e, come
tale, un soggetto complesso in cui la mente
ha un’identità multifunzionale con altrettante
capacità organizzative e creatrici; un soggetto capace di riflettere su di sé, su gli altri
e di interagire con la realtà. E’ ovvio che
nessuna singola persona è identica ad
un’altra: ciascuna ha la sua identità individualizzate che la distingue dalle altre nell’aspetto fisico ed in quello mentale, nella
sua unità biopsichica unica e irripetibile,
come i singoli filosofi, letterati, artisti e politici. In questa prospettiva lo studente di filosofia non si configura più come termine
passivo di un processo di apprendimento
che ha nel docente l’agente unico, bensì
come centro di riferimento di un circuito dialogico che promuove in lui processi di autoriflessione sulle proprie pre-comprensioni,
sui propri pre-concetti in un libero e critico
confronto con il pensiero dei filosofi. In questo contesto dialogico l’insegnante diventa
un interlocutore – regista delle dinamiche
stimolatrici delle capacità meta cognitive,
meta riflessive che rendono lo studente consapevole e critico nei confronti delle capacità mentali sia proprie che degli altri.
Perché questo circuito ermeneutico del
pensiero filosofico non venga percepito
vuoto, astratto da contesti concreti, perché
esso non si perda in un vuoto di parole, ‘flatus vocis’, è necessario che al pensare corrisponda un pensato, oltre un pensatore; ed
il ‘pensato’ è lo scritto filosofico in cui si oggettivizza il pensare del filosofico. Senza i
testi, la loro lettura recitata in modo che
emergano i passaggi del discorrere filosofico, il pensiero filosofico rischia di essere
‘loqui vacua’.
Il disinteresse di molti studenti per lo studio della filosofia nelle scuole italiane è da
imputare principalmente nell’uso pedissequo del manuale come fonte prioritaria delle
informazioni, oggi coadiuvato da internet;
nella tendenza, ancora in uso, anche se in
forma meno ossessiva rispetto al passato
della ripetizione mnemonica di informazioni
bibliografiche e di categorie concettuali nei
loro specifici termini linguistici. In alternativa
si sta diffondendo il cosiddetto metodo dialogico in cui il docente stimola con domande
la sensibilità problematica degli studenti assumendo il ruolo di mediatore d’informazioni
e di soggetto principale dotato di modelli interpretativi certi.
Il panorama d’oggi dell’insegnamento
della filosofia non si esaurisce tutto nelle
strette mura scolastiche, nella metodologia
del docente, ma si amplia con l’imprenditoria editoriale scolastica sempre presente e
attivamente agente nel dare orientamenti
nella didattica disciplinare della filosofia, in
particolare. Avendo avvertito i contrastanti
orientamenti dei docenti nell’impostazione
didattica della materia d’insegnamento, gli
editori, tutti, piccoli e grandi, hanno offerto
al mercato scolastico vari modelli manualistici in cui il sistema espositivo tradizionale
della storia della filosofia è stato variamente
corretto, aggiornato, ampliato o ridotto, con
o senza riferimenti ai testi, con schemi sintetici confezionati, mappe concettuali già
confezionate ed tanto altro, al fine di facilitare sia l’insegnamento, sia l’apprendimento
di una materia che, secondo il loro parere è
difficile gestirla come potrebbero essere le
materie scientifiche e letterarie. Ormai ogni
casa editrice presenta un vasto repertorio di
manuali con più edizioni, a volte rinnovate
annualmente. In conclusione il panorama fin
qui delineato offre uno scenario che per essere ben gestito ha bisogno di punti fermi e
chiari tra cui quello di una identità disciplinare della filosofia, materia di studio.
Un’identità che, come sopra detto, può essere riacquisita dalla filosofia e dal suo insegnamento solo tramite il recupero della
loro vera natura epistemica, di sapere
aperto, fuori da ogni rigido dualismo, rivolto
alla ricerca di significati alle domande di
senso avvertite da chi pone a fondamento
della propria esistenza il pensare critico.
Per essere colto nella sua autentica natura epistemica, come sottolinea Putnam, il
pensiero filosofico deve liberarsi dalle rigide
contrapposizioni, come ad esempio fra lo
scientismo di molti analitici e l’irrazionalismo
dei continentali; deve evitare di rifugiarsi in
sempre nuove forme di esoterismo o di rimanere bloccata in quei crampi mentali e
metafisici denunciati dall’irrequieto Wittgenstein. E’ alla ricerca scientifica, al suo statuto epistemologico, che la filosofia
‘rinnovata’ deve guardare, alle istanze della
scienza contemporanea fondata su libertà e
criticità; deve confrontarsi con la realtà, collegarsi alle crisi e alle tensioni della condizione umana, evitando sempre di porsi
come un sistema immutabile di concetti,
fuori dal tempo, dallo spazio, collocato in un
mondo artefatto, fuori dalla umana comprensione. Il dialogo filosofico, come suggerisce Dewey in Rifare la filosofia, deve far
emergere la complessità, i limiti e le contraddizioni presenti in ogni prospettiva filosofica. Perché ciò si realizzi nella pratica
d’insegnamento non è necessario optare
per la storia della filosofia o per la problematica filosofica. Questione questa che ha
occupato molto spazio del dibattito novecentesco italiano sulla didattica filosofica.
La natura teoretica della filosofia, che
si esprime nell’incessante ricerca, nella
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Francesco Paolo Firrao
2
J. Dewey,
Rifare filosofia,
Donzelli,
Roma,1998,
pag. 157
messa in discussione dei risultati, è presente costantemente in ogni sua forma storica, in quanto, per sua intrinseca natura il
pensare filosofico ha una forza distruttrice di
certezze. Putnam, seguendo lo strumentalismo deweyano, evidenzia il primato della ragion pratica su quella della ragion pura. In
altri termini obiettivo della filosofia, compresa della sua forma insegnata, è quello di
fornire all’uomo strumenti concettuali perché
egli possa vivere consapevolmente nella
sua società.
“L’acquisizione di competenze, il possesso di conoscenze, di cultura, non sono
dei fini: sono segni di crescita e dei mezzi
perché continui”. 2
Senza la cultura, intesa come Weltanschaunng, ossia concezione del mondo da
un punto di vista individuale, che può essere
condiviso fino a divenire una visione collettiva della realtà, della vita, il progresso sociale e la crescita individuale non possono
continuare nella loro via verso il bene pubblico da intendere in stretta connessione
con quello individuale
A questo scopo è da grande aiuto l’istruzione e con essa lo studio rigoroso della filosofia nel pieno rispetto della sua identità
epistemologica che si compone non solo
della conoscenza del pensiero dei singoli filosofi contestualizzati nel loro tempo e nei
loro spazi geopolitici, ma anche della riflessione critica sul senso delle varie e storiche
teorie filosofiche su questioni inerenti
l’uomo, il mondo e Dio, tanto per usare i tre
ambiti teoretici indicati dal grande filosofo
Immanuel Kant.
Prima di ampliare il campo di riflessione
sull’insegnamento della filosofia in Italia a
quello della sua utilità per un’educazione europea del futuro, è opportuno puntualizzare
alcuni aspetti che pur sopra citati:
1. Se si è persuasi che uno dei principali compiti della scuola consista nel rendere consapevoli gli studenti della
tradizione cui appartengono, delle forme
di cultura e delle discipline scientifiche
che in essa sono venute via via emergendo e che costituiscono un insostituibile
patrimonio
conoscitivo
e
pratico-applicativo, sembra difficile mettere in discussione la rilevanza dell’insegnamento della filosofia. Se si ritiene
necessaria la conoscenza degli sviluppi
economici, sociali, politici, scientifici e letterari della nostra civiltà, come si può
pensare di non rendere partecipi gli allievi di un’esperienza intellettuale come
quella filosofica che di tali sviluppi ha
rappresentato uno dei fattori principali?
Come si può pretendere che i giovani
comprendano vicende storiche come la
Rivoluzione francese o il costituirsi di discipline scientifiche come la fisica senza
che venga loro insegnato alcunché di filosofia?
2. Non c’è dubbio che i modi con cui i
filosofi hanno rivendicato l’importanza didattica della loro disciplina abbiano talvolta peccato di esagerazione. Spesso si
è attribuita all’indagine filosofica una rilevanza superiore a quella che di fatto ha
avuto, oppure - e magari in conseguenza
di questo - si è sostenuta la centralità e
financo l’imprescindibilità di essa per la
formazione scolastica. Ciò mi pare
senz’altro eccessivo, perché il fatto che
la filosofia abbia avuto un ruolo fondamentale nella formazione della nostra
tradizione passata non significa automaticamente che debba continuare ad
averlo pure per il futuro, né che il suo apprendimento vada considerato indispensabile rispetto ad eventuali nuove
esigenze fatte nascere dai mutamenti
politici, culturali e scientifici continuamente in atto. E tuttavia sarebbe davvero
strano se per contrastare certe esagerazioni ‘filosofico-centriche’ si finisse per
negare tutto il resto. Se ci si attiene al criterio della rilevanza della filosofia entro il
nostro sviluppo culturale, proprio non si
vede perché i filosofi dovrebbero sentirsi
‘imbarazzati’ nel difendere la presenza
dell’insegnamento della loro materia accanto all’insegnamento della storia civile
e politica, della storia della letteratura e
dell’arte, delle lingue straniere e delle
varie discipline scientifiche. Solo considerazioni specifiche, legate alla necessità di soddisfare altre esigenze ritenute
prioritarie, potrebbero portare a negarle
un posto nel generale processo educativo medio superiore.
3. Altrettanto singolari appaiono le
perplessità espresse sul valore formativo
dell’insegnamento filosofico, sull’idea
cioè che esso educhi, o possa educare,
allo spirito critico, che aiuti a formarsi visioni del mondo consapevoli e unificanti,
che contribuisca a sviluppare la capacità
di argomentare e di vagliare le affermazioni altrui e così via. Contro questa idea,
alcuni hanno fatto osservare - in modo
più canzonatorio che argomentato - che
spesso sono proprio i filosofi a non eccellere in spirito critico nel campo della
loro disciplina e magari in altri ancora.
Ma il problema, naturalmente, non è
quello di determinare quanto spirito critico sia capace di ‘sprigionare’ questo o
quel docente di filosofia rispetto,
poniamo, al docente di matematica
o a quello di letteratura italiana.
Pare ovvio che possano esserci
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Francesco Paolo Firrao
insegnanti di filosofia ottusi e dogmatici
e insegnanti di scienze naturali o di materie letterarie intelligenti e mentalmente
aperti. Chi sostiene il valore critico dell’insegnamento filosofico intende riferirsi
al patrimonio concettuale della disciplina
così come esso si trova consegnato nei
grandi classici del pensiero. E che la filosofia, intesa in questo senso, sia stata
depositaria di una forte dose di spirito critico e di consapevolezza argomentativa
può essere negato solo da chi, evidentemente, non è in grado di apprezzare tali
caratteri in tutta la loro forza pur storicamente documentata. Che poi se ne contrasti l’insegnamento sostenendo che lo
spirito critico non è indispensabile perché ci sono molti valenti scienziati, letterati, uomini d’affari che non ne
posseggono affatto è affermazione che,
se anche fosse vera (del che tendo a dubitare), proverebbe ben poco: sarebbe
come contestare l’insegnamento a tutti
delle quattro operazioni o della lingua italiana per la ragione che ci sono sempre
stati braccianti o manovali che facevano
ottimamente il loro mestiere senza disporre di quelle cognizioni.
4. Infine, vi è un’ultima considerazione
che dovrebbe rendere attenti alle sorti riservate all’insegnamento della filosofia.
In uno dei libri più interessanti usciti in
questi ultimi anni sui problemi della
scuola, Lucio Russo ha mostrato come
una delle tendenze maggiormente deprecabili dell’attuale andazzo pedagogico sia quella verso una scuola «per
consumatori». Nella sua prospettiva, ciò
significa una scuola caratterizzata da
una forte avversione per l’astrazione e
quindi tesa ad eliminare «dall’insegnamento gli strumenti intellettuali tradizionalmente basati sull’uso di concetti
teorici». Di contro a questo orientamento, egli fa osservare che “in realtà lo
studio della scienza esatta, e in particolare della fisica, non può basarsi né sulle
‘forme d’intelligenza intuitiva e immaginativa’ che piacciono tanto ai nostri
‘saggi’, né sulla percezione delle
“rappresentazioni mentali” immaginate
dai nostri esperti di tecnologie didattiche.
La scienza esatta si è anzi sviluppata, sin
dall’antichità, proprio superando l’illusione di poter costruire semplici schemi
intellettuali basati direttamente sulla realtà percepibile ed elaborando faticosamente i linguaggi astratti e teorici
suscettibili di descrivere non solo il
mondo sensibile, ma infinite realtà progettabili”. 3
8
Unione Europea: e la nave va…
La riaffermazione dell’identità epistemologica della filosofia e la sua ripercussione
nella pratica del suo insegnamento nelle
scuole, così come sopra sommariamente
delineate, ci permettono di affrontare, come
enunciato nel titolo di questo scritto, il rapporto tra insegnamento della filosofia e educazione europea. Prima, però, di delineare
nello specifico il modello di filosofia funzionale alla formazione del cittadino europeo,
idoneo ad affrontare le sfide che provengono dalla realtà geopolitica europea d’oggi,
è opportuno delineare l’attuale quadro di
quest’ultima.
Considerando l’attuale complessa situazione geopolitica europea viene spontaneo
in mente il ricordo del bellissimo film surrealista del grande regista Federico Fellini dal
titolo E la nave va, in cui si narra l’odissea di
un gigantesco transatlantico che naviga in
tempestosi mari artificiali, che conserva
nelle sue viscere ogni genere di passeggero, senza giungere mai alla sua destinazione portuale. Oggi l’U.E. può essere
immaginata, appunto, ad una Nave in un
mare tempestoso, disorientata, che fa fatica
a trovare una sua giusta direzione. Nonostante questa situazione, che spesso è denunciata come una malattia mortale, i Paesi
che ne fanno parte non abbandonano la
nave, anzi ad essa si avvicinano nuovi passeggeri, trasportati da imbarcazioni di ogni
tipo, che chiedono con insistenza di salire a
bordo. Forse un’immagine più calzante all’attuale quadro europeo è la famosa Corazzata Potemkin che ben evidenzia il
contesto navale in cui un’imponente nave
da guerra ( la corazzata ) è circondata da
tanti bastimenti con capienza e tonnellaggio
diversificati, che agitano allegramente banderuole per richiamare l’attenzione della corazzata. A prescindere da immagini
coreografiche, entrando più nel merito della
riflessione in atto sullo status dell’U.E. in
funzione di un modello di educazione europea realizzabile tramite la filosofia, è prioritario chiedersi qual sia l’immagine
dominante che le Comunità facenti parte
dell’Europa hanno di se stesse?
In termini sintetici si può dire con cognizione storica che l’immagine forgiata dall’immaginario collettivo delle diverse
comunità che fanno parte dell’U.E. è e continua ad essere quella di Stato Nazionale,
ovvero di spazio pubblico in cui un insieme
di etnie legate tra loro da legami di nascita,
di proprietà della terra e, in genere, di natura sociale, è retto da leggi che regolano i
loro diritti e doveri tramite soggetti collettivi,
come lo Stato, con strumenti aggreganti in
miti che veicolano valori di stampo universale, come ‘responsabilità’ dell’individuo nei
confronti del gruppo etnico;
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
3
L. Russo,
Segmenti
e bastoncini.
Dove sta andando
la scuola?, Milano,
Feltrinelli, 1998,
pp.26, 97-98
Francesco Paolo Firrao
4
J. Habermas,
L’inclusione dell’altro,
Studi di teoria politica,
Milano, Feltrinelli,
1998.
‘emancipazione’ della natura sia interna che
esterna del gruppo etnico; ‘dignità’ per sottolineare l’inalienabile differenza di ciascun
individuo dagli altri e dall’Altro in senso neutro ed ampio. In altri termini nell’immaginario
collettivo domina il senso della propria Libertà garantita da valori che rimandano alla
propria appartenenza etnica, alla propria
rappresentanza politica statale ed ai grandi
valori socialmente e politicamente aggreganti. Soffermandoci un po’ con spirito critico sui valori costitutivi dello Stato nazionale
non possiamo non annotare che essi si basano sulla differenza e sulla separazione etnica, naturale e sociale; che essi non
garantiscono relazioni internazionali tra gli
Stati. Il sogno degli Stati Uniti d’Europa è
espressione del timore che le individualità
nazionali possano dare origine a conflitti bellici; è un sogno che lentamente e progressivamente tende a trasformare i diversi
‘popoli’ in unico spazio comune pubblico, in
un’Europa immaginata come la denomina
Montesquieu: una nazione di nazioni. Uno
stato costruttore di un Io comune che non si
traduce mai in una realtà concreta; che è
piuttosto un faro che da molto lontano, tanto
da essere immerso nella nebbia e da essere
invisibile ad occhio nudo, guida la nave e
tutte le imbarcazioni che tentano di seguirla
nel suo girovagare in cerca della corretta
rotta.E’ ancora giovane l’U.E. per essere
una nave capace di costruire intorno a sé
una flotta: E la nave va.
Per una filosofia inter-culturale
Quale modello educativo, oggi, per la formazione del cittadino europeo? Come la filosofia, sia come forma di sapere, ricerca di
risposte ai problemi su cui s’interroga da
sempre l’uomo, ogni singolo uomo, sia il suo
insegnamento, al di là dei differenti sistemi
scolastici in cui essa è collocata, può contribuire alla formazione della coscienza europea, di appartenenza alla comunità
europea? Sono queste le domande a cui si
deve dare una risposta che eviti il rischio di
rendere un modo di pensare o d’insegnare,
praticato in uno degli Stati dell’U.E. superiore o inferiore all’altro. Perché questo rischio non si realizzi è necessario assumere
come punto di riferimento un punto valoriale
che ci permetta di riflettere al di là di particolari posizioni filosofiche teoretiche o pratiche, ontologiche, metafisiche, politiche,
metaforicamente immaginabili come lottatori
in un ring di box. Non poniamo l’attenzione
sui lottatori, ma sui confini che permettono
loro di muoversi in un campo ben limitato
entro cui il loro confronto si svolge con regole e procedure senza le quali esso sarebbe una battaglia sfrenata con il rischio
del loro totale annientamento.
Qualsiasi proposta etica o giuridica dovrebbe assumere sempre come suo principio di base quello che J. Habermas indica
come “universalismo sensibile alle differenze”4, dando un senso nuovo all’eurocentrismo, che ne corregga quello tradizionale
di appropriazione di culture storicamente differenti. Al tiranno Periandro del VII – VI sec.
a. C. è attribuito un detto che potrebbe suggerire un punto di vista funzionale ad un
nuovo universalismo non solo eurocentrico,
ma anche globale: il detto in lingua greca
dice “ Meleta to pan “ che tradotto vuol dire
“ bada al tutto”, “abbi cura del tutto”. E’ l’invito all’uomo a prendersi cura del mondo,
stabilendo con esso rapporti senza assumere atteggiamenti di dominio, di affermazione di sé, come potrebbe far intendere il
detto socratico ‘conosci te stesso’ di fronte
al mondo. La differenza sostanziale del presupposto per un neo-eurocentrismo universale non si concretizza più nel conoscersi di
fronte al mondo, bensì nel prendersi cura
del mondo, ovvero nell’inter- medietà con il
mondo. E’ quest’ultimo un carattere dell’essere uomo che, onde evitare equivoci, andrebbe meglio chiarito. Oggi si parla spesso
di ‘inter-cultura’ affiancata a volte a ‘multicultura’.
Il senso dell’inter-medietà dell’uomo con
il mondo va affiancato a quello di ‘inter-cultura’, in cui quest’ultimo termine, cultura, va
intesa come ciò che esprime la ‘cura’ degli
uomini verso il mondo.
9
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Francesco Paolo Firrao
Quella ‘cura’ che è tradizione intesa
come trasmissione di ciò che si tramanda
come messaggio da leggere ed interpretare,
per cui il rapporto con la cultura è un rapporto con la tradizione che c’è, ma che attende di essere interpretata. Il rapporto
interculturale, così concepito, esprime il rapporto interno alla cultura, alle culture, che si
concretizza per l’uomo in una medietà sempre aperta con il mondo, con la ‘mondità del
mondo’ che ha il suo luogo privilegiato nel
linguaggio. Capire è interpretare; ed interpretare è entrare in contatto vivo con il messaggio, con il linguaggio dei topoi
interculturali, ossia con i luoghi dell’interculturalità: il politico, l’arte, la religione, la
scienza, l’assistenza sociale, l’istruzione, il
corpo, l’economia, la guerra, la pace, la nazione. Nel circuito ermeneutico interculturale
il soggetto, il singolo uomo, entra a far parte
di una dinamica dialettica in cui la sua identità si ridefinisce continuamente in dimensioni sempre più ampie, riaffermando la
propria entità umana, ovvero la propria libertà che rende uomini tutti gli uomini.
E’ la libertà, il valore posto a fondamento
di tutti i modelli formativi non solo europei,
su cui si costruiscono storicamente e culturalmente i sistemi educativi.Solo nella libertà
gli uomini possono con – vivere, altro dall’incontrarsi, consapevoli che la loro reciproca libertà può trasformarsi nel suo
opposto, creando padroni e servi, dominatori e dominati, potenti e sottomessi.
Nel 1924 il poeta francese Paul Valery
nel suo saggio L’Europeo scrive “E’ degno
di nota il fatto che l’uomo europeo non sia
definito dalla razza, né dalla lingua, né dai
costumi, ma dai desideri e dall’ampiezza
della volontà”5. Che cos’è libertà se non desiderio di incontrarsi con l’Altro per convivere ideali, sogni; volontà di costruire un
mondo sempre più umano? Come? ‘[….] attraverso un eroismo della ragione’ 6 dice
Husserl nella sua conferenza del 1935 su La
crisi dell’umanità europea e la filosofia. Una
ragione non più dettata dalla volontà di potenza, ma dall’ampia volontà di costruire
un’identità nazionale con eguale valore delle
differenti culture nazionali e luogo di una
produzione di senso collettivamente vincolante nel contesto delle società nazionali,
capace di convergere le politiche verso una
cultura politica comune per una società europea di cittadini responsabili verso tutti e
non solo verso coloro che appartengono alla
loro razza: comunità nazionale.
Come passare dalla cultura illuminata e
illuministica alla cultura al mondo, all’interculturalità; da un cultura che si pone come
unica interprete delle culture in quanto portatrice di verità illuminante, ad una cultura
aperta alla comprensione del senso di cui
tutte le culture sono portatrici con il fine di
creare un tessuto culturale comune su cui
ritagliare identità sempre più aderenti ai
cambiamenti globali? Tramite un tessuto
composto, da un lato dai fili dell’ordito, accuratamente teso, che corrispondono alle
numerose culture nazionali con la loro precisa identità e che affondano le proprie origini in un passato remoto; dall’altro, dai fili
della trama del pensiero che tramite la comprensione della lingua dell’altro e la traduzione da una lingua all’altra evince il
linguaggio del mondo. In altri termini la
trama che relaziona in un Tutto comune
nella diversità originaria non può non essere
la cultura in colloquio in cui il mondo ci parla
in tutti i sensi senza essere mai nessuno di
essi. Un mondo che è ‘medietà’, che non è
una dimensione, ma dà dimensioni; definibile con l’es gibt, ‘si sa’, con cui Heidegger
sottolinea la modalità con cui prendono
forma i rapporti fra cielo e terra, fra uomini e
dei, fra parola e cosa. Come scrive il filosofo
spagnolo Josè Ortega y Gasset nel 1930 in
La ribellione delle masse: “Se oggi dovessimo fare l’inventario del contenuto della
nostra mente - opinioni, principi, desideri,
supposizioni – scopriremmo che la gran
parte di esso non deriva dalla Francia per il
francese, né dalla Spagna per lo spagnolo,
bensì dal comune sostrato europeo” 7. Sostrato, ovvero che sta sotto, che è nella comune radice culturale in continua
espansione, in profondo divenire.
10
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
5
Mosè, Platone, Dante,
Il cuore dell’Europa,
di Trichet Jean Claude,
in Corriere della Sera,
9 agosto 2009
6
Trichet Jean Claude,
idem
7
Trichet Jean Claude,
idem
Francesco Paolo Firrao
8
H. Husserl, La crisi
dell’umanità europea
e la filosofia,
La crisi delle scienze
europee e la filosofia
trascendentale,
trad. it. a cura
di E. Filippini,
il Saggiatore, Milano,
2000, pp. 347 – 348
Trichet Jean Claude,
Mosè, Platone,Dante.
Il cuore dell’Europa in
Corriere della Sera,
9 agosto 2009
In conclusione si può rispondere al tema
del titolo della relazione affidatami, che la
medietà come iter-medietà della comunicazione, come la cultura in colloquio con il
passato per captare alle radici il presente e,
quindi, proiettarsi verso il futuro, inteso
come realtà da costruire sulle fondamenta
storiche di una cultura trasmessa e sempre
oggetto di nuove più critiche interpretazioni,
trova nell’identità epistemologica della filosofia la sua espressione culturalmente più
adeguata. In un insegnamento della filosofia
che ha il suo carattere dominante nel dialogo tra studenti e docenti, in cui dominanti,
anzi esclusivi siano i problemi e tramite questi i filosofi con i loro testi, in un’ottica aperta
che rimette tutto in discussione in quanto
l’obiettivo formativo non è l’apprendimento
di una nozione, bensì l’acquisizione di un
proprio punto di vista con cui rivolgersi al
mondo ben comprendendo che anche quest’ultimo ‘si dà’ culturalmente nella medietà
interculturale. Si pensi a quanto scrive il
grande filosofo E. Husserl, guida intellettuale di tutto il percorso da noi seguito nella
riflessione sui due temi del nostro scritto:
“L’Europa non è più un aggregato di nazioni
contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì uno spirito della libera critica
e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea
tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali!
[…] Infine questi ideali infiniti valgono anche
per la sintesi sempre più vasta delle nazioni,
una sintesi in cui ciascuna nazione, proprio
BIBLIOGRAFIA
J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli,
Roma, 1998.
J. Dewey, Democrazia e educazione,
La Nuova Italia, Firenze, 198
L. Illetterati, Insegnare filosofia.
Modelli di pensiero e pratiche didattiche,
Utet, Novara, 2007.
J. Habermas, L’inclusione dell’altro,
Studi di teoria politica, Milano,
Feltrinelli, 1998
H. Husserl, La crisi dell’umanità europea
e la filosofia, La crisi delle scienze europee
e la filosofia trascendentale,
tr.it. a cura di E. Filippini, Il Saggiatore,
Milano, 2000, pp. 347 – 348 )
Putnam, Rinnovare la filosofia,
Garzanti Libri, Milano, 1998
Rorty, La filosofia e lo specchio della natura,
Milano, Bompiani, 1986
L. Russo, Segmenti e bastoncini.
Dove sta andando la scuola?,
Milano, Feltrinelli, 1998
per il fatto di perseguire il proprio compito
ideale nello spirito dell’infinità, offre alle altre
ciò che ha di meglio. Attraverso questa offerta e la sua accettazione si amplia e si innalza la totalità sopranazionale, con tutte le
società che si articolano in essa, colma dello
spirito di un compito superiore e articolato in
una molteplicità infinità, l’unico tuttavia che
sia infinito” 8
Conclusione
Il filo rosso, che ci ha guidato in queste riflessioni sull’insegnamento della filosofia in
Italia e sul suo contributo ad un’educazione
europea del futuro, ha come suo principio di
fondo la convinzione che il continente europeo ha un’identità, tutta da ridefinire, che va
oltre i suoi incerti e fluidi confini geografici;
che questa identità non può non essere
un’identità riflessiva: l’Europa non può esistere a prescindere da un ‘sapere’ sull’Europa, da un’< eurosofia >.Da un sapere
all’interno del quale la filosofia svolge un
ruolo centrale, accanto ad altri saperi, nelle
costruzione di un’identità condivisa e comunque condivisibile In questa prospettiva
filosofica la specificità delle diverse tradizioni di pensiero s’inserisce e si valorizza all’interno di una comune tradizione, capace
di dar vita ad uno spazio culturale aperto e
condiviso, in cui le identità culturali di tutti e
di ciascuno si afferma in un’unica identità
aperta alle sollecitazioni che provengono
dall’altro da sé e allo stesso tempo aperta
alla radice comune che rende possibile il
loro legame. La Radice europea è nella comune capacità di dialogo, che ha segnato la
lunga, tortuosa e spesso cruenta storia culturale europea. Tutto questo non può non
essere filosofia: Eurosofia.
11
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Donato Maraffino
Libertà e servitù volontaria
La fortuna del Discorso di Etienne de La Boétie
di Donato Maraffino
Donato Maraffino,
docente di storia e
filosofia presso il
liceo scientifico
G.B.Grassi diLatina,
impegnato
nell’ambito della
riflessione e ricerca
di filosofia morale e
saggista di storia
della mentalità e
della medicina;
responsabile di
diverse iniziative
editoriali, di
approfondimenti
tematici.
9
La Boétie,
nacque a Sarlat,
il 1º novembre 1530
e morì a Germignan,
il 18 agosto 1563
10
Per un’ampia bibliografia sulle traduzioni e
commenti del Discorso
cfr. Un ambigua utopia
repubblicana di Enrico
Voccia
(http://it.scribd.com/doc/
6531339/Etienne-de-laBoetie-Discorso-sullaservitu-volontaria ) e
Nicola Panichi,
Plutarchus redivivus?
La Boétie e i suoi
interpreti, Isituto
Italiano Studi Filosofici,
Napoli, 1999.
11
In questo saggio
abbiamo utilizzato la
traduzione di Luigi
Geninazzi, Etienne De
La Boétie, Discorso
sulla servitù volontaria,
Milano,1979.
Per economia
di spazio eviteremo
il continuo riferimento
al testo di Geninazzi,
dando per inteso che
tutti i passi sono
selezionati dalla
sua traduzione.
12
Vedi Essais,
Montaigne Michel de,
a cura di Fausta
Garavini, Milano,
1966
1. Introduzione
L
a fortuna del Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie9 è stata
quantomai incerta: pamphlet amato e
odiato a seconda delle stagioni civili e variamente interpretato nelle sue finalità politiche già a pochi anni dalla sua pubblicazione
che avvenne dopo il 1570, nella Francia attraversata dalle guerre di religione.
Affidato in punto di morte dall’autore alle
amorevoli cure del suo amico Montaigne,
finì, non si sa come, nelle pubblicazioni ugonotte prima, cattoliche poi, al punto che lo
stesso Montaigne, nel tentativo di mettere
forse al riparo la persona dell’amico dalla
damnatio memoriae, evitò di inserirlo negli
Essais. E da allora fino alla II guerra mondiale e oltre, una lunghissima querelle interpretativa ne ha alcune volte esaltato, altre
oscurato, la vita editoriale, tanto che lo
stesso titolo dell’opera, ha subito più volte
modifiche, come attestano sia le edizioni in
lingua francese che quelle italiana, inglese e
tedesca.10 Il tentativo di Montaigne di evitarne uno stravolgimento interpretativo, non
ha potuto impedirne una lettura e divulgazione antimonarchica, antiassolutista tanto
da timbrarne irreversibilmente e indelebilmente i caratteri di saggio rivoluzionario con
il fuoco illuminista e rivoluzionario del 1789,
repubblicano risorgimentale nell’800 poi e
addirittura anarchico nel 1920.
12
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Questa divulgazione ne ha invece oscurato la bellezza e l’eleganza, quale componimento di argomentazione morale, come si
doveva attribuire ad un testo che al suo centro pone la seguente domanda metapolitica:
“Così dunque se ogni essere che ha sentimento della propria esistenza vive l'infelicità della soggezione e corre dietro la
libertà, se gli animali, che pur sono fatti per
servire l'uomo, non riescono ad abituarsi
senza manifestare allo stesso tempo un
istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l'uomo, l'unico ad
essere nato propriamente per vivere libero,
da fargli perdere la memoria del suo primo
stato e il desiderio di riacquistarlo?” 11
Dal testo sgorgano le annotazioni sui vizi
umani, della disponibilità all’autoinganno,
alla finzione, all’indolenza, all’assuefazione,
alla creduloneria, all’ambizione, alla cortigianeria, in una sorta di disegno fenomenologico della mentalità e dei comportamenti
servili, che, ed è qui la straordinaria sua attualità, creano le condizioni non della formazione dell’istituzione monarchica, ma
della sua trasformazione tirannica. Etienne
de La Boétie elabora così un pensiero controcorrente rispetto alla giustificazione contrattualistica e giuridica della nascita del
potere assoluto del suo tempo, delineando
una sorta di analitica dei sentimenti e dei
comportamenti che vuole spiegare le derive
tiranniche e assolutistiche della società e la
conseguente crisi dei corpi intermedi che
per lunghi secoli erano la base dell’equilibrio
fra il potere centrale e le autonomie comunali e territoriali.
E quanto questo approccio sia anche
utile nel decifrare gli enigmi della democrazia e della formazione del consenso oggi è
facile comprenderlo dalle suggestioni o dai
rinvii che propongono le categorie disseminate nel Discorso, che passeremo in rassegna e che vogliamo proporre al Lettore.
2. Il tempo del Discorso di Etienne de La
Boétie
Se si presta fede alle affermazioni del
suo amico Montaigne, Etienne de La Boétie
scrisse il Discorso tra il 1546 e il 1552.12 La
genesi dell’opera è quindi collocabile nel periodo iniziale delle lotte religiose tra calvinisti e cattolici che sconvolsero il Regno di
Francia tra la fine del governo di Enrico II e
di Francesco II.
Donato Maraffino
13
Vedi Charles Thilly,
La Francia in Rivolta,
Napoli, 1990
14
Goulart Simon,
Contr’Un, Mémoires de
l’Estat de France sous
Charles Neufiesme
(…), edizione clandestina, 1576 e Eusebe
Philadelphe,
Le Réveille-matin de
Français et de leurs
voisins, edizione
clandestina, 1974;
successive edizioni
avvennero nel 1578 e
1579.
(immagine) Hanging
of Anne du Bourg
1521-59
Place de Greve;
http://www.artchive.com
/web_gallery/F/FranzHogenberg/Hanging-ofAnne-du-Bourg-1521-5
9-Place-de-Greve.html
15
Prova ne è la prima
copia del manoscritto
De Mesmes fatta da
Henry de Mesmes e
Claude Depuy, amici di
Montaigne, in data incerta ma prima delle
pubblicazioni di cui a
nota precedente.
16
Essais, Montaigne
Michel de , a cura di
Fausta Garavini,
Milano, 1966
In realtà, se è innegabile la crescita del
numero degli ugonotti francesi negli anni
’30, è il periodo degli anni quaranta e cinquanta, quello che vede lo sviluppo del calvinismo francese e gli scontri violenti con i
cattolici in un crescendo di attentati a esponenti del “partito” ugonotto e, all’opposto, la
distruzione delle reliquie, delle immagini devozionali, oltre che la contesa sull’uso delle
chiese. Alla fine del regno di Enrico II, il conflitto si radicalizzò e nel 1559, dopo la morte
del re, le diverse famiglie della nobiltà si
schierarono in alleanze funzionali alle loro
ambizioni e credi religiosi.
Ma se si vuol fissare un evento come
spartiacque in questo periodo di lotte civili e
religiose questo è sicuramente la rivolta
della Guienna e di Bordeaux contro l’aumento delle tassazioni regali del 1548 e la
tendenza alla centralizzazione fatta di tassazioni aggiuntive, rafforzamento degli eserciti e cancellazione delle autonomie
medioevali. L’estensione della tassa sul sale
dalle province settentrionali a tutto il regno
inoltre provocò la rivolta delle comunità e
spesso la messa in fuga dei gabellieri del
Re.13
Questo tentativo di centralizzazione si rivelò quindi difficile, perché intrecciato con la
rivolta religiosa ugonotta nelle aree sud
ovest della Francia e in alcune città commerciali e manifatturiere come appunto Bordeaux. La reazione del Sovrano fu terribile,
con centinaia di morti e la soppressione
delle autonomie cittadine. Spesso la rabbia
popolare si rivolse contro gli esecutori degli
ordini regali, quella nuova borghesia degli
affari che assumeva cariche pubbliche dal
sovrano con l’obiettivo di dare certezza al
prelievo fiscale e sopperire alle spese militari necessarie nelle guerre all’estero.
In questo contesto si svolge la vicenda
umana e civile di Etienne de La Boétie e
l’elaborazione del testo sulla servitù volontaria. La prima e postuma pubblicazione del
saggio avverrà parzialmente solo nel 1574,
dopo più di venti anni dalla morte dell’autore
e dopo il massacro della Notte di S. Bartolomeo (1572). E non ci sembra casuale che
tali pubblicazioni avvennero ad opera di protestanti francesi e svizzeri14. In questo lasso
di tempo quindi è avvenuta la costruzione
interpretativa del Discorso come pamphlet
antiassolutista e rivoluzionario. E’ quindi
possibile che esso sia circolato di mano in
mano in diversi ambienti politici e religiosi o
negli schieramenti degli aderenti alle famiglie nobiliari in lotta.15 Infatti, Montaigne
negli Essais fa riferimento al Discorso nel
tentativo di correggere la vulgata interpretativa ugonotta affermando:
“E' un discorso che egli chiamò "La Servitude volontaire"; ma quelli che non l'hanno
conosciuto, l'hanno in seguito assai impropriamente ribattezzato "Le Contr'un". Lo
scrisse a mo' di saggio, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni. Da tempo va per le mani delle
persone d'ingegno, raccomandandosi per i
suoi grandi meriti: perché è fine e succoso
quant'è possibile. E tuttavia si deve ben dire
che non sia il meglio che egli avrebbe potuto fare; e se all'età in cui l'ho conosciuto,
più maturo, si fosse proposto un disegno simile al mio, di metter cioè per iscritto i suoi
pensieri, vedremmo parecchie cose di raro
pregi (...) Ma di lui non è rimasto che quel
discorso, e anche questo per caso, e credo
che egli non l'abbia più visto dopo che gli
sfuggì dalla penna»16.
Perché Montaigne vuole declassare il
pamphlet a esercitazione retorica giovanile
e contemporaneamente indica il testo come
un prodotto delle convinzioni dell’autore?
Forse è possibile una risposta tenendo
conto in maniera induttiva delle differenti valutazioni degli atteggiamenti morali dei due
amici. Ma su questo torneremo più avanti.
L’altro scenario da analizzare per comprendere la ricchezza del Discorso deve riferirsi al dibattito filosofico e giuridico
apertosi alla fine del ‘400 sulla genesi del
potere, sulle norme e i limiti delle libertà e
delle autonomie. Con la composizione nel
1513 de Il Principe di Machiavelli, pubblicato
per la prima volta nel 1532, inizia il confronto
tra la legittimazione religiosa medievale del
potere e “l’autonomia” del principe, l’origine
e i caratteri del suo governo, specialmente
in Francia, dove lo scontro religioso assunse
caratteri tragici e quindi la discussione sui limiti del potere diventò più impellente.
In questo largo scenario di contrasti assumono particolare rilevanza gli scritti di
Bodin Sei libri della Repubblica (1576) e di
Giovanni Botero, Della Ragion di Stato
13
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Donato Maraffino
(1589) fino all’ideazione del sistema di filosofia politica di Hobbes nel De Cive del
1642 e nel Leviatano del 1651. Sul versante
opposto, critico dell’assolutismo nascente,
si assiste alla divulgazione dello scritto Politica di Johannes Althusius nel 1603, il De
Iure belli ac pacis e il De Veritate religionis
christianae di Ugo Grozio, nel 1625-1627 e
infine De Jure natura et gentium di Samuel
Pufendorf che viene edita nel 1672. Quindi
la composizione dell’opera avviene proprio
nella fase ascendente della riflessione morale e politica del tempo di fronte al nascere
delle prime tendenze assolutistiche, cosa
che ci sembra interessante perché la rilettura umanista di Seneca, Epitteto, Cicerone,
Tito Livio, Plutarco17 e dei classici greci diventano per de La Boétie un’argomentazione indiretta contro il relativismo morale
propugnato dal Machiavelli e il tentativo di
sottolineare come i comportamenti dei sovrani non possono essere esclusi dalla valutazione morale in nome di un astratto
realismo e della ragion di stato. E’ come se
l’autore, nel tentativo di interpretare il nuovo
fenomeno dell’accentramento dei poteri riprenda la classica categoria del tiranno e
quelle delle libertà delle comunità, delle virtù
repubblicane (virtù civiche) e cerchi di spiegare così la condizione di maggiore servitù
ed eclissi della libertà del proprio tempo. Se
collocato in questo lungo travaglio della filosofia politica si comprende meglio la valenza extratestuale del saggio di La Boétie
e, in effetti, a questo contesto, si riferisce lo
stesso quando scrive “Ma non voglio ora addentrarmi nella questione così spesso dibattuta se gli altri modi di governare la cosa
pubblica siano migliori della monarchia. Se
dovessi entrare in merito a tale questione,
prima di discutere a quale livello si debba
collocare la monarchia tra i diversi tipi di governo, porrei il problema se essa si possa
dir tale, dato che mi sembra difficile credere
che ci sia qualcosa di pubblico in un governo dove tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro momento la discussione
di questo problema che richiederebbe di essere trattato a parte e si trascinerebbe dietro ogni sorta di disputa politica.”
Tale atteggiamento contrario al “realismo” di Machiavelli è stato ben rilevato18,
ma si deve sottolineare che forse oltre che il
diretto confronto con i testi, è l’intensa partecipazione alla vita culturale dell’Università
di Orleans (1547-1548) e l’insegnamento
del magistrato Anne de Bourg19, a veicolare
l’attenzione del giovane autore verso la riflessione sul potere e gli atteggiamenti
umani. E’ nel contesto della discussione politico-religiosa del “cenacolo” di de Bourg
che probabilmente avviene la maturazione
del Discorso e degli atteggiamenti di tolleranza religiosa tra studenti e insegnanti, in
17
Vedi Nicola Panichi,
op.cit.
18
un contesto di dialogo e confronto tra persone che sulla riforma calvinista avevano
pur posizioni diverse.
Durante questa manciata di anni viene
eletto a membro del Parlamento di Bordeaux (1557), stringe amicizia con Montaigne,
e incontra il cancelliere del regno Michel de
l'Hospital che gli affida il compito di emissario conciliatore tra le parti in lotta a Bordeaux e nella zona dell'Agenais (1560), lui che
essendo cattolico restava fermamente convinto della necessità di una riforma morale e
dei costumi della Chiesa e di un compromesso tollerante della diversità dei riti e
delle credenze. L’intensa partecipazione al
dibattito sul conflitto religioso è testimoniata
dal commento all’editto di Caterina dei Medici del 1562 nel quale si regolava il rapporto
tra cattolici e calvinisti francesi. In esso l’autore richiamandosi al contenuto del Discorso
e sottolineando il valore delle libertà per tutti,
compresa la libertà di culto, commenta favorevolmente il compromesso improntato
ad una conciliazione tra esigenze diverse.
3. Servitù volontaria
La finalità del discorso, oltre a voler evitare la querelle della genesi del potere e
delle sue varie forme, consiste nel voler indagare il fenomeno delle cause della sua
trasformazione tirannica e più precisamente
nel rispondere al quesito
“(…) come mai tanti uomini, tanti villaggi
e città, tante nazioni a volte sopportano un
tiranno che non ha alcuna forza se non
quella che gli viene data, non ha potere di
nuocere se non in quanto viene tollerato e
non potrebbe far male ad alcuno, se non nel
caso che si preferisca sopportarlo anziché
contraddirlo. E' un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto
che c'è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa
sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo
nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta
appunto di una persona sola, né amarne le
qualità poiché si comporta verso di loro in
modo del tutto inumano e selvaggio”.
14
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Vedi introduzione
di Luigi Geninazzi,
Etienne De La Boétie,
Discorso sulla servitù
volontaria, Milano,1979
19
Anne du Bourg,
“professore di Diritto
all’Università di Orléans
nonché Consigliere al
Parlamento della città
di Parigi, era assai noto
sia per la sua vasta ed
indiscussa cultura
giuridica sia per la sua
dichiarata fede
protestante, che lo
portò, di fronte alla
persona stessa del re
Enrico II, a contestare
vivamente la repressione antiugonotta. La
sua coraggiosa presa
di posizione gli costò la
vita: nel 1559 venne
condannato all’impiccagione ed il suo corpo fu
successivamente
bruciato.” In Enrico
Voccia, Un’ambigua
utopia repubblicana ,
op.cit.,pag.5
(immagine) The Calvinist Iconoclastic Riot of
August 20 1566, 1588;
http://www.artchive.com
/web_gallery/F/FranzHogenberg/The-Calvinist-Iconoclastic-Riot-of
-August-20-1566,1588.html
Donato Maraffino
E in questo passaggio è già evidente
come l’autore voglia analizzare non esclusivamente i mezzi e le modalità dell’edificazione di una tirannide, ma sondare la
dinamica più profonda dei comportamenti
sociali e morali dei sudditi che possa spiegare tali trasformazioni e le modifiche delle
relazioni tra libertà personali e coscienza, in
quella tendenza alla dimenticanza di un
bene supremo, la libertà appunto, a favore
dell’esaltazione di altri “beni” che, siccome
meno importanti, non qualificano la natura
umana. Così gli uomini si dispongono all’accettazione del servaggio:
“In una sola cosa, non so come mai,
sembra che la natura venga meno così che
gli uomini non hanno la forza di desiderarla:
si tratta della libertà, un bene così grande e
dolce che una volta perduto vengono dietro
tutti i mali, mentre tutti i beni che solitamente
l'accompagnano, corrotti dalla servitù, non
hanno più né gusto né sapore”.
Tale “devianza” antropologica che appare a Etienne de La Boétie connaturata anch’essa all’uomo, non avviene però
casualmente, ma attraverso una concomitante presenza di stimoli contrari alla vera libertà che si condensano nei vizi. E’ proprio
la presenza di questi vizi che, pur se originati dalle paure umane, sono stimolati e
usati dal potente per creare prima e rafforzare poi, le abitudini e i “riti” servili.
4. Abitudine e assuefazione
tale fenomeno attraverso la descrizione di
due tendenze: la prima relativa ad un movimento quasi meccanico, quello delle abitudini alla sottomissione, ritmato dai passaggi
delle generazioni e quindi dalla dimenticanza della libertà, la seconda quello stabilizzarsi di tale dimenticanza attraverso
l’estinguersi dell’immaginazione creativa
(sollevare lo sguardo un poco in avanti) e
l’incapacità di pensare uno status diverso da
quello di sudditi.
“Ma è anche vero che la consuetudine,
la quale ha un grande influsso su tutte le nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto
nell'insegnarci a servire, e come Mitridate
che si abituò a bere il veleno, ci rende alla
fine assuefatti a trangugiare normalmente il
veleno della servitù senza sentirne l'amaro”.
E più avanti “E nessuno crederebbe come
un popolo, dopo essere stato sottomesso,
sprofondi subito in una tale dimenticanza
della libertà che non gli è più possibile risvegliarsene per riacquistarla, ma serve
così di buon grado il tiranno che a vederlo si
direbbe non già che ha perso la sua libertà
ma che si è guadagnato la sua servitù”.
In questo contesto la forza e la violenza
primitiva del potere spiega solo l’incipit della
tirannide così si può affermare che:
“E' pur vero che all'inizio l'uomo serve a
malincuore, costretto da forza maggiore; ma
quelli che vengono dopo, non avendo mai
visto la libertà e non sapendo neppure cosa
sia, servono senza alcun rincrescimento e
fanno volentieri ciò che i loro padri hanno
fatto per forza”.
Accanto all’abitudine si colloca l’assuefazione. Tale condizione è insieme conseguenza naturale della dimenticanza della
libertà e effetto dell’azione consapevole del
tiranno che stimolando l’uso smodato dei
beni secondari, rende la servitù sociale una
condizione normale. Dalle parole dell’Autore
si deduce come oltre alla mentalità servile,
si deve quindi strutturare una “coscienza del
signore” centrata sul sentimento di superiorità e di ipervalutazione del bene-potere.
Così La Boetie finisce per toccare un punto
critico del realismo di Machiavelli ovvero l’insindacabilità delle decisioni del Principe
circa il bene comune e quindi l’assenza dei
limiti morali nell’esercizio del potere. Ma,
mentre il giusnaturalismo contrattualista,
spiegherà la dittatura come conseguenza
dell’assenza dei limiti giuridici nell’azione del
sovrano, il nostro autore vede tale situazione come conseguenza di una degradazione morale. Tant’è che la tirannia la vede
possibile come forma di potere in ogni stato,
ogni società poltica e relazione umana.
Una funzione particolare in questa analisi riveste l’abitudine e il conseguente feno- 5. Autoinganno e creduloneria
Un altro sentimento che costituisce
meno dell’assuefazione. Etienne de La
Boétie passa puntigiosamente in rassegna l’humus dell’atteggiamento servile è
15
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Donato Maraffino
l’autoinganno, ovvero quel movimento interiore spesso condiviso o contaminante che
consiste nell’investire gli altri di capacità e
sentimenti diversi da quelli reali, creandosi
una convinzione della loro superiorità più
spinti dall’incertezza che dalla razionalità dei
fatti.
Così: “Per inganno gli uomini perdono
sovente la loro libertà; in questo un poco
sono sedotti da altri, più spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi”.
E quando gli eventi sembrano confermare le “credenze” ecco che si crea un’aureola di mistero e si attribuiscono alla
persona del sovrano capacità taumaturgiche.
“E' davvero pietoso ricordare quanti stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani di
un tempo per impiantare la loro tirannia, di
quali mezzucci si siano serviti trovandosi davanti una plebaglia fatta apposta per loro
(…). E che dire di un'altra bella favola che i
popoli antichi prendevano per oro colato?
Essi credevano fermamente che l'alluce di
Pirro re dell'Epiro facesse miracoli e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi a
voler rincarare la dose, erano convinti che
quel dito, quando alla morte di Pirro ne
venne bruciato il corpo, fosse sfuggito al
fuoco e si fosse ritrovato integro in mezzo
alle ceneri. Così il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per
poi poterci credere”.
Inoltre facendo leva sulle paure e l’insicurezza e la necessità di protezione
“Gli imperatori romani non dimenticavano neppure di assumere comunemente il
titolo di tribuno del popolo(..) In questo
modo, con il favore dello stato, si garantivano la fiducia del popolo come se quest'ultimo dovesse accontentarsi del nome,senza
sentire gli effetti concreti della tirannia. E
oggi non si comportano molto meglio coloro
che ogni qualvolta compiono un crimine,
anche molto grave, lo ammantano di qualche bel discorso sul bene comune e sull'utilità pubblica ”.
E non solo l’immaginario popolare si è
costruito questi poteri straordinari, ma
anche raffinati giuristi del tempo teorizzavano anche che quando il sovrano è cadavere, fino al compimento del rito di
passaggio della sovranità, questa permane
come una seconda natura che non si estingue con il suo ultimo respiro ma permane in
un “secondo corpo”.20 E se tali considerazioni valgono per i sovrani, è facile immaginare come tali poteri si potevano attribuire
ad un tiranno tanto da fargli concludere che:
“(…) è per suo amore che andate così
coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad affrontare la morte.
Costui che spadroneggia su di voi non ha
che due occhi, due mani, un corpo e niente
di più (…). Da dove ha potuto prendere tanti
occhi per spiarvi se non glieli avete prestati
voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i
piedi coi quali calpesta le vostre città non
sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco”?
6. Spettacoli, gratitudine e convenienza.
Inoltre, perché il processo di consolidamento degli atteggiamenti servili si compia è
necessaria una sorta di convergente uniformità:
“Ma per tornare all'argomento da cui non
so come mi sono lasciato deviare, non s'è
mai dato il caso che i tiranni, in vista della
propria tranquillità, non abbiano fatto ogni
sforzo per abituare il popolo non solo all'obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le
cose da me dette finora su quel che occorre
per abituare la gente alla servitù volontaria
vengono usate dai tiranni solo per il popolo
più grossolano e ignorante. Ma ora arrivo al
punto che a mio avviso costituisce l'origine
nascosta del dominio, il sostegno e il fondamento della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le sentinelle, le squadre di ronda
proteggano il tiranno secondo me si sbaglia
di grosso. Credo che gli siano d'aiuto più
come cerimoniale o come spauracchio che
non per la fiducia che dovrebbe avere in
tutto questo apparato di difesa”.
Non solo. Ma perché lo spirito di libertà si
perda, i tiranni sono i più solerti ad usare
spettacoli, giochi e feste per stimolare la distrazione del popolo
“Ed è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull'istante alla
minima lusinga: teatri, giochi, commedie,
spettacoli, gladiatori, animali esotici, esposizioni di medaglie e di vari dipinti, e altre
droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l'esca per la schiavitù, il prezzo
della loro libertà, gli strumenti della tirannia;
insomma tutto un sistema congegnato dagli
antichi tiranni per addormentare i sudditi
sotto il giogo”.
Così paragonando il presente al passato
l’autore riporta l’evento di quando
“Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di
Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto
ridurli in un attimo ai suoi voleri; ma non volendo distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi di guardia
un esercito, per garantirsene la sottomissione, ricorse a questo espediente: vi fece
collocare bordelli, taverne e giochi pubblici e
bandì un'ordinanza con cui i cittadini erano
autorizzati a farne uso come volevano. E
questa specie di guarnigione gli rese così
buon servizio che da allora non ci fu più bisogno neppure di un solo colpo di spada
contro gli abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a inventare ogni tipo di
16
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
20
Ernst H.
Kantorowicz,
I due corpi del Re,
L'idea di regalità nella
teologia politica
medievale, Torino, 2012
“La terza forma di
regalità, che subentra
a quella giuricentrica, è
quella politicocentrica.
“Essa si sviluppa
quando la nozione di
corpus mysticum della
Chiesa viene
rasposta allo Stato.
Conseguenza di questa
trasposizione è
l’attribuzione allo Stato,
in quanto persona ficta,
delle prerogative
dell’universalità e
dell’immortalità.
La sacralizzazione
dello Stato e la mistica
della Patria che ne
risultano si modellano
sul martirologio
cristiano e fondano la
pretesa del sacrificio
delle vite individuali nel
suo nome. Per completare questo modello è
necessario aggiungere
unulteriore elemento.
Un re mortale non può
infatti essere il capo di
un corpo politico che la
finzione vuole
immortale. Il sovrano
dovrà dunque essere a
sua volta immortale.
Per fondare la
credenza in questa
ulteriore finzione,
si sviluppano, nella
giurisprudenza e nel
rituale, diversi elementi:
l’idea della
continuità dinastica,
modellata sulla
funzione dell’incoronazione del papa;
la finzione della corona
come entità autonoma
e stabile, al di là
dell’avvicendarsi di diversi sovrani sul trono;
e infine, la nozione di
dignità regale, che deve
assicurare la
coesistenza tra il corpo
naturale del re e il suo
corpo politico.”
Dai due corpi del Re al
corpo assoggettato,
di Massimo Mezzanzanica, Università degli
Studi dell’Insubria,
Varese, Como
Donato Maraffino
gioco a tal punto che i latini, per indicare ciò
che noi chiamiamo passatempi, trassero dal
loro nome il termine "ludi".
Così La Boètie può amaramente concludere che:
“Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi
sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da
solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il
collo sotto il giogo, approva il proprio male,
anzi se lo procura”. E “Non vi è uccello che
si lasci prendere così agevolmente nella
pania o pesce che abbocchi in fretta all'amo
quanto facilmente si facciano allettare dalla
schiavitù tutti i popoli appena ne avvertono
il più leggero profumo sotto il naso”.
Ma non basta. Perché la società conservi questo stato di sottomissione e conservi gli atteggiamenti servili, bisogna
andare ben oltre l’uso della forza perché:
“Non sono gli squadroni a cavallo, non
sono le schiere di fanti, non sono insomma
le armi a difendere il tiranno; capisco che al
primo momento è difficile crederlo ma è
così. Sono sempre cinque o sei persone che
lo mantengono al potere e gli tengono tutto
il paese in schiavitù. E' sempre stato così:
questi cinque o sei hanno avuto la fiducia
del tiranno e, sia perché si son fatti avanti
da soli sia perché il tiranno stesso li ha chiamati, sono diventati complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi divertimenti, ruffiani
dei suoi piaceri, soci nello spartirsi il frutto
delle ruberie. Questi sei personaggi inoltre
tengono vicino a sé seicento uomini dei
quali approfittano facendo di loro quel che
han fatto del tiranno. I seicento a loro volta
ne hanno seimila sotto di sé ai quali conferiscono onori e cariche, fanno assegnare
loro il governo delle province oppure l'amministrazione del denaro pubblico così da
ottenerne valido sostegno alla propria avarizia e crudeltà, una volta che costoro abbiano imparato a mettere in atto le varie
malefatte al momento opportuno; d'altra
parte facendone di ogni sorta questi seimila
possono mantenersi solo sotto la protezione
dei primi e sfuggire così alle leggi e alla
forca. E dopo tutti questi la fila prosegue
senza fine: chi volesse divertirsi a dipanare
questa matassa si accorgerebbe che non
seimila ma centomila, anzi milioni formano
questa trafila e stanno attaccati al tiranno
(…) Così appena il re diventa tiranno tutta
la feccia del regno, e non intendo con questa un branco di ladruncoli conosciuti da tutti
che in una repubblica possono fare ben
poco, sia in bene che in male, bensì tutti coloro che sono posseduti da un'ambizione
senza limiti e da un'avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono in
tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto
quello grande”.
Insomma il tiranno, attraverso l’arte della
poltica piegata a esigenza della conservazione del potere, deve costruire una fitta rete
di convenienze, imperniata sui beni secondari (denaro, benessere familiare, riconoscimenti giuridici, uso della violenza e della
prepotenza, privilegi di casta) in una piramide sociale nella quale la mobilità dei collaboratori e quindi le attribuzioni degli onori,
dei privilegi e del potere verso l’alto e il
basso sono frutto delle sue decisioni. In questo contesto i valori positivi del convivere
umano, come l’onestà, l’amicizia o solidarietà, sono stravolti o messi ai margini, tanto
che:
“(…) il tiranno non è mai amato e non
ama: l'amicizia è un nome sacro, una cosa
santa; essa avviene solo tra uomini per
bene, non si ottiene se non attraverso una
stima reciproca e non si mantiene con dei
favori ma con l'onestà di vita. Ciò per cui un
amico si fida dell'altro è la conoscenza che
ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà,
la sua costanza. Non ci può essere amicizia
dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia;
e quando i malvagi si ritrovano tra loro non
vi è compagnia ma complotto: non si vogliono bene ma si sospettano reciprocamente, non sono amici ma complici”.
E così “Questi miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno rimangono abbagliati
dalla sua magnificenza e attratti da questo
splendore si avvicinano, senza accorgersi
che si stanno buttando in una fiamma che
non mancherà di divorarli, allo stesso modo
di quel satiro curioso che secondo un'antica
favola vedendo brillare il fuoco trovato da
Prometeo ne fu talmente impressionato che
si accostò per baciarlo e si bruciò. O come
la farfalla, che credendo di trarre chissà
quale piacere si avvicina troppo alla fiamma,
attratta dal suo chiarore, e ne prova invece
l'altra qualità, quella del bruciore”.
Insomma, una piramide di potere capace
di riproporre in ogni livello la relazione servile e, contemporaneamente, creare una
stabilità delle reti di accondiscendenze e
l’assuefazione alla perdita di significato della
libertà di coscienza e dell’agire etico.
7. Seme di ragione e tirannia
“Gli uomini coraggiosi per conquistare il
bene che desiderano non temono di affrontare il pericolo; la gente intraprendente non
rifiuta la fatica. Invece gli uomini deboli e
pressoché storditi non sanno né sopportare
il male, né ricercare il bene, limitandosi a desiderarlo. La debolezza del loro animo toglie
loro l'energia per arrivare al bene; mantengono solo quel desiderio che è insito nella
natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi e agli ignoranti, ai coraggiosi
ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino
17
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Donato Maraffino
ad avere il desiderio di tutte quelle cose che
li potrebbero rendere felici”.
E tra tali beni uno emerge per coessenzialità all’uomo: la libertà. Su questo presupposto antropologico La Boétie individua
l’uso della ragione, che può mantenere
aperta la prospettiva umana del vivere o invece se usata male, farla decadere.
“Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di
difenderla.(…) allora non c'è dubbio che tutti
siamo liberi per natura, poiché siamo tutti
compagni e a nessuno può venire in mente
che la natura, dopo averci messi tutti quanti
insieme come fratelli, abbia potuto porre
qualcuno nella condizione di servo.” così si
esprime sin dalle prime pagine Etienne De
La Boétie mettendo in relazione poi libertà
e ragione quando afferma “Penso di non
sbagliarmi dicendo che c'è nella nostra
anima un seme naturale di ragione il quale,
una volta che sia mantenuto da buoni consigli e abitudini, fiorisce in virtù, mentre a
volte non potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo, muore soffocato”.
Invece “(…) bisogna credere che la natura,
dando agli uni di più agli altri di meno, abbia
voluto porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo
gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque questa buona
madre ha dato a tutti noi la terra da abitare,
mettendoci in certo modo in un'unica grande
casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto
così che ognuno potesse riconoscersi nel
proprio fratello come in uno specchio. Se
dunque a tutti noi ha fatto il grande dono
della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo
scambio delle nostre idee ad una comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi
di stringere sempre più saldamente il vincolo
che ci lega in un patto di convivenza sociale;
se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di averci voluti non solo
uniti ma addirittura una cosa sola, allora non
c'è dubbio che tutti siamo liberi per natura,
poiché siamo tutti compagni e a nessuno
può venire in mente che la natura, dopo
averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo”.
Alla fine afferma “E' ben vero che si trova
sempre qualcuno più fiero degli altri che
sente il peso del giogo, non può trattenersi
dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla
servitù”.
Tanto da fargli concludere che: “Costoro
avendo avuto per natura uno spirito acuto
l’hanno saputo anche educare con lo studio
e la scienza; e quand'anche la libertà fosse
andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora
ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro
gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi”.
8. Desistenza morale e non collaborazionismo
Dopo questa ampia ricognizione sugli atteggiamenti umani è chiaro che diviene
anche per l’autore inevitabile chiarire le modalità di liberazione dalla condizione servile.
Verso la soluzione del diritto di resistenza
anche violenta, teorizzata dal pensiero medioevale e religioso di fronte ad un principetiranno che attenta al “bene comune” o alla
“libertà religiosa”, evocata come giustificazione della rivolta protestante o cattolica,
Etienne de La Boétie oppone un profondo
scetticismo. Non tanto sul principio in
quanto tale, ma, in base agli insegnamenti
della storia antica, sulla sua efficacia nell’evitare che dalle ceneri della tirannia non
ne nasca un’altra. Al nostro autore preme
sottolineare che non è tanto il riconoscimento della possibilità di usare la violenza
legittima a cambiare gli uomini, ma una loro
autoriforma morale, che nessun potere o
contro potere rivoluzionario potrà mai compiere. Quindi per La Boétie è possibile un
movimento opposto che potremmo chiamare di desistenza morale. Così per il nostro
“Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre più grande e più trova
legna più ne brucia, ma si consuma da solo,
anche senza gettarvi sopra dell'acqua, semplicemente non alimentandolo, così i tiranni
più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più ottengono mano libera, più
li si serve e più diventano potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se non si cede
al loro volere, se non si presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza
colpo ferire, rimangono nudi e impotenti, ridotti a un niente proprio come un albero che
non ricevendo più la linfa vitale dalle radici
subito rinsecchisce e muore”.
E uscendo di metafora l’autore sottolinea
che “(…) non c'è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene
meno da solo, basta che il popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non attribuirgli niente;
non c'è bisogno che il paese si sforzi di fare
qualcosa per il proprio bene, è sufficiente
che non faccia nulla a proprio danno”.
Infine, perché si compia fino in fondo
l’autoriforma morale, è necessario cambiare
non solo le “credenze” e la relazione con il
potere, ma soprattutto la disposizione e la
relazione verso gli altri orientando il proprio
agire al bene. E così con un invocazione civile conclude:
“Impariamo dunque finalmente a
18
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Donato Maraffino
comportarci bene; ad onore nostro o per
l'amore che portiamo alla virtù, o meglio ancora per l'amore e l'onore di Dio onnipotente
che è testimone sicuro delle nostre azioni e
giudice delle nostre mancanze, teniamo lo
sguardo rivolto al cielo”.
21
Essais, Montaigne
Michel de ,
vol.1.1, cap, op.cit
Ora è proprio questa conclusione che si
mantiene a metà tra invocazione retorica e
naturale conclusione di una opzione etica
nell’opposizione alla deriva tirannica, che
probabilmente alimentava il confronto tra
l’autore e il suo amico Montaigne. E’ innegabile che i legami di amicizia e di vicinanza
intellettuale tra Montaigne e La Boétie siano
stati profondi, per l’amore verso i classici,
per la ricerca del senso morale e civile e nell’analisi dell’animo umano e della storia e
della filosofia greca e latina e nel rifuggire
da una cultura accademica e formalistica e
da un umanesimo retorico.
Gli stessi temi ricorrenti nel Discorso di
La Boétie, la consuetudine, la natura e la libertà, i vizi umani, li ritroviamo negli Essais.
Ma allora qual era la differenza nella valutazione o la divergenza che probabilmente
non avrebbe mai fatto scrivere a Montaigne
un saggio come quello sulla servitù volontaria? La risposta si può trovare in quella venatura di scettiscismo che percorre tutta
l’opera di Montaigne e che nel Discorso non
c’è. Basta osservare quello che intorno alla
diagnosi delle faccende umane e anche
nella relazione tra governati e governanti
Montaigne afferma quando parla di abitudine e cambiamenti in un passaggio rilevante degli Essais:
“I popoli allevati nella libertà e l’autogoverno considerano qualsiasi altra forma di
governo mostruosa e contro natura. Quelli
che sono abituati alla monarchia, fanno lo
stesso. E qualsiasi possibilità di cambiamento che la fortuna offre loro, persino
quando con grande difficoltà si siano liberati
dal fastidio d’un padrone, si precipitano a
stabilirne uno nuovo con altrettante difficoltà
(…)” e più avanti: ”La società non sa che farsene dei nostri pensieri; ma quello che resta
cioè le nostre azioni, il nostro lavoro, i nostri
beni, e la nostra propria vita bisogna prestarlo e abbandonarlo al suo servizio e alle
opinioni comuni” e infine “ E’ molto dubbio
che si possa trovare un vantaggio tanto evidente nel cambiamento di una legge già accettata, qualunque essa sia, quanto c’è di
male a rimuoverla: poiché un ordinamento
pubblico è come una costruzione di diversi
pezzi tenuti insieme con tal legame chè è
impossibile rimuoverne uno senza che tutto
il corpo ne risenta” . 21
In questi passi e nel Discorso, appare
evidente come entrambi gli amici rifiutano
l’efficacia della violenza nel realizzare i dettati razionali e di libertà e nel cambiare le
strutture lunghe delle abitudini delle società.
E per entrambi la “dittatura” della pubblica
ipocrisia del potere va di pari passo con la
resistenza dei vizi umani. Ma mentre Montaigne ne conclude uno scetticismo che lascia come sola opzione la libertà di ricerca
nell’interiorità, la “separatezza civile”, anche
quando si è impegnati per “il bene comune”,
La Boétie rivendica anche, e in più, una possibilità: un movimento di negazione morale
che ridia spazio al seme di ragione che è in
noi, che cresce con la libertà, prima di tutto
e per dare senso al tutto.
19
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Maria Letizia Parisi
I sette saperi per il futuro
Edgar Morin e la riforma educativa
di Maria Letizia Parisi
Maria Letizia Parisi,
fino al 2011 docente
di storia e filosofia
presso il liceo
scientifico
G.B.Grassi
di Latina.
Attualmente
presidente della
sezione di Latina
della S.F.I. Il campo
di interesse e
indagine in cui
opera è la
filosofia della
scienza e gli
approfondimenti
tematici sulla
filosofia della
conoscenza
del ‘900.
1. La necessità di una nuova etica
E
dgar Nahoum detto Edgar Morin (Parigi, 8 luglio 1921) è un filosofo e sociologo francese. Nella sua vita è stato
testimone e partecipe degli eventi storici che
hanno caratterizzato il “secolo breve”: è in
Francia durante l’invasione tedesca; è tenente delle forze combattenti nella Resistenza, dove adotta il nome di battaglia di
Morin, che preferirà rispetto al cognome
vero; prende parte alla liberazione di Parigi
nell’agosto del 1944; nel 1955 anima un comitato contro la guerra in Algeria; nel 1968 è
coinvolto nelle rivolte studentesche di quel
periodo e scrive una prima serie di articoli
per Le Monde e una seconda serie intitolata
"La rivoluzione senza volto". Nel 1969 trascorre un anno al Salk Institute a La Jolla,
California, dove entra in familiarità con la rivoluzione negli studi di genetica iniziata con
la scoperta del DNA; queste influenze culturali contribuiranno alla sua visione combinante cibernetica, teoria dell'informazione e
teoria dei sistemi; nel 1983, in una sua analisi del comunismo sovietico, anticipa la Perestrojka di Michail Gorbacev. Questi ed
ancora altri episodi della sua vita lo hanno
accompagnato verso la convinzione di dovere operare per l’avvicinamento del mondo
accademico a quello della formazione e
contro la frammentazione della ricerca, condizione questa che non permette di rispondere alle necessità di un mondo
globalizzato.
Morin sostiene che da sempre la cultura
è stata scissa in due grandi blocchi: quello
umanistico e quello scientifico, per cui il
primo affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani e sul sapere in generale,
mentre il secondo, ritagliando nella ricerca i
campi della conoscenza, genera straordinarie scoperte senza riflettere però sul destino
umano e sul divenire della scienza stessa.
L’autore non ha la presunzione di fornire
una nuova etica della società globalizzata,
una cosiddetta antropoetica, ma vuole evidenziare il ruolo fondamentale dell’informazione nella formazione umana, in una
cultura che ormai oltrepassa i confini delle
nazioni e che deve adeguarsi alle trasformazioni scientifiche e tecnologiche in atto.
Secondo Morin queste sfide devono essere
affrontate attraverso la riforma dell’insegnamento e la riforma del pensiero, in senso paradigmatico
e
non
programmatico,
relativamente alla nostra attitudine a organizzare la conoscenza. Le sue indicazioni
20
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
sono rivolte direttamente agli educatori al
fine di ottenere, nello svolgimento della loro
attività formativa, quello che Michel de Montaigne riassumeva in una frase: "È meglio
una testa ben fatta che una testa ben
piena".
La distinzione è tra "una testa nel quale
il sapere è accumulato e non dispone di un
principio di selezione e di organizzazione
che gli dia senso" e una "testa ben fatta",
che comporta "un’attitudine generale a porre
e a trattare i problemi; principi organizzatori
che permettano di collegare i saperi e di
dare loro senso". Secondo l’autore, una
"testa ben fatta", mettendo fine alla separazione tra le due culture, consentirebbe di rispondere alle formidabili sfide della globalità
e della complessità nella vita quotidiana, sociale, politica, nazionale e mondiale. Questa
scissione non permette ai progressi della
scienza e delle tecnologie di adeguare la ricerca alle grandi domande su cui la cultura
umanistica continua ancora a riflettere: “Chi
siamo?, Dove siamo?, Da dove veniamo?,
Dove andiamo?” Morin, sintetizzando le tesi
esposte nelle sue opere, enuclea i seguenti
sette temi che devono diventare fondamentali nell’insegnamento, temi attualmente
ignorati o dimenticati, che devono essere integrati nelle discipline esistenti:
1 - Conoscenza della conoscenza, cioè
studio dei caratteri cerebrali, mentali, culturali della conoscenza umana, di ciò che
sono i suoi dispositivi, le sue menomazioni, le sue difficoltà, le sue propensioni
all’errore e all’illusione.
2 - Sviluppo delle attitudini naturali della
mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto o in un insieme, superando la frammentarietà della
conoscenza per ambito disciplinare, che
rende spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e la totalità. Il nuovo
modo di conoscere deve essere capace
di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in
un mondo complesso.
3 - L’unità complessa della natura
umana, nel contempo fisica, biologica,
psichica, culturale, sociale, storica, è
completamente disintegrata nell’insegnamento, attraverso le discipline. Ciascuno, ovunque sia, dovrebbe prendere
conoscenza e coscienza sia del carattere complesso della propria identità sia
dell’identità che ha in comune con tutti gli
altri uomini.
Maria Letizia Parisi
22
Edgar Morin,
I sette saperi
necessari
all’educazione
del futuro, Raffaello
Cortina Editore,
Milano 2010,
pag. 49
4 - La storia dell’era planetaria, che inizia
nel XVI secolo con la comunicazione tra
tutti i continenti determinando il destino
ormai planetario del genere umano; la
conoscenza degli sviluppi dell’era planetaria e il riconoscimento dell’identità terrestre devono divenire uno dei principali
oggetti dell’insegnamento.
5 - Riflessione sulla precarietà di ogni
tappa della conoscenza perché, nonostante le scienze ci abbiano fatto acquisire molte certezze, nel corso del XX
secolo ci hanno anche rivelato innumerevoli campi d’incertezza. I percorsi formativi
scolastici
dovrebbero
comprendere un insegnamento delle incertezze che sono apparse nelle scienze
fisiche, nelle scienze dell’evoluzione biologica e nelle scienze storiche.
6 - Studio delle radici dell’incomprensione fra gli esseri umani, le sue modalità, i suoi effetti. La comprensione è nel
contempo il mezzo e il fine della comunicazione umana. Data l’importanza dell’educazione alla comprensione, a tutti i
livelli educativi e a tutte le età, lo sviluppo
della comprensione richiede una riforma
delle mentalità.
7 - La nuova “antropo-etica”, conseguente all’innovazione dell’insegnamento, deve essere capace di
riconoscere il carattere ternario della
condizione umana, che consiste nell’essere contemporaneamente individuospecie-società. Il contesto politico di
questa nuova umanità è senz’altro democratico, unica condizione in cui l’individuo può avere la consapevolezza di
essere contemporaneamente parte di
una società e parte di una specie.
2. Trasformazione della scienza nel
corso del ‘900
Il vissuto dell’autore attraversa tutto il secolo XX, quindi egli è testimone delle importanti trasformazioni avvenute nell’ambito
scientifico, e l’attenzione che pone a questi
temi è evidente per i numerosi riferimenti
presenti nelle sue opere; in modo particolare egli cita il cambiamento dello scenario
cosmologico, luogo del nostro abitare, cambiamento che non può non generare una riflessione sulla nostra esistenza e della
nostra coscienza in funzione di queste innovazioni. Nelle parole che seguono, Morin
lascia trasparire lo stesso stupore che deve
avere provato l’umanista rinascimentale
dopo la lettura del De Revolutionibus Orbium Coelestium di Copernico, stupore da
cui nasce la necessità di ripensare l’essenza
dell’uomo, la sua origine, il suo destino, il
suo stare nel mondo:
“Abbiamo da poco abbandonato l’idea di
un universo ordinato, perfetto, eterno, optando per un universo nato nella radiazione,
in divenire dispersivo, nel quale ordine, di-
sordine e organizzazione giocano in un
modo che è allo stesso tempo complementare, concorrente e antagonista. Siamo in un
gigantesco cosmo in espansione, costituito
da miliardi di galassie e da miliardi di stelle,
…” 22
Questa è la visione del cosmo che nasce
dalla trasformazione epistemologica delle
scienze della fine dell’800 e non è possibile
non paragonare questo contesto culturale,
gravido di cambiamenti in ogni campo della
ricerca scientifica, con quello del XVI secolo
in cui avvenne il passaggio dal modello cosmologico geocentrico di Tolomeo a quello
eliocentrico di Copernico.
2 - 1 La rivoluzione copernicana
La rivoluzione copernicana si è sviluppata e compiuta durante il Rinascimento e
Copernico stesso, attratto dalla nuova cultura umanistica irradiatasi dall’Italia in Europa, ha subito l’influenza di questa
corrente, per cui venne in Italia dalla lontana
Frauenburg, e, preso dallo spirito del tempo,
egli stesso ne accrebbe con la sua teoria la
portata rivoluzionaria. Il suo modello cosmologico sradicava la Terra dal suo centro
e la poneva in orbita attorno al Sole, assimilandola così agli altri pianeti. Il 1543, anno
di pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium, segna la scansione temporale della storia scientifica dopo di cui
ogni campo dell’umana attività inizierà un
nuovo corso.
Nella cosmologia geocentrica (tolemaica) tutto era centrato sull’uomo; scienza,
fede, filosofia concordavano nella rappresentazione di un cosmo chiuso e perfetto, i
cui elementi, i pianeti e la sfera delle stelle
fisse, si muovevano lungo orbite circolari
perché solo questo movimento, senza inizio
e fine, poteva essere attribuito ai corpi celesti, la cui natura non li sottoponeva a generazione e corruzione. Copernico quindi,
contro l’evidenza dei sensi, pone la Terra in
orbita attorno al Sole, immobile al centro
dell’universo, in un cosmo enormemente dilatato ma che conserva la sua caratteristica
peculiare di cosmo finito, contenitore rassicurante per la visione umana dell’universo.
La nuova posizione della Terra, non più
centrale e in movimento, stravolge la rappresentazione che l’uomo del Rinascimento
ha di se stesso e lo costringe a riflettere
sulla propria essenza, sulla sua origine e sul
proprio destino, secondo la nuova prospettiva fisica e cosmologica.
2 - 2 L’universo relativistico e la teoria
del Big-Bang
La rivoluzione, a cui fa riferimento Morin,
si compie quattro secoli più tardi e distrugge
il modello meccanicistico costruito da Keplero e Newton dopo Copernico, modello in
cui tutto il cosmo era dominato da un’unica
legge che unificava terra e cielo: la legge di
21
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Maria Letizia Parisi
gravitazione universale. La relatività generale di Albert Einstein (1879-1955) sovverte
gli stessi concetti di tempo e spazio: l’universo non è più una struttura spaziale (spazio euclideo) immutabile in cui si svolgono i
fenomeni prodotti dalle forze fisiche; diviene
uno spazio-tempo “deformabile”, quello che
i matematici chiamano una varietà a quattro
dimensioni (tre per lo spazio, una per il
tempo), struttura deformata dalla presenza
della materia. Quando nel 1917 Einstein
propone il primo modello di universo relativistico si trattò di una svolta radicale, ma
questo universo è ancora chiuso, cioè di volume e di circonferenza perfettamente finiti e
misurabili, chiuso ma senza frontiere perché infinitamente percorribile. Il modello di
Einstein si basa sull’ipotesi di un universo
statico e il raggio dell’ipersfera (questa è la
denominazione del nuovo universo) non
varia nel corso del tempo.
La rivoluzione concettuale della relatività
viene affiancata dai progressi in campo osservativo del primo secolo XX; un contributo
fondamentale fu dato dalla messa in opera
del telescopio di 2,50 metri di diametro di
Mount Wilson negli USA. Edwin Hubble
(1889-1953), esplorando il cielo con questa
nuova sonda cosmologica, nel 1924 mostrerà che una nebulosa (la NGC 6822) è
collocata molto lontano, fuori dalla nostra
galassia: così questo astro diventa il primo
oggetto definitivamente assegnato a una regione esterna al nostro sistema galattico.
La seconda scoperta capitale riguarda
l’evoluzione temporale dell’Universo. Fin dai
primi anni del Novecento si accumulano indizi che farebbero credere che le galassie si
allontanino sistematicamente dalla nostra,
con velocità proporzionali alla loro distanza.
Nel 1927 il fisico belga Georges Lemaitre
formula l’ipotesi che l’intero spazio si dilati
nel corso del tempo e questa espansione
trascina con sé l’insieme delle galassie.
Nel 1929 nuovamente Edwin Hubble,
analizzando le righe spettrali delle galassie,
scopre in esse un caratteristico spostamento verso il rosso, fenomeno spiegabile
in base al colore della luce con cui percepiamo i corpi celesti, colore che varia secondo la distanza in cui questi si trovano
rispetto al nostro punto di osservazione (la
Terra). Quindi era lecito ipotizzare un moto
di allontanamento delle galassie; tale spostamento risultava approssimativamente
proporzionale alla distanza delle galassie.
Facendo il cammino a ritroso nel tempo da
questo movimento di espansione delle galassie è facile concludere che materia e radiazioni, che si trovano oggi sparpagliate
nell’universo, dovessero essere un tempo
concentrate (teoria del Big Bang).
cistico della scienza operato dalla trasformazione della cosmologia e della biologia è
sintetizzato da Morin nel seguente frammento:
“… e abbiamo appreso che la nostra
Terra è una minuscola trottola che gira attorno ad una astro errante ai bordi di una
piccola galassia di periferia. Le particelle dei
nostri organismi sarebbero apparse fin dai
primi secondi del nostro cosmo dodici miliardi (forse) di anni orsono; i nostri atomi di
carbonio si sono formati in uno o più soli anteriori al nostro; le nostre molecole si sono
raggruppate nei primi tempi convulsivi della
Terra; queste macromolecole si sono associate all’interno di vortici, uno dei quali – tra
i più ricchi nella sua diversità molecolare – si
è metamorfosato in un’organizzazione strettamente chimica: un’autorganizzazione vivente.” 23
23
I sette saperi,
pag. 49
24
Kurt Gödel
(1906-1978),
matematico, logico
e filosofo austriaco,
naturalizzato
americano
25
Gregory John
Chaitin (nato nel 1947),
matematico,
filosofo e scienziato
informatico, argentino
naturalizzato
americano
26
I sette saperi,
pag. 89
Spazio vuoto, atomi, vortici, le parole di
Morin ricordano la filosofia di Leucippo e Democrito, dove ordine e disordine determinavano la nascita e la morte di infiniti mondi;
come i filosofi atomisti, l’autore non si avventura in alcuna ipotesi metafisica sulla
nostra essenza, ma rimane nel perimetro
della scienza della natura, anche se la riflessione sull’Essere è implicita in tutta l’indagine che egli conduce toccando ogni
ambito della ricerca scientifica, preoccupato
di non oltrepassare il limite della nostra possibilità di conoscere.
2 - 3 La crisi dei fondamenti in matematica: teoremi di Incompletezza di Gödel
e di Chaitin
La riflessione di Morin sulla necessità di
un ripensamento etico fa riferimento anche
alla crisi dei fondamenti nella ricerca matematica del XIX e XX secolo e questa è la
sua citazione relativamente ai due famosi
Teoremi di Incompletezza dimostrati da Kurt
Gödel24 nel 1931, e alla risposta di Gregory
Chaitin25, che permette di superare il limite
posto da Gödel:
“Una delle più grandi acquisizioni del XX
secolo è stata la dimostrazione di teoremi di
limitazione della conoscenza, per quanto
concerne sia il ragionamento (teorema di
Lo sgretolamento del modello meccani- Gödel, teorema di Chaitin) sia l’azione.” 26
22
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Maria Letizia Parisi
27
“Probabilmente la
domanda fondamentale
della filosofia della
matematica è: che cosa
sono i numeri?
La risposta che il
platonismo matematico
dà a questa domanda
è qualcosa del genere:
i numeri sono entità
oggettive astratte, reali,
sussistenti per sé e
indipendenti da noi. […]
Nella concezione
platonista, gli enunciati
della matematica hanno
un contenuto descrittivo
e, in particolare,
descrivono queste
entità indipendenti,
indicandone le loro
sempiterne proprietà.
Perciò il matematico
non inventa o crea
i fatti matematici,
ma li scopre, è
l’esploratore di un
territorio intelligibile.”
Francesco Berto,
Tutti pazzi per Goedel,
2008 Mondolibri SpA,
Milano, pag. 173
28
I sette saperi,
pag. 81
Sono poche parole ma dimostrano come
il pensiero di Morin abbia posto le proprie
fondamenta sulla roccia della teoria matematica.
Kurt Goedel, il quale ha prodotto una
delle più incredibili sequenze argomentative
del pensiero umano, dimostra nel 1931 il
Primo Teorema di Incompletezza:
In ogni formalizzazione coerente della
matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali – vale a dire
sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto – è possibile
costruire una proposizione, sintatticamente
corretta, che non può essere né dimostrata
né confutata all’interno dello stesso sistema.
Semplificando “un sistema coerente contiene una proposizione che non può essere
né dimostrata né confutata; coerenza e
completezza non possono coesistere all’interno di un sistema”.
Il Secondo Teorema di Incompletezza si
ottiene formalizzando una parte della dimostrazione del primo teorema e afferma che:
Sia T una teoria matematica sufficientemente espressiva da contenere l’aritmetica:
se T è coerente, non è possibile provare la
coerenza di T all’interno di T.
Semplificando: “nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la
sua stessa coerenza”.
Le conseguenze dei Teoremi di Incompletezza sono un attacco al formalismo sia
in matematica che in filosofia, dove i principi sono formulati sulla base della logica
formale, e ne consegue che verità e falsità
non sono assoluti ma relativi ad ogni specifico sistema formale. Sembra però che Kurt
Goedel abbia affermato la sua convinzione
del fatto che gli esseri umani possiedono
una modalità intuitiva (Goedel era platonista27), non solo computazionale, per arrivare
alla verità e che quindi il suo teorema non
pone limiti a ciò che può essere riconosciuto
come vero dall’uomo e alla fecondità delle
sue ipotesi.
Successivamente Gregory Chaitin afferma che il teorema di incompletezza di
Goedel è stato formulato prima dell’avvento
degli algoritmi e dei computer, anche se
questi stessi confermano l’incompletezza
dei sistema assiomatici e la loro ricorrenza,
ma non la loro patologia. La capacità intuitiva umana può verificare la verità dei sistemi assiomatici e la loro fecondità. Questa
la sua citazione: “Una matematica veramente realistica dovrebbe essere concepita
in linea con la fisica, come un ramo della costruzione teorica del mondiale reale, e dovrebbe adottare lo stesso sobrio
atteggiamento cauto verso estensioni ipotetiche dei suoi fondamenti, come viene esposto dalla fisica.”
Il riferimento ai Teoremi di Incompletezza
di Goedel viene fatto da Morin nel 5° capitolo del suo libro I sette saperi, che viene introdotto con le parole di Euripide:
“Gli dei ci creano tante sorprese; l’atteso
non si compie, e all’inatteso un dio apre la
via.” 28
Queste parole sottolineano il permanere
della nostra incapacità di prevedere il futuro,
e la storia insegna come decisioni prese in
risposta a particolari eventi abbiano poi determinato processi inattesi. L’imprevedibilità
del futuro era così sentita nelle culture del
passato che si pensava di assicurarsi la benevolenza del dio anche con sacrifici,
spesso umani. Sappiamo dalla storia che i
totalitarismi erano particolarmente attenti ai
focolai di devianza, e l’eventualità di questi
pericoli veniva prevenuta con un’attenta organizzazione di controllo . Ma la devianza è
nella natura dei fatti umani ed è causa di
cambiamento: questa disorganizza il sistema mentre lo riorganizza.
I Teoremi di Incompletezza di Goedel dimostrano matematicamente l’incapacità di
verificare la coerenza all’interno di un sistema e Morin utilizza questi teoremi per
confermare le parole di Euripide e dimostrare che ancora oggi l’avvenire resta
aperto e imprevedibile: il problema è imparare ad affrontare le incertezze.
Su questo tema è stata realizzata la
serie di Matrix, film ambientati in una ipotetica società di umani diventati produttori di
energia per le macchine e controllati da un
sistema computerizzato che, inviando stimoli alle loro menti, fa vivere loro una vita
virtuale. Ma periodicamente nasce un eletto,
un umano che intuisce questo controllo e
non risponde più agli ordini del sistema.
L’Architetto del sistema risolve il problema
inserendo nel sistema la devianza particolare verificatasi nell’eletto, ma questo non risolve i casi futuri che presenteranno nuove
devianze. E’ esattamente quello che affermava Goedel nei suoi Teoremi di Incompletezza: nessun sistema può essere coerente
e completo perché è incapace di verificare
la sua correttezza dall’interno.
3. L’errore e l’illusione
Le teorie sopra esposte non possono essere relegate solo nell’ambito matematico e
fisico ed essere considerate materiale per
addetti ai lavori; per questo Morin afferma
che la frammentazione dei saperi conduce
all’indebolimento del senso di responsabilità
e della solidarietà, per cui ognuno tende ad
occuparsi ed essere responsabile solo del
proprio campo specializzato perdendo la capacità di concepire il globale e il percorso
della conoscenza. L’ipotesi dell’origine dell’universo, verificata dalla scoperta del red
shift delle galassie, deve aiutare la nostra
mente a liberarsi dall’errore e dall’illusione.
23
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Maria Letizia Parisi
Solo la scienza e il metodo scientifico
possono fornire all’uomo i giusti mezzi per
individuare gli errori presenti nella mente,
nell’intelletto e nella ragione, anche se la
scienza stessa non è esente da questo rischio a causa dei paradigmi radicati nel profondo. Morin intende per paradigma:
La promozione/selezione dei concetti
dominanti dell’intellegibilità
ed afferma:
“Il paradigma prescrive e proscrive; effettua la selezione e la determinazione della
concettualizzazione e delle operazioni logiche. Designa le categorie fondamentali della
intelligibilità e opera il controllo del loro uso.
Così gli individui conoscono, pensano e agiscono secondo i paradigmi inscritti culturalmente in loro.” 29
L’autore cita il paradigma di Cartesio che
dal XVII secolo domina la filosofia, la
scienza, la fede della cultura occidentale e
ha strutturato ed ancora struttura ogni approccio umano alla conoscenza. L’Ordine,
la Materia, lo Spirito, la Struttura sono concetti dominanti che escludono ad un livello
profondo i loro concetti antinomici; il paradigma diventa il principio di selezione delle
idee che vengono o integrate nelle argomentazioni o escluse. Il paradigma sottende
alle operazioni logiche che decidono l’inclusione o l’esclusione degli assiomi. Le teorie,
le dottrine o le ideologie poggiano le loro radici su di un paradigma, localizzato nell’inconscio, ma che indirizza il fluire del
pensiero cosciente. Quindi il paradigma determina i concetti, ne organizza i discorsi e
domina le teorie. La prospettiva che nasce
da questa consapevolezza è di un mondo
sdoppiato fra coloro che si lasciano dominare dai paradigmi e coloro che invece si
pongono problemi di esistenza, di comunicazione, di coscienza, di destino.
Un altro aspetto che minaccia la nostra
libertà di pensiero è rappresentato dall’imprinting culturale. Il termine è preso in prestito da Konrad Lorenz e dalle sue ricerche
sui cuccioli animali, ma esprime efficacemente il condizionamento della cultura nei
riguardi degli umani, dapprima all’interno
della famiglia, poi nelle scuole e infine nelle
università e nella professione. Si riesce
chiaramente a dedurre quanto l’imprinting
culturale influenzi la selezione delle idee, le
quali obbediscono raramente alla verità anzi
ne intralciano la ricerca.
Così credenze ed idee, prodotti della nostra mente, acquistano vita propria e possono possederci. Morin utilizza il concetto di
noosfera, sfera delle cose della mente, per
esprimere il potere della sfera ideale, che
dall’alba dell’umanità ha prodotto “miti, deliri,
massacri, crudeltà, adorazioni, estasi, sublimità, sconosciuti nel mondo animale”. Egli
afferma:
“Nata interamente dalle nostre anime e
dalle nostre menti, la noosfera è in noi e noi
siamo nella noosfera. I miti hanno preso
forma, consistenza, realtà a partire da fantasmi formati dai nostri sogni e dalle nostre
immaginazioni. Le idee hanno preso forma,
consistenza, realtà a partire dai simboli e dai
pensieri delle nostre intelligenze. Miti e idee
sono ricaduti su di noi, ci hanno invaso, ci
hanno dato emozione, odio, estasi, furore.
Gli umani posseduti sono capaci di morire o
di uccidere per un dio, per un’idea.” 30
Questo termine non è di Morin ma è
stato coniato nel XX secolo all’apparire dei
problemi creati dallo sviluppo della popolazione mondiale, dalla carenza delle fonti
energetiche, dalle crisi economiche ricorrenti e comunque da tutti i problemi generati
dalla globalizzazione. Il grande studioso
russo Vladimir Ivanovic Vernadskij (18601945) ha dato avvio agli studi sulla noosfera
come anche a quelli sulla biosfera. Nel suo
libro Lineamenti di geochimica pubblicato a
Parigi nel 1924 Vernadski scriveva: “L’equilibrio nella migrazione degli elementi che si
era stabilito in lunghi tempi geologici, è infranto dall’intelletto e dall’attività degli uomini.” Uno scenario che rappresenta
esattamente come l’uomo e le sue idee abbiano influito sul cambiamento non solo dell’umanità ma del sistema Terra nella sua
totalità biochimica. Il termine noosfera entrò
nel linguaggio scientifico con Edouard Le
Roy (1870-1954) – scienziato e filosofo,
membro dell’Accademia Francese delle
Scienze, esponente del modernismo cattolico.
Per confermare questo gioco complesso
di asservimento reciproco uomini-idee Morin
cita Marx:
“I prodotti del cervello umano hanno
l’aspetto di esseri indipendenti dotati di corpi
particolari, in comunicazione con gli umani e
tra di loro.” 31
Quindi l’errore e l’illusione vengono continuamente alimentati e rinnovati dalle conoscenze se l’educazione non assume su di
sé il difficile ruolo di adeguare i percorsi formativi alla realtà culturale in trasformazione.
Gli interrogativi dell’uomo sul mondo debbono essere posti in prospettiva di apertura
alla attuale complessità perché le condizioni
bio-antropologiche dell’essere umano,
quelle socioculturali e quelle noologiche non
lo aiutano a liberarsi dall’asservimento alle
idee che egli stesso ha prodotto. Se volgiamo uno sguardo verso la storia passata
troviamo conferma alle conseguenze prodotte dal dominio delle idee sugli uomini: è
necessario essere consapevoli che per evitare errore e illusione bisogna ricercare ed
elaborare metapunti di vista che superino il
limite posto dalle nostre condizioni. Questo
compito è dell’educazione.
24
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
29
I sette saperi,
pag. 24
30
I sette saperi,
pag. 28
31
I sette saperi,
pag. 28
Maria Letizia Parisi
4. Insegnare la condizione umana
4 - 2 La nuova identità terrestre
4 - 1 Homo complexus
32
Cfr. P.D. Mac Lean.
“The triune brain”, a
cura di F.Q. Smith,
The neurosciences,
Second Study Program,
Rockefeller University
Press, New York, 1970
33
I sette saperi,
pag. 60
34
I sette saperi,
pag. 77
L’educazione del futuro dovrebbe comprendere fra le altre discipline un insegnamento della condizione umana, condizione
complessa in cui concorrono molteplici fattori, di cui oggi conosciamo molto ma, rimanendo separati in tanti segmenti, non
consentono la visione del tutto. “L’umano è
un essere nel contempo pienamente biologico e pienamente culturale”: il dilemma natura-cultura è stato superato e dai progressi
delle neuroscienze sappiamo che l’emergere della mente nella storia evolutiva del
cervello umano ha prodotto l’avvento della
cultura, risultato della retroazione della
mente sul cervello. La triade cervello-mentecultura spiega la competenza per agire e sapere apprendere ma anche la capacità di
coscienza e di pensiero. Ma questo non
basta per rappresentare la complessità dell’essere umano, il cui cervello integra in sé il
paleoencefalo, fonte dell’aggressività e delle
pulsioni primarie, il mesencefalo, centro dell’affettività e della memoria a lungo termine,
la corteccia, ipertrofizzata negli umani in una
neocorteccia, sede delle capacità analitiche,
logiche, strategiche che la cultura consente
di attuare pienamente32.
Il risultato dell’interazione della triade
cervello-mente-cultura è magistralmente dipinto da Morin:
“L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e di
dismisura; soggetto di un’affettività intensa
e instabile: sorride, ride, piange, ma sa
anche conoscere oggettivamente, è un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso,
angosciato, gaudente, ebbro, estatico; è un
essere di violenza e di tenerezza, di amore
e di odio; è un essere pervaso dall’immaginario e che può riconoscere il reale; è un essere che conosce la morte e che non può
credervi, che secerne il mito e la magia, ma
anche la scienza e la filosofia; è posseduto
dagli Dei e dalle Idee, ma dubita degli Dei e
critica le Idee, si nutre di conoscenze verificate ma anche di illusioni e di chimere. E
quando, con il venir meno dei controlli razionali, culturali, materiali, l’oggettivo e il
soggettivo, il reale e l’immaginario si confondono, quando le illusioni sono egemoni,
quando la dismisura è scatenata, allora
l’homo demens assoggetta l’homo sapiens
e subordina l’intelligenza razionale al servizio dei suoi mostri.” 33
Questa è la condizione comune di tutti gli
esseri umani che giustifica la ricchissima diversità degli individui, dei popoli, delle culture, ma che ci accomuna tutti come cittadini
della Terra.
L’era planetaria è iniziata dal 1492
quando i cinque continenti sono entrati in
contatto fra di loro dando inizio a scambi di
ogni tipo: prodotti agricoli, animali, malattie,
parassiti. Lo sviluppo tecnologico dell’occidente ha esportato l’economia industriale in
tutto il mondo determinando flussi migratori
da nazione a nazione. Questi contatti culturali, economici, politici hanno legato indissolubilmente tutti i continenti fra di loro e non
c’è posto nel mondo che non dipenda in
qualche modo dall’attività di una qualche
lontana comunità terrestre. Oggi la complessità del mondo ci sommerge e le infinite
informazioni di cui possiamo disporre superano le nostre possibilità di intelligibilità; la
causa di questa difficoltà sta nella nostra formazione che non ha sviluppato la capacità
di contestualizzare, di mettere in relazione
le parti con il tutto, di pensare la multidimensionalità. Emerge la necessità di una riforma di pensiero che ci aiuti a sviluppare
potenzialità ancora ignote dell’intelligenza,
della comprensione, della creatività per concepire il contesto, il globale, il complesso.
La proposta di cambiamento che Morin ci
offre e di cui tutta l’umanità deve essere partecipe è sintetizzata nelle seguenti parole:
“L’unione planetaria è l’esigenza razionale minima di un mondo ristretto e interdipendente. Tale unione ha bisogno di una
coscienza e di un sentimento di reciproca
appartenenza che ci leghi alla nostra Terra
considerata come prima e ultima Patria. Se
la nozione di patria comporta un’identità comune, nata da un rapporto di affiliazione affettiva a una sostanza nel contempo
materna e paterna, come comunità di destino, allora possiamo introdurre la nozione
di Terra-Patria.” 34
Il nuovo modo di essere nel pianeta è
prendere coscienza della nostra unità pur
nella diversità, è abbandonare il sogno del
dominio dell’universo e alimentare l’aspirazione alla convivialità; è accrescere la responsabilità e la solidarietà; è sviluppare i
contatti per accrescere la comprensione. La
ricerca di un avvenire migliore deve essere
complementare e non più antagonista. Ma il
concetto di identità comune tocca il problema filosofico dell’essenza umana, di cui
Morin ha parlato solo in termini oggettivi
(scientifici). Per giustificare la nozione introdotta di Terra-Patria però egli ricorre al linguaggio heideggeriano del dasein (esserci),
del prendersi cura e di destino. Per Heidegger, che rammenta il pensiero dei primi filosofi, il nuovo umanismo è ancora più
radicale e, a causa delle devastazioni di
senso prodottesi in questa epoca, l’uomo
deve tornare ad esistere nella verità dell’essere:
25
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Maria Letizia Parisi
“l’e-sistenza non può mai essere pensata
come una specie particolare tra le altre specie di esseri viventi, dato che l’uomo è destinato a pensare l’essenza del suo essere,
e non solo a raccontare storie naturali e storiche sulla sua costituzione e la sua attività.
[…] Il fatto che la fisiologia e la chimica fisiologica possano indagare sull’uomo come
organismo dal punto di vista delle scienze
naturali non è una prova che l’essenza dell’uomo sia nell’organico, cioè nel corpo,
come è spiegato scientificamente.” 35
l’ente non sia un’attenzione per l’Essere.
Egli, ponendosi nella radura dell’essere,
porta l’uomo a prendersi cura dell’ente in direzione dell’essere, però, affermando che
siamo tutti figli della stessa sostanza che ha
origine dall’aggregazione di elementi cosmici, pone l’uomo in una dimensione puramente fattuale mentre, se il cammino della
sua riflessione lo ha portato verso la filosofia heideggeriana è perché probabilmente
anche lui ha intuito quel senso di spaesatezza in cui l’uomo moderno si trova da
quando la tecnica si è impadronita come
Heidegger afferma che l’essenza del- metafisica dell’essenza umana.
l’uomo non è quella di animale razionale
perché questa definizione pensa l’uomo a
Dice Heidegger:
partire dalla sua animalitas e non pensa in
“Il desiderio di un’etica si fa tanto più urdirezione della sua humanitas: l’essenza gente quanto più il disorientamento manifedell’uomo appartiene alla verità dell’Essere. sto dell’uomo, non meno di quello nascosto,
L’esserci (l’uomo) è l’e-statico stare-dentro aumenta a dismisura. Al vincolo dell’etica
nella verità dell’essere perché l’uomo, pos- occorre dedicare ogni cura, in un tempo in
sedendo il linguaggio, è l’unico fra gli enti a cui l’uomo della tecnica, in balia della masporsi all’ascolto dell’essere. Il prendersi cura sificazione, può essere portato ancora a una
per Heidegger è solo dell’uomo perché stabilità sicura solo mediante un raccogliL’Essere si manifesta nel pensiero e il lin- mento e un ordinamento del suo progettare
guaggio è avvento diradante-velante del- e del suo agire, nel suo insieme, che corril’essere stesso. Solo l’uomo e-siste in sponde alla tecnica.” 36
quanto gettato nella radura dell’Essere, e il
Adesso è possibile avvicinare i due ausuo destino è il prendersi cura.
tori perché la necessità di una nuova etica
viene giustificata sia dalla prospettiva filosoMorin non si sofferma sull’essenza del- fica heideggeriana sia da quella antropolol’uomo né in una prospettiva metafisica né gica di Morin a causa della nuova
in riferimento del suo rapporto con l’Essere dimensione umana all’interno di una società
e la sua nozione di Terra-Patria non va oltre massificata e globalizzata. Il nuovo inizio di
la concezione naturalistica della storia Heidegger sta nella maggiore attenzione al
umana. Questo non vuol dire, come afferma pensiero, che, manifestandosi nel linguagHeidegger, che questa sua attenzione per gio, non deve cadere sotto il domino della
tecnica. Per Morin il nuovo inizio sta nella
fondazione di una nuova etica, che sappia
adempiere la necessità per l’umanità di
comprendersi sia a livello intellettuale o oggettivo, sia a livello di comprensione umana
intersoggettiva.
Morin non nega che, nonostante lo sviluppo tecnologico dei collegamenti attraverso il pianeta, condizione che ha facilitato
la comunicazione fra culture diverse, le difficoltà della comprensione si siano accresciute di pari passo; quindi la comprensione,
non essendo stata influenzata dallo sviluppo
dei mezzi di comunicazione, deve essere insegnata, insieme con gli altri saperi indicati
dall’autore, e inserita nelle finalità dell’educazione, perché:
“Gli ostacoli alle due comprensioni sono
enormi: sono non soltanto l’indifferenza, ma
anche l’egocentrismo, l’etnocentrismo, il sociocentrismo, che hanno come tratto comune il fatto di situarsi al centro del mondo
e di considerare come secondario, insignificante o ostile tutto ciò che è straniero e lontano.” 37
26
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
35
Lettera
sull’Umanismo,
Martin Heidegger,
Piccola Biblioteca
Adelphi, 1998,
pag. 46
36
Lettera
sull’Umanismo,
Martin Heidegger,
Piccola Biblioteca
Adelphi, 1998,
pag. 88
37
I sette saperi,
pag. 100
Maria Letizia Parisi
38
I sette saperi,
pag. 120
5. Una nuova etica
In effetti la nuova etica che Morin propone risiede semplicemente in una maggiore consapevolezza del legame del
singolo individuo con la specie umana, principio che è stato affermato fin dalle civiltà
dell’antichità. Egli infatti cita il latino Terenzio, che fece dire ad un personaggio delle
sue opere “Homo sum, nihil humani a me
alienum puto” [Sono umano, nulla di ciò che
è umano mi è estraneo]. Successivamente il
cristianesimo predicò il principio dell’uguaglianza fra gli uomini in quanto appartenenti
ad un’unica specie e questo principio è stato
BIBLIOGRAFIA
Edgar Morin, I sette saperi necessari
all’educazione del futuro, 2010
Raffaello Cortina Editore, Milano
Niccolò Copernico, De Revolutionibus orbium coelestium, A cura di Alexandre Koyré,
traduzione di Corrado Vivanti, 1975
Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino
Thomas S. Kuhn, La Rivoluzione Copernicana, traduzione di Tommaso Gaino, 1972
Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino
Alexandre Koyré, La rivoluzione astronomica, Copernico Keplero Borelli,
Feltrinelli Editore
mantenuto vivo nel corso dei secoli da correnti filosofiche, politiche, culturali.
Quindi se si vuole realizzare un’etica propriamente umana, ossia un’antropoetica,
questa deve essere strutturata come un
anello a tre termini:
individuo - specie - società
in cui ogni individuo, assumendo su di sé la
complessità del proprio essere, deve decidere di realizzare la propria umanità all’interno del destino umano. La coscienza
individuale del proprio legame con la società
e della loro esistenza reciproca insegna la
democrazia. Democrazia attiva, in cui gli individui controllano la società di cui fanno
parte e rigenerano continuamente l’anello
complesso che produce i cittadini.
Questa rigenerazione del senso civico
poggia sulla rigenerazione della solidarietà
e della responsabilità, ossia sviluppa la
nuova coscienza di un’antropoetica. La comunità di destino planetario che così si realizza attua quella relazione fra le parti,
individui singoli, e il tutto, la specie umana.
“La comunità di destino deve lavorare affinché la specie umana – pur continuando a
valere la sua istanza biologico-riproduttrice
– si sviluppi in Umanità, ossia in coscienza
comune e in solidarietà planetaria del genere umano.” 38
Jean-Pierre Luminet, Marc Lachièze-Rey, Finito o Infinito?, traduzione di Stefano Moriggi,
2006 Raffaello Cortina Editore – Milano
Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti?, traduzione di Luca Guzzardi, 2007
Raffaello Cortina Editore - Milano
Francesco Berto, Tutti pazzi per Goedel, La
guida completa al Teorema di Incompletezza,
2008 Mondolibri SpA Milano
Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo, I
dieci esperimenti più belli nella storia della
scienza, 2007 Mondolibri SpA Milano
Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo,
Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1995
27
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Antonino Zaffiro
Antonino Zaffiro,
Psicologo Psicoterapeuta
a indirizzo
psicoanalitico
lacaniano, vive e
lavora a Latina dove
esercita attività libero
professionale.
Si occupa da
sempre di clinica
psicoanalitica.
Oltre alla
psicoterapia svolge
attività di docenza
e di formazione
professionale.
39
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
in Scritti, Vol. 1,
Einaudi Torino,
1974 e 2002, pag. 87.
40
Cfr. J. Lacan,
Discorso sulla causalità
psichica, in Scritti,
Vol. 1, op. cit.,
pag. 151 e seguenti.
41
J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit., pag. 87.
42
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit., pag. 89.
43
Cfr. S. Freud,
Tre saggi sulla teoria
sessuale, in Opere,
Vol. 4, Bollati Boringhieri, Torino, 1989,
pag. 479.
44
J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit., pag. 88 – 89.
45
Tale questione è
messa bene in luce
nella disamina che
Lacan fa della paranoia
come regressione topica (non genetica) allo
stadio dello specchio
(cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad
ogni possibile trattamento della psicosi, in
Scritti, Vol. 2, op. cit.,
pag. 564).
46
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit., pag. 88 – 89.
47
Si presume, con
Freud, che la psicoanalisi non possa che ricapitolare quanto l’arte ha
già disvelato (cfr. S.
Freud – Il delirio e i
sogni nella «Gradiva»
di Wilhelm Jensen, in
Opere, Vol. 5, op. cit.,
pag. 293).
Lo specchio di Lacan
Intorno a lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io
di Antonino Zaffiro
1. Comprensione precoce
L
acan pone subito il lettore di fronte a
una questione spinosa: la funzione dell’io (je), nell’esperienza che l’analisi ce
ne dà, ci oppone a ogni filosofia uscita direttamente dal cogito cartesiano39. Si era interessato della questione già tre anni prima,
riarticolando il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa in termini di cogitatum,
appartenente al campo del perceptum, del
pensato e dell’estensione, e cogitans inteso
come azione che non può essere colta nel
proprio compiersi ma solo nei propri effetti40.
Il percipiens risulta come dato a valle del
proprio stesso pensare, da porre in aprés
coup come causa voluta più ancora che necessitata di elementi che, di loro, non giustificano esistenza alcuna. Causa efficiente?
Insistere su una causa che deve esserci appare sospetto. Stessa logica, a maggior ragione, dovrà valere per il verbo di cui
percipiens e perceputm, cogitans e cogitatum, si pongono come participi.
Per quanto riguarda “la funzione dell’io
(je) nell’esperienza che l’analisi ce ne dà”41,
ne consegue una priorità logica – non
crono-logica – della res extensa (perceptum, cogitatum), da cui sia il percepire (cogitare) che il percipiens (cogitans)
discendono come petizioni di principio, non
come dati di fatto. Se il soggetto si manifesterà come participio presente del verbo,
cioè, non per questo potrà giustificare una
propria sussistenza in termini di res. Unica
esistenza certa, dunque, sarà quella rientrante nel dominio dell’estensione (il già
pensato), estensione costituente il soggetto
e non da questi costituita42.
Se esistenza e pensabilità sono dimensioni fra loro indipendenti, il dualismo in termini di res di Cartesio non è più sufficiente
per cogliere la cifra del loro rapporto. Bisognerà iniziare a contare in base tre – un
verbo e due participi – o, meglio ancora e
vedremo come, in base quattro – un verbo,
due participi e un resto di carne.
2. Un accenno sul Simbolico (e sui suoi
resti)
Per pensare l’estensione – perceptum,
cogitatum – si dovrà supporre un sistema logico, sistema che derivi a propria volta da
una volontà (bisogno?) di presa su di essa.
Tale sistema, una volta messo in moto, funzionerà poi auto-nomamente, cioè a pre-
28
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
scindere da qualsiasi intervento esterno,
matematico come lo “ordigno fine di mondo”
del Dottor Stranamore di Kubrick. È quello
che più tardi Lacan denominerà Simbolico.
Che la volontà di cui sopra – il soggetto,
che è tale proprio perché vuole – debba poi
essere incarnata in una res diviene ora
un’ipotesi di secondo grado. Meno problemi
a questa incarnazione pone forse il bisogno,
radicato nel corpo, salvo presentarne di
nuovi quando si cerca di concepirlo nell’ambito di una soggettività. Il concetto di istinto,
cioè, sufficiente per spiegare il corpo vivo
dell’animale, non si applica bene all’umano.
Sarà per rendere operativa tale questione
che Freud conierà la pulsione43.
3. Psicologia
Fra i sei e i diciotto mesi il bambino,
messo davanti allo specchio, mette alla
prova l’altro piccolo essere che vede stagliarsi al di là del vetro. Si muove, si agita, fa
mille mosse fino a fissare, previa convalida
dell’adulto, quello che Lacan definisce “un
aspetto istantaneo dell’immagine” 44. Per
quanto sul momento essa provochi al bambino un giubilo incontrollato, si tratta a ben
vedere di una situazione paradossale.
L’altro, nella sua compiutezza di forma
percepita, si trova nella posizione di godere
di una condizione di assoluto privilegio rispetto a quella di un soggetto ancora goffo
e impacciato nei propri movimenti. È un io
ideale (moi), completo nella sua qualità di
perceptum prima che il percipiens, soggetto
(je), possa compiersi nel proprio atto di percepire. Per dire meglio: è una forma che
gode di anteriorità logica rispetto a un soggetto che non può concepirsi che tramite il
passaggio alienante per quella immagine
che è, si, di lui ma non è lui 45.
Si evidenziano dunque due campi strutturalmente separati: quello dell’intenzione
dal lato del soggetto, e quello del già compiuto dal lato dell’Altro. Una compiutezza –
dice Lacan – che raggiungerà solo asintoticamente il divenire del soggetto, una Gestalt
che gli è costituente prima di essere da questi costituita e che ne prefigura come alienante ogni teleologia46. È una condizione
vivibile pacificamente per il soggetto? La
faccenda non è così semplice.
Lady Macbet47, che pure era riuscita a
compiere l’atto tanto agognato solo per il tramite del marito, non regge la portata fatale
di un passo che non conosce ritrattazioni.
Antonino Zaffiro
48
W. Shakespeare,
Macbeth, Atto 3,
Scena 2.
49
Cfr. S. Freud: Alcuni tipi
di carattere tratti dal lavoro
psicoanalitico – in Opere,
Vol. 8, op. cit. – pag. 643.
50
Cfr. N. Fusini,
Di vita si muore,
Mondadori, Milano, 2013.
51
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio
come formatore della funzione dell’io, op. cit.,
pag. 91.
52
Per essere rigorosi dovremmo specificare che la
posizione che il soggetto
assume è nei confronti dell’Altro – nell’illustrazione,
coincidente con la lastra
dello specchio, la quale
genera lo spazio virtuale in
cui appare l’immagine – e
non dell’altro – nell’illustrazione, l’immagine percepita oltre lo specchio. Tale
specificazione, però, esula
dagli intenti di questo articolo, che si propone come
un commento ad uno
scritto determinato di Jacques Lacan, Lo stadio
dello specchio come formatore della funzione dell’io, in cui tale distinzione
non viene affrontata così
nel dettaglio.
Per un maggiore
approfondimento si rimanda a J. Lacan, Nota
sulla relazione di Daniel
Lagache, in Scritti, Vol. 2,
op. cit., pag. 664 – 679.
53
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro I: Gli
scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino, 1978, pag.
92 e seguenti; pag. 154 e
seguenti; pag. 171 e seguenti.
54
Cfr. A. P. A. (a cura di),
DSM , IV, TR,
Masson, Milano, 2000.
55
Dal greco σύμπτωμα,
coincidenza, il sintomo è
propriamente il manifestarsi come correlate di
due o più cose, non necessariamente percepibili
tutte, una per una, sincronicamente o diacronicamente. Con il termine
sintomo si intende pertanto
quel costrutto logico che
tiene insieme, come unicum o insieme, una serie
elementi altrimenti indipendenti tra di loro.
56
Cfr. J. Lacan,
Dei nostri antecedenti, in
Scritti, Vol. 1, op. cit., pag.
66.
57
Cfr. Soren Kierkegaard,
Il concetto dell’angoscia,
SE, Milano, 2007 e La malattia
mortale, Mondadori,
Milano, 1998.
58
D.P. Schreber,
Memorie di un malato di
nervi, Adelphi, Milano,
1974, pag. 68n.
59
D.P. Schreber,
Memorie di un malato di
nervi , op. cit.,
pag. 67.
60
Cfr. D.P. Schreber,
Memorie di un malato di
nervi, op. cit.,
pag. 64.
Dapprima “nulla è ottenuto, tutto è sprecato,
allorché il nostro desiderio e appagato
senza contentezza” 48, poi l’angoscia che
aveva attanagliato il suo tentennante consorte trova in lei – non in lui – il proprio compimento definitivo49. Amleto, dal canto suo,
troverà una efficace soluzione nel continuo
rimandare l’atto, nell’essere sempre – si potrebbe dire – non ancora se stesso 50.
L’angoscia fa da limite al campo del soggetto e, contemporaneamente, da segnale
di questo stesso limite, come una sorta di
Rubicone personale. Il passaggio nel campo
dell’Altro è fatale e, se da una parte tenta il
soggetto, dall’altra l’angoscia lo ripone prudentemente in una condizione in cui può ancora aggiustare il tiro, ri-conoscersi,
ri-provare, ri-trattare. È il campo del soggetto come dominio logico della coazione a
ripetere, governato dalle leggi del principio
di piacere. Una svolta o un cambiamento
che sia reale non potranno che compiersi al gnale di un Disturbo Dissociativo della Coscienza54. Come può esserci dissociazione,
di là.
però, se non di qualcosa che è già associato? La coscienza, cioè, è già di suo un
4. Dramma
Lo stadio dello specchio segna perciò sintomo, un insieme di elementi tra loro seuna situazione che è tragica, un dramma parati ma percepiti come dato unitario55. Se
che oscilla dall’insufficienza (dal lato del l’atto di tenerli insieme coincide con – non è
soggetto) all’anticipazione (dal lato dell’Al- compiuto da – un je, moi ne sarà un riconotro)51. La realtà a cui si crede, il perceptum, scibile segno, la possibilità per il soggetto di
l’altro come proprio simile, sarà sempre poter dire io sono…. e, allo stesso tempo, la
visto… creduto… è! – indicativo presente – necessità esperita di un predicato nominale
più perfetto di come il soggetto, il percipiens, (identificazione) che metta un termine a
riuscirà mai a concepire. Se da quel mo- questa frase, nella normalità così come
mento in poi c’è qualcuno (je) che pensa – nella patologia56.
Se con Kierkegaard l’angoscia è il sentisi badi bene – anche se stava già pensando
prima, prima non c’era ancora chi pensava mento che si palesa dall’incertezza e dalo, per dirlo meglio, chi pensava non aveva l’instabilità del futuro57, la percezione, si
nessuna identità (moi) in cui riconoscersi. potrebbe dire, della frase io sono…. come
Ottenerne una, però, lo segnerà irreparabil- tronca, è nel diario del paranoico Schreber
mente dall’altro lato dello specchio, come che troviamo la più chiara descrizione di
questa schisi. Le voci, infatti, si manifestano
mancante.
Ancora una volta, una riformulazione del dal lato del soggetto come “espressioni
Cogito cartesiano diventa obbligatoria: il grammaticali incomplete” 58 che lo tormensoggetto può pensare se stesso nell’atto di tano imponendogli una “coazione a penDal
lato
del
perceptum,
pensare ma non può cogliere, con il pen- sare”59.
siero, il proprio pensare puro. Il Cogito, in- correlativamente, egli non troverà nient’altro
fatti, è cogito di qualche cosa e in che figure umane sorte per miracolo, uomini
quest’ottica la priorità logica del perceptum fatti fugacemente, elementi irreali messi lì
solo per prendersi gioco del soggetto60.
sul percipiens diviene consequenziale.
Sarà a seconda della posizione assunta Nelle parole di un paziente psicotico: “la
dal soggetto nei confronti del perceptum che vede quella macchina? Non è vera”.
Nel film Jona che visse nella balena di
questo, immagine del percipiens nel campo
dell’Altro52, diventerà concepibile e, di ri- Roberto Faenza, una donna deportata in un
flesso, renderà l’essere umano operativo campo di concentramento nazista si ritrova
come soggetto, preso in un miraggio di com- a confrontarsi con un’altra detenuta. Le
pletezza53. Egli si crederà primario ma non basta il tempo di realizzare che non si tratta
sarà che un effetto. Egli si crederà intero ma di un’altra donna ma di lei stessa, oramai irsolo per non scoprirsi attaccato all’amo della riconoscibile nella propria immagine riflessa
in uno specchio, che cade a terra svenuta.
propria stessa divisione.
La povera donna non morirà per gli stenti
patiti nel campo, ma ricoverata in un mani5. Psichiatria
Il non riconoscersi nello specchio è, se- comio sovietico.
condo la nosografia psichiatrica ufficiale, se29
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Antonino Zaffiro
Se i segni della potenza perturbante
dello stadio dello specchio si possono trovare ovunque nell’esperienza quotidiana,
non necessariamente essi sono da ridurre
al solo registro del visivo. Ogni musicista, ad
esempio, sa bene quanto ri-sentire una propria registrazione abbia su di lui un effetto
ben diverso dal qui ed ora del sentirsi suonare mentre suona61. L’ascolto differito della
propria voce rende tale dimensione, se possibile, ancora più evidente. A un livello di
astrazione ancora maggiore, si pone la citazione, l’analista che ripete le parole del paziente. Le stesse parole appena pronunciate
sul lettino, ascoltate provenire dal luogo dell’Altro in una differenza di tempi che disorienta se confrontata con la simultaneità del
dire soggettivo, suonano diverse al soggetto
e acquistano la portata dirompente del
trauma, in Freud, Unabreagierbarkeit Darstellung, rappresentazione a cui è impossibile reagire (in termini di abreazione)62.
Se il res dell’espressione res cogitans risulta ora comprensibile in termini di petizione di principio, come pensare però il
buco a cui il soggetto viene a coincidere? Si
tratta di riuscire a pensare un paradosso
poiché ogni pensiero, una volta formulato, si
verrà a porre automaticamente dal lato dell’Altro. Più radicalmente: per il soggetto pensante non è pensabile alcun pensiero che
non sia – in quanto pensato – già dell’Altro68.
Questo buco impensabile viene dunque
a essere il corpo frammentato del soggetto,
che può riunirsi in una Gestalt (moi, io
ideale) solo in termini di alienazione nel
campo dell’Altro o, ancora più concretamente, di espropriazione da parte dell’Altro.
Se il corpo del soggetto – nell’ipotesi che
esista – si trova come intero dal lato dell’Altro, dal lato del soggetto non resteranno al
contrario che membra sparse e intenzioni
brute69.
7. Cosa sono io per te
6. Biologia
Se l’essere umano è tale perché il suo
habitat è più simbolico che naturale63, se lo
stadio dello specchio mette il soggetto
(come Innenwelt) in relazione all’Altro (come
Umwelt)64, allora questa esperienza che il
cucciolo d’uomo è chiamato a compiere ne
segnerà per sempre lo sviluppo. Lo stadio
dello specchio, cioè, rompe la fissità dell’istinto per lasciare spazio al problema della
pulsione, problema proprio per la definizione
che Freud dà di essa: concetto limite tra psichico e corporeo, richiesta di lavoro che il
corpo pone alla mente65.
Per l’io (je) è problematica ogni attivazione, un pericolo ogni spinta istintuale proprio perché, per poter pensare il proprio
corpo come unità, Gestalt, in-dividuo, moi,
io-ideale non diviso, ecc., egli dovrà necessariamente passare per il campo dell’Altro66.
Di chi è il corpo quando si attiva? Esistono,
ad esempio, erezioni o orgasmi a comando?
È il corpo come intero o è un occhio, un
orecchio, un cuore, un organo separato
dagli altri quello che, di volta in volta, si ammala o testimonia una sofferenza? Se il
corpo che si muove da sé – e neanche in
maniera unitaria – è da porre dal lato del
soggetto, è però dal lato dell’Altro che lo troveremo come dato percettivo indiviso.
Je non si presenterà che come buco nell’Umwelt, non buco in termini di dato percepito – altrimenti assumerebbe la forma degli
uomini fatti fugacemente di Schreber67 – ma
buco percipiente, misconosciuto grazie alla
copertura operata su di esso dal moi. È solo
a condizione di questa copertura che la coscienza potrà prendere consistenza in qualità di luogo o insieme del perceptum. La
singolarità dell’oggetto percepito, dal canto
suo, diverrà allora secondaria alla sua funzione di tenere non-vuoto il posto del moi.
Se l’ideale del soggetto è dal lato dell’Altro, cos’è il soggetto per l’Altro? È la domanda fondamentale di ogni nevrotico, alle
volte espressa nella forma Cosa vuoi da me.
“L’anima di entrambi vuole qualcos’altro,
che non è capace di esprimere; di ciò che
vuole, piuttosto, essa ha un presentimento e
parla per enigmi”70: ci troviamo nel campo
tracciato dall’intersezione dell’essere con il
linguaggio e che si manifesta come vuoto,
esperienza della castrazione. In questo
campo al negativo il desiderio sorge come
questione che annoda il soggetto con l’Altro
e lo stadio dello specchio si pone ancora
una volta come fatale71.
Vedere se stessi oltre lo specchio da una
posizione di mancanza o, al contrario, essere visti da questa immagine come detentori di quello che, a questo punto, deve
risultare mancante dall’altra parte. Ecco che
la espropriazione di cui parlavamo poc’anzi
si manifesta nelle fattezze di un oggetto privilegiato, parte per il tutto, fulcro dell’attenzione del soggetto dell’inconscio e
metonimia del suo corpo come intero72. È il
fallo come oggetto immaginario (cioè presente nel campo generato dallo specchio),
risultato della castrazione come operazione
simbolica operata dall’Altro sul soggetto a
partire da un corpo vivo e reale nella sua
qualità di pulsione – corpo cioè che, vivendo, chiede un lavoro alla mente, con
tutto quello che ne consegue73.
Il fallo come oggetto perduto, che conferisce realtà al campo in cui viene riposto e
che causa correlativamente il desiderio nel
campo che lo ha perduto, viene qui a testimoniare di una insondabile decisione dell’essere74. Se dal lato del soggetto ci sarà
pur sempre un corpo in frammenti, infatti,
dal lato dell’Altro la scelta che si pone al
30
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
61
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro II:
L’io nella teoria di
Freud e nella tecnica
della psicoanalisi, op.
cit., pag. 113.
62
Cfr. S. Freud,
Abbozzi per la «Comunicazione preliminare»,
in Opere, Vol. 1, op. cit.
– pag. 142 e nota.
63
Cfr. J. Lacan,
I complessi familiari,
Einaudi, Torino, 2005.
64
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit. pag. 90 – 91.
65
Cfr. S. Freud,
Tre saggi sulla teoria
sessuale, op. cit. pag.
479.
66
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit. pag. 92.
67
A rigor di logica, gli
uomini fatti fugacemente di Schreber descriverebbero in realtà
l’orlo di questo buco,
cucendo – per dir così
– i limiti del percepibile
(cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad
ogni possibile trattamento della psicosi, op.
cit. pag. 567 e seguenti).
68
Il rimando al concetto
di onniscienza divina diviene ora una logica
conseguenza.
69
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit. pag. 91.
70
Platone,
Simposio, Adelphi, Milano, 1979, pag. 47.
71
Cfr. J. Lacan,
Una questione preliminare ad ogni possibile
trattamento della psicosi, op. cit. pag. 564.
72
Sul concetto di metonimia in psicoanalisi cfr.
J. Lacan – L’istanza
della lettera nell’inconscio o la ragione dopo
Freud – in Scritti – Vol.
1 – op. cit. – pag. 500 e
seguenti.
73
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro IV:
La relazione d’oggetto,
Einaudi, Torino, 1996 e
2007.
74
Cfr. J. Lacan,
Discorso sulla causalità
psichica, op. cit. pag.
171.
Antonino Zaffiro
per cogliere qualcosa del reale della pulsione. Per far questo l’analista dovrà essere
in grado – come soggetto – di mantenere
una posizione non coincidente con quella
dell’immagine speculare, da coscienza a coscienza. Dovrà cioè tener fede all’inconscio,
ponendosi non tanto con il proprio ascolto
ma proprio con il proprio essere, reale pulsionale, in una prospettiva simbolica, ortogonale a quella di un io che crede di sapere
quel che dice.
75
Cfr. D. P. Schreber,
Memorie di un malato di
nervi, op. cit. pag. 24 n.
76
Cfr. D. P. Schreber,
Memorie di un malato
di nervi, op. cit. pag.
24n
77
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro X:
L’angoscia, Einaudi,
Torino, 2007,
illustrazione pag. 152.
78
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro III:
Le psicosi, op. cit.
pag. 84 e seguenti.
79
Cfr. J. Lacan,
Intervento sul transfert,
in Scritti, Vol. 1, op. cit.
pag. 209.
80
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro II:
L’io nella teoria di
Freud e nella tecnica
della psicoanalisi, op.
cit. pag. 309 e seguenti.
81
A differenza di Freud,
Lacan propone un termine preciso all’analisi,
termine che non ha
niente a che vedere
con la remissione di
quei sintomi che hanno
portato quel soggetto a
chiedere l’aiuto di un
analista (cfr. J. Lacan,
La direzione della cura
e i principi del suo potere, op. cit., e Proposta
del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista
della Scuola, in altri
scritti, Einaudi, Torino,
2013, pag. 241 e
seguenti - op. cit.).
82
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro VII:
L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino,
1994 e 2008, pag. 401
e seguenti.
83
Cfr. J. Lacan,
La direzione della cura
e i principi del suo potere, in Scritti, Vol. 2,
op. cit., pag. 590.
84
Cfr. J. Lacan,
Intervento sul transfert,
op. cit., pag. 219.
85
J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit., pag. 93.
86
Cfr. J. Lacan,
Il Seminario, Libro X:
L’angoscia, op. cit.,
pag. 124 e seguenti.
87
J. Lacan,
Lo stadio dello specchio come formatore
della funzione dell’io,
op. cit., pag. 93.
88
Cfr. J. Lacan,
La direzione della cura
e i principi del suo
potere, op. cit.,
pag. 615.
soggetto sarà quella fra un moi alienante (è
il caso della nevrosi – il fallo è lasciato all’Altro) e uomini fatti fugacemente75 (nel
caso della psicosi – il fallo resta dal lato del
soggetto e la realtà è quella di un corpo – e
di un pensiero – in frammenti).
In mancanza di un moi che instauri la realtà del perceptum, inoltre, queste apparenze76 saranno nella condizione di
manifestarsi in quanto percipiens, di vedere
cioè il soggetto ovunque si trovi. Sarà dal
suo lato, infatti, che la realtà come dominio
del percepibile verrà a porsi. Sarà allora egli
stesso che ogni volta si vedrà vedersi (o si
penserà pensarsi), senza però poter assumere come proprio il suo stesso sguardo (o
pensiero), che verrà ipso facto addebitato
all’Altro77 (ecco il manifestarsi allucinatorio
delle voci): ciò di cui si tratta, cioè, qualunque cosa sia il dato percepito, è lì per il soggetto78. Essendo la sua realtà quella di un
corpo in frammenti, infine, ogni pensiero o
ogni azione – che non potrà essere che dell’Altro – avrà su di lui un effetto di reale, concreta, percezione di smembramento (vedi i
fenomeni di furto del pensiero o i deliri somatici della psicosi).
Se l’io della coscienza si rivolge all’altro,
è all’Altro che il soggetto dell’inconscio parla
ed è a questo secondo dire che l’analista
deve prestarsi80. L’analisi personale di chi
vuole porsi come analista, portata fino al suo
termine con l’assunzione da parte del soggetto futuro analista della propria mancanza
a essere81 si pone dunque come conditio
sine qua non dell’analisi stessa, unica via
per far sì che, nell’avere a che fare con un
paziente, ci sia dell’Altro in gioco. Non esistono allora né una manualistica né una tecnica ma esiste un’etica, quella del desiderio
dello psicoanalista come condizione soggettiva (si è analista, non si fa l’analista)82,
unica via che non chiuda la porta al dire soggettivo, la libera associazione sul piano del
significante, con una comprensione sul
piano del senso, in cui je incontrerebbe moi
e che avrebbe come unico risultato quello di
eliminare ogni possibilità per un dire inedito83.
Si tratta, per quanto riguarda lo psicoanalista, di mantenere la posizione paradossale del puro dialettico84, poiché è proprio
con i paradossi caratteristici di una singolare
esistenza che egli si trova a confrontarsi nel
corso del proprio lavoro. Sono i paradossi
della vita del soggetto, infatti, che divenutigli
insopportabili lo conducono a formulare una
domanda d’analisi ed è oltre un insopportabile definito dall’angoscia che questi potrà
escogitare una soluzione nuova.
Se da una parte avremo allora la questione nevrotica, con il suo continuo rivolgersi all’Altro, interrogandolo, per trovare
una impossibile soluzione alla propria mancanza, nella correlativa avremo la certezza
psicotica in cui è l’Altro, sempre e comunque, a prendere l’iniziativa.
8. Ontologia negativa
Lo stadio dello specchio, come apparato
logico, taglia fuori l’io della coscienza dal novero dei possibili interlocutori. Nel campo
della psicoanalisi, esperienza dialettica79,
non sarà cioè con questo io immaginario
che l’analista dovrà rapportarsi ma con il
soggetto simbolico dell’inconscio, unica via
31
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Antonino Zaffiro
9. I problemi di una pratica immaginaria da cui si vede, quella posizione che il sogLa supposta autosufficienza della coscienza, dice Lacan, “lega ai misconoscimenti costitutivi dell’io [je] l’illusione di
autonomia in cui confida” 85. L’io speculante,
cioè, costituitosi come buco necessario a
una percezione normata dall’Altro, può
adempiere a questa funzione solo misconoscendo se stesso e, contestualmente, prendendosi per qualcun altro (moi).
La prospettiva esistenzialista – ma discorso analogo vale per ogni epistemica,
ego psychology, cognitivismo o alleanza terapeutica che dir si voglia, purché orientata
alla comprensione o al suo correlato corporeo comunemente detto empatia – non si
confà all’esperienza psicoanalitica perché
non tocca il fondo del proprio stesso discorso. Quando questo viene a minacciare
il soggetto, infatti, essa si chiude a riccio e,
dove dovrebbe compiersi l’atto, la traversata
di questo buco (e dell’angoscia che ne risulta) nel registro del dire, ecco invece
l’agito restaurativo (sul piano del senso) dell’immagine nello specchio 86. L’esistenzialismo, dice Lacan, “si giudica dalle
giustificazioni che dà degli impedimenti che
di fatto ne risultano” 87.
Quello che si vede accadere nella pratica quotidiana del lavoro in campo socio sanitario, se svolto in un prospettiva che ha l’io
della coscienza (e non il soggetto dell’inconscio) come proprio fulcro, è che il matto
non può essere mai il clinico ma solo il paziente. Più quest’ultimo sarà classificato
tale, inoltre, più il clinico potrà bearsi della
propria adesione – questa, si, folle – a un
ideale alienante di normalità. Lui, unico detentore, metro e arbitro dell’esame di realtà
e del bene del prossimo88. La clinica snatura
così lo spirito della propria etimologia per
tramutarsi in imposizione violenta al soggetto-paziente di come essere. Nel far questo risparmia al soggetto-clinico l’incontro
angosciante con il non poter riconoscere il
proprio moi nelle fattezze dell’altro. Dove
dovrebbe esserci la clinica, ecco apparire la
violenza. Dove dovrebbe esserci la cura,
ecco apparire la persecuzione.
L’etica viene dunque a delinearsi come
campo specifico del discorso analitico, diverso e inconciliabile con qualsiasi prospettiva normalizzate: la psicoanalisi “ci distoglie
dal concepire l’io [je] come centrato sul sistema percezione-coscienza, come organizzato dal «principio di realtà» in cui si
formula fra i pregiudizi scientisti quello più
contrario alla dialettica della conoscenza” 89.
10. Il soggetto dell’inconscio
getto ha nei confronti dell’Altro, sarà allora
negli inciampi di questa che troveremo le
tracce del soggetto: sogni, lapsus, atti mancati, motti di spirito, tutte quelle fatalità 90,
cioè, che segnano il misconosciuto tragitto
della coazione a ripetere. Ripetere che
cosa? La verità che quel singolo essere
umano scrive imperterrito, senza accorgersene, nel corso della sua (psicopatologia
della) vita quotidiana91. La nevrosi, presa
nella sua definizione più estensiva92, sarà
pertanto la misura della “inerzia propria delle
formazioni dell’io [je]” 93, la forza di ciò che la
coscienza, mai così in malafede nel suo
esame di realtà, considererà al di là di ogni
ragionevole dubbio. È un ribaltamento prospettico dell’ecce homo.
11. Tu sei questo
Se la coscienza è misconoscimento, se il
linguaggio è in un rapporto problematico con
il soggetto, cosa resta dal lato di quest’ultimo? Resta appunto un resto, una libbra di
carne avanzata al fiero pasto che il linguaggio ne ha fatto. Qualunque ne sia il motivo,
ciò che conta è che il linguaggio abbia esaurito, con l’analisi, la sua portata di captazione del soggetto (je) nel miraggio del
senso (moi). Da quel momento in poi, preso
nella sua dimensione di articolazione significante pura e per parafrasare una frase del
tardo Lacan, il linguaggio potrà essere uno
strumento di cui quella libbra di carne potrà
fare a meno, a patto di servirsene94.
È un resto che marca, marchia, morde
un soggetto mai così vicino alla propria
carne – da un corpo in frammenti alienato
all’Altro a un brandello di carne, scarto del
linguaggio – resto che va assunto dal soggetto, al di là di ogni logica, come cifra ultima del proprio essere95. È in questa
prospettiva che Lacan può dire che “le sofferenze della nevrosi e della psicosi sono
per noi la scuola delle passioni dell’anima”96
ed è sempre in questa prospettiva che va
assunta la frase di Freud Wo Es war, soll Ich
werden97.
Non è di sostituzione che si tratta, di mettere la toppa dell’ideale a copertura della beanza nel linguaggio, ferita del corpo, in cui
appare l’inconscio, ma di addivenire come
soggetto, di essere, cioè, come verbo e
come azione. In una parola: è l’atto analitico
come al di là dell’angoscia, principio al soggetto di un inedito modo di stare al mondo 98.
A questo passo l’analista accompagna
chi era nell’impasse. Compierlo o meno sta
al soggetto.
Se coscienza è non vedere la posizione
32
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
89
J. Lacan,
Lo stadio dello specchio
come formatore della
funzione dell’io, op. cit.,
pag. 93.
90
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio
come formatore della
funzione dell’io, op. cit.,
pag. 93.
91
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio
come formatore della
funzione dell’io, op. cit.,
pag. 93.
92
Cfr. J. Lacan,
Lo stadio dello specchio
come formatore della
funzione dell’io, op. cit.,
pag. 93.
93
J. Lacan,
Lo stadio dello specchio
come formatore della
funzione dell’io (je), op.
cit., pag. 93.
94
Verso la fine del suo insegnamento, Lacan noterà come ci possa
essere un utilizzo del linguaggio (anche come articolazione significante)
in termini di puro godimento. È quello che definirà Lalingua e che
affronterà nelle sue implicazioni nel corso dei suoi
ultimi Seminari (cfr. J.
Lacan, Il Seminario,
Libro XXIII: Il sinthomo,
Astrolabio, Ubaldini,
Roma, 2006 e A. Zenoni,
La psicosi e l’al di là del
padre, Franco Angeli, Milano, 2001, pag. 131 e
seguenti).
95
È da questo momento
in poi che possiamo
forse riprendere in
esame il dualismo cartesiano, mai del tutto calabile nella logica analitica,
a patto però di riformularlo in termini di res loquens (dal lato di un
soggetto a brani, pulsione pienamente assunta – in una parola:
sinthomo;
cfr. J.Lacan, Il Seminario,
Libro XXIII: il sinthomo,
op. cit.) e res extensa (i
detti e l’immagine di un
corpo come intero, dal
lato dell’Altro). Cfr. S.
Zizek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello
Cortina, Milano, 2003.
96
J. Lacan
Lo stadio dello specchio
come formatore della
funzione dell’io, op. cit.,
pag. 94.
97
S. Freud,
Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), in Opere, Vol. 11,
op. cit., pag. 190.
98
Cfr. J. Lacan,
La cosa freudiana.
Senso del ritorno a Freud
in psicoanalisi e L’istanza
della lettera nell’inconscio o la ragione dopo
Freud, in Scritti, Vol. 1,
op. cit., pag. 407-408 e
519.
Laura Foti
Umanesimo ed umanità in J. Maritain
di Laura Foti
Laura Foti,
vive a Latina
ed insegna
filosofia e storia
presso il Liceo
Classico
D. Alighieri.
Si occupa di
didattica della
filosofia
contemporanea
e di psicologia
della scrittura
99
J. Maritain,
Confessione di fede,
1940
L’
uomo vuole affidarsi a Dio, vuole affidarsi all’Amore, vuole affidarsi all’Umanità… la storia dell’uomo è
semplicemente la storia dell’uomo che ritorna a Dio…
La vita dell’uomo è spesso paura, sbigottimento dell’essere di fronte all’ Essere…
L’uomo non sa se oscillare fra la “condanna” della propria libertà e la capacità di
vivere la propria libertà …
Maritain sa che l’uomo si può salvare
dalla paura del “vuoto” e dalla nullificazione
totale solamente se il suo percorso antropologico si apre al divino ed alla fede, perché
l’uomo, solo attraverso la logica, comprende la dicotomia fede – ragione, ma,
solo attraverso il contrasto fede – ragione,
l’uomo stesso arriva a conoscere la categoria del sentimento. La modernità per essere tale deve ispirarsi al cristianesimo
attraverso la figura di un uomo, Cristo, che
non ha mai chiuso a se stesso ed all’umanità le porte della speranza e della capacità
di amare.
Nel pensiero antico ogni uomo è persona, ogni uomo è “natura spirituale dotato
della libertà di scelta e costituente un tutto
indipendente di fronte al mondo”, ma
l’uomo aveva un grosso limite: è troppo
proteso verso il divino per comprendere
l’umanità di Cristo, attraverso la quale arriviamo alla nostra umanità.
L’etica personale, spesso, viene trascurata in nome dell’oggettività della legge morale.
Scrive J. Maritain: «Conobbi san Tommaso in seguito alla mia conversione al cattolicesimo. Dopo aver studiato con tanta
passione tutte le dottrine filosofiche moderne, trovandovi solo delusioni e grandi incertezze, provai quasi un'illuminazione della
ragione; la mia vocazione filosofica mi apparve chiara nella sua pienezza…. guai a
me se non tomistizzo, scrivevo in uno dei
miei primi libri, e in trent'anni di lavoro ho
sempre seguito la stessa linea di condotta,
con il desiderio di conoscere sempre più
profondamente le ricerche, le scoperte, le
angosce del pensiero moderno, cercando di
farvi penetrare sempre più la luce che ci
viene da una sapienza elaborata nei secoli
e che resiste allo scorrere del tempo” 99
“Tu non possiedi la Verità è la Verità che
possiede te” (San Tommaso- “De Veritate”)… con J. Maritain, la filosofia tomista
esce dalle università, dai libri, per entrare
nel mondo dell’uomo, il mondo “laico”, per
diventare parte della cultura dell’uomo, che
vive attraverso l’impegno politico e sociale
e decreta nell’azione concreta il nuovo essere uomo.
Non serve cercare una Verità, non serve
Capire: la comprensione della Vita è nella
vita stessa, nella quotidianità del gesto, nell’amore del quotidiano, nel voler bene , nell’avere gli altri sempre come impegno
sociale... non serve, quindi, cercare la Verità, essa è, infatti, nella capacità che c’è in
ognuno di noi di accettare il proprio viatico,
anche se con dolore oppure con gioia e chi
lo sa… la vita riserva molti doni…
La filosofia tomistica permette a Maritain
di recuperare la verità su Dio, la verità è che
Dio è comunque dentro di noi (S. Agostino)
ma è anche nella totalità delle nostre azioni,
nel recupero del senso dell’umanità intesa
nel valore più alto e grande della FILOSOFIA.
Filosofia come amore verso noi stessi,
verso l’umanità e verso il sapere nella sua
totalità, purchè esso non ci allontani dalla
vita di tutti i giorni…
Spesso non c’è una vera differenza fra il
sapere filosofico degli autori precristiani e
quelli cristiani: cambiano le situazioni ma
l’uomo che cerca se stesso attraverso l’Ineffabile, l’uomo che cerca la particella dell’antimateria, l’uomo che si scopre piccolo ed
umile di fronte all’ Infinito, questo Uomo è
quello di sempre. Il pensiero di Maritain,
quindi, non è contaminazione del tomismo
ma una evoluzione stessa della filosofia
del grande filosofo, una filosofia che esce
fuori dalla “difensiva” e si pone al centro
della quotidianità del cristiano.
33
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Laura Foti
Tra noi e l'inferno o il cielo c'è di
mezzo soltanto la vita, che è la cosa
più fragile del mondo.
Blaise Pascal(Pensieri)
L’uomo è, quindi, un “animale dotato di
ragione, la cui suprema dignità consiste nell'intelligenza”; è uomo in quanto libero individuo in relazione personale con l’Ineffabile,
la cui suprema virtù consiste nel cum- prendere l’essenza della nostra esistenza, di abbracciarla tutta, per potersi sentire appagato
di vita nella vita stessa.
L’uomo vuole affidarsi a Dio, vuole affidarsi all’Amore, vuole affidarsi all’Umanità
ed, in quanto fede- fiducia, affidarsi a Dio significa seguirlo, significa ritrovare la nostra
possibilità nella possibilità che Egli stesso ci
ha donato, significa ritrovare la consapevolezza dell’ umanità in qualsiasi essere
umano, perché in ognuno di noi c’è la comprensione del tutto.
L’uomo spesso vive la propria esistenza
come precarietà, ma si tratta di una precarietà “minima” perché sicuramente ognuno
di noi vive per una missione e tale ricerca
deve essere alla base della nostra vita, affinchè il caso e la noia non ci avvolgano e
non ci annichiliscano
“L'uomo non raggiunge la sua perfezione
che soprannaturalmente, egli non cresce se
non sulla croce. Un umanesimo è possibile,
ma a condizione che esso abbia per fine Dio
attraverso l'umanità del Mediatore, e che
egli predisponga i suoi mezzi a questo fine
essenzialmente soprannaturale: umanesimo dell'incarnazione; a condizione che
esso si ordini tutto intero all'amore e alla generosità redentrice”.100
La storia è il monumento dell’uomo che
vive perché crede nell’umanità ed è nell’andare verso gli altri che l’essere umano si ritrova… è nell’altro che io vedo il riflesso di
una creazione, della mia creazione, è per
l’altro che spesso piango ed è nell’altro che
spesso gioisco… i cerchi della Vita e della
Verità si chiudono e si …incontrano: la storia dell’uomo è semplicemente la storia dell’uomo che ritorna a Dio…
La concezione antropologica, che sta a
fondamento della filosofia di Maritain è
quella della filosofia «classica», che da Platone in poi, vede nelle mondo delle Idee e
quindi in un mondo “sopra di noi” il Bene supremo a cui l’uomo tende ed aspira.
Dall’ Umanesimo in poi, spesso la filosofia scientifica ha voluto riabilitare l’uomo
ed il mondo terreno senza tenere conto
delle sue aspirazioni e della volontà che c’è
nell’uomo di credere in Dio: un mondo
senza Dio è un mondo senza l’uomo e se
vogliamo credere nell’umanità e nelle sue
possibilità dobbiamo credere anche nelle
sue debolezze e nella sua “non- capacità di
comprendere”.
34
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
100
In: Le docleur
angélique, Desclée
De Brouwer,
Paris 1930, p. 28.
Francesca Torella
A theory of freedom between reality and simulacrum101
di Francesca Torella
Introduction
Francesca Torella,
già allieva del Liceo
Scientifico
G.B.Grassi
di Latina, oggi
studentessa
universitaria
101
Elaborato
classificato al secondo
posto nelle selezioni
nazionali delle
Olimpiadi di Filosofia
2012.
T
he possibility of conceiving a complex
idea as the one generally called “liberty”, implies a consubstantial dyscrasia between the methaphysical sphere
and the juridical-economic one. It could
seem a obstrouse matter but, deeply analyzing our condition of man, leaving in a society thrown in a profound crysis, it seems
admisible to ask a question:
can we really consider our freedom on
actual fact, despite the subtle conditioning
that a “globalized, unsettled market society”
imposes on our free will, or is it just a starling
simulacrum?
The great paradox
The Kafkaesque perspective of being falsely free, should stimulate a serouius analysis both on the potential and the actual limits
of our liberty: if we accept, as Kant theorized, that the limit of our freedom is the other
person, we must admit, at the same time,
that the world in which we live in hides many
paradoxies: as a matter of joke, the hypercapitalistic, modern society as well as the
prevailing tendency to consumism cannot
be conceived if released from its ingrained
“egoistic” spirit; capitalism means profit and,
to obtain this supreme purpose, everything
is allowed, even the violation of the ”moral
person” that clashes with “the violation of
man’s degnity and freedom” (as Erich
Fromm noticed).
Looking for the lost Relationship
The dyscrasia that we mentioned in the
introduction coincides whith the intrinsie
comflit between a “man” defined by Aristoteles as a “social animal” and, the modern
society, in which idea of the relation-ship as
the basic presupposition of human nature,
has been over-shadowed by the imperative
of profit. It does not mean that, overtaking
the “the limit of the human relationship”, man
acquires an absolute freedom, as a matter
of fact the “relationship” is the necessary
presuppotion for freedom itself and, a liberty
etimologically intended as “absoluta” could
not be possible for a man that actually
exists, only as a Being in the “world”, with
the “others”.
The key-point is that renouncing to this
indispensable requisite (the authentic
human relationship), we have generated a
hyper-consumistic society that illude us with
the shining simulacrum for boundless liberty
(freedom to buy what we want, to go wherever we desire), a frivolous and illusory liberty
that “exist” untill we have a credit-card to
use.
The unconsiousness of the silkwarn
Nietzsche considers the freedom of the
man’s will an “original mistake” that is inborn
in human mind and that cannot be removed,
because of it represents the foundamental
spur to act: “man is like the silk-warn, that
looks for the liberty of its will, while spinning”
(Thus spoke Zarathustra). This quotation
should make us reflect on the dynamics of
our existence as “man-consumers”: what if
we were like Nietzsche’s silkwarn, that looks
for freedom while working to erect its limits?
maybe we do not realize that we look for
freedom just where there is extreme necessity, because we tend to consider the structure of the society as not deriving from its
members while, probably, we “are” the reflection of the system in which we exist and,
as Bauman affirms, we live in a system that
manipulates its members, making them feel
free while reducing them to be simply an unconscious “year” of the “hyper-consumistic
machine” of the post-capitalistic society.
That’s the jungle
From this point of view, we can better understand the authentic meaning of Hayek’s
statement: “who owns all the means, established all the aims”. We cannot disprove
this assertion but we must admit that we
aare dealing with a “liberal”, civilized society,
regualated by the “law of the jungle” (the
strongest win): it sounds paradoxical, does
not it? The point is that if we admit a society
in which having more “economic power”
means having much more opportunity we
are legittimating a world where there will always be a clean fragmentation of man’s “potential of freedom”, in clear contrast with the
egalitarian ideal of the Enlightenment and,
hopefully, with the common sense.
Conclusion
As Hume stated, the only thing we cannot bound, is “man’s freedom of imagining
and transposing his ideas”; just the ourness
of the infint liberty of our imagination should
represent the principal stimulus to start thinking about a new way of organizing our society possibly conceiving one in which the
human relationship recovers its centrality.
35
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Pasquale Iezza
Una formazione logica
di Pasquale Iezza
Pasquale Iezza,
dirigente della
scuola media statale
“G. Volta” di Latina,
studioso e cultore
di filosofia
L
a scuola ha la finalità principale di contribuire alla formazione di un allievo
consapevole delle proprie potenzialità
e protagonista attivo della comunità di cui fa
parte. Gli insegnanti hanno il compito di dare
ai propri studenti risposte di senso, chiare e
coerenti. Per dar senso alle cose bisogna
saper organizzare il pensiero in modo da rispondere ai diversi perchè. Pensare in
modo logico è un’attività impegnativa e mai
scontata, è apertura all’esterno senza mai
perdere di vista il mondo interiore. Il grande
pericolo è quello di impigliarsi nella rete infinita delle informazioni che, sovraffollando i
pensieri, ci allontanano dalla reale conoscenza. Abitare la complessità cercando di
comprenderla significa districare con pazienza il pensiero dal groviglio dei dati che
occupano la mente per seguire un percorso
lineare: la formazione è il filo di Arianna che
porta dalla complessità alla linearità. A dipanare il tutto è la logica: il vero bandolo
della matassa, la rete che tiene tutto unito.
Non è funzionale pensare l’universo come
una somma di fenomeni slegati gli uni dagli
altri ma è più plausibile vederlo come un insieme di fatti coerenti all’interno di un sistema che li abbraccia. La visione del
sapere allora si allarga perché non discrimina più gli ambiti della conoscenza, il percorso formativo logico sostituisce la didattica
per materie, per discipline, con la didattica
per competenze. La competenza è la capacità di usare conoscenze diverse, abilità e
capacità personali, per adattarsi ai diversi
contesti ambientali risolvendo i problemi in
modo efficace, in questo modo un sapere
non è più impermeabile all’altro, c’è sempre
la possibilità di una trasversalità ed una trasferibilità delle idee. Con un sistema integrato si mettono in comunicazione i diversi
ambiti della ricerca, così non ci saranno più
discipline che vanno ciascuna per conto proprio, ma saperi aperti, conoscenze interconnesse l’una con l’altra mediante un continuo
scambio ed un dialogo sempre aperto. Il
punto di contatto, di coesione dei saperi è
proprio la logica che ci permette di comprendere la natura unitaria delle conoscenze. I quattro assi culturali: linguaggi,
matematico, scientifico-tecnologico, storicosociale, sono assi solitari ma, se avranno
come architrave di unione la logica, potranno costituire le nuova fondamenta dei
processi di conoscenza. Solo un pensiero
che si riconosce nell’agire comunicativo e
dialogico può porsi come fulcro di operazioni
logiche e argomentative in grado di offrire ri-
36
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
sposte sensate. La dimensione ecologica
della mente, la scienza critica della formazione, la ricerca epistemologica ci consegnano questa base critica da cui partire per
avviare un nuovo percorso educativo. Al
centro di questa riflessione ci sono i ragazzi,
spesso poco orientati, che chiedono agli
adulti risposte chiare e coerenti.
Il Ministro dell’Istruzione Maria Chiara
Carrozza, in apertura dell’anno scolastico
2013/14, ha detto agli studenti: “Ragazzi,
siate ribelli e non accettate le cose come
sono”. E allora è bello immaginarsi il Ministro “the brave” che, per dare l’esempio, inizi
a scagliare le prime tre frecce per centrare il
bersaglio del cambiamento.
Prima freccia: sono ormai maturi i tempi per
cambiare il nome dell’amministrazione scolastica in Ministero della Pubblica Formazione. La proposta ha senso perché per
costruire un ragazzo o una ragazza non
basta solo estrarre fuori qualcosa dal suo interno (e-ducere), né collocare su strati successivi i saperi che provengono dall’esterno
(in-struere), ma bisogna dare forma ad una
persona completa che metta in relazione
l’esperienza individuale con i contenuti culturali acquisiti. Il Piano dell’Offerta Formativa (POF) ha sostituito il Piano Educativo
d’Istituto (PEI), il Miglioramento dell’Offerta
Formativa (MOF) integra il Fondo dell’Istituzione Scolastica (FIS), la laurea in Scienze
della Formazione ha preso il posto di quella
in Pedagogia, oggi si parla esclusivamente
Pasquale Iezza
di qualità dell’offerta formativa, di successo
formativo, di esperienze formative formali e
non formali, di polo formativo, tutte le scuole
sono “Istituti di Formazione”, nel Regolamento dell’Autonomia, il D.P.R. 8 marzo
1999, n° 275 prevale il termine formazione
rispetto ad istruzione ed educazione. I termini usati nella riflessione pedagogica, istruzione ed educazione, ad un’analisi più
attenta, appaiono complementari e sono,
comunque, entrambi presenti in ogni processo formativo, ecco perché con la parola
formazione si opera una sorta di sintesi che
potrebbe permettere il superamento di qualsiasi contrapposizione e confusione.
Terza freccia: il Ministero della Pubblica Formazione deve essere al passo con i tempi.
Gli studenti, oggi, hanno sviluppato un
nuovo tipo di intelligenza, l’intelligenza digitale, per cui è fondamentale che gli insegnanti siano formati ed aggiornati su questa
nuova grande possibilità che hanno per entrare in contatto con loro. Solo così si lasciano le abitudini e le convinzioni statiche,
si conosce e si agisce per elaborare nuove
modalità di comunicazione, si costruiscono
interazioni coinvolgenti, si formulano categorie del sapere da mettere in discussione.
Il tecnicismo, la specializzazione, il pensiero
convergente, il ripetere meccanicamente
cose già apprese, non permettono ai ragazzi e ai docenti di costruire insieme un
percorso diverso. E’ giusto, allora, per il rispetto dell’individuo, cercare di sviluppare
un pensiero che sia divergente, che abbia
cioè le seguenti caratteristiche: 1) fluidità: facilità di spostamento di un’idea da un ambiente di apprendimento all’altro (dalla
lavagna in ardesia alla LIM o da un foglio di
carta al tablet); 2) flessibilità: capacità di
adattare, di piegare il proprio pensiero alle
differenti situazione e ad un mondo in continua evoluzione, sensibile alle innovazioni
tecnologiche e sociali; 3) originalità: possibilità di cogliere la novità, di uscire fuori dagli
schemi precostituiti e convenzionali.
Seconda freccia: nel nuovo Ministero della
Pubblica Formazione è utile inserire la logica come attività formativa stabile, dalla
scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di
II grado, in modo tale che gli studenti siano
in grado di spiegarsi e di razionalizzare il
percorso che li fa giungere ad una soluzione. Spiegare un percorso logico significa
saper argomentare, cioè giustificare una
scelta e sostenere un punto di vista sulla
base di fatti verificabili. Questa capacità argomentativa è una competenza indispensabile nella vita di tutti i giorni, qualsiasi attività
si decida di intraprendere. Talvolta è esplicita e trasparente, semplice come la risposta cui tende; tal’altra appare informe,
indefinita e vaga; nascosta, velata, non riusciamo neppure a trovarla se non alla fine
Dalle tre frecce scagliate con convindel percorso di conoscenza che essa stessa zione e precisione per centrare il bersaglio
ci ha spinto a compiere. Noi in quanto es- del cambiamento può nascere una rivoluseri razionali utilizziamo naturalmente la lo- zione del sistema scolastico.
gica, però, è importante:
• capire come ragionare per arrivare a
conclusioni giuste in base a quello che
già conosciamo;
• studiare i nessi logici, i processi, il funzionamento, i collegamenti dei nostri
pensieri per costruire argomentazioni valide;
• in definitiva è fondamentale iniziare a
praticare la scienza di come pensiamo,
per non cadere nelle azioni illogiche che
possono provocare danni irreparabili:
per noi, per gli altri, per l’ambiente.
La risoluzione di quesiti di natura logicodeduttiva è richiesta, in misura sempre crescente, in tutte le prove di selezione del
personale, nei test di accesso alle facoltà
universitarie a numero chiuso e nei concorsi
a cattedre per i futuri docenti. E’ necessario
allora, nell’ottica del cambiamento, esercitare, valutare, potenziare, nelle scuole italiane, le capacità che ci permettono di
ragionare.
37
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Guide to the Study of Philosophy
da : http://www.philosophypages.com/sy.htm
pling with the material on your own. You
can't develop intellectual independence if
you rely for your information on the opinions
of other people, even when they happen to
be correct.
• Consider the context
Philosophical writing, like literature of any
genre, arises from a concrete historical setting. Approaching each text, you should
keep in mind who wrote it, when and where
it was published, for what audience it was
originally intended, what purposes it was
supposed to achieve, and how it has been
received by the philosophical and general
communities since its appearance. Introductory matter in your textbooks and the Internet resources accessed through the
course syllabus will help you get off to a
good start.
• Take your time
Welcome to the study of philosophy; I
hope that you will enjoy your pursuit of the
discipline and find it rewarding in many
ways. In this document, I've gathered some
information that may be of assistance to you
as you proceed through a formal course of
study. You may also wish to consult the Teaching and Studying Resources page of Episteme Linksand the Dictionary of
Philosophical Terms and Names.
Contents
• Reading Philosophical Texts
Using Electronic Texts
• Philosophical Dialogue
The Electronic Forum
• Writing Philosophy
Writing Research Papers
Writing Essay Exams
Reading Philosophical Texts
The assignments in your course require
you to engage in a close reading of significant texts written by the major philosophers
of the Western tradition. Since you may
have had little experience in dealing with
material of this sort, the prospect may be a
little daunting at first. Philosophical prose is
carefully crafted to achieve its own purposes, and reading it well requires a similar degree of care. Here are a few suggestions:
• Do the assigned reading
The philosophical texts simply are the
content of the course; if you do not read, you
will not learn. Coming to class without having read and listening to the discourse of
those who have is no substitute for grap38
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Careful reading cannot be rushed; you
should allow plenty of time for a leisurely perusal of the material assigned each day. Individual learning styles certainly differ: some
people function best by reading the same
text several times with progressively more
detailed attention; others prefer to work
through the text patiently and diligently a single time. In either case, encourage yourself
to slow down and engage the text at a personal level.
• Spot crucial passages
Although philosophers do not deliberately spin out pointlessly excessive verbiage
(no, really!), most philosophical texts vary in
density from page to page. It isn't always obvious what matters most; philosophers sometimes glide superficially over the very
points on which their entire argument depends. But with the practice you'll be getting
week by week, you'll soon be able to highlight the most important portions of each
assignment.
• Identify central theses
Each philosophical text is intended to
convince us of the truth of particular propositions. Although these central theses are
sometimes stated clearly and explicitly, authors often choose to present them more
subtly in the context of the line of reasoning
which they are established. Remember that
the thesis may be either positive or negative,
either the acceptance or the rejection of a
philosophical position. At the most general
level, you may find it helpful to survey the
exam study questions in your course study
aids file as you read each assigned text.
• Locate supportive arguments
Philosophers do not merely state opinions but also undertake to establish their
truth. The methods employed to support philosophical theses can differ widely, but most
of them will be expressed one of the forms
of logical argumentation. That is, the philosopher will (explicitly or implicitly) offer premises that are clearly true and then claim
that a sound inference from these premises
leads inexorably to the desired conclusion.
Although a disciplined study of the forms of
logical reasoning is helpful, you'll probably
learn to recognize the most common patterns from early examples in your reading.
• Assess the arguments
Arguments are not all of equal cogency;
we are obliged to accept the conclusion only
if it is supported by correct inference from
true premises. Thus, there are two different
ways in which to question the legitimacy of
a particular argument:
- Ask whether the premises are true. (Remember that one or more of the premises of the argument may be unstated
assumptions.)
- Ask whether the inference from premises to conclusion is sound. (Here it will
be helpful to think of applying the same
pattern of reasoning to a more familiar
case.)
If all else fails, you may question the truth
of the conclusion directly by proposing a
counter-example which seems obviously to
contradict it.
• Look for connections
Since these texts occur within a tradition,
they are often directly related to each other.
Within your reading of a particular philosopher, notice the way in which material in one
portion of the text links up with material from
another. As the semester proceeds, consider the ways in which each philosopher incorporates, appropriates, rejects, or
responds to the work of those who have
gone before. Finally, make every possible
effort to relate this philosophical text to what
you already know from courses in other disciplines and from your own life experiences.
Above all else, don't worry! You'll spend
most of your class time going over the assigned readings, often in great detail. You'll
have plenty of opportunities to learn what
other readers have found, to ask questions
for clarification of puzzling passages, and to
share your own insights with others. As the
semester proceeds, you will grow ever more
confident in your own capacity to interpret
philosophical texts.
Using Electronic Texts
The philosophers' pages here will pro-
vide you with convenient access to electronic versions of most of the texts you'll be
reading and to other texts by the same or related authors. Please learn to make use of
these materials regularly. I think you'll find
that e-texts offer a number of advantages for
research in philosophy:
• With a little practice, you'll find the virtual library easy to get around in. Welldesigned hypertext files are particularly
useful, but even straight text files are
often easier to manipulate than physical
books.
• It is much more convenient to compare
related texts in electronic than in print
form. (The trilingual version of Descartes's Meditations is an excellent example.
• Using the utilities provided with your
browser or word-processing software
makes it easy to search the text for key
words or phrases and to excerpt crucial
passages for further study.
Exciting prospects! As David Hume
wrote in a different context, "When we run
over libraries, persuaded of these principles,
what havoc must we make?" Before committing any of our old print volumes to the
flames, however, we might consider a few
words of caution:
• Not every significant text is available in
electronic form. Although many worthwhile projects are busy expanding the
number of texts on-line, the process of
conversion from print media to reliable etext is time-consuming and labor-intensive. It will be a long time before Internet
resources can begin to rival the holdings
of even a small research library.
• Because of copyright restrictions, the
electronic texts available on the Internet
rarely include the best critical editions or
the most recent translations of the work
of major philosophers. (For those we
must still rely on more costly print or CDROM media.) When using e-texts in the
preparation of a written assignment, you'll want to refer to the more definitive
print versions before quoting directly.
• Not all of the readily available e-texts
are of the highest quality; scanning errors are common, and proof-reading is
sometimes spotty. Although I've tried to
identify reliable versions, I've certainly
not checked every word myself. Again,
be sure to double-check against a more
standard print version of the text.
• Finally, in my own experience, at least,
for the kind of leisurely, ruminative readingthat most philosophical texts require,
a physical volume—the kind of thing you
can spread out on your lap or mark up
with a pencil or even heave across the
room—is still hard to beat.
39
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Philosophical Dialogue
Verbal discussion of serious topics is in
no way tangential to the practice of philosophy. From Socratic gatherings to the philosophical conventions of today, thinking
things through out loud—and in the presence of others—has always been of the essence of the philosophical method. (Most
philosophical texts embody this give-andtake, either in explicit use of dialogue form or
by a more subtle alteration of proposal, objection, and reply in expository prose.) Your
philosophical education demands that you
enter into the great conversation of Western
thought. A few suggestions may help:
• Be prepared
Productive dialogue presupposes informed participants. This means that during
every class session, each of us will have
read the material assigned for the day, we
will pay careful attention to what others have
already said, and we will think carefully before speaking.
Of course, each of us will often be mistaken, but none of us should ever speak
randomly.
• Respect others
Joint participants in dialogue show a
deep, personal respect for each other. We
owe it to each other to listen well and to give
each other the benefit of doubt in interpreting charitably what has been said, trying always to see the worthwhile point. Although
we will rarely find ourselves in total agreement on the issues at stake, we will never
attack or make fun of each other personally.
• Expect conflict
Disagreement with an expressed opinion
and criticism of its putative support isnot disrespectful; it is an acknowledgment that we
are taking the matter seriously. The more significant the issue under discussion, the
more likely our exchanges will become passionate, even heated. But we must always
deal with each other fairly, helping each
other to see the light.
fication of the meaning of something that
has already been said or for the justification
of a claim that has already been made.
(Those who are naturally quiet may find that
a well-timed question is the most comfortable way to participate in the dialogue.)
Above all, remember that philosophical
discussion is a cooperative activity, aiming
at a mutual achievement of truth (or, at least,
convergence on a shared opinion). It is not
a competition in which "points" are to be
scored against an opponent. We are working together, and each can learn from all.
The Electronic Forum
Conducting an on-line discussion during
the semester enables us to expand our
study of philosophy beyond the spatial and
temporal boundaries of traditional class
meetings. If you've not participated in this
way extensively before, it may take a little
energy to get started, but you'll soon find this
medium a comfortable one for communicating with the entire group. Early in the session, we'll get to know each other and learn
to manage our networking tools effectiely.
Here are a few general ground rules for
getting started on the electronic forum:
• Check the discussion space frequently
Every member of the class will be contributing multiple messages each week—perhaps one or two substantive efforts and
several short comments. This means that
your list of messages will pile up pretty quickly. You'll want to read it daily, or at least several times a week, so that you have a
chance to chime in on a subject before we
move on to something else.
• Avoid lengthy quotes
When responding to someone else's
comments, don't quote the whole message—we've all seen it already. Just mention the person's name, the date of the
message, and quote the few crucial lines
that provide a context for what you want to
say. (Some identification is a good idea,
since we'll all be "speaking" at once.)
• Quality counts more than quantity
• Never be deliberately offensive
Lacking the visual cues present in faceto-face communication, typed electronic
messages can easily seem more harsh than
they were intended to be. Even in the passion of a vigorous philosophical exchange,
let's try to be considerate of each other on
both sides—in writing and in reading—by
assuming the best. No "flaming," please.
Remember that this substitute for the
more traditional methods of discussion is
still unfamiliar for some of us. That's no rea• Ask questions
Not every contribution to the dialogue son to be timid: let's plunge in, try everything
needs to be the proposal or defence of a we can think of, learn from our mistakes and
thesis. It is always proper to ask for a clari- from our successes, and enjoy the adventure.
No discussion will be perfectly balanced
among its participants, and each of us will
have days on which we are quieter or more
vocal. But no one should dominate the conversation, nor should anyone be utterly silent. If you find yourself speaking too much,
try to listen more; if you find yourself saying
too little, look for opportunities to contribute.
But always remember that it is what you say,
not the fact of your speaking, that matters.
40
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Writing Philosophy
Write to learn. Expressing your thoughts
is an excellent way of discovering what they
really are. Even when you're the only one
who ever sees the results of your explorations, trying to put them down in written form
often helps, and when you wish to communicate to others, the ability to write clear,
meaningful prose is vital. Here are some
suggestions for proceeding:
• Understand the assignment
Whether you're completing a specific assignment or developing your own project, it
is important to have the aims firmly in mind.
Focus on a single question you wish to address, be clear about your own answer to it,
and explicitly state a thesis that answers the
question. You will often want to divide the
central issue into several smaller questions,
each with its own answer, and this will naturally lead to a coherent structure for the entire essay.
• Interpret fairly
Most of your writing projects will begin
with a careful effort to interpret a philosophical text, and this step should never be taken
lightly. Your first responsibility is to develop
an accurate reading of the original text; then
your criticism can begin. Focus primarily on
the adequacy of the arguments which support the stated conclusions. If you disagree,
you can look for the weaknesses of that support; if you agree, you can defend it against
possible attacks.
the thesis. Padding with irrelevant or redundant material is never worthwhile. Be particularly careful in your use of material
prepared by others: do not plagiarize, paraphrase without attribution, quote directly
often or at length, or rely extensively on a
single secondary source.
• Write clearly
It is your responsibility as writer to express yourself in a way that can be understood. Use specific, concrete language in
active voice whenever you can. Define your
terms explicitly and use them consistently
throughout your paper.
Finally, you may find it helpful to keep an
appropriate audience in mind as you write.
Don't write just for the instructor and your
classmates—that is, don't assume that your
audience has professional knowledge of the
philosophical texts or total awareness of
every conversation that has taken place, inside and outside the classroom. Unless
otherwise directed by the details of a particular assignment, think of yourself as presenting the material to a friend, your
parents, or a class: intelligent, interested
people who are well-informed generally but
who lack your knowledge of the philosophical issues. Write to teach.
Paper Submission Guidelines
All written assignments should be submitted in the designated form, and should include a clear indication of the course and
assignment number. Be sure to observe the
designated due date; work that is turned in
late will automatically receive a significantly
• Support your thesis
Don't just state your own position; make reduced grade.
it the conclusion of a line of reasoning.
It is reasonable to expect any assiClaim only what you can prove (or are, at
least, prepared to defend), and support it gnment prepared outside class to be written
with evidence and argument. Philosophy is well, with careful attention to grammar, spelnot just a list of true opinions, but the reaso- ling, and usage. Philosophical writing should
avoid offensive sexual, racial, ethnic, relined effort to provide justification.
gious, and material or physical bias.
• Consider alternatives
Be sure to explore arguments on all
sides of the issue you address. Of course
you will want to emphasize the reasoning
that supports your thesis, but it is also important to consider likely objections and to
respond with counter-arguments. Be especially carefully in your use of examples: the
best positive example can only clarify meaning and lend some evidentiary confirmation, but a single counter-example disproves
a general claim completely.
• Omit the unnecessary
Include in your written work only what is
germane to your topic: after the first draft,
mercilessly eliminate from your text anything
that does not directly and uniquely support
You may employ any one of the methods
of attribution described in The Chicago Manual of Style, but must be consistent in both
notes and bibliographies. Direct quotations
from the philosophers should be taken from
the standard edition of the works or the definitive English translation as listed in Richard T. DeGeorge, The Philosopher's
Guide or from the texts you have been
asked to read for this course.
If you make significant use of an electronic source, remember that this deserves documentation, too, including the author's
name, titles for both the page and the site, a
complete Uniform Resource Locator, and
the date on which you viewed it on-line.
41
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Thus, for example, work on George Berkeley's philosophy might include references
to:
• George Berkeley, A Treatise concerning
the Principles of Human Knowledge,
Section 22. HTML edition by David R.
Wilkins.
•<http://www.maths.tcd.ie/pub/HistMath/People/Berkeley/ HumanKnowledge/HumanKnowledge.html#Sect22
> Accessed 30 September 1998.
• "George Berkeley," The Internet Encyclopedia of Philosophy, ed. by James
Fieser.<http://www.utm.edu/research/iep
/b/berkeley.htm> Accessed 25 April
1999.
• Garth Kemerling, "Berkeley's Immaterialism,"
Philosophy
Pages.
<http://www.philosophypages.com/hy/4r.
htm> Accessed 14 October 2000.
• Peter B. Lloyd, "Berkeley's Metaphysics," Berkeley Studies. <http://easyweb.easynet.co.uk/~ursa/philos/berkmet
a.htm> Accessed 23 June 1999.
question means, ask me for a clarification.
Take a moment to organize your thoughts
on the subject, and dive in.
• Stick to the point
Make sure that your essay is directly relevant to the question asked. Although you
will know a great deal more about the philosopher or topic at issue than your answer requires, it will be read only for information
and/or argumentation that responds to the
specific question. If you believe that additional material is required, indicate clearly and
explicitly how it connects with the matter at
hand.
• Use your time wisely
Although essay exams in philosophy are
not meant to be intensely time-pressured,
they must be completed within certain limits.
You may be asked to write four or five short
essays during an exam, allowing fifteen or
twenty minutes for each. Don't get so absorbed in one question that you spend much
more than its share of the available time; if
you have more to say, jot down a note or
Although you're welcome to use such two, move on to another question, and resources, it is not possible to write an ade- turn to complete your answer if time allows.
quate research paper using on-line materials alone. Print resources are far more
• Make every word count
extensive, detailed, and reliable.
Although it is always helpful to write clearly—that is, in complete, grammatically corIn addition to these formal criteria, please rect sentences—there is no need to craft
consult the general suggestions for Writing beautiful prose. Avoid lengthy prefatory,
Philosophy above.
transitional, and summary verbiage. Get the
Writing Essay Exams
essentials down on paper, and trust the instructor to evaluate your essay by its quaSince a significant portion of your grade lity, not its quantity.
for this course will depend upon assessment
of your knowledge and skill as reflected in
examinations, here are a few suggestions
for dealing with essay exams:
• Be prepared
Rely heavily upon the study questions distributed at the outset of the course: look
over them at the beginning of each unit; use
them to guide your reading of the texts and
our discussion in class; and review them before the exam. If you have considered these
issues fully, nothing on the exam itself can
surprise you. Arrive promptly for the exam,
and try to be well-rested, and relaxed.
• Understand the question
Before beginning to write, read each
question carefully and completely; it will ask
that you address a specific issue in a particular way. Pay close attention to words
(such as "Describe...," "Explain...," "Compare and contrast...," "Assess...," and "Evaluate...") that suggest the appropriate mode
of response. If you are uncertain what a
42
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Laura Foti
Educazione ed autoformazione
di Laura Foti
Laura Foti,
vive a Latina
ed insegna
filosofia e storia
presso il
Liceo Classico
D. Alighieri.
Si occupa di
didattica della
filosofia
contemporanea
e di psicologia
della scrittura
L
a pedagogia , attraverso la pratica di
essa che, comunemente, chiamiamo
didattica è una scienza in quanto è costituita da un sistema organico di saperi che
ha come destinatario privilegiato il bambino,
prima e poi , l’adulto. Non a caso “paidòs” =
ragazzo ed “achei”= portare (nella etimologia classica del termine pedagogia), indicano un “viaggio” didattico dove il progetto
empatico docente- discente è alla base per
insegnare ed allo stesso tempo imparare. Il
concetto di educazione implica ovviamente
un panorama molto ampio : educazione pedagogica in senso etico-morale, in senso affettivo ed in senso culturale : l’impegno
pedagogico ( e la sua traduzione in didattica) implica non solo quantità di tempo
verso il discente ma soprattutto una qualità
di tempo che deve essere continuamente
vagliata e posta a continua critica (kantianamente intesa) dal docente. La didattica
pedagogica , quindi, ha come fine ultimo
non quello di creare teorie generali dell’educazione, ma quello di costituire modelli
di intervento educativo spendibili all’interno
di ogni società. La pedagogia , infatti, rielabora modelli già proposti verificandone
prima le condizioni attuative, ma soprattutto
valutando risorse per progettare e , di conseguenza attuando interventi educativi precisi e mirati, per “accertare non ciò che lo
studente sa, ma ciò che sa fare con ciò che
sa”, alla quale andrebbe aggiunto l’avverbio
“consapevolmente”. (M. Pellerey). Secondo
Mario Pellerey la pedagogia , quindi , elabora un progetto che sta alla base dell’intervento educativo da attuarsi attraverso
cinque situazioni didattiche: Primo principio.
Una competenza sia generale, sia di studio,
sia di lavoro si sviluppa in un contesto nel
quale lo studente è coinvolto, personalmente o collettivamente, nell’affrontare situazioni, nel portare a termine compiti, nel
realizzare prodotti, nel risolvere problemi,
che implicano l’attivazione e il coordinamento operativo di quanto sa, sa fare, sa essere o sa collaborare con gli altri. Ciò vale
sia nel caso delle competenze legate allo
sviluppo della padronanza della lingua italiana, della lingua straniera, della matematica e delle scienze, sia alla progressiva
padronanza delle tecnologie e tecniche di
progettazione, realizzazione e controllo di
qualità nel settore di produzione di beni e/o
servizi caratterizzanti il proprio indirizzo, sia
per quanto riguarda quelle che nel documento sull’obbligo di istruzione sono chiamate competenze di cittadinanza. Anche un
coinvolgimento indiretto può aiutare a sviluppare tali competenze, cioè la possibilità
di fare non solo esperienze dirette, ma
anche esperienze vicarie, cioè l’interiorizzazione di modalità d’azione messe in opera
da altri, che possono essere rievocate e valorizzate in circostanze simili. Tutto ciò è favorito dal partecipare ad attività di
alternanza scuola lavoro. Un ruolo centrale,
come risulta dalla stessa definizione europea di competenza, è svolto dalla qualità
della conoscenze e delle abilità sviluppate
nei vari ambiti di studio. Esse infatti devono
essere non solo acquisite a un buon livello
di comprensione e di stabilità ma devono
anche rimanere aperte a una loro mobilizzazione e valorizzazione nel contesto di
ogni attività di studio, di lavoro o di una vita
sociale. Secondo principio. La progettazione
di un’attività formativa diretta allo sviluppo di
competenze dunque deve tener conto della
necessità che le conoscenze fondamentali
da questa implicate siano acquisite in maniera significativa, cioè comprese e padroneggiate in modo adeguato, che le abilità
richieste siano disponibili a un livello confacente di correttezza e di consapevolezza di
quando e come utilizzarle, che si sostenga il
desiderio di sviluppare conoscenze e abilità
nell’affrontare compiti e attività che ne esigono l’attivazione e l’integrazione. Per questo è necessario l’individuazione chiara
delle conoscenze e abilità fondamentali che
le varie competenze implicano e del livello
di profondità e padronanza da raggiungere
e, dall’altra, l’effettuazione di un bilancio
delle conoscenze, delle abilità già acquisite
43
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Laura Foti
ed evidenziate da parte dello studente (o,
eventualmente, delle competenze da lui già
raggiunte).
Dal confronto tra questi due riferimenti è
possibile elaborare un progetto formativo
coerente (POF). Ciò è abbastanza evidente
nel caso delle competenze riferibili allo scrivere, al leggere e alla matematica, competenze che condizionano non poco lo
sviluppo di qualsiasi altra competenza.
Terzo principio. La consapevolezza, che tutti
gli insegnanti dovrebbero raggiungere circa
il ruolo degli apporti delle loro discipline allo
sviluppo delle competenze intese, favorisce
la presenza di un ambiente di studio nel
quale studenti e docenti collaborano in tale
direzione. Si tratta di promuovere una pratica formativa segnata dall’esigenza di favorire un’acquisizione di conoscenze e abilità
del cui valore ai fini dello sviluppo personale,
culturale e professionale indicate nelle competenze finali da raggiungere siano consapevoli sia i docenti, sia gli studenti.
Ciò implica l’uso di metodi che coinvolgono l’attività degli studenti nell’affrontare
questioni e problemi di natura applicativa
(alla propria vita, alle altre discipline, alla vita
sociale e lavorativa) sia nell’introdurre i nuclei fondamentali delle conoscenze e abilità,
sia nel progressivo padroneggiarli. Quarto
principio. L’ambiente nel quale si svolgono
le lezioni dovrebbe assumere sempre più le
caratteristiche di un laboratorio nel quale si
opera individualmente o in gruppo al fine di
acquisire e controllare la qualità delle conoscenze a e abilità progressivamente affrontate, mentre se ne verifica la spendibilità
nell’affrontare esercizi e problemi via via più
impegnativi sotto la guida dei docenti. Un
vero e proprio laboratorio di scrittura in italiano, eventualmente sostenuta dall’uso personale e/o collettivo di tecnologie digitali, nel
quale si possano anche redigere relazioni
su quanto esplorato nelle scienze o nelle
tecnologie, oltre che commenti alle proprie
letture; un vero e proprio laboratorio di introduzione e di applicazione dei concetti e
dei procedimenti matematici, mediante la
soluzione di problemi anche ispirati allo studio parallelo delle scienze o delle tecnologie; esercitazioni nella lingua straniera,
valorizzando, se ci sono, quanti ne manifestano una maggiore padronanza o mediante
la lettura e/o ascolto collettivo di testi tecnici
in inglese. Si tratta di promuovere una metodologia di insegnamento e apprendimento
di tipo laboratoriale, alla quale si potrà accostare con ancor maggior profitto l’utilizzo
delle previste attività da svolgere nei laboratori. In particolare una didattica per progetti risulterà del tutto proficua. Lavorare per
progetti, infatti, consente di cogliere lo scopo
di molti apprendimenti anche di tipo ripetitivo, come quelli connessi con lo sviluppo di
alcune abilità strumentali. L’impostazione di
un lavoro collettivo al fine di conseguire il risultato o prodotto finale del progetto permette anche di far pratica di attività di natura
progettuale, gestionale e collaborativa.
Quinto principio. Infine, occorre ribadire
che nella promozione delle varie competenze previste, anche a livello di biennio iniziale, va curata con particolare attenzione
l’integrazione tra quanto sviluppato nell’area
generale, comune a tutti gli indirizzi, e
quanto oggetto di insegnamento nell’area
specifica di ciascun indirizzo. In particolare
nel promuovere le competenze di natura
tecnica proprie di ciascun indirizzo occorre
evidenziare i collegamenti esistenti con le
conoscenze e le abilità introdotte negli assi
matematico e scientifico-tecnologico e, viceversa, facilitare l’applicazione dei concetti,
principi e procedimenti degli assi matematico e scientificotecnologico alla costruzione
delle competenze tecniche e tecnologiche.
Questa impostazione implica una particolare cura nella progettazione didattica dei
vari insegnamenti e nella loro realizzazione,
cercando in primo luogo una sistematica
collaborazione tra i docenti delle varie discipline coinvolte e, in secondo luogo, favorendo una costante verifica della capacità di
collegamento da parte degli studenti tra
quanto appreso nell’area comune e quanto
affrontato nell’area di indirizzo e viceversa.
(Pellerey - “Insegnare per sviluppare competenze”).Proprio per questo nelle scuole
nasce il POF come progetto dell’Offerta Formativa, che parte dal Progetto Educativo
che è uno strumento di lavoro per rendere
l'azione educativa mirata, continuativa ed efficace perché rispondente ai bisogni reali
degli allievi. Il Progetto Educativo nasce da
scelte di fondo condivise e si esprime concretamente nella programmazione. La programmazione,
infatti,
costituisce
l’espressione concreta del Progetto Educativo stesso. Il Progetto Educativo offre una
visione globale della realtà in cui si opera,
cogliendo correlazioni, orientamenti e necessità. Esso favorisce la valorizzazione e
la distribuzione delle risorse, il contenimento
di azioni dispersive, l’offerta di proposte di
qualità. In tal modo, si può veramente pensare in termini di sviluppo assicurando la miglior qualità di proposta a tutti gli alunni.
Pensare all'educazione dei bambini /ragazzi
in termini di progetto è un modo di stimolare
ed educare a un atteggiamento attivo verso
la realtà e i problemi, da affrontare con rigore ed essenzialità, facendo un miglior uso
di risorse. Il Progetto Educativo, quindi,
persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea verticale esprime
l’esigenza di impostare una formazione che
possa poi continuare lungo l’intero arco
della vita; quella orizzontale indica la
44
Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Laura Foti
M. Laeng
Atlante della
pedagogia,
1990
2
E. Morin:
Il Metodo 5.
L’identità umana,
2002
necessità di un’attenta collaborazione fra la nel quale poi verrebbe calato a riempirlo di
scuola e gli enti extrascolastici.
volta in volta un contenuto. La vera metodologia pedagogica è quella immanente
Ma la pedagogia è anche la scienza che della ricerca (Aldo Agazzi: “Il discorso pestudia il processo educativo in tutti i suoi dagogico. Prospettive attuali del personaliaspetti ed in tutti i suoi agenti educativi quali smo educativo), che si costruisce con essa
famiglia, scuola, gruppi sociali e lungo tutta e si definisce, spesso, nel momento in cui si
la durata della vita (Raffaele Laporta), alla esplica, per non entrare in contraddizioni
base di essa vi deve essere una coerenza con i soggetti. In pedagogia, talvolta, alcuni
di mezzi e fini come scriveva chiaramente autori hanno corso il rischio di pensare di
J. Dewey per cui l'esperienza educativa aver scoperto le leggi generali dell’insegnadeve partire dalla quotidianità nella quale il mento-apprendimento, rischiando così di
soggetto vive per assumere, nel tempo, un appiattire il senso universale del percorso
percorso esperienziale dove interagiscono didattico maieutico che ci insegna come l’incontinuamente vissuto ed esperienza in segnamento parta dal socratico “conosci te
una forma sempre più piena ed organiz- stesso” per arrivare a non definirsi come inzata. L'esperienza è realmente educativa segnamento stesso ma come progetto di rinel momento in cui produce l'espansione e cerca permanente. Questo ci fa capire
l'arricchimento dell'individuo, conducendolo anche in parte la tendenza di vari autori a
verso il perfezionamento di sé e dell'am- tenere distinta la metodologia dalla didattica
biente (J. Bruner). Un ambiente in cui ven- intesa in maniera più ristretta come l’arte
gono accettate le pluralità di opinioni di dell’insegnare un determinato contenuto: è
diversi gruppi, talvolta anche in contrasto meglio parlare di metodologia dell’educatra loro, favorisce lo sviluppo progressivo zione morale (che comporta non solo condelle caratteristiche dell'individuo. Inoltre l’ tenuti cognitivi ma anche etici e sociali)
impatto pedagogico può essere affrontato piuttosto che di didattica della stessa. Agli
nelle situazioni più svariate: quali difficoltà studenti che oggi chiedono “ma la scuola a
genitori e figli, svantaggi sociali e/o conflitti cosa ci servirà” si può rispondere che la paculturali, inserimento delle persone diver- rola servire ha un significato positivo ed uno
samente abili, reinserimento dei detenuti, negativo: la scuola è cultura e la cultura può
riabilitazione dei tossico dipendenti e/ o ma- non servire mai ma domina, la cultura è
lati1.
chiarezza a partire dal rapporto con noi
Nel percorso pedagogico dobbiamo te- stessi (come evidenziato da Pellerey).
nere a mente, come scrive M. Laeng
Comunque il rapporto educazione-di(Atlante della Pedagogia) che ogni cultura è dattica- cultura è un rapporto molto stretto,
un “sistema”, vale a dire un’ “unità di diffe- infatti, il sociologo Bauman ci ricorda come
renze”; “infatti la cultura si caratterizza so- l’aspetto positivo della pedagogia, attraprattutto perché sorpassa il dato puramente verso il veicolo della didattica, evita l'"omonaturale, spesso essa è creazione artifi- geneizzazione", evita l'omologazione, cioè
ciale, che l’uomo realizza producendo l’eco- l'assorbimento passivo di abitudini che la
nomia, la tecnologia, le lingue, le arti e le mente non riesce a filtrare, ma che prende
scienze, che si trasmettono come patrimo- attraverso una passività esperienziale, nella
nio di generazione in generazione”.Oggi quale l’interazione fra soggetto- oggetto e
sappiamo che in un percorso pedagogico pressoché nulla.
vi sono i momenti di “natura” separati dai
Talvolta, la società “contrasta” l’espemomenti di “cultura”, in un dualismo tipico rienza pedagogico- didattica perché pensa
dell’educazione occidentale dove la natura di poterne fare a meno ma il sociologo Bauè vista come un insieme di predisposizioni man ci ha avvertito: nella società di oggi “le
naturali attraverso le quali il docente inte- situazioni in cui agiscono gli uomini si moragisce con il discente attraverso la libertà dificano prima che i loro modi di agire rienegativa (Rousseau), libertà che vede l’at- scano a consolidarsi in abitudini e
tualizzazione dell’individuo come ente au- procedure”. L’intervento della scuola e nella
tonomo e capace di scegliere tra le varie scuola può favorire il sorgere di nuove
stratificazioni culturali eteronome quali la esperienze e di nuovi pensieri, solo la nascienza e la fede; il momento di cultura o li- scita di nuove prospettive e frontiere pedabertà positiva, invece, viene rappresentato gogiche possono aiutare la sopravvivenza
dalla capacità di insegnare, attraverso della società perché come scrive il filosofo
schemi categoriali, sistemi e regole nelle Edgar Morin, “l’educazione deve contribuire
quali l’individuo vive in uno stato di perenne all’autoformazione della persona che diimperativo etico dove l’agire riflette la coa- venterà cittadino, passando per la scuola”.2
zione interiore dell’individuo. (E. Kant“Critica ragion pratica”). Va dunque superata
l’opinione che si possa dare un metodo pedagogico “a priori” o per così dire “vuoto”
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Gianmarco Russo
L’uomo nietzscheano come prefigurazione
dell’esistenzialismo ateo di Sartre:
di Gianmarco Russo
Gianmarco Russo,
studente del Liceo
Ginnasio
“D.Alighieri”
di Latina
«La grandezza dell'uomo sta in questo, che egli è
un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo amare è il
fatto che egli è un passaggio e un tramonto» (Friedrich
Wilhelm Nietzsche, Also sprach Zarathustra)
«Se l'uomo possiede una comprensione preontologica dell'essere di Dio, non sono né i grandi spettacoli
della natura, né la potenza della società che gliela
hanno conferita: ma Dio, valore e scopo supremo della
trascendenza, rappresenta il limite permanente a partire dal quale l'uomo si fa annunciare ciò che egli è. Essere Uomo è tendere a Dio; o, se si preferisce, l'Uomo
è fondamentalmente desiderio d'essere Dio» (Jean
Paul Sartre, L'être et le néant)
I
due brevi testi qui riportati, il primo tratto
dallo Also sprach Zarathustra di Nietzsche
e il secondo contenuto nel capolavoro dell’esistenzialismo sartriano, gettano luce
sulla concezione dell’uomo fornita dai due
filosofi alla luce del raffronto tra uomo e Dio.
Lo iato esistente fra uomo e Dio sembra essere la chiave di volta per comprendere le
due posizioni, sebbene a quest’ultime non
sfuggano affatto definizioni che esprimono,
come propria dell’uomo, la sua capacità di
auto progettarsi.
Nietzsche, dopo aver fatto proclamare
da Zarathustra che «Dio è morto» (che in tedesco suona «Gott ist tot!»), gli fa annunziare lo Übermensch, il tanto conosciuto e
volgarizzato “Superuomo” (o, come traduce
in maniera assai significativa Vattimo, “Oltreuomo”), come ciò che è al di là dell’uomo
stesso. Lo Übermensch nietzsceano, il
punto archimedeo della speculazione del filosofo di Röcken, è colui che è in grado di
accettare la dimensione tragica e dionisiaca
dell’esistenza; dir di sì alla vita; di «reggere»
(secondo il lemma proposto sempre dal Vattimo) la morte di Dio e la perdita delle certezze assolute; di emanciparsi dalla morale
del cristianesimo; di far propria la prospettiva dell’eterno ritorno; di porsi come volontà
di potenza; di procedere oltre il nichilismo;
di affermarsi come attività interpretante e
prospettica. A prescindere di una chiarificazione della terminologia nietzscheana utilizzata per i concetti di dionisiaco, volontà di
potenza, nichilismo e prospettivismo, che in
questa sede può risuonare pleonastica, ci
sembra davvero rilevante sottolineare come
l’uomo di Nietzsche al crocifisso preferisca
Dioniso, al cristianesimo sostituisca il culto
di se stesso (in un atteggiamento che potremmo definire «umano, troppo umano»!),
ad uno «scopo» anteponga un «ponte».
Così, in un atteggiamento che gli proviene
da Nietzsche e, fra gli altri, da Feuerbach,
ma con in più il concetto dello scacco cui
l’uomo è destinato, Sartre, come emerge
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
dalle poche righe più su proposte, concepisce l’uomo come ente limitato permanentemente da Dio nell’atto della propria auto
progettazione che, nei termini dell’ultimo
Sartre, si configura come un “nuovo umanismo”, per di più (non poteva essere altrimenti) ateo. Sotto quest’ottica, l’uomo
sartriano è ciò che egli stesso può o vuole
farsi, egli è costantemente problema a se
stesso e soluzione di questo problema, continuamente progetta il suo modo d'essere o
di vivere (e questo progetto entra a costituire
in qualche grado e misura il suo modo d'essere o di vivere effettivo). E Sarte non è
nemmeno immune dal presentare limitazioni
di questa progettabilità: limitazioni che agiscono specialmente nel fatto che ogni progetto trova già, in qualche misura, come dati
(cioè come relativamente immodificabili) gli
elementi di cui si avvale; che tutto ciò che
esso può progettare nel futuro è già stato in
qualche modo o forma nel passato; e che
pertanto il passato condiziona entro certi limiti (riconosciuti più o meno estesi) il futuro
dell'uomo. Questo è il senso in cui Heidegger ha detto che il progetto è il modo d'essere fondamentale dell'uomo; e in cui Sartre
ha parlato di un progetto fondamentale del
mondo. Non solo: Sartre ha insistito sulla libertà assoluta della progettabilità e ha considerato puramente arbitraria o gratuita la
scelta di un progetto qualsiasi. L’uomo come
auto progetto è il centro dell’ umanismo sartriano che, come si può ben comprendere,
costringe a negare l’esistenza di Dio. Infatti,
se Dio esistesse, ci sarebbe, prima e al di
sopra dell'uomo, un'istanza che penserebbe
e determinerebbe la natura umana: in tal
caso, l'essenza dell'uomo sarebbe anteriore
alla sua esistenza e la condizionerebbe. Ma
l'uomo non sarebbe allora realmente libero.
O Dio, o la libertà umana: le due cose non
possono coesistere.
Ritorniamo dunque, nella nostra analisi,
al punto di partenza: Sartre modificando i
toni disperati e drammatici e gli aspetti nichilistici del pensiero nietzscheano, individualistici e pessimistici (cui, tuttavia, in un
primo momento era pienamente devoto),
senza rinunciare all’assunto fondamentale
per cui l’esistenza è libertà incondizionata,
aggiunge che la libertà è al tempo stesso
anche responsabilità, facendo dell’esistenzialismo una filosofia, sì atea, ma comunque
dell’impegno per l’uomo e per la sua emancipazione materiale e spirituale, che coniugava (inutile nasconderlo) con il marxismo.
Marika Incandela
Liberi: riflessione sulla condizione della libertà
di Marika Incandela
Ogni moto, movimento, ogni essere vivente risulta essere condizionato da leggi
naturali immutabili ed eterne; gli stessi uccelli, per secoli emblema della libertà, dell’essere davvero libero, nel corso della loro
esistenza seguono dettami fissati nel loro
codice genetico, non certo libero arbitrio.
E dunque perché l’uomo dovrebbe essere esente da tutto questo? Lo stesso Voltaire, scrive:
Marika Incandela,
studentessa del
Liceo Ginnasio
“D.Alighieri”
di Latina
“In realtà, sarebbe ben strano che tutta
la natura, tutti gli astri obbedissero a delle
leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi, potesse agire come gli piace solo
in funzione del suo capriccio”.102
102
Voltaire:
“il Filosofo ignorante”
103
B.Spinoza
Tutte le opere,
ed. Bompiani
Conseguentemente se la nostra volontà
è subordinata al determinismo delle leggi di
natura non sembra possibile dare legittimità
alla nostra condizione di “esseri liberi”, ma
se la nostra volontà viola le leggi di natura,
allora davvero l’uomo, questo “piccolo animale alto cinque piedi” rappresenta una “misteriosa eccezione” all’ordine di natura
messo in luce dalla scienza.
C
omunemente nei dizionari di lingua
italiana il termine libertà si riferisce
alla facoltà dell’uomo di pensare e
agire in piena autonomia.
Quando, però, si è davvero liberi? Cosa
significa esserlo davvero? Liberi poi da
cosa? Da costrizioni morali e materiali, da
regole, vincoli, obblighi, impedimenti,
schemi mentali, tradizioni. Liberi da tutto ciò
che ci circonda, dal nostro passato, dall’ambiente in cui viviamo, dal nostro patrimonio
genetico. Liberi da tutto ciò che attimo dopo
attimo ci modella, ci determina. Liberi da
tutto ciò che ci ha formato e che ci formerà.
Liberi, quindi da noi stessi, dai nostri limiti e
da quell’apparato mentale che ci caratterizza.
Ed è in questo senso che Spinoza ha potuto ridurre la libertà a una pura credenza,illusione, la stessa che avrebbe una pietra,
che, cadendo sotto l’azione di gravità, pensasse di “essere liberissima e di persistere
nel movimento per nessun’altra causa se
non perché lo vuole”103. E ancora la libertà
umana che ciascuno di noi,ingannandosi,si
vanta di avere, si risolve nella consapevolezza dei nostri “appetiti”, ma nella completa
ignoranza delle cause dalle quali questi scaturiscono.
La libertà viene ad essere, dunque, un’illusione ma anche una condizione necessaria dell’essere umano. Una condizione che
risulta essere vana al di là delle parole e che
con ogni probabilità si risolve,concretaE, dunque, la libertà che percepiamo nel mente, nella necessità, nella “condanna” a
momento in cui operiamo le nostre scelte o discutere di libertà e di libero arbitrio da
quando compiamo le nostre azioni sarebbe parte nostra.
vana, del tutto illusoria. E l’idea, che le leggi
della natura siano così condizionanti da non
permetterci di operare alcuna scelta appare
alquanto inquietante e, al contempo, necessaria.
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Rivista della Società Filosofica Feronia - SFI di Latina
Eventi
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LECAN
Eventi
Fra le attività previste nello statuto della S.F.I., per
il perseguimento delle proprie finalità, è inclusa l’organizzazione delle Olimpiadi di Filosofia, che quest’anno
sono alla loro XXII edizione. Quindi anche per quest’anno scolastico 2013-2014 il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) –
Direzione Generale per gli Ordinamenti scolastici e per
l’Autonomia scolastica – e la S.F.I., nell’ambito delle iniziative volte alla valorizzazione delle eccellenze, hanno
organizzato la XXII Olimpiade di Filosofia, riservata agli
studenti e alle studentesse del secondo biennio e del
quinto anno della scuola superiore di secondo grado.
Le finalità che si vogliono perseguire nell’organizzazione di queste olimpiadi sono: promuovere l’educazione filosofica nella scuola secondaria ed aumentare
l’interesse per la filosofia negli studenti, incoraggiare lo
sviluppo di competizioni filosofiche nazionali, regionali
e locali fra gli studenti pre-universitari, contribuire allo
sviluppo del pensiero critico, inquisitivo e creativo, promuovere la riflessione filosofica nelle scienze, nell’arte
e nella vita sociale, coltivare la capacità della riflessione
etica sui problemi del mondo moderno, e, mediante
questi percorsi, incoraggiando gli scambi intellettuali e
assicurando opportunità di contatti personali fra i giovani di differenti paesi, promuovere la cultura di pace.
OLIMPIADI DI FILOSOFIA
La Società Filosofica Feronia è sezione della Società Filosofica Italiana, che ha tenuto il primo congresso a Milano nel lontano 20 settembre1906. La
S.F.I. è perciò la più antica delle associazioni italiane a
carattere filosofico e come tale è riconosciuta dalla Federazione Internazionale delle Società di Filosofia.
Essa, inoltre, ha ottenuto nel 1992 l’attribuzione della
personalità giuridica ed è stata inserita nell’elenco degli
Enti di ricerca ammessi a godere dei benefici del 5 per
mille dell’IRPEF.
L’Associazione, cui aderiscono professori e ricercatori universitari, docenti di scuola media superiore,
cultori della materia, laureati in discipline filosofiche, fin
dall’inizio si è assunta il compito d’incrementare gli studi
filosofici con convegni, pubblicazioni, costituzione di
centri locali di studio, nonché di mantenere questa disciplina nel curriculum degli studi secondari ed universitari. Infatti, nel 1906 la S.F.I. si riuniva per la prima
volta a Milano per difendere la presenza della filosofia
nella scuola italiana, presenza che era stata minacciata
da un disegno di legge che si stava discutendo in Parlamento. Da allora la S.F.I. ha tenuto ben trentacinque
congressi oltre che una nutrita serie di seminari, conferenze, convegni su argomenti filosofici, organizzati
dai circoli prima e dalle sezioni poi.
Pertanto, si può affermare con sicurezza che la
S.F.I. ha contribuito in maniera incisiva al mantenimento della filosofia nelle nostre istituzioni scolastiche
e culturali, tanto che la larga presenza di queste discipline connota, in senso positivo, la nostra cultura e la
nostra scuola nel confronto con gli altri Paesi europei.
La gara si svolge attraverso due canali distinti; A,
canale nazionale (in lingua italiana); B, canale internazionale (in lingua straniera, scelta fra francese, inglese,
tedesco, spagnolo). La prova consiste in un saggio su
tema filosofico, il cui argomento generale per le olimpiadi di questo anno sarà: Abitanti del mondo tra identità e differenze. La valutazione dei saggi per entrambi
i canali saranno effettuate:
• per la selezione d’Istituto da un’unica Commissione di docenti dell’Istituto di appartenenza
• per la selezione regionale da un’unica Commissione regionale designata, d’intesa con il MIUR,
dalla S.F.I.
• per le gare nazionali da un’unica Commissione nominata, d’intesa con il MIUR, dalla S.F.I.
Le gare per designare i vincitori dei canali, nazionale e internazionale, si terranno a Roma rispettivamente il 9 e il 10 aprile 2014. L’11 aprile saranno
premiati i primi tre classificati del Canale Nazionale e i
primi due classificati del Canale Internazionale. I due
studenti italiani vincitori del Canale Internazionale parteciperanno alle International Philosophy Olympiad
(IPO) di Vilnius.
La Società Filosofica Feronia dalla sua fondazione
si è attivata, per promuovere e coordinare la partecipazione dei licei di Latina e provincia a questa importante competizione, che ritiene momento fondamentale
per la crescita personale degli alunni e opportunità di
approfondimento disciplinare.
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Eventi
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Eventi
Società Filosofica Feronia
Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana
27 maggio 2013 ore 20,00
Conversazioni in simposio
il consenso e il
DISCORSO SULLA SERVITU' VOLONTARIA
di Etienne De La Boétie
relazione prof. Donato Maraffino
27 Maggio 2013 ore 20,00
Pizzeria – ristorante “Al Parco”
Via Tito Speri, Latina
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Società Filosofica Feronia
Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana
"Lo stadio dello specchio
come formatore della funzione dell'Io"
Incontro del 6 Maggio 2013
ore 20,30
Relatore
prof. Zaffiro Antonino
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Società Filosofica Feronia
Sezione di Latina della Società Filosofica Italiana
Finito di stampare nel mese di
GENNAIO 2013
Tipografia
LatinaGrafica Srl
Va A. Coletta, 22/24
04100 Latina
tel.&fax 0773 611121
FONTI:
http://www.settemuse.it/pittori_scultori_europei/albrecht_durer05.htm
(3) http://medicinadigruppo.altervista.org/Medicina/sto08_1.htm(9) http://www.filosofia.sns.it/index.php?id=172&L=0(10)http:// www.aldogiannuli.it/2013/09/unitapolitica-europea/(11)http://commons.wikimedia.org/wiki/File:La_Bo%C3%A9tie_-_
%C5%92uvres_compl%C3%A8tes_Bonnefon_1892.djvu(19) http://www.geaonlus.it/wp/(26) Hans_von_Aachen_Joking_couple (31) Lacan (31) Maritain (33)
Ripa_dignity_allegory(34) http://www.echeion.it/arte-letteratura/la-passeggiataperche-non-ci-sentiamo-quasi-mai-nel-posto-giusto/ (37) tutti a bordo-dislessia FILOSOFIA (42) http://www.reggioemilia150.it/Sezione.jsp?idSezione=21 (47)
http://www.nuovaedilvaleggio.it/ cmf/index.php?option= com_content &view=article&id=49&Itemid=62 (49)