P. Bini, Umberto Ricci Un economista liberale nel

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Umberto Ricci Un economista liberale nel primo fascismo (*) di Piero Bini (**) 1. Un breve profilo biografico Umberto Ricci nasce a Chieti il 20 febbraio 1879. Il padre, Cesario, era impiegato presso la locale Prefettura; la madre, Filomena Zulli, era una ricca possidente. Fin dall’infanzia, Umberto rivelò forti capacità di apprendimento. I suoi familiari raccontano che “essendo stato iscritto alla prima elementare all’età di sei anni, vi rimase soltanto due giorni e dai suoi maestri fu subito passato nella seconda, e dopo sette giorni fu ammesso nella terza”.1 Nel 1892 si iscrive al Regio Istituto Tecnico “F. Galiani” dove, nel luglio 1896, all’età di 17 anni, consegue il diploma di Ragioniere. A seguito di concorso, nel 1897 diviene funzionario del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, con destinazione dapprima Palermo e poi la Basilicata. Dedicava tutto il suo tempo libero allo studio dell’economia. Nel 1904 pubblica sul Giornale degli Economisti il suo primo saggio intitolato “Curve crescenti di ofelimità elementari e di domanda”2, a cui l’anno successivo seguirà “La misurabilità del piacere e del dolore”3. Oltre ad iniziare le sue ricerche sulla teoria della domanda, con questi scritti Ricci manifesta la sua adesione all’approccio marginalista basato sull’utilità cardinale, rifiutando di fatto le nuove teorie ordinaliste di Pareto. Comunque sia, in virtù di queste * Il testo che qui si pubblica riprende in parte i contenuti della relazione effettuata dall’autore in occasione del Convegno su “Altiero Spinelli, Umberto Ricci e la Città di Chieti. Una storia familiare, una ricchezza culturale per l’Europa”, svoltosi il 18 ottobre 2008 a Chieti, presso la Sala del Consiglio della Provincia. L’autore si è già occupato della biografia scientifica di Ricci nei seguenti lavori: Bini (2003), Bini (2004). ** Dipartimento di Istituzioni Pubbliche, Economia e Società, Università degli Studi di Roma Tre, [email protected]. 1 C. Bresciani Turroni, Biografia di Umberto Ricci, in Ricci (1951), p. ix. 2 Cfr. Ricci (1904). 3 Cfr. Ricci (1905).
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pubblicazioni, egli è ammesso a sostenere, presso la Scuola Superiore di Commercio di Venezia, gli esami per l’abilitazione all’insegnamento dell’economia politica, della scienza delle finanze e della statistica, che supera peraltro brillantemente. Tra gli esaminatori vi era Ghino Valenti, ben noto economista agrario, che lo invitò a collaborare con lui a Roma nella prima formazione del catasto agrario. A Roma si guadagnò la stima di Maffeo Pantaleoni – di cui si considerava discepolo – e strinse legami di amicizia con Giovanni Montemartini e con Luigi Einaudi. Su proposta di quest’ultimo, nel 1910, fu nominato Capo dei Servizi di Statistica dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura, dove diede un importante contributo alla organizzazione della statistica agraria internazionale.4 Nel 1912 gli viene attribuito l’incarico di insegnare economia politica nell’Università di Macerata. Nel 1914 venne nominato professore di statistica nell’Università di Parma e quindi, a partire dal 1918, nell’Università di Pisa. Nel 1922 cambia disciplina per tornare a insegnare economia nella Università di Bologna. Infine, nel novembre 1924, è chiamato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma a succedere a Maffeo Pantaleoni, da poco scomparso, sulla cattedra di economia politica di quell’Ateneo.5 Gli avvenimenti e la crisi morale ed economica dell’immediato primo dopoguerra lo spingono ad impegnarsi attivamente anche nell’attività politica. Aderisce al Partito liberale e nel 1919 viene nominato presidente della sezione romana di tale partito. Molto numerosi sono i suoi contributi di quegli anni in merito ai temi della politica economica e della politica tout court: scritti e discorsi che testimoniano, a livello espositivo, le sue qualità di scrittore dotato di grande capacità dialettica, ironia, verve polemica6; e, nei contenuti, il suo sostegno alla causa della libertà economica contro il protezionismo, l’assistenzialismo, il burocratismo, il connubio affaristico tra pubblico e privato.7 Ricci fu tra quei liberali che inizialmente ritennero di concedere una apertura di credito al fascismo, o meglio, a quella prima fase del regime mussoliniano conosciuta come “fase liberistica”. Tuttavia, a partire dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, quando cioè il capo del fascismo chiarì la natura dittatoriale e liberticida del suo regime, Ricci iniziò a manifestare la propria opposizione al fascismo con fermezza e coraggio. Le autorità di polizia lo tenevano sotto sorveglianza. Nel dicembre 1926 una diffida della Pubblica Cfr. in proposito, quanto riporta lo stesso L. Einaudi, Biografia di Umberto Ricci, in Ricci (1951), p. vii. 5 Cfr. Dominedò (1961) e Ricci (1925). 6 Per chi volesse approfondire questi aspetti rinvio a Bocciarelli, Ciocca (1994). 7 Cfr. in particolare Ricci (1919), (1920a), (1920b), (1921), (1926a).
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Sicurezza gli ingiunse di desistere da questo suo atteggiamento critico, ma senza effetti. Intanto, tra il 1926 e il 1927, era venuto pubblicando alcuni importanti lavori sul risparmio e sulla sua tassazione.8 Si giunge così al fatidico 1928, quando Ricci pubblica un articolo intitolato “La scienza e la vita”.9 Si tratta di uno scritto volto a difendere la scienza economica dall’accusa di dogmatismo, riaffermandone nel contempo l’importante ruolo conoscitivo. Ricci si sofferma in particolare sull’utilità pratica dell’economia, la quale “è sempre pronta a indicare quali effetti probabilmente scaturiranno, o meglio ancora quali effetti probabilmente non sorgeranno, da certi provvedimenti”.10 Le esemplificazioni riportate in proposito dall’economista abruzzese vennero considerate – e di fatto lo erano – una critica diretta alla politica economica del regime. Bastò questo per scatenare contro di lui la propaganda del fascismo e per attivare il disposto di una legge da poco emanata, che portò a deliberare la sua dispensa dall’insegnamento universitario e il suo collocamento a riposo.11 Trascorso un anno, Ricci divenne esule accogliendo l’invito dell’Università del Cairo – da pochi anni costituita – per insegnarvi Scienza delle finanze. In terra straniera si ritrova insieme ad altri intellettuali italiani come Arangio Ruiz, Siotto Pintor, Costantino Bresciani Turroni. Nel 1931, Ricci fu chiamato a far parte della Accademia Nazionale dei Lincei in qualità di socio corrispondente, ma si dimise nel 1935 quando reputò di non poter prestare il giuramento al fascismo, come quella carica imponeva. All’inizio degli anni Trenta, insieme a studiosi come Divisia, Frish e Roos, fu tra i promotori della Econometric Society, entrando successivamente a farne parte in qualità di membro emerito.12 Nel corso della sua più che decennale permanenza in Egitto, la sua attività di studioso e di insegnante continuò ad essere molto intensa. Approfondisce argomenti teorici di cui si era già in precedenza occupato, come la teoria della domanda13; continua le sue indagini di statistica applicata; affronta il tema delle fluttuazioni economiche sia in termini teorici che nell’ottica della politica economica;14 dà luogo a numerosi studi di finanza pubblica, anche al fine di Cfr. Ricci (1926c), (1927a), (1927b). Cfr. Ricci (1928). 10 Ivi, p. 223 (il corsivo è nel testo). 11 Questa decisione fu presa, su proposta del Ministro dell’istruzione del tempo Belluzzo, nella riunione del Consiglio dei Ministri del 25 settembre 1928. 12 Si veda al riguardo la ricostruzione effettuata da Brandolini, Gobbi (1990). 13 Cfr. Ricci (1926b), (1931a), (1931b), (1931c), (1932a), (1932b), (1933b), (1941a), (1941b), (1946b). 14 Cfr. Ricci (1931d), (1933a), (1937b). 8
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prestare la propria consulenza agli organi governativi egiziani per la preparazione della riforma fiscale a cui si voleva dare atto in quel paese.15 Nel 1940, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, egli deve tornare in patria, ma vi resterà per poco. Nel 1942, su proposta dell’economista Wilhelm Roepke, il Governo turco lo chiama a ricoprire la cattedra di economia politica teorica nell’Università di Istanbul. E’ in questo periodo che elabora un corso di lezioni sulla teoria del valore che verrà pubblicato postumo in lingua francese, a cura di Luigi Einaudi e Costantino Bresciani Turroni, nel 1951.16 Scaduto nell’ottobre 1945 il contratto con il governo turco, e avuta notizia dell’invito ad occupare nuovamente la cattedra romana di economia politica (tanto il regime fascista quanto la guerra erano ormai finiti), Ricci si appresta a tornare in Italia. Ma mentre attende al Cairo di poter prendere la nave diretta al proprio paese, è colpito da una malattia che ne causa la morte il 3 gennaio 1946. “Il 25 febbraio del 1950 – ricorda Carlo Grilli – un aereo da carico riportava in Patria dalle terre del Suo lungo esilio le spoglie mortali dell’indimenticabile amico”.17 In questo scritto, non mi occuperò dell’insieme delle attività scientifiche che costituirono l’ampia opera di Ricci, ma solo di quelle che maggiormente riflettono il suo impegno di economista militante, vale a dire le sue pubblicazioni e attività concrete riguardanti la politica economica nel periodo che va dalla prima guerra mondiale agli anni Venti del Novecento. 2. Liberalismo politico ed economico nel pensiero di Ricci Una parte rilevante delle considerazioni svolte da Ricci in tema di politica economica prende origine e ispirazione dalla sua appassionata adesione all’idea di libertà: “l’amore per la libertà – ebbe a dire – è per me quasi un istinto”.18 Sotto il profilo del pensiero politico, egli professa un liberalismo a base elitaria, e valuta con preoccupazione il processo di democratizzazione che, sia pure in modo contraddittorio e talvolta in forme massimaliste, cercava di prendere piede in Italia all’indomani della fine della prima guerra mondiale19. In effetti, egli aveva in mente un ideale di Stato in cui una élite al governo, grazie agli strumenti scientifici forniti dal diritto e dall’economia, avrebbe Cfr. Ricci (1934a), (1934b), (1935), (1938a), (1938b), (1939b), (1940a), (1940b). Ricci (1951). La sua edizione in lingua turca è Ricci (1946a). 17 Grilli (1951), p. 487. 18 Ricci (1926a), pp. 73‐74. 19 Cfr. in particolare Ricci (1926a), pp. 167‐178. 15
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saputo far funzionare bene la macchina statale senza compromettere minimamente la libertà della iniziativa economica privata e semmai fortificando il mercato concorrenziale. Peraltro, egli non lascia occasione per sostenere che libertà politica e libertà economica, pur essendo concetti distinti, non possono essere separati nel concreto delle organizzazioni sociali20, dato che entrambi mirano a salvaguardare la spontaneità e la creatività dello spirito umano in tutte le sue manifestazioni. Cosicché, venendo meno quella economica, anche la libertà politica è messa in discussione. Di qui le sue numerose polemiche contro il protezionismo, l’istituzione di prezzi politici, la mediazione dello Stato nelle relazioni industriali, e così via: tutte forme di intervento che avrebbero fatalmente favorito il prevalere di idee socialiste e anti‐liberali. Peraltro, ancora nel 1937, ovvero in un periodo storico ben diverso da quello del primo dopoguerra, recensendo favorevolmente Economics Planning and International Order di Lionel Robbins21, ne condivideva un giudizio critico a carico di John Maynard Keynes, non più degno di essere considerato “liberale” viste le sue proposte favorevoli all’autarchia economica22. Tale era dunque la sua convinzione che fuori da un regime di libertà economiche le società non avrebbero potuto progredire, da sottoscrivere in pieno la posizione tenuta al riguardo da Francesco Ferrara, il più eminente economista liberale italiano dell’Ottocento, ovvero che “Entre une force sans liberté et une liberté faible, c’est cette dernière qu’il est à choisir”.23 3. La politica economica della guerra e del dopoguerra Tra il 1916 e il 1922 Ricci è soprattutto impegnato sui temi economici della guerra e del dopoguerra. Egli analizza ad esempio la politica annonaria, ovvero i metodi per fissare prezzi bassi (al di sotto di ciò che sarebbero stati i prezzi di mercato) dei generi alimentari di prima necessità, e ciò per consentirne il consumo anche da parte delle categorie meno abbienti. A questo riguardo era stato istituito in Italia un sistema di requisizione e di razionamento di tali beni. Ricci svolge una critica serrata a tale sistema, dato che gli sembra che produca effetti opposti a quelli ricercati: 1) il calmiere fa aumentare la quantità richiesta dei beni sottoposti a controllo, accentuandone la scarsità; 2) favorisce il processo di burocratizzazione dell’economia e ciò fa aumentare il costo di produzione dei beni sottoposti a razionamento; 3) data l’interdipendenza delle Si veda, al riguardo, il suo saggio su “Cavour antiprotezionista” in Ricci (1920b), pp. 93‐157. Cfr. Ricci (1937a). 22 Il testo keynesiano in discussione è Keynes (1933). 23 Ricci (1937a), p. 118. 20
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variabili economiche, la politica annonaria impedisce di realizzare una allocazione efficiente delle risorse produttive; 4) infine, tale politica altera negativamente la distribuzione del reddito, penalizzando la popolazione rurale che ha una elevata propensione al risparmio, di contro incentivando i consumi della popolazione urbana. Cosicché, secondo Ricci, anche per questa via emergerebbero gli effetti anti‐produttivistici di tale sistema. In sostanza, la politica economica dell’annona viene da Ricci presentata come intrinsecamente instabile e contraddittoria. Ciò deriverebbe dal fatto che essa non rispetta la “mutua dipendenza dei prezzi tra loro e insieme con le quantità prodotte e scambiate. La complicatezza di tali connessioni e interdipendenze scompiglia i disegni dei burocratici. Per quanto si affannino, essi riescono bene nell’intento opposto a quello propostosi, per l’impossibilità di prevedere le ripercussioni mediate delle loro ordinanze”.24 Da questo, come da altri simili passi si comprende come Ricci attribuisse allo schema dell’equilibrio economico generale la capacità di rappresentare efficacemente l’ordine spontaneo attraverso il quale i meccanismi del mercato concorrenziale tendono a realizzare una struttura coerente di relazioni economiche. E come, al contrario, la costruzione di un sistema di compatibilità e relazioni efficienti grazie ai comandi di una burocrazia pubblica fosse da considerarsi di impossibile realizzazione. La proposta di Ricci, tuttavia, non consiste semplicisticamente nel laissez‐
faire. Egli è perfettamente consapevole che specie in periodo di guerra il libero mercato può essere incapace di realizzare le più elementari esigenze di giustizia sociale e di sussistenza dei ceti meno abbienti. Una qualche forma di intervento pubblico è riconosciuta dunque necessaria. Al riguardo, egli suggerisce che lo Stato faccia organizzare la propria manovra da “uomini esperti” e da “organizzazioni economiche” già operanti nel settore privato dell’economia. Ciò perché tali soggetti, a differenza della burocrazia pubblica, hanno una consapevolezza maggiore dei meccanismi di mercato e dunque potranno (in negativo) evitare di adottare decisioni che confliggono con essi, oppure riusciranno (in positivo) a volgere tali meccanismi a favore delle finalità ricercate con l’intervento medesimo. Proprio in questa logica, Ricci suggerisce un metodo di razionamento dei beni di prima necessità non più basato esclusivamente sui comandi e sui provvedimenti amministrativi della burocrazia pubblica, ma su un sistema di prezzi multipli da realizzare anche tramite il mercato. A dire il vero, le argomentazioni di Ricci sulla politica economica della guerra sono molto più interessate a difendere l’economia di mercato dalle critiche che le venivano rivolte, che ad elaborare forme idonee di intervento 24
Ricci (1939a), pp. 119-120.
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dello Stato che potessero ovviare alle imperfezioni dei mercati medesimi. Anche per questo, vi è stato chi ha visto in esse il prevalere della preoccupazione ideologica su quella analitica.25 Questo orientamento di Ricci era peraltro sostenuto dall’idea che non vi dovesse essere frattura tra il momento teoretico e il momento applicativo della conoscenze economiche, pena il verificarsi di feed‐
back negativi. A questo proposito, riteneva che uno dei compiti più importanti che gli economisti debbono assolvere – una volta compresi i meccanismi di funzionamento dell’economia – fosse quello di suggerire le soluzioni più idonee per rendere compatibili le norme e le istituzioni di un paese con l’ottimale svolgersi di tali meccanismi. E’ peraltro a seguito di queste considerazioni, che egli lamenta la scarsa attenzione riservata da coloro che detengono il potere politico al parere degli economisti: “In Italia la cultura economica non varca la cerchia di pochi specialisti, i quali per giunta sono perseguitati col nome di “teorici”; l’ignoranza è generale (…) e tale ignoranza, diffusa tra persone che pure dissertano e deliberano in materie economiche, è dannosissima al nostro paese”.26 Non c’è dunque da stupirsi se Ricci stesso, appena l’occasione si presentò, abbia cercato di svolgere un ruolo attivo di economic‐advisor. Nell’immediato prosieguo di questo scritto, parleremo appunto di quel tentativo. 4. La politica economica del primo fascismo Con l’andata al potere del fascismo nell’ottobre 1922, in Italia si apre un capitolo di storia politica del tutto nuovo. Al riguardo, va tuttavia ricordato che il primo governo formato da Mussolini non era ancora espressione di una dittatura, bensì di una coalizione parlamentare a cui partecipava pure il Partito Liberale nelle cui file militava lo stesso Ricci. Ad accreditare ulteriormente la nuova compagine governativa agli occhi degli uomini di fede e di cultura liberale, contribuì indubbiamente anche Alberto De’ Stefani, chiamato dal capo del fascismo a dirigere il Ministero delle Finanze e del Tesoro. De’ Stefani era un economista formatosi nell’alveo del neoclassicismo teorico, nonché un convinto sostenitore dell’istituto della proprietà privata e dell’economia di mercato. Egli interpretava la crisi economica italiana di quel tempo come il risvolto di una insufficiente dotazione di capitale in rapporto al lavoro disponibile, una situazione che i deboli governi succedutisi a partire dal primo dopoguerra avevano, a parer suo, aggravato. E 25
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Mi riferisco a Lamberti (1942).
Ricci (1920b), p. 23.
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focalizzava nel deficit del bilancio dello stato e nel dissesto finanziario delle imprese pubbliche un grandioso fenomeno di spiazzamento dell’economia privata, nonché la principale causa della disoccupazione strutturale del lavoro. De’ Stefani chiamò a far parte del suo Gabinetto Umberto Ricci, che accettò. Le affinità tra i due non erano poche. In particolare, vi era il comune convincimento che il settore pubblico dell’economia non contribuisse al processo di accumulazione, ma semmai lo rallentasse. Tra il 1923 e il 1924, l’economista di Chieti partecipa ai lavori, talvolta proprio per conto di De’ Stefani, di varie commissioni ministeriali. Il contributo da lui fornito in queste circostanze fu improntato ai seguenti risultati: 1. Semplificazione della struttura burocratica e amministrativa dello Stato, con l’obiettivo di aumentarne la produttività (in questa chiave vanno interpretati anche i suoi progetti per il potenziamento del servizio statistico27 e per la razionalizzazione e qualificazione delle pubblicazioni ufficiali dello Stato).28 2. Conseguimento nei vari settori dell’economia di più elevati livelli di concorrenzialità (egli si occupò in particolare del settore assicurativo29 e di quello della commercializzazione e distribuzione dei beni di consumo.30 3. Conseguimento del pareggio del bilancio dello stato. Le sue argomentazioni in proposito accentuarono i seguenti punti: 3.1) il deficit incrementa l’offerta monetaria e quest’ultimo fenomeno causa l’inflazione che, secondo Ricci, costituisce un elemento tra i più insidiosi della patologia economica; 3.2) l’eliminazione del deficit deve avvenire riducendo le spese pubbliche, non aumentando le entrate tributarie. Come prima si è detto, Ricci partiva dal presupposto della minore produttività del settore pubblico dell’economia rispetto a quello privato, e quindi ne traeva che il fenomeno del deficit, insieme a quello dell’ingrandimento del bilancio pubblico, costituiscono un ostacolo alla crescita del reddito31. La tematica del deficit pubblico quale possibile strumento per rimediare ai fallimenti macroeconomici del mercato, gli era del tutto estranea. In termini di realizzazioni, occorre ricordare che tali punti programmatici furono in gran parte conseguiti durante quella prima esperienza di governo del fascismo. Il deficit del settore pubblico complessivo passò dal 12,1% del PIL nel Cfr. Ricci (1924b). Cfr. Ricci (1923b). 29 Cfr. Ministero delle Finanze – Comitato per le Assicurazioni Sociali (1924). 30 Cfr. Unione delle Camere di Commercio e Industria Italiane (1923) e Ricci (1924a). 31 Cfr. Ricci (1923a).
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1922 all’1,3% nel 1926 e ciò grazie alla diminuzione della spesa pubblica che, nello stesso periodo, scese dal 27,6% del PIL al 16,5%32. Nel contempo fu alleggerita la pressione fiscale nei confronti delle categorie ritenute più inclini all’investimento. Fu anche attuato un importante processo di privatizzazioni che interessò sia numerose imprese pubbliche locali (le imprese municipalizzate), che alcuni settori di rilevanza nazionale come quello delle assicurazioni sulla vita o quello telefonico. Nel campo dell’amministrazione pubblica e delle aziende di Stato, furono licenziati 65.000 impiegati e 27.000 ferrovieri. Prevalse, come auspicato da Ricci nelle sue polemiche antisindacali, la moderazione salariale. L’orientamento del tutto favorevole al free‐trade si concretizzò nel forte aumento delle esportazioni, cresciute, nel periodo considerato, al tasso annuo di circa il 15%. In virtù di questi risultati, il quadriennio 1922‐1925, all’interno del ventennio fascista, risulta il periodo in cui nel settore industriale si conseguirono i maggiori incrementi in termini di profitti, di investimenti, di produzione, di occupazione. Dovendo attribuire una matrice scientifica a questi orientamenti di politica economica di Ricci, è chiaro che possiamo identificarla in quella marginalista. Tuttavia, dietro le sue indicazioni si intravede pure uno sfondo dottrinario che è tipico dell’economia politica classica. Coerentemente con questo, Ricci – e insieme a lui, De’ Stefani ed altri economisti di orientamento liberale – tendeva in quel periodo ad attribuire una maggiore rilevanza ai modi per incrementare le risorse esistenti, piuttosto che a quelli volti ad ottimizzarne l’impiego. Nel descrivere i caratteri di una società che denunciava scarsità di mezzi di produzione, mirava a rappresentare certe relazioni teoriche – fosse quella (considerata di natura inversa) tra saggio del salario e saggio dei profitti, o quella (raffigurata di natura diretta) tra saggio dei profitti e tasso di accumulazione del capitale – in termini di decisioni politiche e programmi operativi su ciò che si doveva fare. In ogni caso, anche astraendo dal momento storico particolarmente critico attraversato, il rapporto fra teoria economica e politica economica che Ricci sostiene può essere raffigurato come un prolungamento della conoscenza scientifica nell’azione pratica. Egli teme che tra i due termini possano intervenire mediazioni politiche così pesanti o pervasive (dovute, ad esempio, alla necessità da parte delle autorità di governo di acquisire il consenso popolare), da generare progetti di riforma illusori o perfino controproducenti. Grazie dunque all’opera del Ministro De’Stefani – che fu l’autorevole e convinto interprete in sede governativa di questo insieme di convincimenti scientifici e metodologici – economisti come Ricci accreditarono inizialmente il Cfr. al riguardo Zamagni (1990), p. 313 e segg. 32
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fascismo di una qualità nell’arte di governare di cui, dopo l’esperienza di Cavour e della Destra Storica, sembrava si fosse perso la memoria in Italia: quella di praticare una politica economica rispettosa dei vincoli posti dal primato della teoria. Ma il fascismo, dopo aver inizialmente assecondato questo convincimento (“Basta con lo stato postino, lo stato ferroviere, lo stato assicuratore …” aveva proclamato Mussolini nel 1921), lo avrebbe di lì a poco rinnegato sull’onda di mutate convenienze: terminata la fase del risanamento economico, nuove istanze furono avanzate dal mondo delle categorie produttive e degli interessi. Forti pressioni furono in particolare esercitate da alcuni importanti settori dell’industria affinché fosse adottato un indirizzo protezionistico. La politica economica liberista fu effettivamente abbandonata a favore di un’altra del tutto nuova e, per certi versi, opposta: quella corporativista. Le dimissioni di De’ Stefani nel luglio 1925 marcarono appunto questo passaggio. Ma il distacco di Ricci dall’esperienza del primo governo fascista e quindi la sua collocazione di critico e di forte oppositore al nascente regime risale ad alcuni mesi precedenti, cioè al gennaio del 1925 quando Mussolini decretò, con provvedimenti di polizia, con la censura e con leggi liberticide, l’abbandono definitivo dello Stato costituzionale e parlamentare, e l’inizio della dittatura. Finì allora l’illusione da parte di Ricci e di altri economisti di orientamento simile al suo, che l’economia liberale avesse trovato nel fascismo il suo pigmalione. Come ricordato nell’introduzione a questo scritto, Ricci pagò con l’esilio in Egitto la sua opposizione politica e morale al fascismo, con la conseguenza che il dibattito che si sviluppò successivamente sulla politica economica italiana lo vide quasi del tutto assente. P. Bini, Umberto Ricci
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Pubblicazioni di Umberto Ricci citate in questo scritto Ricci U. (1904), “Curve crescenti di ofelimità elementari e di domanda”, Giornale degli Economisti, agosto, pp. 112‐138. ‐‐‐‐‐(1905), “La misurabilità del piacere e del dolore”, Giornale degli Economisti, gennaio, pp. 15‐36. ‐‐‐‐‐(1919), Politica ed economia, Roma, “La Voce” Soc. An. Editrice. ‐‐‐‐‐(1920a), La politica economica del Ministero Nitti. Gli effetti dell’intervento economico dello Stato, Roma, Soc. Anonima Ed. “La Voce”. ‐‐‐‐‐(1920b), Protezionisti e liberisti italiani, Bari, Laterza. ‐‐‐‐‐(1921), Il fallimento della politica annonaria. Lezioni tenute nella Università Commerciale Bocconi, Firenze, Soc. Ed. “La Voce” (una nuova edizione con una nuova prefazione fu approntata nel 1925. L’autore elaborò anche una edizione ridotta nel 1939 dandogli un nuovo titolo: La politica annonaria dell’Italia durante la grande guerra, Bari, Laterza) ‐‐‐‐‐(1923a), “Il miglioramento del Bilancio dello Stato”, Rivista di Politica Economica, giugno, pp. 593‐612. ‐‐‐‐‐(1923b), “Le pubblicazioni di Stato e una iniziativa del min. De’ Stefani”, Il Giornale di Roma del 4 gennaio 1923. ‐‐‐‐‐(1924a), “La limitazione dei pubblici esercizi e l’alto costo dei viveri”, Giornale degli Economisti, aprile, pp. 248‐249. ‐‐‐‐‐(1924b), “La resurrezione della Direzione Generale di Statistica”, Il Giornale Economico. Rassegna Quindicinale, anno II – n. 2, 25 gennaio 1924. ‐‐‐‐‐(1925), “Pantaleoni e l’economia pura”, Giornale degli Economisti, marzo‐aprile, pp. 178‐205. ‐‐‐‐‐(1926a), Dal protezionismo al sindacalismo, Laterza, Bari. ‐‐‐‐‐(1926b), “La loi de la demande individuelle et la rente du consommateur”, Revue d’économie politique, XL, pp. 5‐24. ‐‐‐‐‐(1926c), “L’offerta del risparmio”, Giornale degli Economisti, febbraio, pp. 73‐101, marzo, pp. 117‐147. ‐‐‐‐‐(1927a), “Ancora sull’offerta del risparmio”, Giornale degli Economisti, settembre, pp. 481‐504. ‐‐‐‐‐(1927b), “La taxation de l’épargne”, Revue d’économie politique, XLI, pp. 860‐883. ‐‐‐‐‐(1928), “La scienza e la vita”, Nuovi studi di diritto, economia e politica, marzo, pp. 220‐225. ‐‐‐‐‐(1931a), “Courbes de la demande et courbes de la dépense”, L’Égypte Contemporaine, XXII, n. 129, pp. 556‐588. P. Bini, Umberto Ricci
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