PSICOPATOLOGIA DEL DSA ED ADOLESCENZA …ed uno sguardo alla normativa… di Rossana Gabrieli TERAMO, 27 ottobre 2010 - …ma mio figlio è diventato dislessico perché noi genitori ci siamo separati???.... Spesso, alla dislessia si accompagna anche un disagio emotivo o un disturbo psicopatologico. Durante l’XI° Congresso Nazionale dell’AID (2008) è emerso che 4 bambini dislessici su 10 manifestano un deficit di attenzione e che più della metà di individui con un DSA, sia adulti che bambini, sviluppano problematiche di tipo emotivo, comportamentale e relazionale. La letteratura internazionale concorda nel rilevare che una parte dei soggetti con DSA presenta anche disturbi di carattere psicopatologico. Bandura (1999): la scarsa autoefficacia percepita e la mancanza di autostima derivanti da problemi scolastici costituirebbero fattori predittivi della sindrome depressiva Grover (2005): le difficoltà scolastiche, già a partire dalla prima classe della scuola primaria, diventano fattore di rischio nelle manifestazioni ansiose Trascurare la relazione tra disagio psicologico e dislessia è rischioso almeno quanto sottovalutarne gli effetti sul piano dell’apprendimento: se la dislessia può essere compensata, infatti, le conseguenze sul piano emotivo e psicopatologico possono persistere, condizionando la vita futura. La dislessia è classificata dal DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali pubblicato dall’ American Psychiatric Association nel 1994) tra i disturbi specifici di apprendimento, dove per “disturbo specifico di apprendimento” dobbiamo intendere i soli disturbi delle abilità scolastiche (oltre alla dislessia: disortografia, discalculia, disgrafia). L’International Dyslexia Association e l’ Associazione Italiana Dislessia definiscono: “La dislessia evolutiva è una disabilità specifica dell’apprendimento di origine neurobiologica”. In Europa, secondo i dati forniti dalla European Society of Dyslexia, il problema della dislessia interessa complessivamente almeno l’8% della popolazione europea, con una maggiore incidenza nei maschi rispetto alle femmine. C’è ancora da sottolineare l’importanza dell’interazione tra fattori biologici ed ambientali nell’insorgenza del disturbo specifico di apprendimento. G. Stella (2007) sostiene che “se l’ambiente è ostile anche le disabilità lievi verranno messe in evidenza; se l’ambiente è favorevole, allora le disabilità lievi avranno un’espressività così bassa da scomparire”. Al fine di ottenere una corretta interpretazione del problema e, conseguentemente, poter adottare le scelte riabilitative e terapeutiche più idonee, è importante, durante la fase diagnostica, condurre un’analisi psicologica per indagare tutte quelle espressioni di disagio emotivo e sociale che possono accompagnare il disturbo di apprendimento. Le espressioni psicopatologiche possono rappresentare l’esito di un’esperienza emotiva e relazionale a sfondo negativo che emerge a causa del problematico percorso di apprendimento che il bambino dislessico si trova ad affrontare. La letteratura scientifica riferisce una comorbilità pari al 50% dei casi analizzati proprio tra disturbi specifici di apprendimento e disturbi psicopatologici -elencati nel DSM IV- sia esternalizzati che internalizzati, quali: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi somatoformi; dette manifestazioni possono condurre all’allontanamento dalla scuola e, in ogni caso, influiscono negativamente sul recupero delle difficoltà di apprendimento; disturbo da deficit di attenzione e iperattività, disturbo oppositivoprovocatorio, disturbi della condotta; tale genere di problemi può favorire il disadattamento scolastico e la devianza sociale. Possiamo indicare, in maniera più analitica, le seguenti percentuali di comorbilità: ansia generalizzata 25% (Biederman J., Newcorn J., Sprich S., 1991) disturbo bipolare 11% (Biederman J., Faraone S., Mennin D., Mundi E., O’Donnel D., Wozniak J., 1997) disturbo oppositivo-provocatorio dal 54 al 67% (Barkley R.A, McMurray M.B, Edelbrock C., Robbins K., 1990) disturbo della condotta dal 44 al 50% (Biederman J., Newcorn J., Sprich S., 1991) cefalea, con una maggiore frequenza rispetto alle precedenti patologie (Barkley R.A, McMurray M.B, Edelbrock C., Robbins K., 1990). È facile intuire come la contemporaneità di disturbi differenti, in assenza di un percorso valutativo e diagnostico accurato, possa complicare la messa in atto di un piano di interventi adeguato. QUALCHE ESEMPIO “Sono Mattia e ho 19 anni. Prima di risolvere la mia situazione ho attraversato varie peripezie. All’asilo i miei disegni erano indecifrabili…ma i grossi problemi sono iniziati con la scuola elementare. Scrivevo male e leggevo peggio. Ero continuamente sollecitato a fare meglio e, siccome la cosa non avveniva, sono arrivate le brontolate poi i brutti voti e la costrizione a riscrivere il compito dopo aver strappato la pagina. Questa punizione mi gettava nella disperazione più violenta perché per me aver scritto quella pagina aveva voluto dire una grande fatica fisica e mentale”. “…E io incominciavo a leggere piano…Impiegavo sempre un’eternità a leggere una parola intera e, quando finivo, avevo dimenticato quali erano le lettere all’inizio. Così la parola perdeva significato e non trovavo il nome da dare alla cosa…Pensavo di non riuscire a far niente di giusto che avesse un riconoscimento qualsiasi da parte degli altri”. “Mio figlio in prima elementare è stato annientato nella sua identità di persona…reputato incapace, stupido, svogliato e pigro, è diventato in pochi mesi un bambino depresso e psicologicamente distrutto. Invece era semplicemente dislessico…Ora fa la quinta elementare, ma le difficoltà sono sempre dietro l’angolo. Basta una supplente poco competente o una presa in giro di un compagno per riaprire in lui una profonda ferita. La sua autostima è un cristallo che si frantuma con un semplice tocco”. Nel 1969, il Dipartimento della Sanità U.S.A. avverte che “…il fallimento iniziale dello studente nell’apprendimento della lettura può avere enormi conseguenze in termini di adattamento emotivo, tendenza alla delinquenza, problemi di abbandono degli studi, difficoltà ad ottenere un impegno…”. Il soggetto può mettere in atto le strategie più disparate per cercare di fronteggiare “l’emergenza scuola” e contenere il proprio disagio; infatti, non di rado il dislessico: - lamenta disturbi somatici quando deve recarsi a scuola - ha crisi di pianto - rifiuta di svolgere le attività che sono per lui fonte di disagio e di umiliazione - è aggressivo o molesto nei confronti dei compagni - si distrae durante la lezione e lo svolgimento dei compiti scolastici - si isola e cerca di “nascondersi” nel gruppo classe. Un dato preoccupante ci viene fornito da uno studio di Luciano e Savage (2007): i bambini che presentano un DSA sono, più spesso degli altri coetanei, vittime di atti di bullismo a scuola. In questa cornice, poco confortante, non c’è da stupirsi che si sviluppi nel bambino dislessico una forte componente ansiogena, legata sia alle proprie prestazioni che al tipo di relazione instaurata con gli insegnanti ed i compagni. L’atteggiamento della scuola Il ruolo della scuola nell’intercettare i segnali di disagio e nell’intervenire tempestivamente è fondamentale. Sono, infatti, proprio gli insegnanti che possono cogliere per primi le situazioni critiche evidenziate dall’alunno nel percorso di apprendimento Una delle aggravanti del disturbo è costituita dal suo mancato riconoscimento. Strumenti essenziali perché la dislessia possa essere riconosciuta e compresa sono la formazione ad hoc di insegnanti e dirigenti scolastici e la garanzia di una diagnosi effettuata da un’ equipe specialistica qualificata. L’insegnante ha il dovere di conoscere le caratteristiche di un disturbo specifico di apprendimento e sapere che taluni aspetti possono, almeno in parte, essere modificati. Ma deve anche accettare il fatto che qualcosa non si modificherà. L’approccio metodologico-didattico sarà flessibile: non è il bambino dislessico che deve adattarsi alla strategia di insegnamento del docente, semmai è esatto il contrario. In troppi casi nel passato – e purtroppo ancora oggi –si finisce con l’etichettare come “impreparato”, “distratto”, “svogliato” o, peggio ancora, “poco intelligente” l’alunno dislessico solo perché si è incapaci di interpretarne le difficoltà. Quando questo accade, l’alunno elabora un’immagine di sé improntata alla sfiducia che si traduce successivamente e facilmente in demotivazione e disinteresse. Sarà importante, allora, introdurre opportuni “rinforzi emotivi”, instaurando relazioni empatiche che aiutino l’alunno a recuperare fiducia in se stesso, sicurezza, motivazione al fare. L’instaurarsi di una relazione positiva tra insegnante e bambino dislessico contribuirà a fargli superare l’ansia e gli offrirà modalità adeguate per esprimere le proprie emozioni. L’atteggiamento della famiglia I genitori assistono alle “defaillance” scolastiche del figlio Può capitare che costringano il bambino ad estenuanti e faticosi esercizi di lettura, con il solo risultato di incrementare il senso di frustrazione del proprio figlio. Il pericolo maggiore, come sempre, è ignorare o rifiutare l’esistenza di un disturbo, il che, detto in altri termini, significa, da parte dei genitori, non accettare la “diversità” del figlio e sentirsi narcisisticamente feriti, avendo investito tutto sulla sua riuscita scolastica. Sarebbe auspicabile, invece, che il bambino potesse essere aiutato in ambito familiare a compensare la sua fatica nei compiti di lettura e scrittura, magari valorizzando le sue competenze relative ad attività di tipo extrascolastico che maggiormente lo gratificano. Il rapporto che il bambino ha instaurato con i genitori e, in particolare, con il caregiver che solitamente è la madre, costituisce una delle variabili ambientali che incidono maggiormente sugli esiti del suo percorso evolutivo Quanto più egli percepirà nella madre un atteggiamento teso alla comprensione e all’accoglienza, tanto più sarà in grado di controllare e superare i fattori negativi che possono influenzarne lo sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo. La complessa interazione tra difficoltà scolastiche e componenti emotive, affettive e relazionali del soggetto può condurre al rafforzamento e alla cronicizzazione dei disturbi presentati. Nel ragazzo dislessico, il fallimento legato all’insuccesso scolastico ricade sulla percezione del Sé. Egli si forma un’idea negativa circa le proprie abilità e la sua possibilità di riuscita in un ambiente che gli richiede performance al di sopra delle sue capacità. Quale “sé” nel ragazzo dislessico? Chapman (1988) descrive una componente del sé, il “Sé accademico”, vale a dire la rappresentazione di se stesso sul piano scolastico, che nei soggetti con DSA è particolarmente rilevante in quanto non di rado determina una fragilità interiore, a riflettere una sensibile debolezza dell’autostima. La ricerca ha rivelato che i soggetti con DSA hanno una concezione statica dell’intelligenza con frequenza significativamente maggiore rispetto ai controlli non-DSA. Ne consegue che i primi appaiono demotivati e non investono nell’impegno personale. I soggetti con un disturbo di apprendimento hanno la tendenza ad attribuire le performance positive a fattori esterni, estranei al loro controllo (locus of control esterno) e le esperienze fallimentari a variabili interne (locus of control interno). Da ciò scaturisce un atteggiamento passivo rispetto alla realtà. Le persone che riconducono il successo a fattori incontrollabili, non agiscono in maniera produttiva per raggiungere gli obiettivi prefissati, finendo con il confermare l’insuccesso pronosticato, in una sorta di “profezia che si autoavvera”. (Bandura, 1997): se non si è convinti delle proprie capacità nel raggiungere gli obiettivi prefissati cade la motivazione e diminuisce l’impegno. I soggetti con DSA, rispetto ai soggetti senza difficoltà di apprendimento, tendono a rinunciare facilmente e abbandonano il lavoro alle prime difficoltà Scuola, famiglia, comunità sociale in cui il ragazzo è inserito dovrebbero aiutare quest’ultimo, attraverso una collaborazione sinergica, a sviluppare una concezione positiva di sé e delle proprie potenzialità, ma soprattutto dovrebbero rivedere il proprio atteggiamento e le proprie aspettative, considerando gli interessi e le reali capacità e necessità della persona. Esaminiamo più specificatamente alcuni tra gli esiti emotivi, comportamentali e relazionali correlati alla dislessia. - Rabbia e aggressività: nasce dalla constatazione che si è, in qualche modo, “diversi dagli altri”, i quali riescono a conseguire risultati, a livello scolastico, impossibili per il dislessico; nasce anche dalla sofferenza per non essere compresi. Tali emozioni possono manifestarsi attraverso schemi comportamentali quali dissentire, offendere e minacciare, compiere atti distruttivi diretti intenzionalmente a danneggiare cose o persone. - Vergogna e perdita di autostima: l’umiliazione che sorge dall’uscire perdenti nel rapporto con gli altri si traduce in senso di inferiorità. La certezza della sconfitta induce il ragazzo ad isolarsi e ad evitare situazioni di confronto con i suoi compagni. Imporre la lettura ad un alunno dislessico di fronte alla classe, per esempio, costituisce un’esperienza umiliante che accentua il suo sentimento di vergogna. - Paura, ansia e depressione. La paura è una risposta adattiva legata alla percezione di una minaccia. Nel caso di un soggetto dislessico tale minaccia può essere rappresentata da lettere e numeri da decifrare, dal giudizio dell’insegnante, da un ambiente ostile. L’espressione patologica della paura è costituita dal disturbo ansioso, che si può manifestare attraverso attacchi di panico e fobie. Daniel, Walsh, Goldston, Arnold, (2006) osservano che gli adolescenti con difficoltà di lettura abbandonano la scuola in percentuale 6 volte maggiore rispetto agli altri e hanno pensieri e gesti suicidi in misura 3 volte maggiore. In conclusione Occorre lavorare sulle potenzialità della persona. Per fare questo, sono necessarie conoscenza e competenza da parte di coloro che sono responsabili dello sviluppo del bambino. Soprattutto, è indispensabile la giusta dose di sensibilità per comprendere quanto dolore può nascondersi dietro un atteggiamento di ostilità e di chiusura o dietro un comportamento provocatorio ed evitare, così, di stigmatizzare il bambino “diverso”, segnandone il destino. …e la legge?... Oggi, finalmente, lo Stato italiano tutela tutti i soggetti DSA con una Legge specifica: Legge 8 ottobre 2010, n. 170 Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale nr. 244 del 18 Ottobre 2010 è finalmente una legge dello Stato l'atto approvato in via definitiva dal Senato qualche giorno fa. Cosa dice? 1. La presente legge riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento, di seguito denominati «DSA», che si manifestano in presenza di capacita' cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attivita' della vita quotidiana. Finalita ' 1. La presente legge persegue, per le persone con DSA, le seguenti finalita': a) garantire il diritto all'istruzione; b) favorire il successo scolastico, anche attraverso misure didattiche di supporto, garantire una formazione adeguata e promuovere lo sviluppo delle potenzialita'; c) ridurre i disagi relazionali ed emozionali; d) adottare forme di verifica e di valutazione adeguate alle necessita' formative degli studenti; e) preparare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori nei confronti delle problematiche legate ai DSA; f) favorire la diagnosi precoce e percorsi didattici riabilitativi; g) incrementare la comunicazione e la collaborazione tra famiglia, scuola e servizi sanitari durante il percorso di istruzione e di formazione; h) assicurare eguali opportunita' di sviluppo delle capacita' in ambito sociale e professionale. Articolo 3: Comma 3. E' compito delle scuole di ogni ordine e grado, comprese le scuole dell'infanzia, attivare, previa apposita comunicazione alle famiglie interessate, interventi tempestivi, idonei ad individuare i casi sospetti di DSA degli studenti, sulla base dei protocolli regionali di cui all'articolo 7, comma 1. L'esito di tali attivita' non costituisce, comunque, una diagnosi di DSA. Articolo 4: Prevede la formazione di docenti e dirigenti nelle scuole di ogni ordine e grado (e si autorizza il relativo piano finanziario) Articolo 5: misure educative e didattiche di supporto 2. Agli studenti con DSA le istituzioni scolastiche, a valere sulle risorse specifiche e disponibili a legislazione vigente iscritte nello stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, garantiscono: a) l'uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate; b) l'introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, nonche' misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualita' dei concetti da apprendere; c) per l'insegnamento delle lingue straniere, l'uso di strumenti compensativi che favoriscano la comunicazione verbale e che assicurino ritmi graduali di apprendimento, prevedendo anche, ove risulti utile, la possibilita' dell'esonero. Comma 4. Agli studenti con DSA sono garantite, durante il percorso di istruzione e di formazione scolastica e universitaria, adeguate forme di verifica e di valutazione, anche per quanto concerne gli esami di Stato e di ammissione all'universita' nonche' gli esami universitari. Buon lavoro e buona fortuna!