Susanna Cagiano

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L’Amleto in Goethe. Teatro e identificazione nel Wilhelm Meister.
In base ai contenuti emersi nel seminario “Testo e commento: il copione tra filologia, critica, stage,
history e drammaturgia”, in questo lavoro approfondirò l’aspetto relativo all’afterlife come
macrotesto culturale o più specificamente come interazione di tipo culturale. Il macrotesto
costituisce un sistema aperto, non sequenziale. Esso si genera sulla base di influenze incrociate
relative al momento della storia della cultura nel quale esso si inserisce ed al grado di simbolicità
conferito dall’autore al testo fonte. Nell’analisi che segue i Wilhelm Meister Lehrjahre di Goethe
saranno presi in considerazione come punto di partenza per un’indagine sulle relazioni intertestuali
che legano il romanzo goethiano all’Amleto di Shakespeare . Non si tratta di un adattamento né
tanto meno di una riscrittura, ma di una pratica intertestuale altrettanto complessa. Partendo dal
presupposto che l’intertestualità riguarda i rapporti funzionali attraverso cui un’opera s’inserisce
all’interno del sistema della letteratura, si vedrà a che scopo Goethe ricontestualizzi la tragedia
shakespeariana nel Wilhelm Meister.
Da un punto di vista prettamente teorico, in questo lavoro si prediligerà l’interpretazione che
Gèrard Genette ha dato del termine “intertestualità”. Genette (1997: p. 4) parla di “tran-testualità” o
trascendenza testuale del testo, riferendosi a tutto ciò che mette quest’ultimo in relazione manifesta
o segreta con altri testi. Il campo della trans-testualità è suddiviso in cinque tipologie di relazione
testuale, ma ciò che risulta fondamentale per la comprensione delle relazioni tra l’Amleto di
Shakespeare e il Wilhelm Meister di Goethe è il concetto di “meta-testualità”. In questo senso
l’Amleto sarà inteso come oggetto di una forma di commento o interpretazione da parte del “metatesto” goethiano (ibid.: pp. 6s.). I rapporti tra le due opere pertanto saranno valutati in termini
esclusivi di contenuto o messaggio. L’Amleto, infatti, non costituisce l’essenza del romanzo
goethiano, né un modello per lo sviluppo di un rifacimento o di una riscrittura. Esso è ripreso
materialmente dal Wilhelm Meister, ma sottoforma di simbolo che, come fatto linguistico si
distingue dal segno proprio perché aperto e polivalente e lascia al percipiente la libertà di animarlo
delle proprie esigenze individuali. La specificità della relazione meta-testuale consiste di fatto nel
prendere in considerazione come referente più o meno implicito il solo significato del testo oggetto
del commento.
Per comprendere le sottili relazioni che s’instaurano tra le due opere sarà necessario innanzitutto
comprendere quali siano i termini di ricezione dell’opera shakespeariana che hanno preceduto il
Wilhelm Meister di Goethe e, in secondo luogo, definire le dinamiche e le difficoltà legate alle
realizzazioni sceniche delle opere di Shakespeare nel XVIII e XIX secolo, con particolare
riferimento all’esperienza di Goethe come direttore dell’Hoftheater di Weimar. Infine si
analizzeranno i termini di ri-contestualizzazione dell’Amleto all’interno del romanzo goethiano. In
quest’ultima fase di analisi, oltre alle relazioni trans-testuali, si prenderà in considerazione anche il
rapporto dialettico e di trasformazione in gioco tra i generi letterari, i singoli testi ed il più ampio
contesto del discorso culturale. Goethe stesso introduce il concetto di Weltliteratur (cfr. Goethe,
1967: pp. 361-364), riferendosi a tutti i modi dell’enunciazione letteraria, orale e scritta, come
momenti fondamentali per la comprensione che l’uomo ha della sua storia, del proprio statuto civile
e della propria lingua.
1.1 La fortuna di Shakespeare in Germania
Goethe scrive i Wilhelm Meister Lehrjahre dal maggio 1794 all’agosto 1796, rielaborando il
frammento della Theatralische Sendung scritta dal 1777 al 1785, prima del suo viaggio in Italia. La
Theatralische Sendung costituisce una delle espressioni più esplicite del realismo illuminista
(Baioni 1998: p. 59); questo romanzo, infatti, si dà come racconto autentico della storia individuale
di Wilhelm, un giovane borghese che si accinge a lasciare la casa paterna per tentare la fortuna nel
mondo del teatro. Le vicende del protagonista sono a loro volta inserite in una fedele ricostruzione
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della società del tempo. Nei capitoli IV e V l’autore mostra il protagonista nell’atto di realizzazione
della sua missione teatrale legata inscindibilmente alla messa in scena dell’Amleto. Questa
circostanza si rivela allo stesso tempo testimonianza di un fondamentale momento della ricezione
shakespeariana all’interno del contesto teatrale tedesco. I primi incontri del protagonista con l’opera
di Shakespeare lo mostrano ancora soggetto all’influenza delle dottrine del classicismo francese e
ancora, dalle allusioni del capocomico Serlo, si evince chiaramente quale fosse l’atteggiamento del
pubblico rispetto all’opera di Shakespeare. Nel 1776, infatti, Friedrich Ludwig Schröder, modello
storico sul quale è stato sicuramente adattato il personaggio di Serlo, mette in scena per la prima
volta nella città di Amburgo l’Amleto di Shakespeare dopo aver viaggiato tra Vienna, Praga e
Dresda assistendo a diverse messe in scena delle opere dell’autore inglese. Prescindendo dal
Riccardo III, presentato in versi alessandrini, Romeo e Giulietta e altre poche commedie erano state
proposte in una versione adattata sulle traduzioni di Wieland (cfr. Bruford, 1957: pp. 193 ss.). Di
fatto, a partire dal 1762, grazie alla pubblicazione da parte di Wieland di ventidue opere
shakespeariane tradotte in lingua tedesca inizia il vero processo di naturalizzazione di Shakespeare
in Germania. Goethe a questo proposito scrive in Dichtung und Wahrheit (Goethe, 1963: pp. 5711338):
Ed ecco comparve la traduzione di Wieland. Fu letta con passione, comunicata e raccomandata ad amici e
conoscenti […] Shakespeare tradotto potè diffondersi presto come lettura generalmente comprensibile ed
adatta a ogni lettore, e produrre un grande effetto. (ibid.: p. 1055)
Ciò nonostante Wieland dovette affrontare notevoli difficoltà legate alle lacune filologiche
dell’epoca saltando nelle traduzioni alcuni punti, abbreviandone altri o riportando intere scene in
forma sintetica. Non si trattava però solo di questo genere di lacune, ma soprattutto della deliberata
volontà di neutralizzare gli elementi radicali del testo di Shakespeare e di renderlo di più facile
rappresentabilità. A questa particolare situazione è forse da attribuire anche la traduzione in forma
di prosa di tutti i lavori shakespeariani ad eccezione del Sogno di una notte di mezz’estate (cfr.
Wieland, 1993). Di fatto il percorso di naturalizzazione dell’opera shakespeariana antecedente alla
pubblicazione delle traduzioni di Wieland non era stato affatto lineare.
Il nome di Shakespeare resta sconosciuto per oltre cento anni da quando il poeta inizia a scrivere
per i palchi inglesi. Malgrado questo, il contenuto dei suoi lavori dilaga nelle forme più bizzarre_ e
in inglese perlomeno sino al 1600 circa_ (cfr. Brennecke, 1964: p. 5) tra il pubblico di lingua
tedesca in virtù del processo di emigrazione che, nel XVII sec., coinvolse molti attori ed acrobati
inglesi stanchi delle condizioni precarie alle quali erano costretti nella loro terra. Gli Englische
Kömodianten furono ospitati presso nobili e diplomatici in tutta Europa. A partire dalla
pubblicazione dei Beyträge zur Critischen Historie der Deutschen Sprache, Poesie und
Beredsamkeit (Gottsched, 1732/1744) di Gottsched e di un estratto di Voltaire dal titolo Voltaires
Gedanken über die Trauer- und Lustspiele der Englandär (1750) il nome di Shakespeare inizia a
circolare all’interno dei circoli dell’intelligenza borghese generando una grossa polemica a riguardo
del teatro inglese e tedesco. Nei Beyträge, Gottsched si oppone con veemenza alla diffusione di
Shakespeare in Germania, ritenendo inconcepibile la negazione da parte di Shakespeare delle regole
aristoteliche; egli critica aspramente il suo disegno poetico legato alla rappresentazione degli affetti
umani, espressione dei desideri e dei limiti dell’uomo. Sicuramente l’opera di Gottsched,
nonostante sia fondata sull’esaltazione del modello francese, offre un impulso notevole al recupero
di una letteratura e di un teatro nazionali, assecondando la Theatromanie che caratterizza la seconda
metà del XVIII secolo. Sarà Johann Elias Schlegel, in un raffronto tra Shakespeare e Andres
Gryphus (cfr. Schlegel, 1964), il primo ad intuire la peculiarità dell’opera shakespeariana insieme
con Nicolai e Mendelsohn ( cfr. Stellmacher 1978: p. 33) il quale, prima di Wieland, tradurrà solo
parte dei dialoghi dell’Amleto. É formula accreditata che la fortuna letteraria di Shakespeare in
Germania si collochi nel momento di massima espansione dello Sturm und Drang e nella scoperta
che dell’autore fecero Gerstenberg e Herder. La polemica portata avanti da Gerstenberg nei Briefe
über Merkwürdigkeiten der Literatur (cfr. Gerstenberg, 1766/67) si rivolge essenzialmente alle
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traduzioni di Wieland del 1762-1766 nelle quali, così Gerstenberg, erano stati colti solo gli elementi
fiabesco-fantastici. Gerstenberg si oppone inoltre alle teorie di Lessing vedendo in lui e nella sua
interpretazione della tragedia antica come modello valido per ogni epoca la causa principale delle
deformazioni legate all’interpretazione del drammaturgo inglese. Lessing, in polemica con il
classicismo gottschediano, nonostante avesse colto la maggiore adeguatezza del teatro inglese al
gusto nazionale tedesco (Lessing 1995: p. 750) poneva Shakespeare in una dimensione a-storica e
filosofica (cfr. Wiese, 1967: pp. 51-72). Questa posizione fu riformulata in seguito da Herder e
Goethe, i quali videro in Shakespeare il modello per una nuova poesia che non nascesse più dal
culto astratto del sentimento, ma che si manifestasse come totalità psicofisica dell’uomo nella
concretezza delle coordinate storiche.
1.2 L’opera di Shakespeare: problemi di messa in scena.
In realtà le messe in scena dei lavori shakespeariani nei teatri tedeschi, nonostante la rivalutazione
in seno allo Sturm und Drang del genio shakespeariano, incontrarono numerose difficoltà. Sia dalla
Thetralische Sendung che dai Wilhelm Meister Lehrjahre è possibile evincere le reali condizioni
della complessa realtà teatrale tedesca del tempo. In esse si riflettono le difficoltà concrete che
Goethe dovette affrontare, nel momento in cui gli fu affidata la direzione del teatro di corte di
Weimar. Goethe non poteva non tener conto delle richieste del pubblico dal quale dipendevano i
guadagni. Le casse del teatro, infatti, erano finanziate solo per l’un per cento dalla corte, il resto
delle entrate dipendeva dagli incassi. Ciò giustifica la sua necessità di mettere in scena lavori di
medio livello, quali quelli di Kotzebue o Iffland, piuttosto che seguire l’esempio di Schröder che ad
Amburgo aveva già rappresentato Shakespeare. Su ottocento rappresentazioni in cartellone, infatti,
Hamlet (di cui si contano solo due rappresentazioni, la prima nel1792 e l’altra nel 1795), Heinrich
IV, Essex e König Johann furono rappresentate nel complesso meno di venti volte (cfr. Linder,
1991). Il pubblico non era pronto, così come afferma il capocomico Serlo (cfr. Goethe, 2006: p.
262). Goethe stesso era dell’idea che non tutti i testi poetici potessero sostenere la prova sul palco
con particolare riferimento a Shakespeare e alla sua genialità, che eccedeva le possibilità offerte
dalla scena (Goethe, 1959: p. 237); questa posizione è confermata da Goethe nel colloquio con
Eckermann del 4 febbraio 1829:
Molte cose possono essere belle a scriversi ed a pensarsi, e ciò che in un libro diletta, può, forse, lasciare
freddi se visto sulla scena. (Eckermann, 1957: p. 579)
La sua esperienza come direttore del teatro di corte di Weimar gli permette di cogliere con una
notevole distanza critica tutti gli aspetti più grotteschi della situazione teatrale dell’epoca. É
significativo, a tal proposito, il suo spostamento di interesse nei confronti del romanzo proprio in
quegli anni di direzione dell’ Hoftheater. Prima del viaggio in Italia e quindi prima di abbandonare
la stesura della Theatralische Sendung per poi riprenderla con i Lehrjahre, Goethe aveva raccontato
le esperienze teatrali e la vocazione teatrale di Wilhelm in maniera diretta, non mediata dal ricordo.
La sua esperienza con il teatro e l’atmosfera entusiasta della Theatromanie della seconda metà del
XVIII sec. si manifesta , infatti, con una chiarezza sorprendente nel XV capitolo del primo libro in
cui si traccia la vocazione teatrale di Wilhelm come fondatore del teatro nazionale. Di qui l’idea che
l’esperienza di Goethe presso l’Hoftheater costituisca probabilmente una delle ragioni principali
che lo spinsero a riformulare la Theatralische Sendung secondo una nuova prospettiva critica, che
faceva dei Lehrjahre un’opera di riflessione morale e pedagogica (cfr. Hink, 1982). In questo
contesto, il ruolo svolto dall’opera di Shakespeare risulta fondamentale: mentre nella Sendung la
scoperta letteraria di Shakespeare da parte di Wilhelm si esplicita nella tanto anelata realizzazione
scenica dell’ultimo capitolo, nei Lehrjahre la rappresentazione dell’Amleto, nonostante costituisca
ancora il vertice del romanzo, è da ricondursi a una più vasta riflessione estetica e ideologica. Di
certo le dinamiche presenti nel contesto teatrale del tempo, la volontà di fondare un teatro
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nazionale ed il ruolo decisivo di Schröder nella diffusione di un modello di interpretazione
drammaturgica dell’opera di Shakespeare costituiscono una base decisiva per lo sviluppo dei
Lehrjahre. Ma all’interno del romanzo risulta esplicito anche il dissenso di Goethe nei confronti di
questi criteri drammaturgici dominanti. A partire dagli anni Ottanta del XVIII sec. Goethe si
discosterà dalla lettura disarmonica dell’Amleto che sino a quel momento era stata portata sulle
scene mettendo in evidenza la natura nobile e virtuosa del principe. Ma non è tanto questa
immagine del principe incorrotto, richiamato contro ogni sua volontà e possibilità, a “riportare il
tempo nei propri cardini” (cfr., Goethe 2006: p. 216), a costituire il punto di rottura tra Goethe e i
suoi contemporanei, quanto la funzione che l’interpretazione dell’Amleto nei Lehrjahre acquisisce
nel percorso di formazione e conoscenza di sé di Wilhelm. L’arte nei Lehrjahre non rappresenta
più il fine del percorso del protagonista così come avveniva nella Sendung ma costituisce una tappa
del percorso di formazione di Wilhelm, un mezzo per la sua educazione. Per ciò che riguarda poi le
differenze tra dramma e romanzo all’interno del Wilhlem Meister, l’Amelto agisce come fattore
“terapeutico” nonchè “ritardante” giacchè Goethe, nel rendere funzionale l’indetificazione di
Wilhelm con Amleto, vuole rappresentare il conflitto tra posizioni personali e destino ovvero tra la
rivendicazione etica e l’imponente influsso degli avvenimenti esterni alla propria persona. Questo
elemento costituisce per Goethe uno dei punti di contatto tra poesia epica e poesia drammatica
(Goethe, 1967: p. 250). Allo stesso tempo, la nuova concezione di destino presentata nel Wilhelm
Meister non appare più legata alla realizzazione artistica e geniale dell’individualità del
protagonista, ma subordinata alla razionalità di una legge morale che non rappresenta la dimensione
soggettiva della passione individuale bensì quella oggettiva della società illuminata. Questa idea
trova piena realizzazione attraverso il motivo dell’Amleto e l’originalità attribuita da Goethe alla
tragedia shakespeariana.
2 L’Amleto nel Wilhelm Meister
Nel secondo capitolo di Shakespeare und kein Ende (Goethe, 1992: pp. 196-210) Goethe pone il
dramma shakespeariano a cavallo tra la tragedia antica e quella moderna, sulla base delle premesse
teoriche avanzate da Schiller nel saggio Über naive und sentimentalische Dichtung . Schiller
teorizza una distinzione tra la categoria dell’ingenuo e quella del sentimentale sia nel campo della
storia della cultura che in quello della poesia. Il contrasto più evidente tra l’antico/naiv ed il
moderno/sentimentalisch sembra palesarsi per Goethe nella tragedia, ossia nel primato del binomio
necessità/dovere per gli antichi e quello libertà/dovere per i moderni.
I tormenti più grandi e più frequenti a cui l’uomo può essere esposto nascono dai conflitti, insiti in ciascuno,
tra il dovere e il volere, tra il dovere e il compiere, ed infine tra il volere e il compiere. (ibid.: p. 200)
Questa differenza viene esemplificata da Goethe attraverso il gioco delle carte. Il Whist è la forma
di gioco legato al caso. Quest’ultimo in analogia con la tragedia sostituisce il dovere, quello che gli
antichi conoscevano sotto forma di destino (ibid.), laddove il volere del giocatore sarebbe
controproducente. Al contrario, così Goethe, nell’Hombre “al mio volere e al mio gusto del rischio
si aprono molte porte. Posso negare le carte che mi spettano, farle valere in modi diversi […]
chiamare in aiuto la fortuna e […] perfino trarre il miglior vantaggio dalle carte peggiori”. (ibid.: p.
201). Nella tragedia antica gli dèi ma anche e soprattutto il complesso di quelle forze della cui
ineluttabilità e imperscrutabilità l’eroe tragico fa esperienza e che sono nominate come destino,
l’eroe tragico si scontra con l’impossibilità di determinare autonomamente il corso degli eventi, di
rendere totalmente trasparente il mistero in cui si trova immerso. In ogni sua azione egli si scopre
collaboratore di una volontà superiore, strumento di attuazione di un destino che non può
controllare. Progetti, intenzioni mostrano la loro fragilità di fronte all’imprevisto, rovesciandosi in
effetti contrari a quelli voluti. Nella modernità, al contrario, la responsabilità personale è sempre
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associata alla consapevolezza, ad una scelta compiuta con libero arbitrio. Nella supremazia della
volontà e possibile quindi riconoscere il Dio dei tempi moderni (ibid.).
Ed è proprio così che, secondo Goethe, si giunge al dramma e cioè nel momento in cui il mostruoso
dovere viene sostituito dal volere. L’uomo moderno sente il dovere come dispotico e non è più in
grado di concepire una necessità che escluda il concetto di libertà. Ciò che permette quindi di porre
Shakespeare in relazione con gli antichi, ma allo stesso tempo di considerarlo un autore moderno, è
il convergere nella sua opera sia dei principi della tragedia antica che di quella moderna.
Insomma, un volere che eccede le forze dell’individuo è moderno. Ma dal momento che Shakespeare non lo
fa scaturire da dentro, ma lo fa suscitare da una causa esterna, il volere si trasforma in una sorta di dovere,
avvicinandosi agli antichi. (ibid.: p. 202)
La differenza, quindi, sta appunto nel fatto che il volere non nasce dall’interiorità dell’individuo ma
si eleva a dovere attraverso circostanze esterne. É appunto in questo che l’opera di Shakespeare si
avvicina agli antichi. Come premesso, nel prendere in considerazione un’opera letteraria e la sua
creazione è necessario comprendere sia i rapporti intertestuali, costituiti dalle dinamiche interne tra
gli elementi che compongono la sua struttura, che i rapporti extra-testuali, in riferimento cioè al
contesto storico-culturale. Goethe, come si evince dal suo scritto Shakespeare und kein Ende, rifiuta
di attenersi alla mappa dei generi di una letteratura fondata necessariamente sulla classica
tripartizione aristotelica di tragedia, commedia ed epica legata allo stato di cose nel campo della
letteratura del IV sec. a. C. Si allontana cioè nettamente dalle speculazioni fatte dai suoi
contemporanei sull’opera di Shakespeare “assemblata” , come già visto, sulla base del modello
prescrittivo aristotelico. Nel suo scritto giovanile Zum Shakespeare Tag (Goethe, 1963: pp. 545548), Goethe esprime a riguardo del nesso segreto che secondo il suo giudizio accomuna tutte le
opere shakespeariane la seguente idea: “La particolarità del nostro Io, la pretesa libertà del nostro
volere si scontra col necessario andamento del tutto” (ibid.: p. 547). Qualche anno più tardi in
Shakespeare und kein Ende egli riformula questo pensiero in una nuova prospettiva: volere e dovere
cercano di avere all’interno delle sue opere lo stesso peso; ognuna delle due forze cerca di
predominare sull’altra ma sempre in modo che sia sempre il volere a soccombere ( Goethe, 1992: p.
201). In questo caso Goethe allude esattamente all’interpretazione che egli stesso dà dell’Amleto nel
Wilhelm Meister. Ciò che Shakespeare avrebbe voluto descrivere lo dice lo stesso Wilhelm nel
quarto libro dei Lehrjahre:
Una grande azione imposta ad un’anima che non ne è all’altezza. Mi pare che tutta la tragedia sia stata scritta
con questo intento Un germoglio di quercia viene piantato in un vaso prezioso, deciso ad albergare nel suo
grambo soltanto fiori delicati; le radici si allargano, il vaso va in pezzi. (Goethe, 2006: p. 216)
Goethe, quindi, nel ri-contestualizzare la sua opera, attua un piano di ridefinizione delle relazioni
intertestuali connesse al sistema dei generi letterari inserendole a loro volta nel più ampio contesto
del discorso culturale. Il protagonista del romanzo, già di per sé identificatosi con il protagonista
della tragedia shakespeariana, si pone come obbiettivo quello di rimettere in scena l’opera nella
Germania del suo tempo. Nel capitoli IV, V, VI e VII del quinto libro, tutte discussioni tra Serlo, il
capocomico, e Wilhelm a riguardo della messa in scena dell’Amleto, dei tagli da farsi, della
soppressione di alcuni personaggi e del primato della parte romanzesca su quella drammatica fanno
riferimento a un Amleto che potenzialmente è identico a quello di Shakespeare. Allo stesso tempo
l’inserimento dell’opera shakespeariana nel romanzo comporta notevoli trasformazioni formali e
tematiche. Nel Wilhelm Meister la trasformazioni formali si esplicano su due livelli: in primo luogo
avviene una “transtilizzazione” ( Genette, 1997: p. 266). Essa consiste in una trasformazione di stile
dell’ipotesto, e quindi nel passaggio dalla forma drammatica dell’Amleto alla “prosicizzazione”
(ibid.: p. 256 s.) della stessa opera all’interno del romanzo. Ma il discorso si fa ancora più
complesso poiché all’interno del romanzo stesso le discussioni tra Wilhelm e Serlo vertono sulla
qualità romanzesca e drammatica dell’Amleto.
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L’eroe, si diceva, non ha in fondo che sentimenti; sono soltanto le vicende esterne a cozzare contro di lui, e
perciò il dramma ha qualcosa dell’ampio respiro romanzesco; siccome però il destino ha disegnato il piano,
siccome il dramma ha origine da un fatto terribile, e l’eroe è spinto sempre più avanti verso un’azione
altrettanto terribile, questa è una tragedia nel senso più alto, e non ammette che una conclusione tragica.
(Goethe, 2006: p. 274)
La questione dei generi letterari è centrale nelle riflessioni teoriche che Goethe e Schiller affrontano
nel saggio firmato da Goethe Über epiche und dramatische Dichtung (Goethe, 1967). In esso si
afferma che la distinzione fra i due generi si fonda sull'assunto di due unità archetipiche in cui
hanno la loro remota origine le molteplici concrezioni storiche della poesia; la modernità segna la
fine della forma epica tradizionale e l'avvento di un genere la cui identità sta nell'ibridazione delle
forme letterarie: il romanzo. Il 22 dicembre del 1797 Goethe scrive a Schiller “Es ist mir [dabei]
recht aufgefallen, wie es kommt, daß wir Modernen die Genres so sehr zu vermischen geneigt sind,
ja daß wir gar nicht einmal imstande sind, sie von einander zu unterscheiden” (Goethe, 1950: p.
472). In questa prospettiva, Shakespeare può considerarsi il primo poeta che, a differenza degli altri,
non sceglie per i propri lavori una materia particolare, ma piuttosto pone in primo piano un concetto
e riconduce ad esso l’intero universo. Ancora nella discussione tra Serlo e Wilhelm riguardo il
dover prediligere il romanzo o il dramma, questa questione viene ribadita:
Nel romanzo come nel dramma noi abbiamo sotto gli occhi la natura dell’uomo e le sue azioni. La differenza
fra i due generi letterari non è soltanto esteriore, non sta nel fatto che nell’uno i personaggi parlano, mentre
nell’altro, di solito si narra di loro. Purtroppo molti drammi sono soltanto romanzi dialogati, e non sarebbe
impossibile scrivere un dramma in forma epistolare. (Goethe, 2006: p. 273).
Questo passaggio risulta fondamentale per la comprensione dell’altra trasformazione formale
presente nel Wilhelm Meister : si tratta di una trasformazione quantitativa. In primo luogo questa
trasformazione si realizza attraverso la resa in forma narrativa del contenuto dell’Amleto e pertanto
attraverso la riduzione, soppressione e condensazione di parti dell’ipotesto originale. Si tratta cioè
di passaggi in cui si effettua una parafrasi esplicativa del testo shakespeariano, atti a spiegare in
prosa il succo delle azioni che saranno rappresentate sul palco. Si verifica una riduzione in digest di
una trentina di pagine, che comporta la focalizzazione sul personaggio titolare dell’ipotesto, il cui
discorso e il cui punto di vista costituiscono la parte più cospicua del testo. L’identificazione di
Wilhlem con l’Amleto, e più precisamente il passaggio dalla declamazione del dilemma amletico ad
un’intima meditazione riguardante una delle tappe educative di Wilhelm, gode così dei vantaggi
offerti dal modo narrativo rispetto a quello drammatico.
Allo stesso tempo sul piano interno del romanzo, e con questo s’intendono le discussioni tra Serlo e
Wilhelm, si assiste ad una doppia trasformazione quantitativa che ci offre un quadro generale sulla
ricezione dell’Amleto nella Germania del tempo, nonché delle attese del pubblico nel XVIII secolo.
Alla volontà di Wilhelm di riportare l’Amleto per intero, senza tagli, Serlo reagisce aspramente
ribattendo che“non si porta a tavola tutto il tronco, che l’artista deve porgere ai suoi ospiti mele
d’oro” (Goethe, 2006: 262). Con questo Serlo incita Wilhelm ad eliminare dalla tragedia ciò che
egli ritiene “non essenziale” ai fini dell’azione e a riunire più personaggi in uno solo.
So fin troppo bene quanto sia esecrabile questo modo di procedere, che forse non si verifica in
nessun teatro al mondo. Ma dove ne trova un altro in condizioni altrettanto misere del nostro? A
queste odiose mutilazioni ci costringono gli autori ed il pubblico le ammette […]. Pochi tedeschi
[…] possiedono il gusto della totalità estetica. (Ibid.)
Si assiste qui a un tentativo di trasformazione, definita da Genette “espurgazione”, con la quale
Serlo vuole eliminare tutto ciò che, secondo i canoni dell’epoca, avrebbe potrebbe annoiare o
eccedere le facoltà intellettuali del pubblico. L’introduzione all’interno del romanzo della possibilità
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di mettere in scena una versione espurgata è, così come nella Sendung, un’allusione alla messa in
scena dell’Amleto di Schröder del 1778 ad Amburgo (cfr. Bruford, 1957: pp. 193ss.). L’adattamento
di Schröder, basato in un primo momento sulle traduzioni di Wieland e successivamente su quelle
di Eschenburg (1775-77), costituisce infatti un esempio di versione espurgata. In primo luogo
elimina Fortebraccio, Rosenkranz e Laerte. Quest’ultimo riappare poi nella versione a stampa. La
prima scena in cui si rendono noti tutti gli intrighi di corte passa nel quarto atto e assecondando lo
schema della messa in scena viennese (1776) fa confessare alla regina la sua complicità nel delitto
del primo marito. La regina muore dopo che Amleto uccide il re, Amleto ne piange la morte, non
combatte con Laerte e i due bevono un calice riconciliante prima della sua partenza per
l’Inghilterra. Amleto quindi non muore: Schröder preferisce rappresentare un eroe vittorioso, un
esempio di virtù. Questo particolare ricorre anche nel Wilhelm Meister. Una volta trovato il punto
d’incontro con Wilhelm sull’adattamento dell’Amleto, al quale non viene applicato nessun taglio e
nella cui traduzione Wilhelm colma tutte le lacune presenti nelle traduzioni di Wieland, Serlo
chiede al suo amico di riflettere ancora su un ultimo punto: “Lei è inesorabilmente dell’idea che
Amleto debba morire? […] il pubblico lo desidera vivo” (Goethe, 2006: p. 279). Queste
trasformazioni formali non possono quindi prescindere da altrettante trasformazioni tematiche.
Wilhelm è un individuo problematico guidato da un ideale vissuto interiormente e galvanizzato
dall’opera di Shakespeare e dalla sua identificazione con Amleto. Tuttavia questa utopia interiore
deve necessariamente conciliarsi e trovare la sua realizzazione nella realtà sociale (cfr. Lukàcs,
1999). Sia la tipologia umana che la struttura dell’azione sono condizionate dalla necessità formale
che rende problematica ma possibile la riconciliazione tra interiorità e mondo. Wilhelm come
Amleto è un individuo nostalgico. Il suo conflitto interiore non nasce dal dover essere e quindi dalla
contrapposizione della sua realtà con quella esterna, né tanto meno egli rappresenta il tipo d’eroe
che si chiude in un mondo trascendente di idee. Wilhelm vuole trovare un compimento nella realtà
sociale ma questo proposito resta legato alla dimensione malinconica della ricerca di una patria
terrena che comunque non può corrispondere al suo ideale.
Nessuna condizione è più pericolosa per l’uomo di quella in cui viene a trovarsi allorché gli avvenimenti
esterni modificano grandemente il suo stato senza che il suo modo di sentire e di pensare vi sia predisposto.
C’è allora una svolta che non è una svolta e sorge una contraddizione tanto più grave quanto meno l’uomo si
accorge di essere tuttora impreparato di fronte al cambiamento (Goethe, 2006: p. 253).
La sua azione sembra restare confinata sul piano della speranza, dei desideri, senza che riesca mai
raggiungere un fine; il suo è l’atteggiamento del gioco dell’Hombre e, come Amleto, è colpito dalla
paralisi nell’azione. Questa interiorità è al centro di due poli, quello idealista e quello romantico. Dà
luogo cioè ad un idealismo più esteso in quanto anela all’inclusione del mondo esterno ed è mosso
allo stesso tempo da un atteggiamento vitalistico che elude la mera contemplazione, influendo così
sulla realtà. La possibilità offerta dal tema di intervenire mediante l’azione sulla realtà sociale
evidenzia l’importanza delle varie concrezioni sociali: la funzione svolta da queste ultime elude sia
il principio di solidarietà tipico dell’epopea e cioè la totale identificazione dell’anima dell’eroe con
esse che quello della socializzazione mistica che lascia cioè l’individuo isolato in se stesso come
qualcosa di statico e provvisorio (cfr. Lukàcs: p. 126). Si tratta di un reciproco armonizzarsi delle
diverse personalità disseminate nel romanzo che vengono fatte proprie in un ideale di libera umanità
che supera la rigidità giuridico-statale. In questo modo si giunge alla relativizzazione della figura
dell’eroe, che diventa così accidentale ed emerge attraverso una serie indefinita di individui. La
relativizzazione della figura di Wilhelm da un lato ed il suo identificarsi con Amleto dall’altro,
offrono una prima giustificazione alla funzionalità del soggetto shakespeariano all’interno del
Wilhelm Meister . Wilhelm stesso, nelle discussioni con la compagnia sul carattere dell’Amleto e
sull’interpretazione di quel ruolo, giunge ad una conclusione: tutte le informazioni sul carattere
dell’Amleto non sono percepibili attraverso lo studio della sola parte dello stesso ma sono il frutto
dello studio della tragedia nella sua globalità ed è solo da questa globalità che si possono trarre i
tratti principali. Con questa identificazione Wilhelm corre un grosso pericolo: nell’interpretare il
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ruolo del principe prende con sé anche il peso della sua profonda malinconia e pensa di poter così
diventare, attraverso Amleto, una persona. Sarà al contrario la fine dell’esperienza teatrale e il
superamento della sua identificazione con il principe danese a garantirgli la guarigione da questo
stato di immobilismo.
L’azione dell’Amleto è ripresa e resa funzionale al contesto storico-geografico della società del
tempo. I Wilhelm Meister Lehrjahre, infatti, costituivano una risposta critica alla narrazione
mimetica con la quale il romanzo realistico del Settecento tendeva a farsi esso stesso natura (cfr.
Baioni, 1988: pp. 166ss.). Nel momento in cui Goethe abbandona la prospettiva realistica della
Sendung e la sua quasi totale identificazione con il suo protagonista, si spezza l’unità organica di
tempo naturale e tempo narrativo che lo rendeva complice del destino del suo eroe. Il romanzo si
manifesta così in maniera programmata e pianificata ed è condotto da un narratore che si sostituisce
alla Provvidenza in virtù della polemica weimariana nei confronti della nozione di destino inteso
come realizzazione del daimon individuale (Baioni, 1998: p. 167). Wilhelm tratta l’Amleto in
maniera assolutamente seria, identificandosi completamente con il personaggio. Egli crede che la
peripezia del teatro non sia altro che espressione del proprio genio, della propria vocazione artistica.
Ma nel momento stesso in cui nel XIV capitolo del quarto libro riconosce che la modernità della
tragedia shakespeariana consiste nel diffondere il male anche sugli innocenti, e che le buone azioni
recano benefici a chi non ne ha merito, in virtù dell’impossibilità dell’eroe di avere un piano, che è
insito invece nel piano stesso della tragedia, egli smaschera la natura stessa del proprio itinerario.
Tutto, anche il suo percorso artistico è stato progettato dalla Società della Torre affinché egli
giungesse, attraverso l’esperienza personale e l’errore, alla verità della Società degli eletti. Quando
l’Abate licenzierà Wilhelm dal periodo di apprendistato, Wilhelm riconoscerà suo figlio Felix e in
questo riconoscimento di paternità egli dovrà riconciliarsi con la memoria del padre. Di fatto,
durante la rappresentazione dell’Amleto in cui Wilhelm interpretava il ruolo del principe danese, il
fratello gemello dell’Abate aveva assunto il ruolo dello spettro imitando la voce del padre di
Wilhelm. Questa totale sovrapposizione di Wilhelm e Amleto che è resa ancora più intensa da
quest’ulteriore identificazione dei due padri smaschera l’ulteriore funzionalizzazione della tragedia
shakesperiana all’interno del romanzo: la restaurazione del regno del padre (cfr. ibid.: pp. 196 s.).
Durante la cerimonia di iniziazione e assunzione di Wilhelm nella Società della Torre, l’abate
ricompare nella figura e con la voce dello spettro dell’Amleto e gli dice: “Addio, ricordati di me
quando godrai ciò che ti ho preparato”. Con la cerimonia Wilhelm, al pari di Amleto, riceve
l’eredità del padre ed allo stesso tempo porta a termine la sua esperienza teatrale, momento che
coincide con il superamento definitivo della sua identificazione con Amleto stesso.
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