LA CRISI, LA NUOVA FRONTIERA E L’ARTE DELLA REALTA’
Massimo Marino
La Grande Crisi
Sovrapproduzione, caduta dei prezzi, crisi industriale e conseguenti licenziamenti.
Divario fra quotazione azionaria dei titoli e reale produttività delle imprese. La
Grande Crisi, esplosa nel 1929, portò alla luce problemi che si erano andati
sviluppando negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale.
L’Europa era stata devastata dal conflitto: le sue economie tardavano a riprendersi,
sommerse dai debiti, specie nei confronti degli Stati Uniti. Nel 1921 un mercato
depresso vide aumentare la sovrapproduzione fino alla chiusura di fabbriche e alla
disoccupazione. Dopo la guerra, aumentarono lo scontro sociale e l’inflazione.
Peggiorarono le condizioni di vita della classe operaia e del ceto medio. La risposta
alla crisi di molti stati fu il protezionismo (innalzamento di tariffe doganali per
difendere la produzione nazionale dalla concorrenza straniera), una scelta che
sembrò ridar fiato alle economie, favorendo in realtà le industrie più grandi e la
concentrazione industriale-finanziaria. In molti paesi, anche in seguito ai forti scontri
sociali, ci si avviò verso derive autoritarie (il fascismo in Italia).
Gli Stati Uniti, vincitori della guerra e non intaccati sul loro territorio dalle sue
devastazioni, diventarono il centro economico più importante del mondo. Uno
sviluppo industriale senza precedenti segnò i cosiddetti “anni ruggenti”, il decennio
che si inaugurava con il 1920. I repubblicani al potere difendevano strenuamente la
libertà del mercato, mentre nel paese si cercava di limitare lo scontro sociale e
l’immigrazione, anche con provocazioni e persecuzioni nei confronti delle
minoranze.
Le nuove tecniche di produzione, che avevano il loro centro nella catena di
montaggio e nella specializzazione delle azioni di ciascun operaio (rappresentate nei
loro aspetti di alienazione dal film di Chaplin Tempi moderni), la politica di
protezione doganale e l’aumento delle esportazioni verso l’Europa economicamente
depressa aprivano nuovi orizzonti a una ricchezza che andò crescendo senza
regolamentazione alcuna. Si crearono processi di concentrazione industriale e
finanziaria grazie alla costituzione delle grandi holdings, insieme di grandi fabbriche
in accordo fra loro, che potevano dettare le leggi al mercato e ai lavoratori. Si
formarono notevoli concentrazioni finanziarie che operano spregiudicatamente nella
Borsa di Wall Street, New York.
La produzione si trasformò presto in sovrapproduzione; anche perché il consumo,
indotto dai nuovi mezzi di propaganda pubblicitaria, era andato ben al di là delle
possibilità reali del paese. Molti profitti non reinvestiti diventavano danaro per
speculazioni borsistiche, che facevano salire il valore delle azioni molto al di sopra
dell’effettivo stato di salute delle industrie.
Un altro dei motivi di instabilità del sistema fu l’impoverimento progressivo della
produzione agricola: l’eccessiva produzione aveva abbassato il prezzo di vendita dei
prodotti, impoverendo i contadini, rendendoli insolvibili nei confronti delle banche e
incapaci di acquistare prodotti industriali. Molti furono i terreni espropriati da istituti
di credito nella seconda metà degli anni venti, a causa di quegli indebitamenti.
Alcune stagioni di grande siccità nelle regioni centrali degli Stati Uniti diedero il
colpo di grazia al sistema agricolo.
Tutti i motivi di incertezza scoppiarono nell’ottobre del 1929 in una cri si che avvilì
l’America, facendo crollare vertiginosamente il prezzo delle azioni, costringendo le
fabbriche a chiudere, mandando sulla strada milioni di operai e obbligando i
contadini a emigrare verso le terre ricche del sud ovest (la California, in particolare).
Le grandi masse affluite in cerca di un paradiso terrestre crearono, però, nuovi
problemi: crollarono i salari, e invece di terra e lavoro per tutti migliaia di diseredati
incontrarono poliziotti violenti e guardie al servizio dei grandi agrari pronte a sparare.
La speranza di trovare lavoro si tramutò, in molti casi, in disperato vagabondaggio.
Gli anni che vanno dal 1929 al 1932 sono noti come gli anni della Depressione, con
l’America attraversata da disoccupati, da conflitti e miseria narrati nelle canzoni di
protesta degli hobo, lavoratori occasionali nomadi, vagabondi (la voce più nota fu
quella di Woody Guthrie). Il governo repubblicano decise di non far intervenire lo
stato, per lasciare i fenomeni economici agire secondo le loro dinamiche,
interpretando in modo ottusamente radicale le teorie liberiste. Sembrò, al presidente
Hoover, più grave far andare in passivo il bilancio dello stato, che vedere milioni di
persone in miseria.
Il New Deal
Le elezioni del 1932 punirono quella scelta. I democratici conquistano la presidenza
con Franklin Delano Roosevelt. Il nuovo presidente diede il via a una politica di
intervento dello stato, che sviluppò azioni di assistenza, creò enti per il lavoro,
sviluppò la mediazione fra le parti in conflitto. I nuovi indirizzi vennero raccolti sotto
lo slogan “New Deal”, nuovi orizzonti, nuova frontiera. Incominciò un’opera di
conoscenza del paese, affidata anche a inchieste fotografiche, sviluppate dai reporter
della Farm Security Administration, che con le loro Leica battevano gli angoli più
lontani e disgraziati degli Stati Uniti per documentarne la realtà sociale. Furono
sviluppati interventi per il lavoro, per l’assistenza sanitaria e pensionistica,
programmi di lavori pubblici. Ma il conflitto e la miseria restarono grandi, anche se
crebbe il consenso verso l’operato di un governo che cercava di intervenire e di
risolvere le situazioni di disagio più estremo.
Il New Deal non riuscì a realizzare tutti gli obiettivi prefissati. Molti traguardi
enunciati non furono perseguiti, anche per l’opposizione di vari settori del paese.
Altri rimasero al livello di intenzioni per il concorrere di fattori che non consentirono
di superare completamente la crisi. L’organizzazione operaia e dei disoccupati, i
conflitti sociali diffusi fecero nascere sospetti e resistenze nei settori più
conservatori. L’azione riformatrice di Roosevelt (peraltro non sempre decisa) fu
osteggiata dalla Corte Suprema e da altri organi dello stato. In realtà gli Stati Uniti si
ripresero dalla crisi solo con l’esplodere della guerra in Europa, avviandosi ad essere
la più forte e solida potenza economica mondiale del secondo dopoguerra.
L’arte della Depressione e del New Deal
L’arte, in genere, e gli artisti intervennero nel nuovo slancio della nazio ne con
programmi dedicati al teatro, al cinema, alla letteratura e ad altre arti. Durante gli
anni della Crisi e della Depressione si moltiplicarono le denunce di una condizione
insostenibile, con il tentativo di indagare le cause di una rovina economica che si
trasformava in disastro culturale e morale. Con il New Deal lo stato cercò di
fronteggiare la fortissima disoccupazione intellettuale creando nuovi organismi che
impiegavano letterati, attori, registi, scenografi, cineasti, e si giovò del contributo
degli intellettuali per sensibilizzare la popolazione.
Fra gli anni della Depressione e quelli del New Deal si svilupparono le esperienze di
collettivi di artisti che con il teatro potevano affrontare temi sociali e di attualità,
sfuggendo alla censura imposta alla radio e nel cinema. Il Group Theatre, primo fra
tutti, sperimentò un lavoro di introspezione psicologica applicata ai drammi sociali,
sulla scorta del pensiero teatrale del regista russo Stanislavskij; favorì l’emersione di
autori come Clifford Odets e Lillian Hellman, di attori e registi come Lee Strasberg
(il fondatore del mitico Actor’s Studio) e Elia Kazan. Altri importanti collettivi
furono il Theatre Collective e la Theatre Union, ma numerosissime furono le
compagini impegnate politicamente e socialmente, con gruppi di attori operai, che
dopo il crollo di Wall Street si impegnarono anche in spettacoli di agitprop (tra gli
altri, da ricordare il Workers Laboratory Theatre).
L’esperimento più impegnativo fu, comunque, quello del Federal The atre Project,
nato nel 1935. Sorse per dare lavoro ai tantissimi artisti di teatro disoccupati: nel suo
momento migliore ne impegnava circa 10.000, articolandosi in un ufficio centrale a
Washington e in sedi locali disseminate in tutti gli States. Uno dei suoi scopi era
quello di toccare un vasto pubblico: il prezzo di ingresso agli spettacoli cera di un
dollaro, ma in molti casi si trattava di performance gratuite. Famosi furono i Living
Newspapers del Federal Theatre: spettacoli su temi di attualità, con sketch e cori, che
usavano le tecniche non psicologiche dell’agitprop. Ma la produzione comprendeva
anche commedie, balletti, drammi, spettacoli per bambini. Da una costola del Federal
Theatre nacque il Mercury Theatre diretto da Orson Welles, che si presentò subito
con un Macbeth con soli attori neri, ambientato a Haiti negli ambienti dei riti voodoo.
Il Federal Theatre fu chiuso nel 1939 con una votazione del Congresso, dopo essere
stato accusato di rappresentare una “minaccia comunista”.
L’impegno dell’arte
In Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht e in molta dell’arte di cui abbiamo
parlato nel paragrafo precedente, risalta un evidente impegno a conoscere e
demistificare la realtà, illustrare il funzionamento di fenomeni economici-sociali,
penetrare meccanismi politici, denunciare interessi occulti.
Possiamo ritrovare un ampio filone dell’arte occidentale orientato in questa direzione:
non solo nel teatro, e non solo in ambito marxista.
Partiamo, per non andare troppo indietro nel tempo, da Balzac: nei suoi romanzi
viene ritratta con spietata precisione una società, quella francese della restaurazione
post napoleonica, dedita all’arricchimento con tutti i mezzi, senza scrupoli. In
Illusioni perdute (1837-43) l’autore descrive non solo l’arrivismo del giornalismo
parigino, l’uso ricattatorio delle gazzette nei confronti del mondo dell’arte,
dell’economia, della politica, ma anche i meccanismi dell’arricchimento delle
banche, l’usura delle lettere di credito, l’arricchimento ottenuto speculando sul tempo
di circolazione del denaro. Estratti conto, distinte, somme scorporate nelle singole
voci di spesa compaiono in dettagliate liste, contendendo la ribalta alle grandi
passioni e alle forti delusioni dei personaggi. Temi “prosaici” invadono le belle
lettere, per mostrare come funziona un mondo dove i sogni spesso hanno un prezzo
molto preciso, o una variabile quotazione in borsa.
L’esplosione dei temi economici, delle statistiche, degli squarci sociologici, si ha,
però, fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, con l’emergere della
questione sociale. Negli anni vicini a Brecht, grazie anche alla corrente della Neue
Sachlichkeit (Nuova Oggettività), i bollettini di borsa, le notizie economiche, il
materiale documentario, perfino i bollettini meteorologici, le notizie di giornale
riproposte senza mediazioni, riempiono la letteratura, specie tedesca (e il teatro
naturalmente). Lion Feuchtwanger (autore vicino a Brecht) scrive nel 1923 Die
Petroleuminseln, con una scena intitolata Notizie di Borsa; Erwin Piscator, regista
alfiere di un teatro di intervento politico, mette in scena nel 1928 Konjunktur, un
lavoro di Leo Lanja fondato su statistiche finanziarie, che tratta i rapporti economici
internazionali e la questione del petrolio. Ma anche testi come RUR (1920) di Karel
ýDSHNFKHLQWURGXFHLOWHUPLQH robot – lavoratore artificiale –, Uomo massa di Ernst
Toller (1921) e molti altri considerano la realtà contemporanea del lavoro alienato e
delle manovre degli speculatori. Un romanzo particolarmente intriso di dati e voci del
tempo è, per restare in Germania, Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin.
Molte sono, poi, le opere letterarie che descrivono paesaggi umani della Grande Crisi,
della Depressione o del New Deal, con un nuovo interesse sociale degli scrittori (e
dei drammaturghi e, naturalmente, di fotografi e cineasti). Fra tutti i romanzi
ricordiamo Furore (1939) di John Steinbeck, la storia della migrazione di una
famiglia di contadini verso la California, in cerca di lavoro, portato sullo schermo da
John Ford. Ma accanto al nome di Steinbeck bisogna avvicinare quelli di John Dos
Passos, Eugene O’Neill, William Faulkner e di molti altri.
Anche in Italia possiamo ritrovare una letteratura attenta a cogliere le trasformazioni
del sistema economico-sociale. Dopo il neorealismo, che si dedica più alla narrazione
di casi che al tentativo di penetrare meccanismi, è con le neoavanguardie degli anni
sessanta che entrano in scena studi di fenomeni di trasformazione e di vite “minori”,
che si trascinano nell’alienazione o cercano una liberazione. Dal poema La ragazza
Carla di Elio Pagliarani, storia di una dattilografa nella Milano prima del boom
economico, infarcito di estratti di un metodo per dattilografia, a Vogliamo tutto di
Nanni Balestrini, materiali sulle rivolte dell’operaio -massa del 1968-69, fino ai
romanzi di scrittori come Paolo Volponi che cerca di descrivere, dall’interno, la realtà
del neocapitalismo (Volponi lavorò all’Olivet ti), a Petrolio di Pierpaolo Pasolini, al
recente La dismissione di Ermanno Rea, racconto dello smantellamento dell’Italsider
di Bagnoli (Napoli) e della crisi di un modello industriale.
Non possiamo dimenticare, in questa rapida panoramica, i nomi più significativi del
teatro politico, una forma di spettacolo che vuole essere strumento di conoscenza,
demistificazione e intervento. Dai grandi autori e registi della rivoluzione russa, come
Majakovskij e Mejerchol’d, agli esponenti del tetaro agit prop in Ru ssia e Germania,
fino a Piscator e Brecht e ai suoi eredi (fra tutti Heiner Müller). In Italia, ricordiamo il
teatro di Dario Fo e, di recente, l’opera di alcuni giovani autori -attori. Fra gli altri,
Ascanio celestini, che in Fabbrica ha raccontato la memoria del alvoro industriale
degli anni cinquanta, ricavata da interviste svolte in diversi luoghi d’Italia, e fausto
Paravidino, che in due spettacoli, Genova 01 e Noccioline, ha provato a interpretare i
fatti e gli scontri del G8 di Genova nel 2001.
Bibliografia
Per approfondimenti si possono leggere:
Kenneth Allsop, Ribelli e vagabondi nell’America dell’ultima frontiera: l’hobo e la
sua storia, Bari, Laterza, 1969;
Ettore Capriolo, Stati Uniti. Drammaturgia - Stati Uniti. Spettacolo in Antonio
Attisani, Enciclopedia del teatro del ‘900, Feltrinelli, Milano 1980;
Marco Causi, La Grande Crisi e il New Deal. Gli Stati Uniti d’America tra le due
guerre, ricerca fotografica e commento di Andrea Jemolo, Milano, Savelli, 1980;
AsjA Lacis, Professione: rivoluzionaria, Milano, Feltrinelli, 1976 (sul teatro agit
prop);
Erwin Piscator, Il teatro politico, Torino, Einaudi, 1960.
Le opere letterarie citate si trovano in diverse edizioni. Ne indichiamo alcune:
Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Milano, Feltrinelli, 1971;
Honoré de Balzac, Illusioni perdute, Milano, Garzanti, 1999;
.DUHOýDSHN R.U.R. & L’affare Makropulos , Torino, Einaudi, 1971;
Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, Milano, Rizzoli, 1963;
Dario Fo, Teatro, Torino, Einaudi, 2000;
Woody Gutrie, Questa terra è la mia terra, Milano, Marcos y Marcos, 1999;
Vladimir Majakovskij, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1958;
Heiner Müller, Teatro, Milano, Ubulibri, (vari volumi, pubblicati fra il 1982 e il
2001);
Elio Pagliarani, Poesie da recita, Roma, Bulzoni, 1985;
Fausto Paravidino, Teatro, Milano, Ubulibri, 2002;
Pierpaolo Pasolini, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992;
Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano, 2002;
John Steinbeck, Furore, Milano, Bompiani, 1997;
Ernst Toller, Teatro, Torino, Einaudi, 1968;
Paolo Volponi, Romanzi e prose, Torino, Einaudi, 2002 (3 voll.).