Glenn Verhiest MEMORIA E IDENTITÀ EBRAICA NELLA LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA Analisi di due opere contemporanee: Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni Masterproef tot het bekomen van de graad van Master in de Taal- en Letterkunde Engels – Italiaans Promotor Prof. dr. Mara Santi Vakgroep Romaanse talen (andere dan het Frans) Glenn Verhiest MEMORIA E IDENTITÀ EBRAICA NELLA LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA Analisi di due opere contemporanee: Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni Masterproef tot het bekomen van de graad van Master in de Taal- en Letterkunde Engels – Italiaans Promotor Prof. dr. Mara Santi Vakgroep Romaanse talen (andere dan het Frans) Ringraziamenti Questa tesi di laurea è stata realizzata grazie al contributo di parecchie persone. Ovviamente le prime parole di ringraziamento vanno alla professoressa Mara Santi, per i suoi consigli, le sue osservazioni preziose e la sua pazienza. Le sono grato per le numerose ore che ha dedicato a questo lavoro. Vorrei anche ringraziare di cuore la mia famiglia per il grande sostegno morale che mi hanno fornito durante la stesura di questa tesi e per non avermi mai fatto mancare le dimostrazioni di fiducia. Per ultimo ma non meno importante, desidero esprimere la mia sincera gratitudine ai miei amici per il loro supporto e apporto e per l’aiuto che mi hanno sempre dato. Grazie a tutti di tutto, o, in linea con l’argomento di questa tesi, todah rabah. Indice I. Introduzione .......................................................................................................................... 7 1.1. Gli ebrei di I-tal-Jah ................................................................................................................ 7 1.2. La metodologia ...................................................................................................................... 10 1.3. Lo stato dell'arte .................................................................................................................... 11 II. Fra appartenenza e differenza: letteratura e identità ebraica nel Novecento ............. 14 2.1. La letteratura italo-ebraica prima del periodo fascista .......................................................... 14 2.2. Dall’appartenenza alla differenza: la letteratura italo-ebraico durante il periodo fascista .... 18 2.3. «Tornare, mangiare, raccontare»: la memorialistica in Italia ................................................ 21 2.4. La memoria e la diversità: la letteratura italo-ebraica nella seconda metà del Novecento .... 27 III. Il mosaico ebraico: letteratura e memoria ebraica ....................................................... 34 3.1. Introduzione: il secolo della memoria ................................................................................... 34 3.2. Zakhor: memoria ed ebraismo............................................................................................... 36 3.3. Alla ricerca dell’identità perduta: memoria e identità ebraica............................................... 39 3.4. Letteratura e memoria............................................................................................................ 44 3.4.1. La scrittura di memoria: tra ricordare e agire ................................................................ 44 3.4.2. La scrittura di memoria: tra ricordare e immaginare ..................................................... 46 IV. «un nome, non si trattava che di un nome»: identità e memoria ebraica ne Il mio nome a memoria ...................................................................................................................... 50 4.1. Introduzione: Giorgio van Straten ed ebraismo ..................................................................... 50 4.2. La storia del nome come una ricerca interiore ...................................................................... 52 4.3. Di ricordi e restauri................................................................................................................ 57 4.4. La storia del nome come una responsabilità.......................................................................... 59 4.5. Conclusione ........................................................................................................................... 62 V. La tessitura dei ricordi: memoria ed identità ebraica ne Il gioco dei regni di Clara Sereni ........................................................................................................................ 63 5.1. Introduzione: la vita a mosaico di Clara Sereni ..................................................................... 63 5.2. Il gioco dei regni per riannodare i fili dell’identità ............................................................... 64 5.3. Il gioco dei regni in attesa del Messia ................................................................................... 71 5.4. Conclusione ........................................................................................................................... 74 VI. Conclusione finale ............................................................................................................ 76 VII. Riferimenti bibliografici ................................................................................................ 79 I. Introduzione nessun popolo è più difficile da comprendere degli ebrei (Elias Canetti)1 1.1. Gli ebrei di I-tal-Jah Un’antichissima leggenda ebraica dice che il nome “Italia” è una traslitterazione delle tre parole ebraiche “I-tal-Jah”, le quali si traducono in “l'isola della rugiada divina”. 2 Questo nome, secondo la leggenda, deriva dalla buona sorte di cui godono gli ebrei sul suolo italiano. Infatti, secondo gli stessi ebrei, la penisola italiana fu santificata dalla «rugiada dei cieli» (Genesi 27:28) che Isacco, il Patriarca, invocò sulle terre del figlio Giacobbe. Evidentemente, si tratta di un'etimologia immaginosa che indica la benevolenza con cui l’Italia è considerata dagli ebrei che vi abitano da oltre duemila anni. Le caratteristiche più notevoli per chi studia la storia degli ebrei in Italia riguardano l’antichità di questa comunità, la sua ininterrotta presenza nella penisola e il suo alto grado di integrazione e di interrelazione con la cultura italiana. 3 Infatti, la comunità ebraica di Roma può giustamente essere considera la più antica della diaspora ebraica occidentale. Una prima presenza ebraica documentata in Italia risale già al secondo secolo a.C., ancora ben prima dell’enorme afflusso di ebrei nell’impero romano in seguito alla distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte delle truppe dell’imperatore romano Tito. 4 In realtà, l’Italia è stata l’unico paese in cui gli ebrei hanno vissuto ininterrottamente da allora ad oggi. Per tale ragione, gli ebrei italiani identificano un gruppo specifico all’interno dei popoli della diaspora, perché non appartengono a nessuno dei due gruppi principali in cui è diviso l'ebraismo della diaspora, ossia non appartengono né al gruppo di ebrei sefarditi (ebrei 1 Elias Canetti, Massa e potere, traduzione di Furio Jesi, Milano, Adelphi, 1981, pag. 189. Stanislao Pugliese, Israel in Italy: Wrestling with the Lord in the Land of Divine Dew, in in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, a cura di Stanislao Pugliese, Westport, Greenwood Press, 2002, pag. 1. 3 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, Syracuse, University Press, 2008, pag. 6. 4 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope: The Silver Age of Italian Jews (1924 – 1974), Harvard, University Press, 1983, pag. 4. 2 7 spagnoli) né agli ebrei aschenaziti (ebrei tedeschi), ma a un gruppo a sé stante di ebrei di rito italiano (i cosiddetti Italkim).5 L’antichità della presenza ebraica in Italia è anche visibile nella tradizione letteraria del paese. Appunto, uno dei primi testi letterari scritti in Italia fu addirittura di origine ebraica. Ci riferiamo alla cosiddetta Elegia giudeo-italiana, una elegia duecentesca scritta in dialetto giudeo-italiano dell'Italia mediana.6 Si tratta di una Kinà, cioè una lamentazione cantata durante il giorno di lutto e digiuno di Tisha b'Av, il nono giorno del mese ebraico di Av, durante il quale si piange la distruzione del Secondo Tempio e la conseguente dispersione del popolo di Israele.7 Un altro grande contributo alla letteratura italiana classica fu quello del dotto poeta Immanuello Romano, conosciuto anche come Manoello Giudeo, il quale scrisse poesie di vario genere sia in italiano che in ebraico e introdusse la forma del sonetto nella letteratura ebraica.8 Ugualmente importante fu il contributo del poeta rinascimentale Leone Ebreo, il quale scrisse poesie in ebraico e in italiano e fu soprattutto noto per i suoi Dialoghi d'Amore.9 Dunque, in questo periodo, spesso considerato la prima età d'oro della cultura ebraica in Italia, è possibile parlare di un «cultural symbiosis» fra le due culture.10 Questa età d’oro, purtroppo, fu di breve durata e iniziò a declinare nella seconda metà del Cinquecento, quando cominciò anche in Italia il processo di segregazione degli ebrei nei ghetti, entro i quali furono costretti a vivere. La spinta principale alla disuguaglianza venne, ovviamente, dalla Chiesa e cominciò con la promulgazione della bolla Cum nimis absurdum, emanata nel 1555 da papa Paolo IV che portò alla creazione, fra altri, del ghetto di Roma nello stesso anno.11 Sotto l'influenza dello Stato Pontificio segue la costruzione dei ghetti nelle altre città italiane in cui furono delle comunità ebraiche, fra cui il ghetto di Firenze, 5 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, a cura di Raniero Speelman et al., Utrecht, Igitur, 2007, pag. I. 6 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 6. 7 Ibidem. 8 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. I. 9 Ibidem. 10 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope,cit., pag. 15. 11 Etimologicamente, la parola “ghetto” ha probabilmente la sua origine a Venezia e si fa risalire alla parola veneziana “gèto” che corrisponde all'italiano “getto”. Il ghetto di Venezia, istituito nel 1516 da un Decreto del Consiglio dei Dieci, fu infatti il primo ghetto in Italia in cui furono confinati gli ebrei. Cfr. Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 7. 8 istituito nel 1571, e il ghetto di Torino, istituito nel 1679.12 Questo periodo di intolleranza perdurerà oltre tre secoli e sarà brevemente interrotto solo quando Napoleone scende in Italia. Tuttavia, quando crollò l’Impero napoleonico nel 1815, vennero ripristinate dai regimi della Restaurazione le condizioni in cui gli ebrei si trovarono prima del periodo napoleonico.13 Il periodo napoleonico costrinse gli ebrei a ripensare la propria identità in rapporto al mondo esterno dei Gentili e diede così un impulso decisivo al processo di emancipazione degli ebrei, avviatosi allo stesso tempo in molti altri paesi d’Europa. Il processo di equiparazione degli ebrei ai loro concittadini cattolici si affermò soprattutto durante il periodo del Risorgimento. Il processo d’emancipazione diventò realtà nel 1848, con la promulgazione dello Statuto Albertino, e si concluse soltanto nel 1870, quando caddero anche le mura del ghetto di Roma, l'ultimo ghetto a essere abolito nell’Europa Occidentale.14 Da questo periodo in poi, gli ebrei si sono sparsi nella penisola e la loro comunità è diventata parte integrante della popolazione italiana tanto da passare, in quanto tale, quasi inosservata nonostante il contributo specifico dato alla letteratura italiana moderna da scrittori di cultura ebraica. Da questa riflessione è nata l’idea per questo lavoro: perché in un paese come l’Italia, in cui gli ebrei sono relativamente pochi, benché presenti da secoli, si registra un così grande contribuito alla letteratura nazionale di scrittori di origine ebraica? Chi sono poi questi scrittori ebrei, soprattutto dell’ultimo secolo, in Italia? In che modo fanno sentire la propria voce e in che misura tematizzano il loro essere ebrei nella loro scrittura? Si deve precisare che questo lavoro non fornisce una risposta alla domanda “che cosa significa essere ebreo in Italia”, piuttosto intende riflettere sulla problematicità dell’identità per gli scrittori di origine ebraica e il ruolo che la letteratura svolge nel comprendere e descrivere tale identità. In particolare ci proponiamo di indagare quale ruolo giochi la memoria del passato in questo discorso identitario. Lo scopo di questa tesi è, dunque, di provare a individuare i tratti dell’identità ebraica nella scrittura di autori italiani eredi della cultura ebraica. Si badi, infine, che non intendiamo rilevare l’esistenza, come per esempio nel caso della letteratura america, di “un ghetto culturale ebreo” nella storia della letteratura italiana del Novecento, ci proponiamo, invece, di dimostrare che, come nell’età d’oro del Rinascimento appena descritta, anche oggidì la cultura italiana e la cultura ebraica si intrecciano molto più di quanto 12 Ibidem. Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ Roma, Newton e Compton editori, 2005, pag. 19. 14 Ivi., pag. 21. 13 9 si creda e che «l’ebreo, piccolo com’è, fa notizia più che mai» nella letteratura italiana contemporanea.15 1.2. La metodologia Lo scopo di questo lavoro, lo ripetiamo, è dunque duplice: da un lato ci proponiamo di indagare chi sono gli scrittori di origine ebraica in Italia e in che misura essi fanno cenno alla loro eredità ebraica, dall’altro lato ci proponiamo di indagare in che modo essi si fanno sentire e che cosa è tipicamente ebraico nel loro modo di scrivere. La risposta alla prima domanda costituisce la prima fase di questo lavoro e sarà sostanzialmente fornita nel primo capitolo, il quale funge da quadro storico. Lo scopo di questo primo capitolo è appunto in primo luogo quello di fornire una panoramica cronologica su chi sono gli scrittori di origine ebraica in Italia e quale è stato il loro contribuito al patrimonio letterario del Novecento. Cerchiamo, attraverso un’indagine del loro rapporto con l’ebraismo, di spiegare perché abbiamo, per esempio, da un lato degli scrittori come Italo Svevo e Umberto Saba, i quali non fanno mai pubblicamente cenno alla loro eredità ebraica, mentre dall’altro lato abbiamo degli scrittori, come Giorgio Bassani e gli scrittori ebrei contemporanei, le cui opere sono spesso ispirate dalla loro eredità ebraica. Per affrontare tali questioni, facciamo un breve cenno ai grandi eventi storici del Novecento – ovviamente, nel caso italiano, un ruolo centrale sarà rivestito dalle leggi razziali fasciste– e ci proponiamo di indagare quale sia stata l’influenza del contesto storico sul rapporto degli italiani ebrei con il loro essere ebrei e, conseguentemente, quale sia stata l’influenza di questo rapporto sulla loro scrittura. La seconda fase del lavoro consiste innanzitutto in un’analisi dei temi ricorrenti che sono emersi dalle opere degli scrittori che sono stati portati all’attenzione nel primo capitolo. Vedremo che a collegare tra loro questi scrittori è soprattutto un’attenzione particolare all’autobiografismo e alla ricerca identitaria svolta attraverso un’indagine a ritroso nella memoria. Il secondo capitolo serve perciò ad approfondire alcune riflessioni sul tema della memoria, come tema universale ma soprattutto come tema tipicamente ebraico, e ci occuperemo soprattutto del ruolo che svolge la memoria nella tradizione ebraica e l’importanza di essa in quanto legata al tema dell’identità sia individuale che collettiva degli ebrei. In questo secondo capitolo, dunque, intendiamo costituire in primo luogo un quadro 15 Elena Loewenthal, Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, Torino, Einaudi, 2007, pag. 151. 10 teorico che serve a stabilire limiti per lo studio analitico di due romanzi contemporanei, che verranno analizzati nella fase successiva del lavoro. Nella terza e ultima fase del lavoro ci concentreremo appunto sullo studio di due romanzi attuali scritti da due autori italiani contemporanei. Per il nostro caso di studio abbiamo scelto lo scrittore Giorgio van Straten e la scrittrice Clara Sereni, i cui libri affrontano una tematica simile, cioè la storia delle rispettive famiglie ebree. Per questo, il terzo e quarto capitolo consistono soprattutto in un'analisi testuale de Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni in base al quadro di riferimento teorico proposto nel secondo capitolo. Il focus dell’attenzione sarà mantenuto sull’importanza del tema della memoria e dell’identità ebraica in queste due opere, le quali, come avremo modo di vedere, perseguono delle finalità specifiche che rendono queste due opere tipicamente ebraiche. 1.3. Lo stato dell'arte Oggi, in Italia come altrove, vi è un rinnovato interesse verso gli ebrei. Infatti, negli anni recenti l’interesse per la cultura ebraica gode «una vivacità senza precedenti», e in particolare si indaga sulla cultura ebraica come una componente fondamentale della cultura occidentale.16 In Italia, si pensi, per esempio, alla casa editrice “La Giuntina”, specializzata in pubblicazioni di argomento ebraico, che sta promuovendo attivamente la riscoperta della cultura ebraica in Italia, dove l’ebraismo è ancora «tanto presente quanto sconosciuto».17 Una delle possibili ragioni, secondo Stefano Levi Della Torre, per questa nuova attenzione nei confronti della cultura ebraica in Italia trova forse un suo contesto, una sua tonalità europea, nel passaggio d’epoca che l’Europa sembra attraversare: paesi e culture abituati da secoli a sentirsi ed essere al centro del mondo [...] hanno perduto quella centralità. Si può forse pensare che da questa prospettiva del tutto nuova sorga un interrogativo verso una tradizione, come quella ebraica, specializzata nel fatto di essere decentrata: come si fa a perdurare, come identità, malgrado la perdita del centro. Questo mi sembra uno dei terreni da cui promana il nuovo interesse nei confronti dell’ebraismo.18 16 Rita Calabrese, Dopo la Shoah: Nuove identità ebraiche nella letteratura,in AA.VV., Mosaici. Nuove configurazioni dell’identità ebraica in Germania, Pisa, Ets, 2005, pag. 20. 17 Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, a cura di Juliette Hassine, Firenze, Giuntina, 1998, pag. 148 18 Stefano Levi Della Torre, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei, Torino, Rosenberg Sellier, 1994, pag. 18. 11 L’interesse per l’ebraismo in Italia, come sostiene Laura Quercioli Mincer, non è il frutto di un ritrovato interesse per il passato nazionale, ma, al contrario: una sorta di fuga da esso, al bisogno di sconfinamento, alla ricerca di elementi esotici e mistici, cosi come anche forse al bisogno di individuare un anello in grado di mettere in collegamento fra loro le varie identità culturali e nazioni europee.19 Tuttavia, in ambito letterario vorremmo sottolineare, come ricorda anche Raniero Speelman, che in Italia fino a poco tempo fa gli interventi di critici letterari che hanno inteso interpretare le opere di scrittori come, per esempio, Bassani o la Ginzburg in chiave ebraica sono stati notevolmente pochi. Infatti, in Italia «esiste una conoscenza piuttosto limitata degli elementi tipicamente ebraici.»20 Anche gli studi in ambito storico riguardanti la memoria della deportazione, come avremo modo di vedere, compaiono piuttosto tardi perché «Italian consciousness for the longest time did not have a place for a Jewish discourse.»21 Anche Alberto Cavaglion, studioso dell’ebraismo in Italia, ha ribadito che «si ignora quasi tutto delle vivacissime comunità ebraiche della nostra penisola.»22 Una delle prime pubblicazioni a occuparsi della letteratura degli ebrei in Italia fu Prisoners of Hope (1983), il cui autore, Henry Stuart Hughes, non è un italianista ma uno storico. Negli ultimi due decenni, però, la situazione è cambiata notevolmente con la pubblicazione di volumi miscellanei come L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento (1995), Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e la letteratura (1998), The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy (2002) e Tra Storia e immaginazione: gli scrittori ebrei di lingua italiana si raccontano (2008). Una pubblicazione chiave nello specifico campo di ricerca della letteratura italiana della deportazione fu quella della storica Anna Bravo, Una misura onesta: gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993 pubblicata nel 1994. Benché a partire degli anni Ottanta possiamo parlare, come avremo modo di vedere, di un influsso considerevole di elaborazioni letterarie provenienti da una nuova generazione di scrittori italiani di origine ebraica, la maggioranza degli studi critici suddetti si occupa prevalentemente degli scrittori più noti come Bassani, i due Levi, Ginzburg e Umberto Saba. 19 Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, Roma, Lithos, 2010, pag. 119. 20 Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli spazi della diversità, Atti del Convegno Internazionale "Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, Leuven, 3 – 8 maggio 1993, a cura di Franco Musarra et al., Leuven, University Press, pag. 69. 21 Fabio Girelli-Carasi, Italian-Jewish Memoirs and the Discourse of Identity, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 193. 22 Alberto Cavaglion, La scintilla di una fede, citato in Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli spazi della diversità, cit., pag. 69. 12 Come sostiene Speelman, «few critical analyses have been dedicated to the work of, say, Giacoma Limentani, Lia Levi, or Alberto Lecco, each of whom has already published at least five books.»23 In anni recenti, questo vuoto è stato colmato progressivamente con l’organizzazione dei convegni annuali di International Conference on Italian Jewish Literature, organizzato per la prima volta nel 2006 a Amsterdam. Infine, di particolare importanza per questo lavoro sono stati gli studi di Sergio Parussa (2008) e Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1996, dallo storico ebraico Yosef Haim Yerushalmi da cui prende spunto il nostro secondo capitolo sul tema della memoria. In questo lavoro vogliamo prestare attenzione alla nuova generazione di scrittori di origine ebraica, che costituisce un campo ancora poco esplorato. Per questa ragione, abbiamo scelto per un’analisi delle opere di Giorgio van Straten e di Clara Sereni. Sulle opere di Giorgio van Straten non si è ancora soffermata l’attenzione della critica – esiste soltanto uno studio critico24 che parla soltanto in parte di Il mio nome a memoria – mentre la Sereni, definita «la migliore esponente della giovane generazione di scrittori di origine ebraica nati dopo la Shoah»,25 sembra ricevere più attenzione critica, però, sostanzialmente in chiave femminista26o in chiave politica.27 Attraverso l’analisi delle loro opere più celebri – Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni – vorremmo dimostrare che, anche se sono meno evidenti, sono comunque presenti degli elementi ebraici nella letteratura italiana contemporanea, più di quanto non si creda. 23 Raniero Speelman, Italian-Jewish Literature, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit. pag. 188. 24 Cfr. Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pp. 115 – 128. 25 Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit., pag. 121. 26 Cfr. Katia Marano, “Tra i detriti della Storia”: Il gioco dei regni di Clara Sereni, in AA.VV., Scrittura femminile, a cura di Irmgard Scharold, Tübingen, 2002, pp. 167 – 177. 27 Cfr. Giulia Po, Scrivere la diversità. Autobiografia e politica in Clara Sereni, Firenze, Cesati, 2012. 13 II. Fra appartenenza e differenza: letteratura e identità ebraica nel Novecento 2.1. La letteratura italo-ebraica prima del periodo fascista Molto interessanti e affascinanti sono le parole con le quali Primo Levi, forse il più noto fra gli scrittori di origine ebraica in Italia, descrive quale sia il suo atteggiamento di fronte alla cultura ebraica in Italia: Io sono ebreo come anagrafe, vale a dire che sono iscritto alla comunità Israelitica di Torino, ma non sono praticante e neppure sono credente. Sono però consapevole di essere inserito in una tradizione e in una cultura. Io uso dire di sentirmi italiano per tre quarti o per quattro quinti, a seconda dei momenti, ma quella frazione che avanza, per me è piuttosto importante. E so benissimo che esistono infinite altre culture, degne di essere studiate e seguite. Fra queste c'è anche la cultura ebraica, in Italia non molto fiorente, per ragioni numeriche, se non altro, molto fiorente altrove, ed era molto fiorente proprio nell'Europa orientale al tempo dello scatenamento della seconda guerra mondiale.»28 La cultura ebraica, presente in Italia ininterrottamente per oltre duemila anni, a prima vista non sembra, come afferma Levi, molto fiorente. Tuttavia, nonostante il numero ridotto degli ebrei in Italia – il numero totale degli ebrei in Italia dopo l’emancipazione non superò mai le cinquantamila unità –, sono molti gli scrittori, ed editori, di origine ebraica che hanno contribuito significativamente all’arricchimento del patrimonio letterario d’Italia. Infatti, i letterati di origine ebraica occupano una posizione rilevante sulla scena intellettuale del primo Novecento.29 La presenza di scrittori ebrei è forte soprattutto nell’area di Trieste, dove troviamo, fra tanti altri, letterati di origini ebraica come Umberto Saba30, Italo Svevo, Carlo Michelstaedter, Giani Stuparich, e la lista potrebbe continuare ancora. Gli ebrei furono inoltre 28 Dina Luce, Il suono e la mente, in AA.VV., Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, pag. 37. 29 I dati demografici sono tratti da Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 23. 30 In 1956, stampato in Ricordi e Racconti, Umberto Saba pubblica, seguito il consiglio dell'amico scrittore ebreo Carlo Levi, per la prima volta alcuni capitoli di prosa, scritti oltre quattro deceni prima, intitolati Gli Ebrei, in cui racconta della propria vita di bambino nella comunità ebraica di Trieste. Per uno studio complessivo dell’ebraismo nella scrittura di Umberto Saba, si rimanda allo studio di Dario Calimani, cfr. Dario Calimani, Saba e la capra semita, in AA.VV., Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e la letteratura, cit., pp. 69 – 90. 14 particolarmente presenti nel settore editoriale: si pensi, per esempio, alle case editrici La Nuova Italia, Mondadori, a Leo S. Olschki e a R. Bemporad. Questo fatto non è sorprendente visto il basso livello di analfabetismo fra gli ebrei: nel 1861 gli analfabeti fra gli ebrei erano il 5,8 per cento, mentre il numero totale degli analfabeti in Italia si aggira sul 64,5 per cento della popolazione. Nel 1927 gli ebrei analfabeti scomparvero, mentre il numero totale degli analfabeti si aggirava ancora sul 27 per cento della popolazione italiana.31 Pertanto, è lecito dire che gli ebrei italiani, anche se sono una minoranza della popolazione, hanno contribuito in maniera determinante alla formazione intellettuale della patria novecentesca. Benché, come accennato nell'introduzione, esistesse già al tempo di Dante una letteratura italiana di origine ebraica, gli scrittori di origine ebraica fanno il loro vero ingresso nella letteratura italiana a partire dal Novecento.32 Da questo momento in poi, come ricorda Henry Stuart Hughes, gli scrittori di origine ebraica si mettono in massa sulla scena letteraria d’Italia.33 Va notato, però, che nonostante la loro presenza notevole, manca nelle loro opere quasi ogni riferimento al loro essere ebrei o al tema dell’ebraismo in generale. Dunque, nonostante la loro rilevanza gli scrittori di origine ebraica scelgono di rimanere in silenzio rispetto alla propria eredità ebraica nei loro scritti pubblici. Per Aron Ettore Schmitz, per esempio, nascondere il cognome ebraico dietro allo pseudonimo di Italo Svevo, l’ebraismo fu «un affaire privé».34 Per lo scrittore triestino, come sostiene Luca De Angelis, «l’essere ebreo risultava né più né meno che un segreto amore illecito.»35 Per quanto riguarda Alberto Moravia, come afferma lo scrittore ebreo Miro Silvera, «non si era mai sentito nemmeno "mezzo ebreo". Anche lui aveva cambiato cognome, assimilandosi agli altri con un senso di liberazione. Un fatto è certo: la radice famigliare non fa certo lo scrittore "ebreo”.»36 La mancanza di ogni riferimento all’ebraismo nella letteratura italiana dei primi trent'anni del Novecento non sembra dunque essere dovuta al numero ridotto di ebrei in Italia, e nemmeno corrisponde alla mancanza di letterati di origine ebraica. Le ragioni per questo vuoto, pertanto, sono da ricercarsi altrove. 31 I numeri demografici sono sempre tratti da: Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 27. Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. I. 33 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 27. 34 Luca De Angelis, Come un amore illecito. Sulla teshuvah di Zeno, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 16. 35 Ibidem. 36 Miro Silvera, La necessità di raccontare, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 154. 32 15 La volontà di non attirare troppo l'attenzione sulla propria eredità ebraica è una delle possibili ragioni per l’assenza di ogni riferimento all’ebraismo nella letteratura del primo Novecento. Questa spiegazione viene offerta da Fabio Girelli-Carasi, secondo il quale gli ebrei in Italia, dopo secoli di reclusione nei ghetti, non vogliono mettere troppo in evidenza la loro identità ebraica, evitando così delle eventuali reazioni sgradite contro la comunità ebraica in Italia.37 Secondo lo stesso Girelli-Carasi, il trattamento benevolo riservato agli ebrei in Italia è più un pio desiderio da parte dagli “italiani brava gente” che realtà.38 È vero che gli italiani non hanno mai scatenato dei pogrom (persecuzioni violente degli ebrei) contro le comunità ebraiche, come invece nell’Europa orientale in cui ci furono delle continue ondate di pogrom contro le comunità ebraiche. Tuttavia, a differenza degli altri paesi europei, sia orientali che occidentali, in cui la popolazione ebraica ha sempre continuato a crescere, in Italia il numero degli ebrei è sempre rimasto invariato, e non ha mai superato le cinquantamila unità.39 Per questo motivo, sempre secondo il Girelli-Carasi, non furono necessarie delle persecuzioni in Italia, visto che gli ebrei sono sempre stati una minoranza quasi invisibile nella penisola. Non si può escludere che ci sia qualcosa di vero nelle affermazioni del Girelli-Carasi. Anche Italo Svevo ha ricordato che «quella dell'ebreo non è una posizione comoda».40 Storicamente, le comunità ebraiche sono sempre state le più diffamate e perseguitate e per questo motivo, forse anche in Italia, alcuni scrittori, per il loro merito, potrebbero aver scelto di non manifestare o dichiarare apertamente la loro origine ebraica, tenendola nascosta nell’ambito privato.41 Un’altra ragione, più attendibile a nostro giudizio nel contesto italiano, proposta da vari autori e in particolare da Arnaldo Momigliano, risiede nel forte grado di assimilazione degli ebrei italiani. Lo storico ebreo Arnaldo Momigliano afferma che «la storia degli ebrei [...] è 37 Fabio Girelli-Carasi, Italian-Jewish Memoirs and the Discourse of Identity, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pp. 192 – 193. 38 Questa tesi viene condivisa da due altri studiosi: cfr. Lynn Gunzberg, Strangers at Home: Jews in the Italian Literary Imagination, Berkeley, University of California Press, 1992 and Michele Sarfatti, gli ebrei nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2000. 39 Per avere un’idea per quanto sia limitato il numero degli in ebrei in Italia rispetto agli altri paesi europei: «In Europa, nel 1930 vi erano 3.100.000 in Polonia, 2.800.000 in Russia, 760.000 in Romania, 500.000 in Germania, 440.000 in Ungheria, 360.000 in Cecoslovacchia, 350.000 in Gran Bretagna, 300.000 in Francia, 190.000 in Austria, 150.000 in Lituania, 110.000 in Olanda, e via discendendo (45.000 in Italia).» Tratto da Michele Sarfatti, La Shoah in Italia, Torino, Einaudi, 2005, pag. 15. 40 Italo Svevo, citato in Enrico Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori Riuniti, 1980, pag. 275. 41 Per questo valgono le parole dello storico ebreo Arnaldo Momigliano in cui ricorda dalla sua infanzia che la religione ebraica significava per lui: «una religione chiusa nella famiglia. [...] La mia vera esperienza di religione ebraica è in questa intensa, austera, pietà domestica.» Tratto da Arnaldo Momigliano, pagine ebraiche, citato in Giorgio Fubini, Storicismo, storia della storiografia ed ebraismo in Arnaldo Momigliano, in AA.VV., Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e la letteratura, cit., pag. 57. 16 essenzialmente appunto la storia della formazione della loro coscienza nazionale italiana.»42 L’emancipazione degli ebrei, come già accennato nell'introduzione, fu contemporanea alla formazione dell’identità nazionale italiana e costituì per questo motivo «un processo intrinseco al Risorgimento».43 Tutti insieme, ebrei e non ebrei, ebbero in comune una forte spinta alla costruzione dell’unità d’Italia e la volontà di diventare dei cittadini liberi di un’Italia unita. Questa «nazionalizzazione parallela», come viene definita da Arnaldo Momigliano nel 1933, giustifica l'alto grado di integrazione della popolazione ebraica nella società nazionale.44 Appena acquistata l’eguaglianza dei diritti civili, vi è un cambiamento di identità fra gli ebrei che si sentono ormai più italiani che ebrei. Gli ebrei diventano sempre più laici, mettono sempre di più sullo sfondo la loro appartenenza religiosa e pongono sempre di più in primo piano il senso di appartenenza alla nazione italiana.45 Alla fine, come ribadisce anche Lynn Gunzberg, «Italian culture was just much easier to digest» e per questo motivo gli ebrei italiani sembrano sparire, confondendosi sempre di più nel gruppo maggioritario.46 Questa assimilazione, secondo lo storico Giampiero Carocci, fu nella penisola «un fatto più spontaneo, più legato allo svolgersi delle cose che non voluto dall’alto, da una autorità sovrana, come avvenne invece negli altri paesi occidentali, in Francia, in Germania, in Inghilterra.»47 Questo atteggiamento sempre più laico degli ebrei nell'Italia del primo Novecento viene descritto molto accuratamente nel romanzo Il gioco dei regni della scrittrice Clara Sereni in cui, come avremo modo di vedere, viene affrontata la storia della famiglia dell’alta borghesia ebraica dei Sereni. Il passo seguente, per esempio, acquista il suo pieno significato se si tenga conto del fenomeno di laicizzazione fra gli ebrei italiani: Nell’ottavo giorno dalla nascita, per motivi igienici Lello circoncise suo figlio: ma senza alcuna cerimonia né pubblicità, e il fatto no fu registrato se non nella carne.48 Attraverso il rifiuto del carattere religioso della circoncisione, la quale viene adesso effettuata soltanto per «motivi igienici», viene accentuata la sempre decrescente appartenenza religiosa 42 Arnaldo Momigliano, citato in Roberto Maria Dainotto, Emancipation and Jewish Literature in the Italian Canon, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 132. 43 Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ cit., pag. 22. 44 Ibidem. 45 Maurizio Molinari, Ebrei in Italia: un problema di identità (1870 – 1939), Firenze, Giuntina, 1991, pp. 32 - 33 46 Lynn Gunzberg, Assimilation and Identity in an Italian Jewsih Novel, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 140. 47 Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ cit., pag. 22. 48 Clara Sereni, Il gioco dei regni, con una prefazione di Alberto Asor Rosa, Milano, BUR, 2007, pag. 31. 17 dei Sereni, come di molti altri ebrei in Italia. La crescente consapevolezza di parità ha fatto che gli ebrei non siano più tanto differenti dai loro concittadini cattolici italiani. Indistinguibili dai loro compatrioti per lingua e per aspetto fisico, gli ebrei italiani stanno perdendo anche il loro ultimo segno distintivo, cioè la religione ebraica. In sintesi, va detto che quanto sopra esposto non esaurisce la questione del ruolo degli ebrei nella letteratura italiana. Per le ragioni qui sopra evidenziate, è giustificata in questo periodo l’assenza di ogni riferimento al tema del ebraismo nella letteratura italiana. L’ebreo, attraverso un lungo processo di assimilazione, iniziato dopo l’emancipazione degli ebrei, si sente appartenere alla società nazionale e non vuole essere ricordato al ghetto da cui fu appena uscito. Gli ebrei si sentono in primo luogo italiani, poi ebrei. Per questo motivo, ci sembra lecito supporre che gli scrittori di origine ebraica nei primi trent'anni del secolo non sentano un bisogno di elaborare il tema della tradizione ebraica nelle loro opere. 2.2. Dall’appartenenza alla differenza: la letteratura italo-ebraico durante il periodo fascista A partire dalla fine degli anni trenta la vita dell’ebreo italiano sta per cambiare, forse per sempre. Appunto, alla fase di appartenenza e parità viene messa fine con la promulgazione delle leggi razziali fasciste, arrivate come fulmine a ciel sereno, nel 1938. Gli ebrei, credendosi da tempo perfettamente italiani e in alcuni casi perfino perfettamente fascisti – si ricordi il caso di Ettore Ovazza – vengono spogliati dei loro diritti. Molto commovente a proposito di questo è il racconto, intitolato Zinco, nell’autobiografia Il sistema periodico in cui Primo Levi descrive accuratamente quale sia stato il suo atteggiamento, condiviso con molti altri ebrei, di fronte alla cultura ebraica prima dell’emanazione delle “leggi per la difesa della razza italiana” e quale sia stato il loro effetto sulla percezione dell’ebraismo dello scrittore: perché ebreo sono anch’io, e lei no: sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco. L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di “La Difesa della Razza”, e di purezza si faceva gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. Per vero, fino appunto a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo; dentro di me, e nei contatti coi miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto e le lentiggini; un ebreo è uno 18 che a Natale non fa l’alberi, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato.49 Molto interessante è il paragone che Levi fa tra gli ebrei, impuri secondo la retorica fascista, e l’elemento impuro, o «il granello di sale e di senape», necessario «per fare reagire lo zinco.»50 Da questa osservazione sulla necessità chimica dell’impurezza Primo Levi trae le seguenti riflessioni filosofiche: l'elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l'elogio dell'impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale.51 Con la promulgazione delle leggi razziali, redatte da un gruppo di «studiosi fascisti», si passa da una fase di appartenenza e parità in cui l’ebraismo è soltanto «una piccola anomalia allegra», ad una fase di differenza e disparità in cui tali leggi imposero agli ebrei in tutta l’Italia un’identità inferiore. Un’identità, come viene annunciato nel Manifesto degli Scienziati Razzisti, nemmeno più italiana.52 Le leggi razziali, e le persecuzioni naziste che seguiranno, hanno drasticamente posto termine al lungo processo di integrazione e assimilazione, e hanno fatto sì che gli ebrei, forse per la prima volta dall’emancipazione, si siano resi conti del proprio essere ebrei. Questo rendersi conto di essere diversi significa per tanti ebrei, in Italia come altrove, un bisogno di riprendere alcune tradizioni ebraiche e di riappropriarsi, dopo averla tenuto per lungo tempo nell'ombra, della propria identità ebraica. In quanto a questo recupero 49 Primo Levi, Zinco, in Id., Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975, pag. 37. Ibidem. 51 Ivi, pag. 35. 52 Il manifesto dei dieci scienziati razzisti, reso pubblico per la prima volta nel 14 luglio 1938 stabilisce nel nono punto che «gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.» Tratto da Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi¸ cit., pag. 151. 50 19 dell’ebraismo rimosso, Luca De Angelis parla di «ebrei di ritorno.»53 La riscoperta dell’identità ebraica non fu una conseguenza passiva delle persecuzioni, ma fu invece una risposta attiva degli ebrei, un primo atto di ribellione contro il progetto nazista di estinguere l’identità e la memoria del popolo ebraico. Il rinnovato interesse per l’ebraismo non fu limitato all’Italia, ma, come ha ribadito lo storico Henry Stuart Hughes, questo recupero di un legame con l’ebraismo ebbe in Italia un impatto maggiore perché mai prima gli ebrei della penisola non si hanno sentito diversi dai loro compatrioti.54 Nelle sue Réflexions sur la question juive Jean-Paul Sartre afferma nel 1946 che «è l’antisemitismo che crea l’ebraismo.»55 Tale citazione, pur discutibile come sostiene anche Giampiero Carocci perché «l’ebraismo esiste indipendentemente dall’antisemitismo», contiene comunque qualcosa di vero.56 Viene dunque riscoperta una cultura ancora più antica di quella italiana e per questo gli ebrei iniziano ad avvertire una certa forma di fierezza dell’essere ebrei, dell’essere diversi e, come scrive Primo Levi, dell’essere «l’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita.»57 La discriminazione rinforza, dunque, la fierezza del loro essere ebrei cosicché viene coltivata una strana volontà di trasformare questa identità ebraica «da fatto privato a fatto pubblico.»58 Ad esempio, Primo Levi ha ricordato, come lui, essendo un buon esempio dell’ebreo laico ed assimilato, viene richiamato alla propria identità ebraica soltanto dopo le leggi razziali: Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome: invece, questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera: ormai ebreo sono, la stella di Davide me l’hanno cucita e non solo sul vestito.59 Questa presa di coscienza della propria identità ebraica e la volontà di trasformarla da un fatto privato a fatto pubblico non è però tanto notevole nel campo della letteratura. Mentre, come già detto, manca quasi ogni riferimento all’ebraismo nelle opere di Alberto Moravia, una tematica ebraica compare in misura molto limita nelle opere di Carlo Levi. Cristo si è fermato 53 Luca De Angelis, «Qualcosa di più intimo». Alcune considerazioni sulla differenza ebraica in letteratura, in AA.VV. L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, a cura di Marisa Carlà et al., Palermo, Palumbo, 1995, pag. 12. 54 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 65. 55 Traduzione mia. Versione originale: «Le Juif est un homme que les autres hommes tiennent pour Juif ; voilà la vérité simple d'où il faut partir [...] c'est l'antisémite qui fait le Juif.» Jean-Paul Sartre, Réflexions sur la question juive, citato in Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia dall’emancipazione ad oggi, cit., pag. 120. 56 Ibidem. 57 Primo Levi, Zinco, in Id., Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975, pag. 37. 58 Giampiero Carocci, Storia degli Ebrei in Italia, cit., pag. 120. 59 Ferdinando Camon, Conversazione con Primo Levi, citato in Nadia Castronuovo, Natalia Ginzburg: Jewishness as a moral identity, Leicester, Troubador Publishing, 2010, pag. 116 – 117. 20 a Eboli, il libro capolavoro di Carlo Levi, è infatti quasi privo di elementi ebraici. Questa assenza di elementi ebraici in Cristo si è fermato a Eboli può tuttavia essere spiegata dal fatto che la storia è ambientata nel Sud d’Italia, da cui, sotto il dominio aragonese, gli ebrei vennero espulsi nel Quattrocento. Un altro romanzo di Carlo Levi, L’orologio, invece, presenta due personaggi minori di origine ebraica ma sembra, come ha notato Henry Stuart Hughes, che allo scrittore manchi ogni punto di contatto con essi.60 Nonostante il ravvivarsi della memoria dell’identità ebraica, non cambia dunque molto nell’ambito letterario. Rimane assente una tematica ebraica nella letteratura negli anni che seguono la promulgazione delle leggi razziali. Alla lista di scrittori italiani con eredità ebraica si possono aggiungere alcune voci nuove, fra cui le più note sono Giorgio Bassani, Natalia Ginzburg61, Giacomo Debenedetti e Alberto Vigevani, ma anche loro rimangono, per ora, in silenzio sul tema della tradizione ebraica Sono in questi anni, però, che nacque, come sostiene Raniero Speelman, «un periodo aureo o argenteo della letteratura italo-ebraica, grazie a scrittori come (in ordine alfabetico) Giorgio Bassani, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Primo Levi, Elsa Morante, Alberto Moravia, che furono annoverati giustamente fra i maggiori scrittori italiani (e, in qualche caso, europei).»62 Tuttavia, questo «periodo aureo o argenteo della letteratura italoebraica» è ancora ai suoi esordi: anche se le leggi razziali ebbero come risultato immediato la riscoperta della cultura ebraica fra gli ebrei italiani, bisogna aspettare ancora qualche anno, anzi decennio, prima che il riflesso sul proprio appartenere all’ebraismo diventa un tema centrale nelle loro opere. 2.3. «Tornare, mangiare, raccontare»: la memorialistica in Italia La parte meglio conosciuta e studiata della letteratura scritta dagli ebrei del Novecento è probabilmente la narrativa concentrazionaria e la memorialistica. Infatti, in questo periodo non mancano delle testimonianze, scritte dai deportati sia ebrei che non ebrei, ed esse assumono subito delle forme molte diverse fra di loro. «La letteratura sui campi di concentramento nazionalsocialisti», scrive Primo Levi nella prefazione all’edizione italiana di Uomini ad Auschwitz di Hermann Langbein, «si può grossolanamente dividere in tre 60 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 67. In quanto a Natalia Ginzburg, anche in lei le persecuzioni hanno suscitato un nuovo senso di appartenere, almeno parzialmente, all’ebraismo. In un’intervista la Ginzburg ha dichiarato che: «I feel profoundly Jewish because Jews have been exterminated. I felt at that time just how much Jewishness there was in me. I also felt Catholic. I couldn’t explain.» in Natalia Ginzburg, It Hard to Talk About Yourself, citato in Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 65. 62 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, cit., pag. II. 61 21 categorie: i diari o memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche.»63 In Italia, accanto a Primo Levi, forse il testimone più noto al mondo, sono soprattutto delle donne ebree, tutte sopravvissute di Auschwitz, che si mettono a scrivono le loro testimonianze. Si ricordi fra le testimonianze femminili Il fumo di Birkenau di Liana Millu (1947), Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzesca delle realtà, il più realistico dei romanzi di Frida Misul (1946), I ricordi della casa dei morti di Luciana Nissim (1946), Questo povero corpo di Giuliana Tedeschi (1946), A.24029 di Alba Valech Capozzi (1946), e, qualche anno più tardo, Edith Bruck, con il suo Chi ti ama così (1959).64 Appena tornati a casa, i deportati sentono la necessità impellente di raccontare e di fissare subito la memoria. L’atto di raccontare diventa per i reduci un bisogno primario come mangiare e respirare. Nel racconto Cromo Primo Levi fa un paragone letterario, identificandosi con il Vecchio Marinaio di Samuel Coleridge, con cui condivide la volontà impellente di raccontare per strada la propria «storia di malefizi»: Ma io ero tornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi.65 Il prodotto fu Se questo è un uomo e scrivendo questo libro, continua Levi, «mi sentivo ridiventare uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.»66Alcuni scrivono per liberarsi dall’incubo del passato e per sfogo del dolore. In questo senso, come commenta Primo Levi, la scrittura acquista una funzione catartica e diventa «un equivalente della confessione o del divano di Freud.»67 63 Primo Levi, Prefazione a Hermann Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, citato in Anonimo, Introduzione a Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005, pag. 1. 64 Anna Bravo, Una misura onesta: gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, a cura di Anna Bravo et al., Milano, Franco Angeli, 1994, pag. 35. 65 Primo Levi, Cromo, in Id., Il sistema periodico, cit., pag. 155 66 Ibidem. 67 Primo Levi, Perché si scrive in Id, L’altrui mestieri, Torino, Einaudi, 2006, pag. 33. 22 Per raccontare le loro esperienze, i testimoni hanno dovuto sopravvivere, ma, come afferma Dori Laub, anche lui sopravvissuto alle stragi naziste, l’opposto è ugualmente vero: hanno dovuto scrivere per sopravvivere, per provare a dare un senso alla loro esperienza. 68 “Far sapere” significa impedire che si dimentichi ed è proprio questo il motivo, “l’imperativo etico”, per cui i deportati si sono messi a scrivere le loro storie. La vendetta è il racconto dice il titolo dello studio del critico Pier Vincenzo Mengaldo sulle testimonianze concentrazionarie, e, infatti, la scrittura fu un atto di resistenza da parte degli ebrei: scrivono per opporsi a coloro che vogliono dimenticare e per salvare la memoria dal tempo, dall’oblio e perfino dalla negazione. 69 Elie Wiesel, scrittore rumeno anche lui sopravvissuto alla Shoah, ha ricordato che «to forget would be an absolute injustice in the same way that Auschwitz was the absolute crime. To forget would be the enemy’s final triumph.»70 Tuttavia, la realtà è ben più complessa e quasi paradossale: mentre vi è un’impellente necessità di raccontare, tanti superstiti non riescono a dare voce a questa necessità. Moltissimi sono gli altri che cercano rifugio nel silenzio, “l’afasia protettiva”, per non rischiare di risuscitare il ricordo del trauma appena vissuto e «perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore». 71 Alcuni altri, spesso sotto la spinta della famiglia, si mettono a scrivere le loro esperienze dopo aver taciuto anni anzi decenni. Ad esempio, questo fu il caso della scrittrice austriaca naturalizzata italiana Elisa Springer, la quale, a distanza di oltre cinquant'anni, schiacciata dal peso del ricordo, ha «finalmente capito che doveva parlare» e pubblica così il suo primo libro Il silenzio dei vivi nel 1997 in cui si legge: Come tanti altri sopravvissuti, mi ero imposta di non parlare, di soffocare le mie lacrime nello spazio più profondo e nascosto della mia anima, per essere io sola, testimone del mio silenzio. [...] Ho taciuto e soffocato il mio vero ‘io’, le mie paure, per il timore di non essere capita o, peggio ancora, creduta. Ho soffocato i miei ricordi, vivendo nel silenzio una vita che non era la mia.72 68 Traduzione mia. Versione originale: «The survivors did not only need to survive so that they could tell their stories; they also needed to tell their stories in order to survive. There is, in each survivor, an imperative need to tell and thus to come to know one’s story, unimpeded by ghosts from the past against which one has to protect oneself.» La citazione è stata presa da: Dori Laub, Truth and Testimony: The Process and the Struggle, in AA.VV., Trauma: Explorations in Memory, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2004, pag. 63. 69 Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta e il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Milano, Bollati Boringhieri, 2007. 70 Elie Wiesel, From the Kingdom of Memory: Reminiscences, New York, Schocken Books, 1990, page 187. 71 Primo Levi, La memoria dell’offesa, in Id., I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2007, pag. 14. 72 Elisa Springer, Il silenzio dei vivi, Venezia, Marsilio, 1997, pag. 13. 23 Con queste parole Elisa Springer ci fa notare le due ragioni principali per cui i sopravvissuti si nascondono nel silenzio. Vi è, in primo luogo, fra i superstiti ai campi di sterminio, la consapevolezza che l’argomento è difficilmente credibile per coloro che non sono stati “nell’universo concentrazionario.” Ne I sommersi e i salvati Primo Levi avverte che «la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata». 73 Questa incertezza della credibilità, come afferma Carlo De Matteis, è un tema che ritorna in quasi ogni testimonianza concentrazionaria. «La non credibilità», prosegue De Matteis, «annienta il testimone, vanifica la sua sofferenza, rende inutile la morte di innumerevoli essere umani».74 Per paura di non essere creduti tanti sono i sopravvissuti che non riescono a parlare della propria sofferenza. Alla paura di non essere creduti e all’impossibilità della comprensione si aggiunge la consapevolezza dell’impotenza della lingua e dell’intrasmissibilità del ricordo. Il ricordo del Lager sembra infatti trascendere le capacità linguistiche: per descrivere la realtà indescrivibile “dell’universo concentrazionario” occorrerebbe oltrepassare i confini del linguaggio. L’impossibilità di tradurre la propria esperienza in un discorso che rimane fedele alla realtà storica è un altro fattore che ha trattenuto dal parlare molti reduci. Sulla difficoltà di esprimere con un linguaggio convincente l’esperienza del Lager riflette ancora una volta Primo Levi, il quale dichiara, in un passo molto famoso di Se questo è uomo, che «la nostra lingua manca di parole per esprimere quest'offesa, la demolizione di un uomo.»75 Tuttavia, vi è ancora un altro incubo, come anche segnalato nelle parole sopraccitate di Elisa Springer, che tormenta i sopravvissuti: quello di non essere ascoltati. È un tema che hanno angosciosamente rappresentato molte delle testimonianze concentrazionarie: i sopravvissuti sognano di essere ritornati a casa e di raccontare le loro esperienze ai loro cari, ma questi si dimostrano del tutto indifferenti al racconto dei superstiti. Nella prefazione a I sommersi e i salvati Primo Levi ha ricordato che: Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: dì essere tornati miracolosamente a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, 73 Primo Levi, Prefazione a Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 3. Carlo De Matteis, Dire l’indicibile: la memoria letteraria della Shoah, Palermo, Sellerio, 2009, pag. 19. 75 Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., pag. 23. 74 24 neppure ascoltati. Nella forma più tipica di questo sogno, l'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio.76 Infatti, in Se questo è un uomo Primo Levi racconta anche lui di essere tormentato, già durante le notti ad Auschwitz, da questo incubo dell’ascoltatore indifferente: Qui c'è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d'altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.77 «Allora prendo carta e penna e scrivo quello che non posso dire a nessuno» ha scritto Primo Levi poi in Se questo è un uomo. Questo sogno del fallimento nell’essere ascoltato, come annota Anna Rossi-Doria, diventò realtà quando ritornano i deportati in Italia.78 Le loro esperienze, continua Rossi-Doria, furono davvero accolte dal mondo con indifferenza, «che lascia tracce profonde e di lunga durata non solo nel dolore e nel silenzio dei singoli, ma anche nella successiva assenza di una memoria collettiva.»79 Tanto è vero che il processo di rimpatrio fu molto più difficile e lento in Italia che negli altri paesi.80 Dopo la liberazione si è subito diffusa in Italia, come ha criticato il deportato, benché non ebreo, Piero Caleffi, «la fretta non solo dell’indulgenza, che poteva essere nobile, ma anche dell’oblio, che era ed è delittuoso.»81 La solitudine degli ebrei deportati e «la fretta dell’oblio» è anche visibile nelle opere letterarie, e perfino storiografiche, sulla deportazione: l’ebraismo e la sua recente tragedia non furono un tema centrale né negli ambienti della cultura e neppure a livello 76 Primo Levi, Prefazione a Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 4. Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., pag. 53. 78 Anna Rossi-Doria, Una memoria solitaria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro, Rubbettino, 1998, pag. 27. 79 Ibidem. 80 Il problematico viaggio di ritorno in Italia costituisce la trama del secondo libro autobiografico di Primo Levi, La tregua, in cui lo scrittore descrive come «ogni ora passata in esilio gli pesava come piombo; anche di piú gli pesava l’assoluta mancanza di notizie dall’Italia.» in Primo Levi, La tregua, cit., pag. 115. 81 Piero Caleffi, La personalità distrutta nei campi di sterminio, citato in Anna Rossi-Doria, Una memoria solitaria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 27. 77 25 dell’amministrazione pubblica.82 In uno studio dettagliato sugli scritti della deportazione, Anna Bravo ribadisce che l’indicibilità dell’esperienza della deportazione non è unicamente dovuta a chi parla, ma anche a chi ascolta. L’indicibile, continua la Bravo, è quindi anche «frutto di una scelta politica e ideologica da parte di individui e istituzioni, che adottano il silenzio e ne fanno scivolare la responsabilità da se stessi ai protagonisti»83 In tal senso, l’indicibile è divenuto “l’inaudibile” perché la storia della deportazione va oltre quello che si vuole ascoltare. «È una menzogna diventata luogo comune» – conclude Anna Bravo – «che i superstiti non abbiano scritto e parlato.»84 Infatti, come già detto, molti dei superstiti si sono messi subito a scrivere le loro memorie e non mancano quindi delle testimonianze scritte, ma gli editori spesso ne rifiutarono la pubblicazione tanto da poter parlare piuttosto di «un vuoto di pubblicazioni.»85 Basta ricordare la storia editoriale tutt’altro che trionfale di Se questo è un uomo, la cui pubblicazione è stata rifiutata da Einaudi nel 1947, a opera di un’altra scrittrice di origine ebraica, Natalia Ginzburg.86 Il libro fu pubblicato dalla piccola casa editrice De Silva per intervento di Franco Antonicelli, il quale ne comprende subito l’importanza, non solo come testimonianza, ma come testo letterario, e ne furono stampate 2500 copie di cui circa seicento resteranno invendute.87 Inizialmente il libro fu un piccolo successo critico, però non ebbe la risonanza che avrebbe meritato. Nel 1958 Einaudi rivaluta la propria posizione e da allora non cessa di ristampare il libro. Certamente che Primo Levi non fu un caso unico, la stessa sorte colpisce l’ebrea sopravvissuta ad Auschwitz Liana Millu, al cui libro, Il fumo di Birkenau, viene negata a lungo la pubblicazione. L’assenza di pubblicazioni trova tuttavia la sua giustificazione nel contesto storico. Sono gli anni della ricostruzione della patria in cui si è dimostrata una tendenza generale «a considerare chiuse le vicende della guerra e archiviate le sofferenze.»88 In Italia ciò che attirava l’attenzione degli intellettuali non era tanto la tragedia degli ebrei quanto la 82 Ad esempio, in Italia, al contrario della Francia, non veniva fatto niente per avviare un censimento dei deportati. 83 Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 35. 84 Ivi, pag. 36. 85 Ivi, pag. 64. 86 Sul rifiuto di Se questo è un uomo: «In fact Levi was devastated—his pride and young ambition badly dented—by Ginzburg’s rejection. The shunning of his book was like an intimation of the literary scrap heap, yet Ginzburg’s reluctance to publish Levi was part of a larger, collective reluctance among Italians in general to face their brutal and regrettable past [...] Cesare Pavese had also judged, correctly as it turned out, that the time was not right to publish Levi. Italians had other things to worry about, such as finding work and building a better world for their children, than to read of the German death camps. Italians wanted to say, “It’s all over. Basta! Enough of this horror!”» In Ian Thompson, The Genesis of If This is a Man, in AA.VV., The Legacy of Primo Levi, a cura di Stanislao Pugliese, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005, pag. 54. 87 Enrico Mattioda, Levi, Roma, Salerno Editrice, 2011, pag. 36. 88 Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 65. 26 Resistanza e la guerra civile. Lo stesso vale per la letteratura in cui è iniziata la grande stagione del neorealismo, si pensi per esempio a Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino (1947), in cui l’accento viene messo sull’esperienza resistenziale del popolo italiano. Le storie partigiane ebbero più risonanza delle storie di prigionia e al centro di esse sta l’italiano combattente, che si oppone al fascismo, mentre l’ebreo, “la vittima passiva” del razzismo nazista, rimane un elemento marginale nelle rappresentazioni letterarie della sofferenza appena patita in Italia.89 Tale “ideologia della Resistenza” è anche visibile nella natura stessa delle testimonianze. Sebbene non manchino degli ebrei, anche se in minor misura, fra gli autori delle testimonianze, è soprattutto nella loro attività partigiana, piuttosto che nel loro ebraismo, che si raccontano. Gli ebrei, quindi, come ha osservato anche Anna Rossi-Doria, consapevolmente non elaborarono «una loro memoria specifica» perché «essi tacciono la specificità del loro destino di deportati ‘razziali’, e piuttosto diventano patrioti e resistenti, destinati all’annientamento in quanto antifascisti.»90 La storica francese Annette Wieviorka ha avanzata l’ipotesi, per gli ebrei in Francia, che vi fosse bisogno di tempo per vincere il timore di dichiararsi di nuovo ebrei. Questo timore di dichiararsi ebrei è, fino a un certo grado, anche visibile negli ebrei superstiti d’Italia. Come ha ribadito anche Giampiero Carocci, l’ebreo, «peggio ancora se sopravvissuto ad Auschwitz, era un seccatore, un ricordo che si voleva dimenticare.»91 Per ora, come ha ribadito Anna Bravo, «la voce degli ebrei in parte confusa tra quelle degli altri deportati.»92 2.4. La memoria e la diversità: la letteratura italo-ebraica nella seconda metà del Novecento Le cose sembrano cambiare nei testi più recenti. Con passi modesti e poi via via più consistenti questa situazione inizia a cambiare nei decenni che seguono. La cultura ebraica inizia poco a poco a trovare sempre più spazio e affermazione nella cultura nazionale. Accanto alla scrittura memorialistica si possono individuare in questi anni i primi tentativi fatti in direzione del romanzo ebraico. Sono infatti a partire dagli anni Sessanta che vengono pubblicati tre lavori fondamentali: Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani (1962), 89 Ironicamente, come vedremo, a partire dagli anni Settanta, come sostiene la storica Anna Rossi Doria, l’interesse per i deportati politici «comincia a indebolirsi, fin quasi a scomparire, mentre contemporaneamente esplode la memoria dello sterminio degli ebrei.» Paradossalmente, oggi, la deportazione viene quasi esclusivamente associata allo sterminio degli ebrei, e si potrebbe quindi sostenere che i deportati politici siano i più dimenticati. Anna Rossi-Doria, Le memorie separate, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 38 – 39. 90 Anna Rossi-Doria, Le memorie separate, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 41. 91 Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 122. 92 Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 61. 27 Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963) e, a distanza di tempo, La Storia di Elsa Morante (1974). Ci sembra lecito supporre che la pubblicazione dei libri sopra citati sia indirettamente sollecitata dal processo di Eichmann a Gerusalemme nel 1961. Lo scopo del processo, oltre a mettere Eichmann sul banco degli imputati, fu richiamare l’attenzione del mondo sul passato tormentato degli ebrei. Questo processo fu appunto il tema al centro delle prime pagine di tutti i quotidiani e ha fatto sì che le memorie dei sopravvissuti, e la Shoah in generale, siano entrate a far parte della memoria collettiva del mondo. Da questo momento in poi, i racconti sullo sterminio cominciano a trovare maggior ascolto e «continuano a comparire» – come nota Mario Saccenti su “Il Mulino” del marzo 1962 – «libri, articoli, film sui lager nazisti e sulle battaglie dei ghetti: di diseguale valore, più o meno animati da preoccupazioni artistiche e letterarie, ma tutti con un preciso peso di testimonianza.»93 Il silenzio che circondava la sorte degli ebrei sotto il fascismo cessa e gli ebrei rivendicano il loro posto nella storia. Infatti, ancora oggi, vengono pubblicate delle testimonianze nuove; si ricordino le pubblicazioni, tutte del nuovo millennio, di Un tallèt ad Auschwitz: 10.2.1944 - 5.5.1945 di Teo Ducci (2000), A 5405. Il coraggio di vivere di Nedo Fiano (2003), Questo è stato. Una famiglia italiana nei Lager di Piera Sonnino (2004) e Io, deportato ad Auschwitz di Piero Terracina (2002).94 Questi testi dimostrano che la memoria della deportazione ancora oggi, a distanza di oltre settanta anni, sembra ancora estendersi, fino al punto che si potrebbe parlare di una vera “Holocaust industry” che continua a produrre delle testimonianze, alle quali corrispondono delle forme narrative sempre più libere ed elaborate. Nel suo articolo Fuori dei lager: l’“altra” memorialistica ebraica, Raniero Speelman distingue un secondo filone di letteratura memorialistica ebraica. A differenza della letteratura memorialistica appena descritta, il protagonista ebreo di questo secondo filone narrativo non è più il sopravvissuto ai campi di concentramento ma colui che è riuscito, tenendosi nascosto o fuggendo all'estero, a scampare all’arresto e alla deportazione.95 Ciò che distingue questa “altra memorialistica” è il periodo in cui vengono pubblicati i testi. Questi testi hanno infatti 93 Mario Saccenti, Testimonianze sui campi della morte, in “Il Mulino”, fasc. 113, marzo 1963, a. XI, n. 3., pp. 258-166, citato in Anna Bravo, Una misura onesta, cit., pag. 69. 94 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. III. 95 Raniero Speelman, Fuori dei lager: l’“altra” memorialistica ebraica, in AA.VV. Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana, Atti del XVII Congresso A.I.P.I., Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006, n.s. 5, vol. 4, 2009, pag. 297. A disposizione online: http://www.infoaipi.org/attion/ascoli_vol_4.pdf (ultima verifica 3 maggio 2012). 28 una data di pubblicazione di molti anni posteriore e cominciano ad apparire a partire dagli anni Ottanta e Novanta. Anche se, sempre secondo lo Speelman, si potrebbe negare l’urgenza del messaggio degli autori, si tratta comunque di «una sapiente rielaborazione, spesso con l’aiuto di diari del periodo bellico, di un’esperienza giudicata importante per lo scrittore, per i suoi o per i posteri.»96 Fra i testi citati dallo Speelman si trovano Memorie di vita ebraica di Augusto Segre (1979), Ricordi di un ebreo bolognese. Illusioni e delusioni (1929-1945) di Giancarlo Sacerdoti (1983), Perfidi Giudei. Fratelli maggiori del rabbino italiano Elio Toaff (1987) e fra i testi più recenti Fuga a due di Erika Rosenthal-Fuà (2004) e Il violino rifugiato di Gualtiero Morpurgo (2006).97 È chiaro quindi che negli ultimi trent'anni la cultura ebraica ha trovato maggior spazio ed affermazione nella cultura nazionale. Come ha ricordato lo studioso Stephen Siporin, la cultura ebraica è diventata pubblica.98 Questo passaggio dell’ebraismo dal privato al pubblico, iniziato come risposta attiva degli ebrei al razzismo fascista, è anche visibile nella letteratura italiana degli ultimi decenni: l’ebraismo non viene più nascosto nell’ambito privato e gli scrittori dimostrano un’attitudine sempre più aperta ed esplicita a proposito della propria identità ed eredità ebraica. Anche lo studioso Rainiero Speelman sostiene che si può parlare di una maggiore attività letteraria a partire dagli anni Ottanta. Infatti, continua lo stesso Speelman, gli anni Ottanti, in Italia come altrove, sono gli anni del recupero della coscienza ebraica.99 Questo “recupero della coscienza ebraica” è, inoltre, in gran parte dovuto al conflitto araboisraeliano e alle sue conseguenze sull’ebraismo nel mondo. L’invasione del Libano nel 1982 da parte di Israele e i massacri nei campi palestinesi fanno nascere una nuova ondata di antisemitismo, il quale sembrava essere scomparso nell’Europa postbellica, ma che ora si manifesta, di nuovo, in Italia con l’attentato nello stesso anno alla Sinagoga di Roma che causa la morte di un bambino ebreo.100 Oltre ai sentimenti anti-israeliani, se non antisemiti, si sviluppa a partire dagli anni Settanta il revisionismo, presso studiosi come Robert Faurisson e David Irving che mettono in discussione la memoria della Shoah. Secondo questi “assassini della memoria” «il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli 96 Ibidem. Ivi, pag. 298. 98 «Jewish culture has gone public.» Stephen Siporin, The Survival of “the Most Ancient of Minorities”, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 365. 99 Raniero Speelman, Italian-Jewish Literature, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit. pag. 178. 100 Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 131. 97 29 zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa.»101 Per molti scrittori di una generazione più giovane il ritorno dell’antisemitismo e il richiamo alla memoria della sorte dei loro antenati durante le deportazioni costituiscono un'ulteriore spinta per aumentare l’attenzione per la propria eredità ebraica. In alcuni scrittori si può notare, come ha scritto lo Speelman, un cambiamento da una tematica generale, non ebraica, verso una tematica specificamente ebraica. Si pensi a scrittori come Paolo Levi, inizialmente scrittore di gialli, Guido Artom e Alberto Vigevani. In altri scrittori, invece, il tema dell’ebraismo sembra una costante: si pensa a scrittori come Angela Bianchini, Alberto Lecco, Lia Levi, Giacoma Limentani, Sandra Reberschak, Clara Sereni e Roberto Vigevani.102 Il tema della sorte degli ebrei è, a partire dagli anni Novanta, diventata anche una fonte di ispirazione per gli scrittori goyim (non ebrei), come per esempio lo scrittore napoletano Erri de Luca. Si ricordi, inoltre, il libro Un altro mare di Claudio Magris (1991), in cui narra la vita di Enrico Mreule, amico del filosofo ebreo Carlo Michelstaedter. La variante di Lüneberg di Paolo Maurensig (1993), parla della sorte di uno scacchista ebreo nel campo di concentramento di Bergen Belsen. Da menzionare, infine, la scrittrice Rosetta Loy, che ha dedicato numerosi libri al tema delle persecuzioni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nel La parola ebreo (1997), un romanzo saggistico, la scrittrice fa un viaggio indietro nel tempo e riflette su come la parola ebreo è entrata nella sua vita.103 In questo libro, la scrittrice denuncia il mancato senso di responsabilità da parte degli italiani durante gli anni del fascismo nei confronti dei loro compatrioti ebrei. Un altro fattore, secondo Raniero Speelman, che ha contribuito alla ricchezza della componente ebraica nella letteratura italiana è l’immigrazione in Italia di ebrei stranieri che hanno adottato la lingua italiana. Tra essi si trovano, sempre secondo lo Speelman, «i grandi talenti della nuova generazione», come le già menzionate Edith Bruck e Elisa Springer, i fratelli Giorgio e Niccola Pressburger e Helena Janeczek, tutti provenienti dall'Europa centrale.104 In questi testi il filo rosso della narrazione è spesso costituito dal tema del viaggio: un viaggio nello spazio, cioè un ritorno nel paese d’origine della propria famiglia, ma anche un viaggio nel tempo, cioè una ricostruzione della storia famigliare che è stata obliterata dalla Shoah. 101 Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 20. Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. II. 103 Ivi, pag. XVII. 104 Ivi, pag. III. 102 30 Oltre alla memoria della storia vissuta e del trauma della deportazione nazista, l’altro denominatore comune della comunità ebraica, come afferma lo Speelman, è il sentimento di essere diversi.105 Prima di concludere questo capitolo, riprendiamo il discorso sulla identità ritrovata e sulla diversità ebraica. Una volta finite le atrocità della seconda guerra mondiale, Giampierro Carocci sostiene che è lecito parlare di una terza emancipazione, dopo quella napoleonica nel 1797, e quella seguita al Risorgimento tra il 1848 e il 1870. Ciò che distingue, sempre secondo il Carocci, la terza emancipazione dalle due precedenti è che essa non promuove più l’assimilazione ma sembra invece rifiutarla perché viene considerata come perdita completa della diversità ebraica. 106 Si è visto che prima della promulgazione delle leggi razziali l’ebraismo apparteneva alla sfera privata ed era rinchiuso nell'ambito familiare, mentre adesso costituisce una componente identitaria ben più evidenziata. Con una serie di immagini Giacomo Debenedetti ci offre una descrizione molto profonda di questa anima ebraica ritrovata: Sentirsi ebrei sarà un sentir rinascere dal fondo - nelle ore di più geloso raccoglimento, ore quasi inconfessabili tanto sono intime - vecchie cantilene sinagogali, udite ai tempi dell'infanzia nella pigra monotonia di grevi crepuscoli, in una luce di ceri stanchi che tremava sulla berretta del cantore, solo in piedi, laggiù sul tabernacolo deserto: e su quelle cantilene l’anima si inflette in errabonde ricerche del tempo perduto: desolati a tu per tu con squallori senza tempo, bruciori di lacrime mal riasciugata, tremolar di sorrisi senza scampo, un abbracciarsi con le ombre dei limbi, struggenti agnizioni di avi mai conosciuti, e un segreto di inenarrabili malinconie, e il crollare indefesso contro invisibili muri del pianto.107 Se prima delle leggi razziali l’identità nazionale fu più forte di quella ebraica, che Umberto Saba chiama non più che «una nota di colore» nel «mondo meraviglioso». 108 Oggi, ci sembra lecito supporre che identità nazionale e identità ebraica siano di pari importanza. In quanto al dibattito sull’assimilazione e sulla particolarità dell’identità ebraica nella società contemporanea, anche Henry Stuart Hughes si è chiesto se non sia possibile essere assimilati al gruppo maggioritario e allo stesso tempo custodire la propria eredità ebraica, ovvero la 105 Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli spazi della diversità, cit., pag. 79. 106 Giampierro Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 123. 107 Giacomo Debenedetti, Otto ebrei in Id., 16 ottobre 1943, con una prefazione di Natalia Ginzburg, Torino, Einuadi, 2001, pp. 68 – 69. 108 Umberto Saba, citato in Cosimo Cucinotta, Le parole ritrovate: itinerari testuali del primo Saba, Cosenza, Pellegrini, 2005, pag. 13. 31 possibilità di appartenere e differenziarsi allo stesso tempo.109 La storia degli ebrei, secondo il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, si è sempre caratterizzata per l’oscillazione fra l’adozione della cultura della maggioranza, e la tendenza a conservare la propria diversità culturale. Il problema interiore dell’identità ebraica è quindi l’oscillazione fra «il desiderio di cancellare la differenza e desiderio di conservarla. [...] C'è un desiderio oscuro – continua il Jankélévitch – in ciascuno di noi di livellare, di negare questa differenza, e un desiderio di preservarla come un fiore raro, come una pianta preziosa che dovremmo coltivare in noi.»110 Soprattutto in seguito al processo di Eichmann e alla nuova ondata di antisemitismo a partire dagli anni Ottanta, questa duplicità esistenziale degli ebrei è diventata qualcosa da coltivare e preservare. La maggior parte degli ebrei, secondo Carocci, non torna all’ortodossia e non avverte la loro identità strettamente in legame alla religione ebraica, ma «alla appartenenza, una appartenenza resa granitica dalla memoria della Shoah.»111 Anche se il senso di appartenere non si manifesta mai nello stesso modo, l’ebraismo sembra sempre essere, come afferma Giorgio Bassani, «qualcosa di più intimo.»112 Anche il critico Giacomo Debenedetti si è chiesto «che cosa sia l'ebraismo negli ebrei» e conclude che «è questione da non venirne a capo così facilmente. In ogni caso, si tratta d'una faccenda di stretta intimità.»113 L’anima ebraica costituisce quindi una componente identitaria fondamentale, indefinibile pur sempre presente, e per questa ragione porta con sé una continua riflessione su di essa. Anche Natalia Ginzburg, di padre ebreo e madre cattolica, si trova intrappolata fra cattolicesimo e ebraismo e ha fornito una definizione della propria diversità ebraica nella prefazione al libro del Debenedetti: la diversità degli ebrei [è] di una qualità strettamente segreta, privata e intima, come un tenue segno stampato nello spirito, profondo e tenue, così profondo e così tenue che non può non tradursi in nulla che non appartenga allo spirito.114 109 Henry Stuart Hughes, Prisoners of Hope, cit., pag. 2. Vladimir Jankélévitch, La coscienza ebraica, citato in Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 11. 111 Giampierro Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 127. 112 Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, in Id., Il Romanzo di Ferrara, Milano, Mondadori, 1973, pag. 268. 113 Giacomo Debenedetti, Otto ebrei in Id., 16 ottobre 1943, cit., pag. 68. 114 Natalia Ginzburg, Prefazione a Giacomo Debenedetti, 16 ottbbre 1943, cit., pag. XI. 110 32 E conclude che: Non è forse questa diversità assai simile a quella di ogni altro diverso, ciò che gli ebrei, o meglio in generale gli uomini (poiché in ogni uomo può nascondersi un ebreo o un diverso) devono soprattutto coltivare e difendere, non certo con la violenza né con le armi, ma con ogni facoltà del proprio essere e del proprio pensiero? 115 Gli scrittori di origine ebraica delle ultime generazioni sono, a nostro giudizio, caratterizzati dalla volontà di unire e sincronizzare «la doppia cittadinanza», pur sempre mantenendo e coltivando la loro «qualità strettamente segreta, privata e intima». 116 Per questo motivo, non ci sorprende che il tema dell’interrogarsi sulla propria identità sia un tema ricorrente nelle loro opere. Concludendo questo capitolo, sosteniamo che il richiamo all’ebraismo e il ritrovato interesse per la propria identità è ben visibile nella produzione letteraria degli scrittori ebrei d’oggi: mentre all’inizio del secolo manca quasi ogni riferimento all’ebraismo, oggi, la letteratura sembra diventare un mezzo di manifestazione ed esplorazione della propria identità e della propria diversità. «La scrittura ebraica d’Italia, supposto che se ne possa effettivamente parlare» – ribadisce la scrittrice contemporanea italiana di origine ebraica Elena Loewenthal – «è essenzialmente una scrittura autobiografica, o in modo palese oppure fra le righe.» Raccontando di se stessi, sempre secondo la scrittrice, gli ebrei vogliono ribadire la propria esistenza e dire che «siamo. Esistiamo. E soprattutto: siamo esistiti.»117 115 Ibidem. Giampierro Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 125. 117 Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 156. 116 33 III. Il mosaico ebraico: letteratura e memoria ebraica 3.1. Introduzione: il secolo della memoria Nel capitolo precedente si è visto che le due parole chiave del nostro discorso sono identità e memoria in quanto fondamentali per la produzione letteraria dello scrittore italiano di origine ebraica. Abbiamo già brevemente toccato il tema della memoria nella tradizione letteraria degli ebrei, però sostanzialmente legato alla memoria del trauma delle atrocità del secolo scorso. Si è visto che nell’immediato dopoguerra vi è fra gli ebrei una necessità notevole di raccontare e di fissare subito la memoria dell’offesa perché far sapere significa impedire che si dimentichi. Ricordare è quindi un compito etico e la scrittura, di conseguenza, si trova spesso ad assolvere un ruolo cruciale nel compito di sottrarre all’oblio la memoria. Mentre il capitolo precedente si è soprattutto soffermato sul rapporto fra l’identità ebraica e la produzione letteraria lungo il Novecento, lo scopo del capitolo presente è quello di indagare l’importanza del tema della memoria nella tradizione ebraica e vedremo come lo strumento della memoria sia divenuto la chiave per definire l’identità degli scrittori ebrei. Infine, ci proponiamo di approfondire il rapporto fra la memoria e la scrittura. Oggi, la memoria, intesa come ricordo del passato, è un tema che si trova spesso al centro dell'attenzione degli studi sociali culturali, tanto che il ventesimo secolo è spesso stato chiamato il “secolo della memoria”. L’interesse verso la memoria, sia individuale che collettiva, si accentua alla fine del ventesimo secolo tanto che si può dire, come ha sostenuto Jay Winter, che si è verificato un vero «memory boom» nella cultura moderna, in cui romanzi e saggi dedicati alla testimonianza del passato hanno tutti un enorme successo editoriale. 118 I motivi di questo rinnovato interesse per la memoria sono molteplici. Nel suo celebre saggio Les lieux de mémoire lo storico francese Pierre Nora afferma, quasi paradossalmente, che «si parla tanto di memoria solo perché questa non esiste più». 119 Il venir meno della memoria, secondo la tesi di Nora, sarebbe dovuto «all'accelerazione della storia», intesa come «an increasingly rapid slippage of the present into a historical past that is gone for 118 Jay Winter, Remembering War: The Great War Between Memory And History In The Twentieth Century,Yale, University Press, 2006, pag. 276. 119 Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, traduzione di Anna Rossi-Doria, citato in Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 14. 34 good», che deriva dall’accelerazione della vita moderna, spinta dal processo di globalizzazione e dallo sviluppo della cultura di massa.120 La distanza fra passato e presente è talmente incolmabile che, secondo Nora, non esistono più dei milieux de mémoire (ambienti reali della memoria) nelle «hopelessly forgetful modern societies, propelled by change.»121 Per ristabilire, quindi, un ponte tra passato e presente, le società sono costrette a costruire artificialmente dei lieux de mémoire (luoghi di memoria) in cui si conservano le tracce del passato con cui si è ormai perso ogni contatto. Legato a questa necessità di commemorare il passato è anche il venir meno dei testimoni diretti delle atrocità del secolo scorso. A proposito di questo, anche Primo Levi ha ricordato che «la maggior parte dei testimoni, di difesa e di accusa, sono ormai scomparsi» e che quelli che rimangono «dispongono di ricordi sempre più sfuocati e stilizzati».122 È, dunque, compito delle società conservare la memoria del passato, la quale, «without commemorative vigilance, history would soon sweep [...] away.»123 Un’altra causa, da un punto di vista storico-politico, di questo rinnovato interesse verso la memoria e la sua conservazione è, come ricorda Rossi-Doria, legata al crollo delle grandi ideologie che hanno segnato il secolo scorso.124 Con il fallimento delle ideologie, simbolicamente rappresentato dal crollo del muro di Berlino, «le promesse di un avvenire migliore che risuonavano ancora negli anni Sessanta e Settanta [...] avevano cessato di risuonare nello spazio europeo.»125 Da allora, non si guardò più al futuro con ottimismo, ma al passato, il quale è diventato la «sola promessa di continuità».126 A questo si aggiunga che la crisi di un’ideologia porta sempre con sé un vuoto di identità, sia a livello individuale che collettivo, che la memoria del passato potrebbe andare a colmare. Infatti, la fine delle ideologie novecentesche, «attraverso le quali per molto tempo la memoria [e le identità collettive] erano state conservate e trasmesse», ha permesso a diverse nazioni di ridefinire le loro identità nazionali collettive, come per esempio nell’Europa orientale, attraverso la riappropriazione e la riscoperta del passato nazionale.127 Attraverso il recupero del passato si cerca, dunque, di colmare i vuoti lasciati dai grandi conflitti del Novecento. 120 Pierre Nora, Between Memory and History: Les Lieux de Mémoire, in “Representations”, anno 1989, n. 26., pag. 7. 121 Ivi., pag. 8. 122 Primo Levi, Prefazione a Id., I sommersi e i salvati, cit., pag.10. 123 Pierre Nora, Between Memory and History: Les Lieux de Mémoire, cit., pag. 12. 124 Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 15. 125 Nicola Barilli, Il campo di battaglia della memoria. Sulla rappresentazione del passato in Heiner Müller, Tesi di dottorato, Università di Bologna, 2009, pag. 21. 126 Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, traduzione di Anna Rossi-Doria, citato in Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 15. 127 Ibidem. 35 Prima di concludere questa introduzione, bisogna fare una distinzione assai importante fra due modi diversi per affrontare il passato, cioè una distinzione fra la storia e la memoria, che sono due concetti diversi ma intrecciabili che rispondono a due modi distinti per porsi rispetto al passato. Lo storico Jay Winter dichiara appunto che «history is memory seen through and criticized with the aid of documents of many kinds», mentre «memory is history seen through affect.»128 A proposito di questa distinzione fra storia e memoria sono anche famose le parole di Pierre Nora che ribadisce che: Memoria e storia, lontane da essere sinonimi, prendiamo coscienza che tutto le oppone. La memoria è la vita sempre sostenuta da gruppi vivi e a questo titolo, è in evoluzione permanente, aperta alla dialettica del ricordo e dell’oblio, incosciente delle sue deformazioni successive, vulnerabile a tutti gli usi e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze ed improvvise rivitalizzazioni. La storia è la ricostruzione sempre problematica e incompleta di ciò che non è più. La memoria è un fenomeno sempre attuale, un luogo vissuto in un presente eterno; la storia, una rappresentazione del passato. [...] Al centro della storia, opera un criticismo distruttore della memoria spontanea. La memoria è sempre sospetta alla storia, quest’ultima ha come obiettivo di distruggerla e respingerla. La storia è la delegittimazione del passato vissuto. All’orizzonte delle società storiche, ai limiti di un mondo completamente storicizzato, ci sarà una desacralizzazione estrema e definitiva. Il movimento della storia, l’ambizione storica non sono l’esaltazione di ciò è realmente accaduto, ma il suo annientamento.129 3.2. Zakhor: memoria ed ebraismo Anche se il tema della memoria è un tema di interesse universale, nella nostra riflessione il focus dell’attenzione sarà mantenuto sull’importanza del tema della memoria nella tradizione ebraica. È peraltro noto che la memoria svolge un ruolo cruciale nella tradizione ebraica. Gli ebrei sono, come nessun altro popolo, affascinati dalla memoria. O, come afferma lo scrittore italiano contemporaneo di origine ebraica Alessandro Schwed: gli ebrei sono professionisti della memoria, sono “uomini d’aria”, sempre al centro di un contenzioso della storia. Al tempo dell’esilio di Nabucodonosor per conservare la memoria dell’esatta pronuncia della parole adottarono la punteggiatura sotto le lettere 128 Jay Winter, The performance of the past: memory history, identity, in AA.VV., Performing the past: Memory, History, and Identity in Modern Europe, a cura di Jay Winter et al., Amsterdam, University Press, 2010, pag. 12. 129 Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, traduzione di Anna Rossi-Doria, citato in Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 20. 36 e così preservarono un aspetto prezioso della loro identità. E’ una storia piena di poesia, che ci riporta al grande valore attribuito dall’ebraismo alle proprie radici.130 L’importanza delle memoria è anche visibile nel Tanakh. La parola ebraica Zakhor è un’imperativo che significa «ricorda!» e ricorre, come nota lo storico ebreo Yosef Hayim Yerushalmi, non meno di centosessantanove volte nel Tanakh.131 Il Tanakh, sempre secondo il Yerushalmi, «non sembra avere esitazioni nel prescrivere il ricordo» e esso è «sempre di importanza cardinale.»132 Si pensi, per esempio, al precetto biblico di effettuare alla cena pasquale il rituale del seder durante il quale si istruiscono i propri figli, attraverso la lettura della Haggadah di Pesach (il testo che si legge durante la cena), in merito alla storia dell’esodo del popolo ebreo dall'Egitto dei Faraoni.133 Ogni ebreo è poi tenuto a considerare questa storia «come se lui stesso uscisse dall'Egitto.» (Pesachim 116:b) Il precetto di tramandare la memoria ai posteri e di ricordarsi della propria origine è quindi fortemente impresso nella coscienza ebraica; perciò non è sorprendente che il ricordo della propria origine costituisca spesso il filo rosso nelle opere di scrittori d’origine ebraica. Il ricordo delle proprie radici è centrale nel racconto di Argon di Primo Levi in cui lo scrittore racconta la storia della piccola comunità ebraica del Piemonte in cui è cresciuto. Questa comunità, così come il gergo che parlava, è quasi completamente scomparsa e sta per scivolare per sempre nell'oblio. L’unica cosa che è rimasta di questa comunità è il ricordo dello scrittore stesso. Attraverso il recupero delle parole, dei costumi e delle storielle, Levi cerca di riportare in vita il ricordo di questa comunità «nobile, inerte e rara» e di serbarne una testimonianza.134 Lo scopo di questo racconto, dunque, non è semplicemente un esercizio nostalgico, non è raccontare i bei tempi passati ma preservare e tramandare, non importa quanto vecchio, il ricordo ancora vivo degli antenati «figés dans une attitude.»135 È la storia di una comunità che chiede di non essere dimenticata. Attraverso la scrittura Primo Levi le assicura la sopravvivenza nel flusso del tempo. 130 Daniela Gross, intervista con Alessandro Schwed: “Dobbiamo ricostruire le emozioni”, Moked: il portale dell’ebraismo italiano, 21 gennaio 2009. A disposizione online: http://moked.it/blog/2009/01/21/memoria-5alessandro-schwed-dobbiamo-ricostruire-le-emozioni/ (ultima verifica 28 maggio 2012). 131 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, traduzione di Daniela Fink, con introduzione di Harold Bloom, Firenze, Giuntina, 2011, pag. 39. 132 Ibidem. 133 Il precetto biblico che prescrive di raccontare al proprio figlio la storia dell’uscita dall’Egitto, contenuta nell'Haggadah, si trova nell'Antico Testamento e dice così: «in quel giorno tu istruirai tuo figlio: E' a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall'Egitto.» (Es. 13: 8) 134 Primo Levi, Argon, in Id., Il sistema periodico, cit., pag. 4. 135 Ivi, pag. 13. 37 Questo tema del recupero del passato attraverso il ricordo di parole e di costumi fa subito pensare all’opera di Natalia Ginzburg, in specifico al suo Lessico Famigliare. Anche qui, il tema centrale è il ricordo della propria famiglia ebraica, il quale viene richiamato attraverso la memoria di parole ed espressioni sentite ripetere tante volte nel mondo famigliare. In questo romanzo di memoria si legge: Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà - egregio signor Lippman - e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L'ho sentita già tante di quelle volte!".136 Il messaggio di questo testo che si dimostra essere molto simile a quello di Primo Levi, è che il ricordo, attraverso le parole e le espressioni, è più che un richiamo alla propria infanzia o al proprio passato, è «la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo.»137 In questo senso, il passato viene salvato dall’oblio attraverso la sua riattualizzazione nel presente: il ricordo della famiglia continua a vivere fintanto che ne vengono ripetute le parole.138 Attraverso il recupero della memoria si cerca, dunque, di unire il passato con il presente e di tenere viva una tradizione anche se minoritaria. Tuttavia, in ciò che segue, vedremo che questa volontà di ricordare va pure oltre lo scopo di tenere vivo il ricordo e di arrestare il 136 Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, in Ead., Opere, Milano, Mondadori, 1986, 2 voll., vol. I, pp. 920 – 921. Ibidem. 138 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pag. 83. 137 38 tempo sulla pagina scritta. Il ricordo di un tempo passato fa parte del ricordarsi di appartenere ad un certo gruppo, cioè, nei casi sopra citati, alla comunità ebraica del Piemonte per Levi e all’unità famigliare per la Ginzburg. Infatti, nel caso della Ginzburg, come ha osservato Sergio Parussa, le espressioni famigliari sono più che «un’antologia di nostalgia», sono il «fondamento della unità famigliare» la quale viene rianimata ogni volta che ne viene pronunciata una, perfino quando la casa famigliare non è più che «il buio di una grotta.»139 Per questo ci sembra lecito supporre che esista un legame forte fra la ricerca di un tempo perduto e la ricerca di una parte andata perduta della propria identità. 3.3. Alla ricerca dell’identità perduta: memoria e identità ebraica In quanto al rapporto fra memoria e identità, è lecito sostenere che la memoria individuale sia una parte fondamentale del proprio essere. Tanto è vero che senza la memoria si è spogliati della propria origine e, di conseguenza, della propria identità personale. Nello stesso modo, è lecito affermare che la memoria collettiva è il fondamento dell'identità collettiva di un gruppo. Come afferma Jay Winter, «the performative act of remembrance is an essential way in which collective identities are formed and reiterated.»140 La memoria, sia privata che collettiva,141 è dunque un elemento costitutivo dell’identità, sia a livello individuale che collettivo, che serve a rafforzare i legami tra i diversi membri di un gruppo che hanno una comune eredità. Il processo di ricordare diventa in questo modo un processo dinamico di autoscoperta e di autodefinizione. Questo è specialmente vero per gli ebrei della diaspora che hanno vissuto come minoranza sparsa per il mondo. A prima vista, ciò che sembra essere il fattore principale per 139 Ibidem. Jay Winter, The performance of the past: memory history, identity, cit., pag. 15. 141 La differenza fra “memoria collettiva” e “memoria individuale” è stata oggetto di un lungo dibattito. Alcuni sostengono, tra cui il primo fu Aristotele, che la memoria sia un fenomeno puramente soggettivo che appartiene soltanto all’individuo mentre altri, in specifico il filosofo francese Maurice Halbwachs, sostengono che la memoria sia un fenomeno collettivo, completamente determinato dal gruppo (nazionale, etico, ecc) a cui si appartiene. Secondo la visione di Halbwachs, non esiste affatto una memoria individuale perché ogni singolo ricordo è determinato da un pensiero collettivo. Esiste, inoltre, una terza visione di compromesso: la memoria è un fenomeno sia individuale che collettiva. Questo è il punto di vista di, per esempio, Paul Ricœur. Per il resto del lavoro presente, quando facciamo riferimento al concetto di “memoria”, intendiamo la memoria come un’interazione fra l’individuale e il collettivo. Anche Xavier Lavenne e altri hanno affermato che questo livello intermedio è il più importante negli studi letterari: «literary scholars will often deal with novels in which characters, the narrator, even the writer himself recount their personal experiences, but in which these personal narratives transcend the individual and concern a much larger group of people, sometimes mankind in its totality.» cfr. Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective memory: a methodological reflection, in “The New Arcadia Review”, anno 2005, vol. 3. A disposizione online: http://www.bc.edu/publications/newarcadia/archives/3/fiction/ (ultima verifica 6 luglio 2012). 140 39 l’identificazione dell’ebreo è la religione ebraica. Tuttavia, abbiamo visto che non ogni ebreo è credente, ma questo, se non si considera la questione dal punto di vista dell’ortodossia, non significa che ha cessato di essere ebreo. Siccome «ogni identità è suscettibile di mutamenti di generazione in generazione [...] è difficile definire anche quella ebraica.»142 In quanto alla problematica definizione dell’identità ebraica, si è visto nel capitolo precedente che essa è caratterizzata dalla tensione fra assimilazione e coscienza di diversità. L’identità dell’ebreo è dunque un’identità frammentata, come un mosaico composto di tessere di colori vari, che viene ridefinita in relazione al contesto culturale in cui questa identità si colloca. Tuttavia per mantenere vivo il legame con la propria ebraicità, è fondamentale per l’ebreo ricordarsi della propria appartenenza. Più che altro, dunque, diremmo che è la memoria che definisce l’identità ebraica. Per questo, nella parte che segue approfondiamo ancora alcune considerazioni sull’importanza della memoria nell’ebraismo in quanto legata alla ricerca identitaria degli ebrei. Innanzitutto, bisogna tener conto del modo specifico in cui gli ebrei scelgono di trasmettere il loro passato. All’inizio del capitolo si è visto che storia e memoria sono due modi diversi per porsi rispetto al passato. La memoria, come si è visto, tenta di unire il passato con il presente, mentre la storia sottolinea la «irreparabile separazione» fra passato e presente.143 Si potrebbe, perciò, sostenere, come afferma Rossi-Doria, che «la memoria rifiuta la morte e la storia la accetta.»144 Tuttavia, questo rapporto già assai problematico fra storia e memoria viene ulteriormente complicato nella tradizione ebraica perché gli ebrei hanno una concezione ancora più specifica di cosa significa fare e scrivere storia. L’ebraismo, secondo Sergio Parussa, prendendo spunto dallo studio di Stefano Levi Della Torre, presenta un modo ancora più particolare per volgersi al passato; secondo l’autore è tipicamente ebraico trattare la storia come una memoria attiva.145 A proposito di questa percezione del passato, specificamente ebraica, Stefano Levi Della Torre sostiene che: il senso storico moderno ci ha abituati a tradurre la memoria in storia, l’esperienza vissuta e tramandata in un sapere oggettivato e misurabile, la sincronia della coscienza nella diacronia dei fatti. L’ebraismo mi sembra proporre il movimento inverso: traduce la storia in memoria, l’evento e l’analisi delle cause in strutture mentali e di 142 Marco Aime, Eccessi di culture, citato in Maria Carmela D’Angelo, La dimensione transculturale della letteratura in lingua italiana di scrittori afferenti alla cultura ebraica del Novecento postbellico, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 168. 143 Anna Rossi-Doria, Il culto della memoria, in Ead., Memoria e storia: il caso della deportazione, cit., pag. 1. 144 Ibidem. 145 Ivi, pag. 3. 40 comportamento, le quali sono intessute di relazioni reciproche e transitive, quali sono le spiegazioni causali e le concatenazioni temporali.146 Piuttosto che assicurare che il passato venga accolto nella grande storia umana ossia, come afferma Della Torre, nel «sapere oggettivato e misurabile», l’ebreo intende far entrare il passato nel proprio presente. Trattare poi la storia, anche se lontana, come una memoria attiva significa anche che il passato non si lascia mai morire, come scrive Giorgio Bassani: il passato non è morto [...] non muore mai. Si allontana, bensì, ad ogni istante. Ricuperare il passato dunque è possibile. Bisogna tuttavia, se proprio si ha voglia di ricuperarlo, percorrere una specie di corridoio ad ogni istante più lungo. Laggiù, in fondo al remoto, soleggiato punto di convergenza delle nere pareti del corridoio, sta la vita, vivida e palpitante come una volta, quando primamente si produsse. Eterna, allora? Eterna. E nondimeno sempre più lontana, sempre più sfuggente, sempre più restia a lasciarsi di nuovo possedere.147 Attraverso l’atto di ricordare, come sostiene lo scrittore ferrarese, è possibile salvare il passato dalla morte che è il trascorrere del tempo. La scissione fra storia e memoria nella tradizione ebraica è anche il tema dello studio dello storico ebraico Yosef Hayim Yerushalmi, il quale sostiene che «quegli ebrei che cercano ancora di mantenersi all’interno del cerchio incantato della tradizione [...] considerano il lavoro dello storico del tutto irrilevante: essi non cercano la storicità del passato, ma la sua eterna, immutabile contemporaneità.»148 Egualmente «antistorico» è l’atteggiamento degli ebrei moderni che «sembrano spesso soffrire di una nostalgia lancinante per un passato che non c’è più.»149 Anche questi ebrei moderni, sempre secondo Yerushalmi, preferiscono non affrontare direttamente la storia, ma stanno aspettando «un nuovo mito metastorico, per il quale il romanzo fornisce almeno un surrogato temporaneo.»150 Gli ebrei hanno, quindi, sempre avuto «un’idea più personale e soggettiva della storia» a cui si sentono sempre strettamente legati. 151 La storia, secondo Yerushalmi, «come autentica registrazione degli avvenimenti storici», non è il mezzo principale «tramite il quale la memoria collettiva del popolo ebraico è stata stimolata a risvegliarsi», al contrario, il compito di risvegliare la memoria ebraica spetta alle comunità ebraiche stesse.152 146 Stefano Levi Della Torre, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei, cit., pag. 42. Giorgio Bassani, Laggiù, in fondo al corridoio, in Id., Romanzo di Ferrara, cit., pag. 732. 148 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 129. 149 Ivi., pag. 130. 150 Ibidem. 151 Ibidem. 152 Ivi., pag. 40. 147 41 Per meglio illustrare questo punto, ci riferiamo ancora una volta al rituale del racconto della Haggadah di Pesach durante la Pasqua ebraica. A questo proposito, Yosef Hayim Yerushalmi ha ribadito che questo rituale non è «uno studio delle nostalgie ebraiche», ma rappresenta una sorta di «unione fra la memoria ebraica e la storia ebraica». 153 Attraverso questa unione fra storia e memoria, sostiene Yerushalmi, «la memoria della nazione viene ogni anno rinnovata e ricostituita, e la speranza collettiva viene rafforzata.»154 La storia serve poi nel presente come «una struttura mentale e di comportamento» che implica che non ci si può mai dimenticare delle proprie radici.155 «Il fare la storia nel senso ebraico» - commenta Stefano Levi Della Torre – «mi sembra consistere soprattutto nel ripetersi». 156 In questa ottica, la storia diventa, attraverso un continuo ripetersi, una memoria attiva che continua a formare l’identità sia individuale che collettiva degli ebrei. Appunto, per questo motivo, come ribadisce Yerushalmi più avanti, «molti ebrei di oggi sono in cerca di passato, ma ovviamente non del passato che può offrire loro lo storico.»157 In conseguenza di ciò, quando viene evocato un tempo lontano, non sono necessariamente i fatti storici concreti che contano ma, piuttosto, il significato che assumono quando vengono riattualizzati nel presente. Per esemplificare ancora meglio questo ragionamento, Sergio Parussa stabilisce un’analogia fra l’atto del trasformare la storia in memoria e la disciplina della psicoanalisi, che forse non a caso ha preso l'avvio dal lavoro di Sigmund Freud, anch’egli di origine ebraica. 158 Nel trattamento psicoanalitico il paziente fa spesso ritorno alla propria infanzia non con l’intento di ricostruire il passato ma con lo scopo di scoprire dei frammenti di ricordi che sono ancora attivi nel presente e continuano a influenzare il presente del paziente. A questo si aggiunge poi la famosa metafora archeologica in cui Freud confronta il lavoro dell'archeologo con quello dello psicoanalista, il quale «nei suoi scavi, deve scoprire strato dopo strato la psiche del paziente, prima di raggiungerne i tesori più profondi e preziosi.»159 Attraverso il ricordo, e la permanente riattualizzazione della storia, si va alla ricerca di questi «tesori più profondi e preziosi» che costituiscono il mosaico dell’identità dell’ebreo. La memoria, specie per gli 153 Harold Bloom, Introduzione a Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 13. Ibidem. 155 Stefano Levi Della Torre, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei, cit., pag. 42. 156 Ibidem. 157 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 130. 158 In quanto all’ebraismo di Freud, Giampiero Carocci ricorda che Freud «si è sentito legato all’ebraiso da “forze occulte, sentimenti indefinibile e proprio per questo tanto potenti” e ha considerato la sua ebraicità un mistero.» La psicoanalisi, secondo alcuni, fu ideata da Freud come modo per reinterpretare l’ebraismo attraverso il mezzo scientifico. Tuttavia, Freud ha cercato di nascondere con forza la propria identità ebraica perché, con l'ascesa del nazismo, voleva impedire che la psicoanalisi diventasse “una scienza ebraica”. Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 39. 159 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit., pp. 2 – 3. 154 42 ebrei, diventa in questa prospettiva un potente strumento di conoscenza del sé e, di conseguenza, della propria ebraicità. Non è sorprendente, quindi, come osserva Yerushalmi, che i tentativi di ricostruire il passato ebraico siano compiuti soprattutto nei momenti in cui si sente «una brusca frattura nella continuità della tradizione, e di conseguenza una costante diminuzione della memoria collettiva.»160 Infine, il recupero del passato ebraico non serve unicamente a rimettere se stessi in contatto con la propria ebraicità, ma anche a ristabilire, attraverso la dimostrazione dell’attualità dell’ebraismo, una connessione fra la cultura ebraica e il mondo dei goyim (‘non ebrei’). L’ebreo moderno e assimilato, anche in età contemporanea, come si è visto, cerca di mantenere nella società multietica qualcosa della sua diversità perché essa viene vista come un arricchimento dell’identità. Un esempio di questo si è visto nel capitolo precedente in cui abbiamo sostenuto che il richiamo all’ebraismo durante gli anni del fascismo fu un primo atto di resistenza da parte degli ebrei contro il tentativo nazista di estinguere l’ebraismo come cultura viva. Oggi, tenere vivo il ricordo del passato ebraico e delle vecchie tradizioni è un compito etico con cui l’ebreo cerca, inoltre, di profilare l’ebraismo come cultura viva e vitale nel melting pot della società contemporanea, soprattutto in un paese come l’Italia in cui l’ebraismo è «tanto presente quanto sconosciuto». 161 Attraverso la riattualizzazione dei temi ebraici nella cultura italiana contemporanea viene ribadito che «il recupero di un senso di appartenenza all’ebraismo non si riduce a cultura museale, a monumento, a memoriale del passato».162 In questo modo, come si è anche visto all’inizio del capitolo presente, con il caso di Primo Levi e, in misura minore, di Natalia Ginzburg, la memoria diventa un modo per ritrovare un senso di appartenenza all’ebraismo, e allo stesso tempo, un modo per salvaguardare la cultura ebraica. In conclusione, attraverso l’atto di trasformare la storia in memoria, l’ebreo cerca di far riemergere dei residui del passato per arrivare a una migliore comprensione della propria identità. «Siamo il nostro passato – scrive Elena Loewenthal – lo portiamo addosso visibile e tangibile come parte della nostra quotidianità.»163 Il passato ci aiuta, dunque, a capire chi siamo attraverso il ricordo di chi siamo stati. Come nella favola di Pollicino, ricorda la 160 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 118. Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 148. 162 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 2. 163 Elena Loewenthal, Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, cit., pag. 183. 161 43 Loewenthal, ripercorrere la memoria significa «ripercorrere il cammino a ritroso racimolando quelle bricioline lasciate per terra» così da poter «capire fin dove si è arrivati».164 3.4. Letteratura e memoria 3.4.1. La scrittura di memoria: tra ricordare e agire Finora, abbiamo visto che la memoria ha la finalità di una ricerca identitaria. Adesso, vedremo che la memoria, e la scrittura di essa, persegue una finalità etica specifica in quanto legata all’ebraismo. Anche Alberto Cavaglion, uno studioso degli ebrei in Italia, sostiene che il ricordo nella tradizione ebraica ha «una funzione etica» perché ricordarsi del passato significa «compiere un’azione virtuosa.»165 Se ritorniamo ancora alla parola zakhor, Harold Bloom afferma nell’introduzione al libro di Yerushalmi che tale parola ha una gamma di significati più vasta del ricordare italiano perché in ebraico «ricordare è anche agire».166 Piuttosto che «una sorta di curiosità per il passato», continua Bloom, il ricordo è «un particolare tipo di azione.»167 In conseguenza di ciò, come sostiene anche Parussa, «la memoria, e con essa la scrittura che ne è il veicolo, diventa fonte di libertà e responsabilità».168 La scrittura, da un parte, diventa una libertà con cui si è in grado di affermare la propria diversità. Infatti, come già brevemente menzionato nel capitolo precedente, è la scrittrice contemporanea italiana di origine ebraica Elena Loewenthal che ribadisce che «raccontando di luoghi, di volti, di episodi vissuti davvero, di oggetti esistiti, di momenti trascorsi, di vite e affetti perduti, di esperienze che hanno lasciato un segno indelebile, si ribadisce la propria presenza, si rimuove il sospetto ancora latente che gli ebrei siano astratti» e – continua la scrittrice – «scrivendo e raccontando, è come battere i pugni sul tavolo e dire: siamo qui, in carne ed ossa».169 Per questo motivo, non ci sorprende che si trovino molti elementi autobiografici negli scritti di autori di origine ebraica. In forte contrasto, quindi, con la tendenza rilevata all’inizio del Novecento «a rivelarsi con molta riluttanza in quanto ebrei», 164 Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 155. Alberto Cavaglion, Gli ebrei tra storia e memoria: un piccolo decalogo, in AA.VV., Interpretare la differenza, a cura di Laura Di Michele et al, Napoli, Liguori, pag. 193. 166 Harold Bloom, Introduzione a Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 14. 167 Ibidem. 168 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 32. 169 Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 155. 165 44 oggi, la scrittura è diventata un modo principale per ribadire la diversità ebraica in Italia.170 Oppure come scrive un’altro scrittore contemporaneo di origine ebraica, Miro Silvera, l’imperativo di scrivere «è più che mai quello di raccontarsi e di raccontare le diversità, troppo a lungo taciute.»171 Dall’altra parte, la scrittura di memoria diventa, oltre a una libertà di espressione, una responsabilità. In altre parole, come sostiene Parussa, la memoria diventa «una forza dinamica in grado di affrontare e correggere le ingiustizie del passato e di ispirare speranza nel futuro.»172 In primo luogo, il recupero del passato diventa una responsabilità: quella di testimoniare il passato e, conseguentemente, tener vivo il suo ricordo e far sopravvivere nelle generazioni più giovani le vecchie tradizioni, i riti antichi, e, soprattutto, la storia di un popolo. La scrittura di memoria, come modo per conservare il passato, lascia così spazio «a un futuro sconosciuto, imperscrutabile» e diventa poi un modo essenziale per assicurare la sopravvivenza della cultura ebraica in Italia.173 Attraverso la scrittura di memoria, l’ebreo intende «ripercorrere le tracce del proprio passato per conservarlo quando sembra sfuggire, per tramandarlo quando sembra non interessare più a nessuno».174 La memoria, e la scrittura che ne è il veicolo, sono quindi essenziali per assicurare la sopravvivenza identitaria di un popolo che ha trascorso la propria storia sparso per il mondo. La letteratura ebraica, come ribadisce Elena Loewenthal, è un modo per dire «voglio sopravvivere, voglio fare sopravvivere.»175 In secondo luogo, scrivere del proprio passato è un modo per far sapere al mondo le difficoltà a cui gli ebrei hanno dovuto far fronte lungo la loro esistenza. Questo è soprattutto vero per le memorie degli ebrei del Novecento in cui un posto centrale è occupato dalla Shoah. Primo Levi, in merito, afferma ,all’inizio di Se questo è un uomo, che il libro non è stato scritto allo scopo di «formulare nuovi capi di accusa» ma, al contrario, allo scopo di fornire «uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» affinché si possa arrivare a capire come è stata possibile quell’offesa e non si ripeta mai più una tragedia del genere. 176 La responsabilità del 170 Miro Silvera, La necessità di raccontare, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 154. 171 Ibidem. 172 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 39. 173 Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 156. 174 Ivi, pag. 154. 175 Elena Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 158. 176 Primo Levi, prefazione a Id., Se questo è un uomo, cit., pag. 9. 45 raccontare il passato, oltre a quella di riportare il passato alla memoria, sta quindi anche nella speranza di costruire, ebrei e non ebrei insieme, un futuro migliore. 3.4.2. La scrittura di memoria: tra ricordare e immaginare Secondo Maurice Halbwachs, come ricordano Francois Xavier Lavenne e altri, la scrittura è nemica della memoria perché fissare la memoria in forma scritta significa contribuire alla sua morte come ricordo vivo del passato.177 Un’unica eccezione, sempre secondo Halbwachs, è quando l’ultimo testimone di una certa memoria sta per scomparire e non vi è più altro mezzo per assicurarne la sopravvivenza per le generazioni future. 178 Secondo questa visione, quindi, scrivere la memoria significa trasformarla in storia e, di conseguenza, privarla di vita. Anche Paul Ricoeur, come ricorda Lavenne, si chiede se la scrittura sia «il rimedio» oppure «il veleno» per la sopravvivenza della memoria. 179 Tuttavia, altri hanno una maggior fiducia nel ruolo della scrittura in quanto catalizzatore della memoria: Joël Candau, per esempio, sostiene che l’arte, e più specificamente la letteratura, gioca un ruolo importante nella ricostruzione del passato.180 Anche Lavenne afferma appunto che «the analysis of numerous literary works has indeed shown that it is through the writing process that memory is constructed and that seemingly lost memories can re-emerge.»181 Tuttavia, un primo problema che si pone quando si parla dell’elaborazione letteraria della memoria riguarda il suo rapporto con la veridicità storica. Si badi che, anche se l’opera d’arte può sostenere la memoria, a prima vista le due operazioni perseguono delle finalità diverse: mentre la narrazione letteraria può prescindere dalla realtà storica, la memoria sembrerebbe dovere rimanerla fedele. Questo problema è soprattutto interessante nel trattamento letterario delle memorie della Shoah. Appunto, abbiamo visto che nell’immediato dopoguerra vi fu tra gli ebrei una necessità impellente di mettere in parole la propria esperienza concentrazionaria tanto da poter affermare che l’immagine della Shoah è stata costruita «più nel crogiuolo del romanziere che nell’officina dello storico.»182 Tuttavia, come ricorda Hayden White, dal punto di vista dello storico, al quale importano soltanto i fatti reali, un’elaborazione creativa della propria memoria non viene considerata come una rappresentazione accurata di ciò che è realmente accaduto ma «threatens to aestheticize, fictionalize, kitschify, relativize, and 177 Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective memory: a methodological reflection, cit., pag. 3. 178 Ibidem. 179 Ivi, pag. 4. 180 Ibidem. 181 Ibidem. 182 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor, cit., pag. 130. 46 otherwise mythify what was an undeniable fact» e, quindi, «deprives crucial historical events such as the Holocaust of their moral and cognitive significance». 183 A chi spetta, quindi, il compito di scrivere della Shoah? Tale questione è stata oggetto di un lungo dibattito. Da un lato, vi sono coloro, come, per esempio, il filosofo Berel Lang184 secondo il quale «the aesthetic treatment of the Holocaust [...] subordinates the truth of fact to the egoistic display of the artist’s technique or the ambiguating effects of rhetorical or poetic figuration.»185 Secondo la visione di Lang, «solo la cronaca più letterale dei fatti del genocidio può pensare di superare il test di “autenticità e veridicità” sulla base del quale [...] le versioni letterarie [...] devono essere giudicate.»186 Tuttavia, come sostiene anche White, questo «test di autenticità e veridicità» è soltanto di importanza secondaria quando la memoria si fa arte: this question “Is it true?” is of secondary importance to discourses making reference to the real world (past or present) cast in a mode other than that of simple declaration. This is especially the case with artistic (verbal, aural, or visual) representations of reality (past or present) which, in modernity, are typically cast in modes other than that of simple declaration – for example, the interrogative, imperative, and subjunctive modes. […] I suggest that, when it comes to an artistic version of witness testimony, such as Levi’s Se questo è un uomo, the question of the factual truth of the account is of a lesser importance. It is, rather, a question of mode rather than of mimesis.187 Ciò significa che la finzione, che incorpora la memoria, costituisce un utile strumento per trasmettere ciò che non può essere trasmesso dalle cronache dello storico. Per questa ragione, vi sono, dall’altro lato, coloro che sostengono che la testimonianza della propria memoria merita una ricreazione artistica per rafforzare il suo messaggio. 188 Tale è la posizione dello scrittore spagnolo Jorge Semprùn, sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, il quale sostiene che: 183 Hayden White, Truth and Circumstance: What (if anything) can be properly said about the Holocaust?, in AA.VV., The Holocaust and historical methodology, a cura di Dan Stone, New York, Berghahn Books, 2012, pag. 461. 184 Cfr. Berel Lang, The Representation of Limits, in AA.VV., Probing the Limits of Representation: Nazism and the “Final Solution”, a cura di Saul Friedlänger, Cambridge Ma, Harvard University Press, 1992, pp. 300 – 318. 185 Hayden White, Truth and Circumstance: What (if anything) can be properly said about the Holocaust?, in AA.VV., The Holocaust and historical methodology, cit., pag. 463. 186 Hayden White, Forme di storia: dalla realtà alla narrazione, a cura di Edoardo Tortarolo Roma, Carocci, 2006, pp. 93 – 94. 187 Hayden White, Truth and Circumstance: What (if anything) can be properly said about the Holocaust?, in AA.VV., The Holocaust and historical methodology, cit., pag. 464. 188 Stefania Lucamente, The ‘indispensable’ legacy of Primo Levi: from Eraldo Affinati to Rosetta Loy between History and Fiction, in “Quaderni d’Italianistica”, anno 2003, vol. 24, n. 2., pag. 104. 47 Soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente. Soltanto l’artificio di un racconto abilmente condotto riuscirà a trasmettere in parte la verità della testimonianza.189 A questo si affaccia quindi un altro problema: quello del rapporto fra l’oggetto artistico, che funge da veicolo della memoria, e il ruolo che può avere l’immaginazione, che ovviamente ne è una componente. Anche se, come abbiamo detto, la memoria sembrerebbe dovere rimanere fedele alla realtà storica, non è sempre il caso che la memoria sia una rappresentazione completamente fedele della realtà. Appunto, la memoria è, come scrive Primo Levi, «uno strumento fallace ma meraviglioso» e, di conseguenza, il passato ricordato non coincide mai completamente con il passato realmente avvenuto.190 «I ricordi» - continua Levi – «non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei.»191 Questo è vero soprattutto nel caso di «ricordi di esperienze estreme», come l’esperienza concentrazionaria. A proposito di questo, lo psichiatra Dori Laub ribadisce, che la Shoah è stata «an event without a witness»192 perché «the inherently incomprehensible and deceptive psychological structure of the event precluded its own witnessing, even by its very victims.»193 Tuttavia, anche «in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono.»194 Anche Lavenne sostiene che «memory is more of a constantly updated reconstruction of the past than its faithful reconstitution.»195 In questa prospettiva, dunque, l’immaginazione non è necessariamente nemica della memoria 189 Jorge Semprún, La scrittura o la vita, citato in Carlo De Matteis, Dire l’indicibile: la memoria letteraria della Shoah,cit., pag. 20. 190 Primo Levi, La memoria dell’offesa, in Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 13. 191 Ibidem. 192 A proposito di questo, Primo Levi, similmente, afferma che: «non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «musulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola noi l’eccezione. [...] Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi appunto; ma è soltanto un discorso «per conto di terzi», il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la propria morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e pena, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtú di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega.» Primo Levi, La vergogna, in Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 64 – 65. 193 Dori Laub, Truth and Testimony: the Process and the Struggle, in AA.VV, Trauma: Explorations in Memory, a cura di Cathy Caruth et al., Baltimore, John Hopkins University Press, 2004, pag. 65. 194 Primo Levi, La memoria dell’offesa, in Id., I sommersi e i salvati, cit., pag. 13. 195 Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective memory: a methodological reflection, cit., pag. 6. 48 ma può costituire uno strumento utile per riempire le lacune lasciate dalla memoria quando viene riattualizzato nell’opera letteraria un ricordo troppo lontano, o nel caso della Shoah troppo traumatico. Lo stesso si potrebbe affermare nel caso di scrittura di memoria altrui, in cui l’uso dell’immaginazione «links together the fragments left hanging loose by the voices of the previous generation.»196 In conclusione, si potrebbe affermare che, come ribadisce Lavenne, «memories have a certain plasticity and that, in this sense, imagination and fiction do not just set up obstacles for memory, but are also the sine qua non conditions of its very existence.»197 196 Stefania Lucamente, The ‘indispensable’ legacy of Primo Levi: from Eraldo Affinati to Rosetta Loy between History and Fiction, cit., pag. 92. 197 Francois Xavier Lavenne, Virginie Renard and François Tollet, Fiction, between inner life and collective memory: a methodological reflection, cit., pag. 5. 49 IV. «un nome, non si trattava che di un nome»: identità e memoria ebraica ne Il mio nome a memoria 4.1. Introduzione: Giorgio van Straten ed ebraismo Giorgio van Straten è uno scrittore italiano nato nel 1955 a Firenze. Van Straten iniziò la sua carriera di scrittore nel 1987 con il romanzo Generazione, cui seguirono i romanzi Ho sbagliato foresta (1989), Ritmi per il nostro ballo (1992) e Corruzione (1995). Nel 2000 pubblicò il suo quinto romanzo Il mio nome a memoria in cui ripercorre la storia della famiglia dei van Straten dal 1811 fino a oggi. Con questo libro ha vinto nello stesso anno il Premio Viareggio. Oltre all'attività di romanziere ha anche curato alcuni volumi di saggistica e ha tradotto opere di London, Stevenson e Kipling. Come il suo nome suggerisce, van Straten ha origini nederlandesi. Per parte paterna è discendente di una famiglia ebrea proveniente da Rotterdam. In merito, Giorgio van Straten ha affermato in un articolo, in cui spiega in che cosa consista l’essere ebreo, che «non si è mai considerato un ebreo, e nessuno in casa sua gli ha dato modo di pensare che lo fosse.»198 «Sono stato battezzato cattolico e» – continua van Straten – «ho avuto anche una fase mistica fino ai dodici-tredici anni.»199 Tuttavia, Giorgio van Straten non può neppure dire di aver ignorato la sua eredità ebraica e dichiara che alberga dentro di lui comunque qualcosa di ebreo: Allora, qualcosa di ebreo in noi ci doveva essere, una fetta, un pezzetto, un rischio che continuavamo a correre. Ma in quegli anni la mia domanda non la espressi mai, anzi neppure la formulai consapevolmente nella mia testa. Soltanto in questi ultimi anni, forse perché come scrittore mi sono ritrovato a lavorare prevalentemente sulla memoria, con ciò rintracciando una consonanza con la cultura ebraica che è fatta appunto di scrittura e memoria, mi sono chiesto, e ho chiesto, se i fossi o no ebreo, e, di conseguenza, in cosa consista il fatto di essere ebrei, e quale sia la loro identità.200 198 Giorgio van Straten, In cosa consista l’essere ebreo, in “Nuovi Argomenti”, anno 2001, n. 14, pag. 42. Ibidem. 200 Ivi., pag. 43. 199 50 Dunque, anche nel caso di van Straten, l’ebraismo non è in primo luogo un’appartenenza religiosa, ma, come affermava Giorgio Bassani, «qualcosa di più intimo». Infatti, come ricorda van Straten più avanti, neppure la religione permette «la definizione di un’identità» perché molti sono gli ebrei non credenti ma ciò non significa che «hanno cessato di essere ebrei.»201 Questo spiegherebbe perché lo scrittore, essendo cattolico, sente comunque di avere qualcosa di ebreo dentro di sé. Anche per Giorgio van Straten, quindi, il significato dell’essere ebreo è una questione fondamentale a cui non trova facilmente una risposta. L’identità ebraica sembra essere per lo scrittore «un fatto di sangue e di cultura.»202 «È la comune appartenenza» – continua lo scrittore – «che fa gli ebrei; è il procedere delle generazioni che li tiene insieme.»203 Dunque anche nel caso di Giorgio van Straten la memoria, e la scrittura che ne diventa il veicolo, sono alla base della definizione dell’identità ebraica. L’essere ebreo, come già accennato, consiste nel ricordarsi di appartenere a una tradizione antica e la memoria diventa la chiave per ritrovare questo senso di appartenenza. A proposito di questo, lo scrittore conclude che: l’una e l’altra [la memoria e la scrittura] (spesso insieme) sono la radice e la possibilità di definire e mantenere la propria identità. Questo spiega il gusto della genealogia, dei nomi, della ricostruzione del proprio percorso familiare: essi non sono l’orpello di chi cerca antenati nobili e un blasone, ma una necessità al fine di preservare la propria stessa appartenenza al gruppo. Le memorie, dunque, quella del sangue (oggi si direbbe dei geni), quasi inconsapevole, e quella della cultura, razionale e apprendibile, sono alla base della definizione dell’identità ebraica. E se la memoria storica collettiva è uno degli elementi costitutivi dell’identità nazionale di ogni popolo, ciò che determina la peculiarità degli ebrei è che questa memoria appare come l’unico elemento che sostanzia la loro appartenenza.204 È quindi facile trovare qualche traccia di questo legame fra identità ebraica e memoria nelle opere di van Straten. In un'intervista a Scrittori per un anno, lo scrittore dichiara appunto che «qualcosa di ebreo» si rispecchia anche nel suo modo di scrivere. Infatti, per Giorgio van Straten, la memoria non è soltanto il fondamento dell’identità ebraica, ma anche il fondamento del suo modo di scrivere: 201 Ivi., pag. 47. Ivi., pag. 48. 203 Ibidem. 204 Ivi., pp. 48 – 49 202 51 La memoria, il tempo, il passato, sicuramente, è una base fondante del mio modo di scrivere. Poi perché questo accada? Non so, posso, diciamo, cercare di darmi delle spiegazioni anche nobili. Nel senso, io sono cattolico, ma invece la famiglia da parte di mio padre è una famiglia ebraica e, ovviamente, nella tradizione ebraica l’elemento del racconto e della memoria è assolutamente fondante. Questo potrebbe essere un motivo.205 Lo scopo del capitolo presente è principalmente quello di presentare una analisi, in base al quadro di riferimento teorico proposto nel capitolo precedente, del tema della memoria in relazione a quello dell’identità ne Il mio nome a memoria. Ci proponiamo, inoltre, di indagare il valore etico che contraddistingue questo libro e di verificare, infine, per quanto possibile, la presenza dell’idea ebraica della storia come memoria e in che modo essa si manifesta. 4.2. La storia del nome come una ricerca interiore Interroga dunque le precedenti generazioni, e conformati all’esperienza dei loro padri. Infatti noi siamo di ieri e non sappiamo; un’ombra sono i nostri giorni sulla terra. Ecco, essi ti istruiranno, ti parleranno e trarrai parole dai loro cuori. (Giobbe 8,8 : 10) Il mio nome a memoria è la storia di un nome e della famiglia ebrea che lo porta. Quando morì il padre di van Straten – il 10 dicembre 1988 – lo scrittore si rese conto di quanto poco egli conoscesse suo padre. In quel momento, ammette lo scrittore, nacque l’idea del libro con il quale cerca di trovare qualche risposta alle domande «che ormai non possono avere risposte».206 Attraverso il “viaggio” del nome di van Straten (originariamente con due ‘a’), lo scrittore indaga nel tempo nella speranza di trovare delle risposte, dei «piccoli segni», oppure «un suo messaggio lasciato a futura memoria.»207 La storia prende avvio da Rotterdam nel 1811 – l’anno in cui fu concessa l’emancipazione degli ebrei da un editto del re d’Olanda Luigi Bonaparte che afferma l'uguaglianza delle religioni di fronte alla legge – dove un freddo giorno di dicembre Hartog Alexander deve scegliere un nome per la propria famiglia «in 205 Giorgio van Straten, Lo scrittore si racconta, video intervista a Giorgio van Straten, in “Scrittori per un anno”, Rai Edu, 12 augusto 2008. A disposizione online: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d923540a-9fad-4e1b-9b72-9e1dc2f5dac9.html (ultima verifica 31 maggio 2012). 206 Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000, pag. 22. 207 Ibidem. 52 cambio dei suoi diritti di cittadino.»208 In questo momento decisivo fu segnato il destino della sua stirpe, che lungo il Novecento si disperse per arrivare, dopo sei generazioni, nel 1999, alla Firenze dell’autore. Visto il gran numero di generazioni che vengono narrate, Il mio nome a memoria si qualifica come un esempio tipico del genere del cosiddetto romanzo genealogico. Questo genere letterario, secondo Dominique Budor, si afferma soprattutto a partire degli anni Ottanta e Novanta in vari paesi del mondo.209 Il romanzo genealogico consiste nel ripercorre per intero, o almeno per una parte sostanziale, l’albero genealogico di una famiglia. Ora, si può pensare — e questa sarebbe una spiegazione globale accettabile — che l’interesse verso questo genere sia il frutto del rinnovato interesse verso il passato che caratterizza la civiltà odierna. Tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo precedente e come ribadisce anche Budor, l’interesse per la memoria degli ebrei si sviluppa sulla base di una sensibilità ben più specifica.210 Se poi si considera ciò che abbiamo accennato nel capitolo precedente, è possibile fornire una spiegazione ulteriore al perché questo genere è particolarmente interessante per gli scrittori di origine ebraica. Innanzitutto, attraverso la nozione biblica del Zakhor si è visto come gli ebrei sono fortemente preoccupati dal tener vivo il ricordo del passato, soprattutto in quanto legato alle proprie radici. Nello specifico, attraverso l’idea tipicamente ebraica di storia come memoria, l’ebreo cerca di impadronirsi a pieno del passato per salvarlo dall’oblio e, di seguito, per reinserirlo di nuovo nel fluire del tempo. Nel romanzo genealogico ciò che viene salvato dall’oblio è, dunque, la storia degli antenati. In questa ottica, è inoltre lecito interpretare il romanzo genealogico, come ha ribadito anche Dominque Budor, come «seppellimento simbolico degli antenati e affermazione della vita dei discendenti.»211 Si badi che prima che i morti possano simbolicamente essere “seppelliti”, essi devono essere riportati in vita un’ultima volta con la scrittura. Non a caso, quindi, van Straten conclude il suo libro con una descrizione di un rituale malgascio: Ho letto che in Madagascar ogni cinque anni le famiglie riesumano i loro morti. Li tirano fuori dalla terra, li rigirano, quasi potessero cambiare il paesaggio dei loro occhi, poi li seppelliscono di nuovo e fanno una festa. Anch’io ho riesumato i miei 208 Ivi., pag. 9. Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 116. 210 Ibidem. 211 Ivi., pag. 118. 209 53 morti, molti dei quali sepolti non so dove. Li ho contati, ma più li contavo e più crescevano di numero.212 In secondo luogo si è visto che questa rinascita del passato diventa poi uno strumento di conoscenza per il presente. Infatti, si ricordi che la trasmissione della storia è occasione per indagare su se stessi. Attraverso la riattualizzazione del passato nel presente, si arriva a capire meglio se stessi. Lo scrittore del romanzo genealogico, dunque, non cerca unicamente di riscoprire le sue radici ma anche di riscoprire se stesso attraverso queste radici. 213 Il romanzo genealogico, che mira quindi a riattualizzare la storia della genealogia, parte perciò spesso da una domanda ontologica: “chi sono?” Ripercorrendo l’albero genealogico, si cerca di «situare se stessi nel filo dell’eredità» e di trovare il proprio posto nella storia.214 Dunque, nel caso di Il mio nome a memoria, anche se inizialmente l’intenzione di Giorgio van Straten è quella di conoscere meglio suo padre, alla fine del libro lo scrittore si rende conto che «è tutte le storie che ha raccontato: non la somma di ogni destino, il risultato necessario o la linea di arrivo.»215 Lo scrittore si identifica non come la somma dei destini ma con l’atto del sommare ogni destino, ogni storia che ha raccontato. La sua propria esistenza è interamente legata a questo «lento cammino di un nome.»216 Si è costruito così un legame fra passato e presente; fra le vite altrui e la vita dell’autore esiste dunque un collegamento: «sono qualcosa delle loro facce o delle loro mani.» «Ognuno di loro» – continua lo scrittore – «è entrato dentro di me, e minaccia di restarci.»217 Appunto, nel capitolo finale van Straten si rende conto che sono presenti in lui anche tracce di suo padre: Per anni ho provato fastidio per quel gesto, per quella che mi sembrava una goffaggine; oggi lo guardo sapendo che anch’io, senza accorgermene, ho iniziato ad accavallare le gambe nello stesso modo.218 In questo modo, il tentativo di Giorgio van Straten di conoscere meglio la stirpe, e il padre in particolare, attraverso un’indagine a ritroso nel tempo, è andato oltre lo scopo iniziale; il viaggio nel tempo è diventato anche una sorta di viaggio interiore alla scoperta di se stesso. Attraverso il ricordo del nome che porta, Giorgio si è reso conto che, come accade al 212 Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 295. Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 116. 214 Ivi., pag. 115. 215 Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 294. 216 Ibidem. 217 Ibidem. 218 Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 290. 213 54 personaggio di Goldstück – cofondatore dell'azienda per cui lavorano parecchie generazioni di van Straten – che «le sue radici lo tenevano ancora stretto, anche se strappate dal terreno, divelte da una fuga».219 Infine, come sostiene anche Dominque Budor, lo scrittore del romanzo genealogico mira anche a «indagare la propria appartenenza, a definire o scoprire la propria judéité.»220 Siccome, come si ricorda, per Giorgio van Straten l’identità ebraica è un’identità fatta prevalentemente di memoria, «la ricostruzione del proprio percorso familiare» – come ha ribadito van Straten – «non è l’orpello di chi cerca antenati nobili e un blasone, ma una necessità al fine di preservare la propria stessa appartenenza al gruppo.»221 Il mio nome a memoria può essere letto in questa luce come il tentativo dell’autore di ritrovare il proprio senso di appartenere all’ebraismo. Anche se Giorgio van Straten non fa mai riferimento diretto nel libro al suo senso di appartenenza all’ebraismo, l’immagine che esce dalle pagine scritte è quella di una famiglia laica in cui l’ebraismo non è mai stato un fatto religioso ma comunque qualcosa da rispettare. L’ebraismo è, come detto, un fatto generazionale, e questa definizione dell’ebraismo è ben visibile nel ritratto che egli ha tracciato della sua famiglia. L’ebraismo per i van Straten non ha quasi più nessun legame con la religiosità, ed è diventato un modo, oltre a quello del nome, per sentirsi legati fra di loro. Si veda, ad esempio, l’episodio in cui Rosa – la sorella del nonno dello scrittore – aspetta un bambino da un Gentile. A questo punto, suo padre, il quale «non era un ebreo molto osservante, ma sapeva di appartenere a un popolo e che quell’appartenenza era un privilegio», decide di affidarsi al rabbino, «l’unica persona che poteva aiutarlo consigliandogli la soluzione migliore.»222 Secondo il rabbino, Hartog ha la responsabilità di mantenere unita la famiglia dei van Straten. «Per farlo» – continua il rabbino – «non c’è bisogno di abitare nella stessa casa, neppure nella stessa città.»223 È quindi sottinteso nelle parole del rabbino che la fede ebraica è ciò che mantiene insieme una famiglia disunita come i van Straten. Quindi, anche se nella vita famigliare dei van Straten «la trascendenza restava lontana, non si manifestava che per rare e improvvise epifanie», Hartog assume la responsabilità di «tenere unita la famiglia e risolvere il problema che lo assillava» e così decide di non acconsentire al matrimonio con un Gentile e 219 Ivi., pag. 64. Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 116. 221 Giorgio van Straten, In cosa consista l’essere ebreo, pag. 49. 222 Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 89. 223 Ivi., pag. 91. 220 55 viene cercato per Rosa un marito ebreo, per impedire che vada perduto un importante retaggio familiare e identitario, cioè l’ebraismo.224 Un altro esempio di cosa significa appartenere all’ebraismo per i van Straten si può trovare due generazioni dopo. Ci riferiamo all’episodio della riunione nel 1922 della famiglia a Schevingen nei Paesi Bassi, da cui si può capire quanto sia importante la tradizione per colmare la distanza fra i diversi membri della famiglia. Siamo arrivati alla generazione dei nonni e dei genitori dello scrittore che, quando ritornano dall’Italia nei Paesi Bassi, ritrovano il calore della patria di origine che «assomigliava poco all’atmosfera abbastanza fredda e compassata della loro vita a Genova.»225 Soprattutto interessante è il caso di Ivan, il padre dello scrittore, che si chiede se: quel calore, quel modo di stare insieme avesse qualcosa a che fare con l’essere ebrei, ma non sapeva rispondersi. Gli sembrava che quell’identità assumesse una dimensione mitica, affascinante come quell’ultima estate da bambino. Essere ebrei, del resto, era per lui un fatto abbastanza misterioso, perché, dopo la circoncisione, non aveva più ricevuto un’educazione religiosa né frequentato la comunità e la sinagoga. Magari la freddezza della loro vita a Genova era frutto anche della distanza dalle tradizioni della loro famiglia, dalle abitudini mantenute dagli zii e dalle zie olandesi, a parte i Fles che rifiutavano qualsiasi fede a partire dalla propria. Ma ormai quella distanza esisteva, non era più colmabile con un atto di volontà; durante l’anno si attenuava raramente, per qualche scelta di cucina, un matrimonio, o la visita di un parente.226 In questo senso, l’atmosfera fredda della vita a Genova può essere dovuta al declino delle antiche tradizioni famigliari, fra cui quelle ebraiche. Il ricordo delle tradizioni ebraiche, o quanto ne resta, si associa quindi al ricordo dell’unità famigliare; proprio per questo l’ebraismo viene sempre rispettato in questa famiglia. È lecito supporre, dunque, che il ricordo dell’appartenere all’ebraismo, nel caso di una famiglia disunita come i van Straten, sia diventato un modo per ricordarsi dell’appartenere ad una unità famigliare. È in questo modo che viene mantenuta unita una famiglia come quella dei van Straten che, nelle parole del rabbino, non abita «nella stessa casa, neppure nella stessa città.»227 224 Ibidem. Ivi., pag; 142. 226 Ivi., pag; 143. 227 Ivi., pag. 91. 225 56 4.3. Di ricordi e restauri Ne Il mio nome a memoria l’autore ricostruisce un mosaico di storie: storie di guerra, storie di viaggio, storie d’amore, ecc. Ogni storia raccontata può essere considerata una tessera che completa il mosaico della storia dei van Straten. Per questo, è importante per lo scrittore il riflettere su come colmare le lacune lasciate dal tempo, o, continuando la metafora, come restaurare il mosaico delle vite raccontate. Appunto, a questo scopo vengono inseriti fra i capitoli narrativi dei capitoli metanarrativi in cui l’autore riflette sul proprio modo di scrivere. Nel secondo capitolo lo scrittore afferma che, per ricostruire la storia dei van Straten nei Paesi Bassi del primo Ottocento, non ha altro che una «fotocopia ormai sgualcita di un vecchio documento.»228 Le tracce della loro esistenza sono state eliminate per sempre e non esiste alcun modo per resuscitare le persone vissute nel passato. Eppure, esiste un modo che il letterato, a differenza dallo storico, ha a propria disposizione per far rivivere questo passato: l’immaginazione. Lo scrittore ammette di essere stato tentato dall’idea di inventare tutto: Potrei certo inventarmi tutto [...] Ma in questo caso non ci sono oggetti o foglio spiegazzati, e le persone vere, quelle che hanno vissuto sul serio, una volta che spariscono, che si dissolvono nel vuoto, non possono essere resuscitate d’imperio. Svanisce il loro ricordo, non resta niente a segnare l’esistenza: sono morte per sempre.229 Benché lo scrittore, come il restauratore, sia in grado di recuperare «i colori che il passato dei secoli ha offuscato», esiste un confine che non può essere varcato; egli non può «inventare un disegno che è perduto.»230 Lo scrittore, quindi, può fare riemergere il disegno dell’affresco ridandogli i suoi colori, ma ciò che è andato perduto nelle pieghe della storia deve essere coperto da uno strato di «intonaco bianco». 231 Lo scrittore non può andare oltre al punto in cui finiscono le tracce del passato. Ad esempio, quando svaniscono le tracce di Mina – la bisnonna dello scrittore – nel 1886, lo scrittore ammette la sconfitta: «Io non posso seguirla: non ho un pennello dalla punta abbastanza sottile per disegnare i tratti leggeri della sua morte».232 Per altro, lo scrittore ammette che è inevitabile mentire perché «ogni racconto è un tradimento» della realtà storica, ma bisogna tuttavia «mentire con cognizione di causa.»233 228 Ivi., pag. 21. Ibidem. 230 Ivi., pag. 22. 231 Ibidem. 232 Ivi., pag. 50. 233 Ivi., pag. 49. 229 57 Tuttavia, a mano a mano che la narrazione procede, risulta sempre più chiaro che il compito di restaurare con la maggiore oggettività possibile che lo scrittore si è posto non è più soddisfacente. Nel quattordicesimo capitolo lo scrittore riconosce che, «nonostante tutti i buoni proposti», non è più in grado di rinunciare all’invenzione: Non ci riesco, non so trattenermi: per questo non sarò mai un buon restauratore. [...] le storie che vado recuperando, che in apparenza resuscitano ormai anche senza il mio aiuto, finiscono per appartenermi, stanno dentro di me, si mescolano a tutto quello che nessuno, da fuori, può vedere. Così se decido di dipingere quanto è andato perduto, chi potrà mai accorgersene? [...] Certo che ho lasciato parti d’intonaco bianco, secondo le regole che mi ero imposto, e spesso sono ricorso a semplici selezioni di colore, ma talvolta finisco per completare ciò che completabile non sarebbe. In altre parole, invento.234 In altre parole, il passato che Giorgio van Straten cerca di sottrarre all’oblio diventa una forza dominante che si è impadronita dello scrittore stesso, il quale, reinventando le storie altrui, infonde nuova vita alle persone di cui parla. In tal modo, queste persone non rimangono dei fantasmi del passato senza volti, al contrario, quelle «figure pallide e vaghe» diventano, di nuovo, persone di carne e ossa.235 Se nei primi capitoli l’invenzione non è altro che un modo per ridare colore al passato, ora essa serve a ridare vita ai morti. «La vita non si ferma con un gesto d’imperio» – continua van Straten – «né tanto meno per una questione di correttezza.»236 Il passato, anche se non vissuto dallo scrittore stesso, diventa, qualcosa di più soggettivo, qualcosa che appartiene a lui, e a lui solo, qualcosa con una vita propria che sembra sottrarsi alla morte. In altre parole, è attraverso l’atto di scrivere della storia famigliare che la storia sembra divenire una forma di memoria attiva per lo scrittore. Se all’inizio del libro ci vuole «la pazienza e la precisione dei restauratori» per affrontare il passato, a mano a mano che la narrazione procede lo scrittore diventa, più che «un restauratore», «un imbianchino» che non esita a utilizzare il pennello e quindi non «prova più remore a modificare ciò che è già avvenuto, a contravvenire alle regole.»237 Infatti, nell’ultimo capitolo narrativo vengono definitivamente oltrepassati tutti i confini fra verità storica e invenzione, fra storia e memoria. Lo scrittore-narratore, con un anacronismo, entra nel quadro da lui dipinto perché non sopporta più a lungo la distanza fra il passato e il 234 Ivi., pag. 117. Ivi., pag. 118. 236 Ibidem. 237 Ivi., pag. 284. 235 58 presente. Insieme ai suoi genitori e ai suoi nonni, egli si imbarca in un viaggio che si svolge molto prima della sua nascita con l’intento di guardare suo padre e vedere cosa di lui «ha inconsapevolmente assorbito e trascinato con se attraversi gli anni».238 Entrando nel passato, esso sembra assorbire lo scrittore in maniera così forte che egli spera addirittura di «cambiare il suo [del padre] destino.»239 Tuttavia, questo passato, che sembra adesso più vivo che mai, risulta alla fine illusorio; in questo momento, lo scrittore-narratore afferma di aver perso suo padre per la seconda volta, «con la stessa impotenza che ha provato, molti anni dopo o qualche anno prima, davanti al suo corpo in un pronto soccorso, con lo stesso senso di inadeguatezza.»240 4.4. La storia del nome come una responsabilità L’atto di raccontare la storia del proprio nome, oltre ad essere una ricerca interiore, porta con sé una forma di responsabilità. Appunto, come già accennato nel capitolo precedente, quando la memoria, sia memoria diretta che memoria altrui, diventa parte integrale del testo scritto, la scrittura che ne diventa il veicolo, costituisce una fonte di libertà e responsabilità.241 La responsabilità di Giorgio van Straten, uno degli ultimi a portare il nome scelto da Hartog quasi due secoli fa, è di testimoniare il passato della famiglia paterna e di vivificarlo nel presente. Nella sua scrittura, Giorgio van Straten, non a caso, accenna più volte all’importanza di questo tema: la responsabilità è lungo l'intero libro un dovere a cui ogni generazione ha la sensazione di trovarsi di fronte. Il primo dei van Straten, che deve assumersi una responsabilità è Hartog Alexander, il quale ha scelto il nome per la propria famiglia perché la propria famiglia possa essere uguale alle altre: Incurvato dal vento che cresceva e forse avrebbe diradato la nebbia in quella mattina del 16 dicembre 1811, Hartog Alexander per la prima e l’ultima volta nella sua via cercò di levarsi più in alto della sua pipa e dei suoi cetrioli, provò a leggere il futuro della sua stirpe, delle generazioni che lo avrebbero seguito e che lui, come Dio, stava per chiamare per nome.242 238 Ivi., pag. 285. Ivi., pag. 293. 240 Ibidem 241 Sergio Parussa, Writing as Freedom, Writing as Testimony, cit.,pag. 32. 242 Giorgio van Straten, Il mio nome a memoria, cit., pag. 16. 239 59 La scelta di Hartog cade infine sul nome di van Straaten, un nome che ricorda al «piccolo paese fiammingo dal quale erano arrivati i suoi antenati.»243 Già dalla scelta del nome emerge quanto sia importante in questa famiglia ebraica la coscienza delle proprie radici. Questa decisione viene presa quindi in modo che «nessuno avrebbe scordato le origini fino all’ultimo dei suoi discendenti.»244 Dunque, nello scegliere il nome Hartog non solo si assume la propria responsabilità verso le generazioni future, «quelle per cui stava scegliendo», ma così anche verso le generazioni che lo precedono, di cui adesso si fa testimone «il piccolo giudeo che vende cetrioli.»245 A ciò si potrebbe aggiungere che il nome, oltre a un ricordo della propria origine, costituisce anche un ricordo dell’essere ebreo della diaspora; da questo nome emerge appunto l’immagine dell’ebreo errante che camminerà per le vie del mondo fino alla seconda venuta. Il nome diventa in questa luce un’affermazione delle tradizioni famigliari che serve a costruire un ponte fra il passato e il futuro. È chiaro, quindi, che, contrariamente a quello che pensa Hartog nell’incipit del libro – che «non si trattava che di un nome» – che si tratta ben di più che di un nome.246 Per questo, il rispetto per il nome che porta è una «responsabilità che spetta al figlio maggiore» di ogni generazione che succede alla precedente.247 A loro viene affidata la trasmissione del nome perché sono loro «il futuro di questa famiglia»; loro portano il nome scelto da Hartog e loro devono continuare la storia di questa famiglia ebrea che fu iniziata da lui.248 Così come la vecchia porta di Delft a Rotterdam è «l’unica che fosse rimasta della vecchia cinta muraria», così anche il loro nome sarà l'unico residuo che rimarrà della loro vita se la loro memoria non verrà salvata dal trascorrere del tempo.249 È compito dello scrittore, dunque, lasciare «un segno di una memoria», come hanno fatto i suoi antenati.250 A proposito di questo, Giorgio van Straten ci ricorda che: la peggiore maledizione ebraica dice: sia cancellato il tuo nome e anche il ricordo di te. Dunque per salvare un uomo si deve ripetere il suo nome, come in una liturgia. Ma il ricordo? Quello, come ho detto, si spegne con le persone che lo conservano. A meno che qualcuno non decida di trasformarlo: di scrivere su dei fogli, tanto per fare un esempio. 243 Ivi., pag. 19. Ibidem. 245 Ivi., pag. 10. 246 Ivi., pag. 9. 247 Ivi., pag. 26. 248 Ibidem. 249 Ivi., pag. 140. 250 Ibidem. 244 60 Il libro diventa in questo modo «un segno di una memoria» lasciato dallo scrittore, e trascende a questo punto il semplice scopo di raccontare una storia. Il racconto è l'appagamento di un debito che lo scrittore ha contratto con il passato del nome che porta; ed è suo compito «salvare la memoria di suo padre e del suo nome.»251 Il compito dell’autore ricorda in questo senso quello dei suoi antenati: trasmettere il nome «in modo da lasciare le loro impronte nella discendenza.»252 Il ricordo della vita degli antenati diventa in questo modo anche un’affermazione della vita dei discendenti. Come ricorda il nonno dello scrittore – George van Straten – è soltanto attraverso la trasmissione di un’impronta di ciò che è stato che «la famiglia è destinata a crescere, a estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.»253 Infine, ovviamente, la vita dei van Straten è stata fortemente influenzata dalle atrocità della seconda guerra mondiale, la quale ha decimato la famiglia.254 Per questo, viene aggiunto nell'epilogo un capitolo, intitolato Questi sono i nomi, dedicato ai nomi di coloro che hanno perso la vita in quel tragico periodo della storia novecentesca. Si badi che fino a qui l’autore è sempre stato in grado di restaurare il passato, però a questo punto egli afferma di essere giunto al limite della possibilità di ricostruire il passato. Così come scrive anche Primo Levi, lo scrittore afferma che «il linguaggio ha dei limiti, perché ci sono cose che vanno al di là delle nostre possibilità di descriverle, e fanno sì che ogni tentativo affondi nella sua insufficienza.»255 Eppure, continua van Straten, questo non significa che si possa tacere: «bisogna parlare, ricordare, costringere il pensiero a ritornare ancora a considerare quegli avvenimenti.»256 Anche qui è ben chiaro l’aspetto etico della scrittura: viene mantenuto vivo il ricordo dei morti rimasti senza sepoltura. Attraverso lo scrivere questi nomi, lo scrittore intende farsi testimone della loro esistenza «perché rimangano segnati nella memoria, perché non diventino numeri, perché non si taccia il loro destino.»257 Alla conclusione del libro, Giorgio van Straten, dopo aver raccontato la storia del suo nome, è diventato portavoce della memoria della famiglia paterna. Per questo, egli porta il peso di tutte le storie che ha raccontato «come un’abnorme forza di gravità», anche se, assumere 251 Ivi., pag. 193. Ivi., pag. 116. 253 Ibidem. 254 «Dopo la fine della guerra di otto fratelli van Straten ne rimanevano due. Dei loro ventotto figli ne restavano quattorici: vale a dire la metà esatta. Nessuno di coloro che furono deportati tornò a casa. Nel 1939 vivevano in Olanda 140.000 ebrei, nel 1945 ne rimanevano 20.000.» Ivi., pag. 274. 255 Ivi., pag. 271. 256 Ibidem. 257 Ivi., pag. 272. 252 61 questa responsabilità rischia di «schiacciarlo al suolo».258 «Ma sono disposto a rischiare di esserne schiantato» – continua lo scrittore – «a portarle sulla schiena, a essere la loro voce.»259 Ed è questa, quindi, la responsabilità dell’autore: impadronirsi della storia di una famiglia ebraica affinché non si dimentichi la loro esistenza, affinché il ricordo della loro esistenza duri oltre la memoria di chi li ha conosciuti. 4.5. Conclusione In conclusione si può affermare che Il mio nome a memoria, come ha suggerito anche Dominque Budor, non è semplicemente una variante del romanzo famigliare, non è neppure, anche se parla di una vicenda storica, una variante del romanzo storico.260 Il mio nome a memoria presente appunto delle caratteristiche tipiche della tradizione ebraica. In primo luogo, si è visto, l’indagine a ritroso nel passato, sia lontano che prossimo, è un processo di recupero finalizzato alla conoscenza e alla comprensione del sé; in secondo luogo, il ricordarsi del passato, e conseguentemente il farsene testimone, porta con sé una forma di responsabilità: impedire che si dimentichi la memoria delle radici. 258 Ivi., pag. 294. Ibidem. 260 Dominique Budor, Il “romanzo genealogico” ovvero la memoria viva dei morti, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 117. 259 62 V. La tessitura dei ricordi: memoria ed identità ebraica ne Il gioco dei regni di Clara Sereni 5.1. Introduzione: la vita a mosaico di Clara Sereni La vita di Clara Sereni è, secondo la scrittrice stessa, una vita a mosaico «costruita a tessere mal tagliate».261 Ognuna di queste tessere rappresenta una diversità che compone l’identità della scrittrice. Appunto, nell’introduzione al Taccuino di un’ultimista (1998), una raccolta di scritti pubblici scritti per diversi quotidiani italiani, la Sereni, giustificando la strutturazione testuale della sua raccolta, identifica quali sono le tessere che compongono la sua identità: l’ordine assegnato ai diversi brani segue una logica che attiene più che altro alla ricerca di un filo interno a me. Non fingo alle quattro partizioni di questo libro un’oggettività esterna, ma le dichiaro come i quattro spicchi dei quali, con continui sconfinamenti, mi sembra di compormi: ebrea per scelta più che per destino, donna non solo per l’anagrafe, esperta di handicap e debolezze come chiunque ne faccia l’esperienza, utopista come chi, radicandosi in quanto esiste qui e oggi, senza esimersi dall’intervenire sulla realtà quotidiana, coltiva il bisogno di darsi un respiro e una passione agganciati al domani. La fatica di dare coerenza a queste parti, e gli sconfinamenti dall’una all’altra, sono peraltro la rappresentazione più fedele di una fase diversa da quella di «scrittrice pura» che vantavo fino a pochi anni fa.262 (corsivo nostro) Questi «quattro spicchi» sono, «con continui sconfinamenti», alla base dell’identità della scrittrice e per questo non ci sorprende che l’attenzione particolare per le diversità, e per le identità multiple in genere, costituisca spesso il filo rosso delle opere della Sereni. Infatti, l’attenzione per la politica e l’utopia, uno dei quattro spicchi che compone l’identità della scrittrice, è centrale in Sigma Epsilon (1974) in cui la scrittrice racconta, attraverso un approccio autobiografico, dell’arrivo a partire dagli ultimi anni degli anni Sessanta di un’ondata di giovani attivisti politici. In Passami il sale (2002) la scrittrice parla del proprio 261 Clara Sereni, Casalinghitudine, Milano, BUR, 2007, pag. 160 Clara Sereni, Taccuino di un’ultimista, citato in Gabriella De Angelis, Clara Sereni: la sfida della differenza, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 235. 262 63 impegno politico e civile come vicesindaco della città di Perugia tra 1994 e 1997. In Manicomio Primavera (1989), invece, l’attenzione della scrittrice, come madre di un figlio handicappato, cade sul tema delle malattie mentali. I membri di gruppi minoritari sono, inoltre, spesso i protagonisti dei racconti raccolti in Eppure (1995). L’altro importante filo conduttore dell’opera della Sereni è il ritrovamento della memoria del passato, specie quella del problematico rapporto con il padre, Emilio Sereni, noto politico italiano del Partito Comunista Italiano. Una prima resa dei conti con il padre si trova in Casalinghitudine (1987), un libro straordinario in cui la scrittrice rievoca dei frammenti di memoria attraverso delle ricette di cucina. La figura del padre è, inoltre, il protagonista del Il gioco dei regni (1993), secondo Alberto Asor Rosa «il più bel libro di memoria famigliare ebraica accanto a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg», in cui la scrittrice cerca di scavare nella vita privata dell’intera famiglia ebraica, e in particole quella del proprio padre. 263 In questo romanzo,264 che potrebbe essere definito come «a montage of biographical memory, historical research and reconstructive narrative», la Sereni ha saputo ricostruire la storia di una famiglia dell’alta borghesia ebraica italiana.265 È, dunque, soprattutto in questo romanzo che il tema dell’ebraismo diventa la chiave per lo svolgimento della narrazione e per la costruzione identitaria dei “personaggi” e, perfino, della scrittrice stessa. Appunto, come commenta Alberto Asor Rosa nella prefazione al libro e come noi avremo modo di vedere, ciò che distingue questo romanzo storico dalla «“cronaca famigliare minore”» è «il conflitto fra identità ebraica e il resto del mondo.»266 5.2. Il gioco dei regni per riannodare i fili dell’identità Nelle ultime pagine del romanzo, intitolate Dopo la storia: perché, la Sereni spiega come è nata l’idea de Il gioco a regni. Dopo un incontro con Giacometta Limentani, una morà (maestra di sapienza ebraica), Clara Sereni viene introdotta alla pratica del midrash (l’esegesi 263 Alberto Asor Rosa, Prefazione a Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. I. Anche se il romanzo parla di tre generazioni della famiglia Sereni, a differenza del romanzo di Giorgio van Straten, l’albero genealogico non sembra avere un ruolo centrale qui e perciò non vorremmo definire Il gioco dei regni come un romanzo genealogico. Questa mancanza di interesse per la genealogia da parte dei Sereni viene pure riflesso nella narrazione: «l’albero genealogico ordinato da Pellegrino in Inghilterra, a testimoniare di glorie commerciali e orgoglio di sé ma in un angolo buio, lontano dagli sguardi più frettolosi.» in Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 160. 265 Giovanna Miceli Jeffries, Unsigned History: Silent “Micro-Technologies of Gender” in the Narratives of the Quotidian, citato in Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit., pag. 116. 266 Alberto Asor Rosa, Prefazione a Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. V. 264 64 ebraica dei testi sacri), definita dalla Sereni come «un gioco intellettuale ricco di sorprese». 267 Dalla pratica del midrash, «che dalla radice drsh deriva il senso del ricercare, dell’interrogare», nacque la volontà di riflettere, di scoprire «una vena sepolta» innanzitutto dentro di se stessa, ma «forse non solo dentro di sé».268 Per questa volontà di indagare, la Sereni intraprese, inizialmente con molte remore, un viaggio a Israele perché «c’era tutto un passato, lì, custodito con cura e di cui possedeva solo brandelli.»269 Visto che, come vedremo, lo zio Enzo, noto sionista italiano, si impegnò con passione alla causa sionista, dovunque la scrittrice andò nella terra promessa trovava un’abbondanza di informazione su un passato sconosciuto, offerto da gente conosciuta e perduta. Quest’eccesso di informazione in Israele è in forte contrasto con «la vastità dell’ignoranza» della scrittrice stessa, che «la annichiliva», e che suscita in lei il desiderio di conoscere.270 Questa curiosità verso la storia e la memoria della famiglia si trasforma così in una ricerca identitaria, ovvero, con le parole della scrittrice stessa, in una «necessità di rimettere a posto i pezzettini dentro di sé»:271 Riflettevo sulla genealogia femminile, da mia nonna a mia madre a me, tranquilla per il resto di un’identità ebraica almeno culturale, benché l’appartenenza non sia mai stata sancita da cerimonie. Ma un giorno, durante una lezione, mi ritrovai a chiedermi se davvero lo ero da un punto di vista giurisprudenziale: mia madre non era certamente nata ebrea, e non sapevo se si fosse convertita, non sapevo se il matrimonio dei miei genitori fosse stato o no al Tempio.272 Appunto, nel romanzo possiamo leggere che Xeniuška, la madre di Clara Sereni, ha fatto il bagno rituale che «ne consacrava la conversione all’ebraismo»273 e che i suoi genitori si sono sposati nel Tempio «di fronte al mondo e [...] per il popolo ebraico». 274 Siccome dal punto di vista dell'ortodossia l'ebraismo si eredita soltanto per via materna, questo significa, dunque, che la Sereni può essere considerata pienamente ebrea. Ma la ricerca della scrittrice non finisce qui, Sereni afferma infatti di avere «un fame di documenti, di cose scritte con apparenze di verità e certezza».275 Cercando delle risposte, la scrittrice trova però sempre altre domande. Risulta, quindi, sempre più necessario «riannodare 267 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 414. Ibidem. 269 Ibidem. 270 Ivi., pag. 419. 271 Ivi., pag. 420. 272 Ibidem. 273 Ivi., pag. 211. 274 Ivi., pag. 218. 275 Ivi., pag. 420. 268 65 i fili» della storia familiare, soprattutto quella parte della famiglia che si trova in Israele «nei confronti della quale non nutriva comunque particolare interesse», per scoprire delle «vene sepolte» dentro se stessa.276 Non a caso dunque, come ha notato anche Marialaura Chiacchiarelli, la Sereni ricorre spesso alla metafora del filo e della tessitura nella sua scrittura, la quale diventa per la scrittrice il modo per eccellenza per dare «ordine e coerenza al “filo della vita”.»277 L’importanza ontologica della conoscenza della storia della famiglia per la propria formazione identitaria viene inoltre confermata da Laura Formenti, secondo la quale essa è «iscritta quasi fisicamente nei nostri corpi e nelle nostre coscienze, che usiamo per dare forma e per giustificare la nostra identità personale e sociale.»278 Spinta dal desiderio di conoscere, la Sereni si mette a scrivere le loro memorie. Innanzitutto, la famiglia dei Sereni, nella generazione dei nonni della scrittrice, costituisce un esempio prototipico di ebrei laici e assimilati, come sono stati descritti nel primo capitolo di questo lavoro. Sentendosi ormai più italiano che ebreo, ognuno dei Sereni provò una sorta di fastidio verso la memoria dell’ebraismo, «per quanto ancora li teneva legati ad un passato di diversità, di sofferenza, di oppressione.»279 Per esempio, in una delle prime descrizioni della vita quotidiana della famiglia, viene fatto riferimento al rito del seder, che ormai non è più che «un’abitudine svuotata di significato e forse ormai soltanto imposta dalle convenienze.»280 I piatti – le azzime, le erbe amare, la stracciatella e i carciofi, il vino, il bollito con la salsa verde – erano ancora quelli prescritti dalla tradizione, ma le ricette e le usanze erano ormai lontane da quelle del ghetto. Evidentemente, le tradizioni che vanno spegnendosi sono la conseguenza dell’atteggiamento sempre più laico degli ebrei in Italia. In questo modo gli ebrei italiani, e specificamente i Sereni, intendono uniformarsi ai Gentili, «che sembravano accoglierli tutti a braccia aperte» perché l’Italia nuova «cancellava come assurde e sorpassate le discriminazioni di secoli.»281 Altro esempio di questa volontà di cancellare la loro diversità si ha quando scoppia la prima 276 Ivi., pag. 417. Marialaura Chiacchiarelli, “Il filo della memoria”. Esperienze diasporiche nell’opera di Clara Sereni, in AA.VV., Ebrei migranti: le voci della diaspora, a cura di Raniero Speelman et al., Utrecht, Igitur, 2012, pag. 338. 278 Laura Formenti, La famiglia si racconta. La trasmissione intergenerazioneale dell’identità maschile e femminile, citato in Giulia Po, Reconstucting Memories: Writing the Self and Writing the Father in Clara Sereni’s Autobiographical and Memorial Work, in AA.VV., Italian Women and Autobiography: Ideology, Discourse and Identity in Female Life Narratives from Fascism to the Present, a cura di Ioana Raluca Larco et al., Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars, 2011, pag. 117. 279 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 27 280 Ivi., pag. 25 281 Ivi., pag. 41. 277 66 guerra mondiale e Samuele Sereni – il nonno di Clara Sereni – e il figlio maggiore Enrico si arruolano perché questa guerra «li consacrerà definitivamente eguali, italiani e non più ebrei.»282 Nonostante questa volontà da parte dei nonni della scrittrice di dare corpo a una genealogia «non di ebrei, ma di uomini», si diffonde, al contrario, nella generazione successiva e in particolare nei fratelli Enzo ed Emilio, un’esigenza di riscoprire la «tradizione ancestrale» a cui non sono in grado di sottrarsi. Ciò accade soprattutto a Emilio Sereni, il padre della scrittrice, che, quando indossa la kippà (il copricapo tradizionale degli ebrei) per andare a scuola, si dimostra «fiero e sicuro» del suo essere ebreo e esprime così «l’onore e il potere di dichiararsi diverso.»283 È Emilio che attraversa perfino, lui solo nella famiglia, una fase di ortodossia religiosa perché l’ebraismo costituisce per lui «una rete» che lo aiuta a «tenere insieme i suoi pezzi» e «gli appare il luogo di tutte le risposte».284 A ciò si aggiunga che, qualche anno dopo, Emilio Sereni comincia i suoi studi di agricoltura per dedicarsi, insieme a Enzo, al Sionismo, alla colonizzazione ebraica della Palestina, dove i due fratelli vogliono fondare il primo kibbutz italiano. Questo fatto risulta assai significativo per Clara Sereni perché prima del suo viaggio in Israele la scrittrice non sapeva che «suo padre non fosse sempre stato comunista, e che le ragioni per cui aveva scelto per la vita di interessarsi di agricoltura fossero state, alla partenze, altre.»285 Tuttavia, soprattutto dopo l’incontro con la futura moglie Xeniuška, la figlia di due rivoluzionari russi, inizia a cambiare il progetto di Emilio, il quale ha deciso di non accompagnare più suo fratello nel suo viaggio in Israele. «Le parole della Bibbia, mutevoli ed interpretabili perfino nell’ortografia» sembrano perdere il loro significato, e adesso «il luogo di tutte le risposte » si sposta nelle «parole ferme su pagine prive di dubbi, scritture definitive capaci di attenersi uguali» che Emilio riesce a trovare soltanto nella lettura di Marx ed Engels e Bakunin.286 Spinto dal bisogno di «cambiare, con il mondo, le persone», dal bisogno di «farsi diverso», comincia in questa fase la sua adesione al comunismo che lo allontana, oltre alla distanza fisica, anche ideologicamente dal fratello Enzo.287 È in questo momento decisivo che Emilio taglia il filo che teneva uniti i due fratelli, una volta considerati «due metà di una stessa mela, l’una per l’altra insostituibile» ma ormai «così separati da non potersi neanche 282 Ivi., pag. 114. Ivi., pag. 78. 284 Ivi., pag. 157. 285 Ivi., pag. 418. 286 Ivi, pag; 192. 287 Ivi., pag. 210. 283 67 salutare».288 Per raccontare questa «separazione di destini», la scrittrice, come nota la Chiacchiarelli, ricorre di nuovo all’immagine del filo:289 Solo i libri possono riempire il grande vuoto che Mimmo [nome d'infanzia di Emilio] si sta scavando dentro: fatto di eliminazioni progressive, di nodi troppo dolorosi per essere sciolti e che dunque non si può che tagliare di netto.290 L’adesione al comunismo costituisce l’inizio della rimozione dell’ebraismo dalla vita del padre, la quale viene simbolicamente rappresentata dall'eliminazione della barba, simbolo dell’ortodossia.291 L’appartenenza al partito comunista e il conseguente rifiuto della causa sionista a cui aderisce il fratello provoca, oltre a una frattura con la comunità ebraica, una frattura insanabile con Enzo, una frattura che non “guarirà” mai più, visto che quest’ultimo sarà ucciso qualche anno dopo nel campo di concentramento di Dachau il 18 novembre 1994. Nemmeno le atrocità patite dal popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, e specificamente la morte del fratello per mano dei nazisti, fanno riaffiorare in Emilio, contrariamente alla tendenza mondiale al ricupero dell’ebraismo, le sue radici ebraiche. Appunto, nonostante tutto, Emilio, un convinto comunista, rimane fermo sulle proprie posizioni antisioniste. Quando incontra, per esempio, il figlio maggiore – Daniel Sereni – di Enzo, che intende continuare il progetto iniziato dal padre, Emilio non fa mistero del proprio disprezzo per il sionismo e dice al nipote: «siete soltanto dei fanatici, e oltretutto provinciali.»292 La Guerra dei Sei Giorni fra gli israeliani e gli arabi significa per Emilio la rottura definitiva con le sue radici ebraiche. Per quanto riguarda l’abbandono dell’ebraismo del padre, sono molto significativi i riferimenti, che compaiono parecchie volte nel romanzo, alla figura talmudica di Rabbi Elishà ben Avuyà, detto anche Acher (l’altro). Il primo riferimento alla storia talmudica di Elishà ben Avuyà si trova già all’inizio del romanzo quando Pellegrino Sereni – il bisnonno della scrittrice – la racconta ai tre nipoti. Elishà ben Avuyà, come narra Pellegrino, fu un grande sapiente, così grande che pensò di poter affrontare i suoi studi da solo e rinunciò in questo modo al dovere di ogni studioso ebreo di trovare un compagno di studio con cui bisogna scambiare la propria saggezza. Senza alcun compagno, Elishà studiò le speculazioni 288 Ibidem. Marialaura Chiacchiarelli, “Il filo della memoria”. Esperienze diasporiche nell’opera di Clara Sereni, in AA.VV., Ebrei migranti: le voci della diaspora, a cura di Raniero Speelman et al., Utrecht, Igitur, 2012, pag. 340. 290 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 192. 291 Ivi, pag. 197. 292 Ivi, pag. 355. 289 68 filosofiche più complesse ma pian piano «perse la via della saggezza»; non impazzì, ma si trasformò radicalmente in modo che i «rabbini lo chiamarono, da quel momento in poi, Acher, l’Altro» perché infranse molte delle mitzvà (comandamento della Torà).293 Un sabato, mentre Rabbi Meir, che fu un allievo di Elishà, stava discutendo la Torà con i suoi allievi, qualcuno venne a dirgli che Elishà, infrangendo la mitzvà del shabbat (il sacro giorno di riposo), stava per andare via dalla città a cavallo. Rabbi Meir andò a parlare con Elishà e i due cominciarono a ragionare «assorti in un piacere dell’intelligenza che sembrava rifarli eguali.»294 Giunti al limite della città, «alle porte che di sabato non vanno valicate», Elishà disse a Rabbi Meir: «io lo superò, e anche tu potrai fare altrettanto: ma solo se lo deciderai in piena coscienza, non per caso o per distrazione.»295 Meir, ligio alla mitzvà, si fermò e Elishà si allontanò al galoppo. Infine, Rabbi Meir continuò a chiedersi «se cavalcasse davvero fuori dalle vie dell’ebraismo quell’uomo sapiente e solo, che portava tanto incise dentro di sé le norme da poterle ricordare agli altri.»296 La figura di Elishà ben Avuya, che secondo questa storia abbandona la legge ebraica in cerca di nuove strade da perseguire, è, come commenta Laura Quercioli Mincer, il «prototipo di quei grandi rivoluzionari del pensiero moderno che furono Spinoza, Heine, Marx, Rosa Luxemburg, Trockij e Freud». 297 L’inclusione di questo racconto talmudico, narrato dal nonno ai tre fratelli quando erano ancora piccoli, non è casuale ma serve ad anticipare la sorte di Emilio Sereni, che, come abbiamo visto, abbandona le sue radici ebraiche per aderire al comunismo. Esiste, dunque, chiaramente un’analogia fra la sorte di Elishà ben Avuyà e la sorte di Emilio Sereni. Questo parallelo non passa inosservato nella famiglia: è la zia Ermelinda che avverte Emilio di «non fare la fine di Elishà ben Avuyà». 298 Nell’ultimo capitolo, in cui la scrittrice descrive la morte del padre, troviamo un ultimo riferimento alla storia di Elishà, scritta su «una fotocopia di una pagina stampata che qualcuno lasciò, durante quei funerali, appuntata su un mazzo di fiori.»299 Su questa fotocopia si legge: Quando Elishà ben Avuyà morì, molto discussero i maestri della sua eredità. Ci si chiedeva se ancora appartenesse alla comunità quell’uomo che, entrato in solitudine e con iattanza nell’arengo della speculazione intellettuale, ne era uscito trasformato, così 293 Ivi, pag. 65. Ibidem. 295 Ibidem. 296 Ivi, pag. 66. 297 Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit., pag. 124. 298 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 192. 299 Ivi., pag. 408. 294 69 diverso da venir chiamato, da allora in poi, l’Altro. [...] Infine, la testimonianza decisiva fu quella di Rabbi Meir, il discepolo più amato, che pure tante volte aveva criticato ed osteggiato i suoi errori, e affrontato scontri con lui, e discussioni anche amare: senza mai smettere, però, di riconoscerlo maestro. Sostenne Rabbi Meir che Elishà, sul letto di morte, aveva pianto, forse per la disperazione di lasciare la vita ma Meir immaginava per pentimento: e questo fu ritenuto sufficiente a farlo riconoscere come appartenente alla comunità. E alle sue figlie fu consentito di ereditare, e anche le sue parole – le parole della rivolta e dell’arroganza, della passione e della solitudine – entrano a far parte del Talmud.300 Infine, attraverso l’indagine nel passato della famiglia, la Sereni chiarisce perché si autodefinisce «ebrea per scelta più che per destino». 301 Mentre inizialmente la scelta di essere ebrea sembra assunta in opposizione alla figura paterna, con il quale Clara ebbe un rapporto difficile poiché Emilio volle delle figlie «definitivamente non ebree», dopo aver riflettuto sul significato dell’abbandono dell’ebraismo, tale scelta sembra piuttosto un tentativo di ritrovare il filo che corre lungo la storia della famiglia. Appunto, la riappropriazione dell’ebraismo sembra una riconciliazione con le «radici negate» e «troncate per volontà», che sembrano adesso «misteriosamente riaffioranti» in Clara perché, come ci insegna la storia di Elishà ben Avuyà, non si può mai interrompere completamente il rapporto con quella tradizione ancestrale.302 Alla fine, dunque, «i fili [...] pian piano andavano riannondandosi» e riscoprire il padre e tutte le sue contraddizioni ha aiutato la scrittrice a attribuire un senso unitario alla sua identità di multiple appartenenze, descritta all’inizio di questo capitolo. Una simile identità di «continui sconfinamenti» caratterizzò, a nostro giudizio, anche Emilio, il quale però, a differenza della figlia, non riuscì ad attribuire un senso unitario alla propria identità e rinunciò per questa ragione alle sue radici ebraiche. Clara Sereni è stata in grado di riannodare tutti i fili della sua famiglia e per questo motivo, il romanzo si conclude con una descrizione che simboleggia questa riunione: Miška, l’orsacchiotto che appartenne alla madre di Clara Sereni, adesso si trova fra due libri che rappresentano le due culture (o utopie) che hanno segnato la memoria e la storia della famiglia dei Sereni: Adesso una parte del lavoro è finita [...] c’è un ordine, benché lo sappia precario e suscettibile di modificazioni infinite. Chi cambia ininterrottamente di posizione, da uno scaffale all’altro, dalla mia stanza a quella di mio figlio, è l’orso Miška, in questo 300 Ivi., pag. 409. Clara Sereni, Taccuino di un’ultimista, citato in Gabriella De Angelis, Clara Sereni: la sfida della differenza, in AA.VV., Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, cit., pag. 235. 302 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 409. 301 70 momento pazientemente accoccolato nella libreria accanto a me fra un Bereshit rabbà e una Storia del Partito Comunista Italiano. Ma l’emozione che mi trasmette non muta, e sospetto che custodisca ancora molte eredità, nella sua pancia spelacchiata e consunta: che a premerla nel modo giusto, con attenzione e memoria, forse tuttora è capace di suonare.303 5.3. Il gioco dei regni in attesa del Messia Quando alla scrittrice viene chiesto quale sia l’elemento che rende la sua scrittura tipicamente ebraica, ella risponde: If I were to say what my objective is when I write, I would say that it is this: change the world, improve it. I believe this is the deeply Jewish element of my writing: a ‘must be’ which turns into a ‘must do in order to change,’ something I maintain as also typically feminine. I believe there is yet another complicated element which makes my writing deeply Jewish: the absence of the fresco-style approach, or a big picture. These are replaced in my writing by a mosaic style of composition, which is attentive to inquiry, to the meaningfulness of the single tassel, and to the connections between them rather than to any claim to give univocal and exhaustive answers. This is a way of writing which certainly has something to do with Midrashic speculation rather than with the Christian or Catholic tradition.304 In questa prospettiva, l’uso della memoria e la scrittura ne Il gioco dei regni non servono solo a indagare sulla propria identità ma anche a cambiare il mondo. Questa volontà sembra riecheggiare quella del proprio padre, il quale, come scrive Sereni, voleva «cambiare il mondo con le mani e con le parole. Perché non si può aspettarlo soltanto, il Messia, bisogna andargli incontro.»305 Ne Il gioco dei regni, in cui si può leggere «la durezza inimmaginabile della storia che sta appena dietro le nostre spalle», 306 la scrittrice cerca di recuperare soprattutto le storie e le memorie che sono andate perdute tra «i detriti della Storia.»307 Un esempio di una tale memoria da riconsiderare da parte della scrittrice è quella della nonna materna, Xenia, una rivoluzionaria russa, di cui Clara, dopo averla “riportata in vita” attraverso un’indagine a ritroso nel passato, scopre la sua ricca personalità che non coincide per niente con la «piccola 303 Ivi., pag. 425. David Ward, interview with Clara Sereni, in “L’anello che non tiene”, anno 1997, n.2, vol. 9., pp. 92 – 93. 305 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 210. 306 Alberto Asor Rosa, Prefazione a Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. IX. 307 Ivi., pag. 408. 304 71 donna noiosamente iperprotettiva che sua madre aveva descritto nel suo libro.»308 Infatti, come ricorda la Sereni stessa, nel suo romanzo ha lavorato soprattutto «sui silenzi, sulle omissioni, su tutti gli infiniti non detti della sua famiglia.»309 È, quindi, responsabilità della Sereni riannodare tutti i fili della storia famigliare e, conseguentemente, farsene testimone. La scrittura quindi risulta essere l'unico mezzo attraverso il quale può essere dato un ordine al passato, restituendo carne e sangue ai suoi «tanti fantasmi» affinché diventino «persone prima, e personaggio poi.»310 Oltre a una tale rievocazione degli antenati, il libro di Clara Sereni è, come commenta Katia Marano, «un libro sulla memoria, una memoria raccolta fra “i detriti della Storia” che ha un compito preciso.»311 Il gioco dei regni contiene appunto una lezione universale sulla forza che deriva dal passato per affrontare il futuro. La Sereni ci invita, dunque, a riconsiderare quelle parti del passato andate perdute tra «i detriti della Storia» tanto da poter raggiungere e svelare verità altrui.312 In questa luce, la memoria viene intesa come una ricca fonte di saggezza che serve ad affrontare e, perfino, migliorare il futuro. Una prima lezione da trarre dal passato riguarda l’adesione alla causa comunista o alla causa sionista, due ideologie che hanno assunto negli anni «significati e sfumature diversi», spesso associate con delle lotte feroci.313 A proposito di questo, Clara Sereni ha ribadito in un’intervista che ha cercato di raccontare «the story of how Italian communists were something else, and not just the baby eaters, which was how at that time a few people had started once again to talk about them.»314 Appunto, nell’unico capitolo in cui riflette sul senso della propria scrittura, la Sereni scrive che nei «vent’anni di Enzo e di Mimmo», la gente trovò in quelle ideologie «la speranza di un mondo diverso, più giusto ed umano.»315 Giustificando il contesto storico, la Sereni continua: 308 Anche la madre di Clara Sereni aveva scritto un libro sulla propria vita, intitolato, I giorni della nostra vita. Ivi., pag. 419. 309 Iaia Caputo, Clara Sereni: scrivere per non mangiarsi il cuore, in, AA.VV., 12 interviste con 12 scrittrici contemporanee, a cura di Iaia Caputo et al, Milano, La Tartaruga, 1995, pag. 166. 310 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 424. 311 Katia Marano, “Tra i detriti della Storia”: Il gioco dei regni di Clara Sereni, in AA.VV., Scrittura femminile, a cura di Irmgard Scharold, Tübingen, 2002, pag. 177. 312 Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, cit., pag. 117. 313 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 194. 314 David Ward, interview with Clara Sereni,cit., pag. 106. 315 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 194. 72 gli anni erano spietati, il nemico appariva invincibile: nell’affrontarlo a viso aperta, nel decidere della propria vita tutta intera ci fu chi seppe mantenersi laico, e chi mutuò dalla religione il senso dell’unità indissolubile, e del dogma.316 Comunismo o sionismo furono, come per Enzo e Emilio, la soluzione per chi non voleva aspettare il messia, per chi «cercava un sogno da vivere» e per chi «voleva essere parte attiva della forza che porta avanti il mondo».317 Una seconda lezione da trarre, legata alla prima, riguarda il significato dell’ebraismo che emerge dalle pagine di questo romanzo. Appunto, le persone dipinte ne Il gioco dei regni non rispecchiano un atteggiamento vittimistico nella espressione dell’identità ebraica, al contrario, l’ebraismo è, per la famiglia dei Sereni, sia se abbracciato in pieno da Enzo o rifiutato pienamente da Emilio, come sostiene anche Laura Quercioli Mincer, comunque «uno strumento che consente di agire nel mondo.»318 Un primo esempio di questa concezione attiva del rapporto con il mondo si trova in una delle prime descrizioni della famiglia. Ci riferiamo all’episodio del seder in cui Pellegrino Sereni comincia a leggere e cantare in lingua ebraica, il quale «affrontava bravamente» le asperità di quelle lingue e «le travolgeva con qualche rudezza e approssimazione come ogni ostacolo della sua vita.»319 A ciò si aggiunga il fatto che non compaiono molti riferimenti diretti alle atrocità delle persecuzioni che ovviamente hanno segnato la vita dei Sereni. Infatti, l’unico episodio in cui l’orrore della Shoah è centrale è, quando viene narrata la morte di Enzo nel campo di concentramento di Dachau. Alla domanda di che nazionalità sia, Enzo continua, fino alla morte, a rispondere a testa alta con la parola «ebreo».320 La storia raccontata da Clara Sereni, benché tragica, è dunque, come nota anche Elisabetta Properzi Nelsen «a tale of human strength rather than defeat.»321 Per questo, la stessa Nelsen conclude che: characters such as Enzo and Mimmo do not reflect a victimization of Jewish identity. Instead, theirs is an identity born from the strong sense of self that flourishes when nurtured by the members of a close-knit community. It springs from a profound sense of belonging both to one’s family and to collective experiences 316 Ivi., pp. 194 – 195. Ivi., pag. 194. 318 Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia 319 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 21. 320 Ivi., pag. 319. 321 Elisabetta Properzi Nelsen ,Clara Sereni and Contemporary Italian-Jewish literature, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 162. 317 73 Attraverso un’indagine a ritroso nella memoria familiare, la Sereni offre ai suoi lettori uno sguardo verso il passato al di là di stereotipi. Ricostruendo le memorie familiari nella sua scrittura, Clara Sereni si fa testimone dell’appartenenza a delle comunità emarginate e invita così i suoi lettori a coglierne la ricchezza e la vitalità culturale in modo tale che queste non diventino fonte di discriminazione e persecuzione. Se un tempo fu il padre, indossata la kippà a scuola, a dimostrarsi fiero delle sue radici, adesso tocca alla figlia rivendicare queste radici, le quali la aiutano a tenere insieme i suoi pezzi. «I wanted to reflect on memory» – dichiara la scrittrice in un’intervista – «which in those years I began to see in the strongest of ways as if it were about to become extinct.»322Attraverso la scrittura, come fecero una volta i tre fratelli Sereni, si garantisce la sopravvivenza e ci «si affida alla carta per capire e farsi intendere, per rendere leggibile – dunque accettabile – ogni cosa».323 Se ognuno fosse in grado di cogliere la ricchezza della diversità non ci sarebbe bisogna di aspettare il Messia per costruire un nuovo mondo. 5.4. Conclusione Risulta, dunque, chiaro che anche ne Il gioco dei regni l’atto di ricordare è molto simile a quello di Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten, ossia è un atto finalizzato a una migliore conoscenza della vita contemporanea. Come per van Straten, l’indagine a ritroso della memoria serve innanzitutto a una migliore comprensione del sé e del proprio essere ebreo. Appunto, attraverso l’atto di riannodare dei fili della storia dei Sereni, specie quelli del padre e dello zio, la scrittrice cerca di dare un senso alla propria scelta di essere ebrea e quindi alla propria identità composita. Oltre a questa motivazione individuale, la scrittura di Sereni aggiunge a questa anche una motivazione etica, cioè una responsabilità che si è assunta Clara Sereni, come scrittrice di memoria. La sua speranza è di cambiare il mondo attraverso la memoria del passato. Concludiamo il nostro discorso con un’immagine che ci pare esemplare per illustrare il senso del libro della Sereni, ossia il racconto ebraico, su cui si apre il romanzo. Questo racconto della tradizione orale dei Hassadim dice che quando il rabbino Baal Shem Tov ricevette delle notizie allarmanti su una sventura che stava per abbattersi sul suo popolo, andò nel bosco dove accese un fuoco e recitò una preghiera al cielo. Subito dopo un miracolo si compì e la minaccia fu scongiurata. Qualche anno dopo, toccò alla nuova generazione ritornare nello stesso punto del bosco per scongiurare nuove sventure. Il nuovo rabbino cominciò la preghiera, ma subito dopo disse: «Signore del cielo, prestami ascolto come vada 322 323 David Ward, interview with Clara Sereni,cit., pag. 106. Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pp. 56 – 57. 74 acceso il fuoco non lo so, nessuno me lo ha mai insegnato oppure l’ho dimenticato. Però la preghiera sono ancora capace di recitarla, e credo che basterà.»324 Il miracolo comunque si compié di nuovo. Via via con il passare delle generazioni, si perse memoria della tradizione, ma ciò nonostante ogni volta il miracolo si compì. Quando infine toccò al rabbino Israel di Rižin scongiurare le minacce che stava per abbattersi sul suo popolo, egli andò nel bosco e disse: «non so come vada acceso il fuoco, non conosco la preghiera, non so più trovare quel punto nel bosco: niente di tutto questo so, nessuno me l’ha insegnato oppure l’ho dimenticato. Tutto quello che so fare, è tener viva la memoria di questa storia: basterà?»325 Ed è questo che sta facendo anche Clara Sereni, tenere viva la memoria della sua famiglia nella speranza che il miracolo si compia. 324 325 Ivi., pag. 7. Ibidem. 75 VI. Conclusione finale Nella prima parte di questo lavoro abbiamo visto che l’ebraismo in Italia è «uno spirito impalpabile e tuttavia ben presente.»326 Benché la cultura ebraica sia sempre stata presente nella penisola, è soprattutto nel corso del Novecento che ha conosciuto uno sviluppo tale da diventare un argomento «active, even “hot.”»327 Tuttavia, è lecito sostenere che gli scrittori italiani con eredità ebraica abbiano apportato un contributo notevole alla letteratura italiana del Novecento, anche se il loro rapporto con l’ebraismo non è sempre stato così evidente. All’inizio del Novecento gli ebrei italiani, nonostante la loro posizione assai rilevante sulla scena culturale, non sembrano ancora manifestare apertamente la loro origine ebraica. Questo fatto si spiega considerando la particolare propensione all’assimilazione degli ebrei italiani: gli ebrei italiani si sentono in primo luogo italiani, poi ebrei. Per questo motivo manca quasi ogni riferimento all’ebraismo nelle opere di scrittori ebrei del primo ventennio del Novecento come Italo Svevo e Umberto Saba. In seguito, con la promulgazione delle leggi razziali fasciste viene messo fine al processo di assimilazione cosicché gli ebrei furono costretti a prendere coscienza della propria diversità. Questa presa di coscienza porta con sé un rinnovato interesse per la propria eredità ebraica e fa sì che l’ebraismo non sia più confinato nella sfera privata. Tuttavia, in ambito letterario, non sembra cambiare molto: anche se inizia in questi anni «un periodo aureo o argenteo» di letteratura italo-ebraica con degli scrittori come Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani e Alberto Moravia, è soltanto a partire dagli anni Sessanta che l’ebraismo va occupando sempre più spazio nella tradizione letteraria.328 Soprattutto a partire dagli anni Ottanta scoppia un vero boom di pubblicazioni dedicate al tema dell’ebraismo, tanto da poter sostenere che la cultura ebraica in Italia gode di una vivacità senza precedenti. Negli ultimi due decenni è appunto emersa una nuova generazione di scrittori con eredità ebraica. In generale, abbiamo visto che questa letteratura italo-ebraica contemporanea consiste da un lato in una ricca tradizione memorialistica della Shoah e, 326 Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, cit., pag. 32. Stephen Siporin, The Survival of “the Most Ancient of Minorities”, in AA.VV., The Most Ancient of Minorities: The Jews of Italy, cit., pag. 367. 328 Raniero Speelman, Introduzione: particolarità e ricchezza della letteratura italoebraica, cit., pag. II. 327 76 dall’altro, in una tradizione di romanzi storici e biografici nei quali vengono raccontate le vicende della propria famiglia ebraica. Nella seconda parte di questo lavoro abbiamo infatti visto che gli autori ebrei contemporanei pongono spesso al centro delle loro opere un dialogo con il passato. A ben vedere, questo non è sorprendente, visto che la memoria e il ricordo delle proprie radici svolgono un ruolo centrale nella tradizione ebraica. La memoria, e la scrittura che ne è il veicolo, costituisce perciò un modo indispensabile per tener vivo il ricordo e per assicurarne la trasmissione alle generazioni future. In questa prospettiva, la scrittura diventa una responsabilità che spetta allo scrittore, il quale cerca di «lasciare in eredità a figli e nipoti, propri e altrui, un piccolo scorcio di una altrettanto piccola, ma a quanto pare indimenticabile, storia.»329 Accanto a ciò, emerge la questione dell’identità ebraica. Si è visto che è tipicamente ebraico considerare il passato come parte del presente e perciò la memoria diventa spesso la chiave per definire la propria identità. Attraverso un’indagine a ritroso nella memoria lo scrittore di origine ebraica cerca quindi di arrivare a una migliore comprensione di se stesso e, conseguentemente, della propria ebraicità. In questo modo, la scrittura di memoria diventa anche un’azione di autoscoperta. L’importanza dei temi di identità e memoria viene confermata nella nostra analisi de Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten e Il gioco dei regni di Clara Sereni. In entrambi questi romanzi la memoria del passato familiare occupa un posto centrale. Per entrambi gli autori la memoria è un processo di recupero finalizzato a una migliore comprensione della vita contemporanea. Per Giorgio van Straten conoscere meglio la storia della stirpe significa conoscere meglio se stesso e per questa ragione lo scrittore considera la storia del nome che porta come la storia della propria esistenza. Anche ne Il gioco dei regni, il quale, secondo Raniero Speelman, «offre una sintesi esemplare di generi e tematiche della letteratura ebraica»,330 la storia familiare serve a «rimettere a posto i pezzettini» dell’identità e, di conseguenza, a dare un senso alla scelta di Clara Sereni di essere ebrea.331 La scrittura di memoria diventa, infine, per entrambi gli scrittori un compito etico: mentre per Giorgio van Straten la scrittura è in primo luogo un modo per impedire che si dimentichi l’esistenza degli antenati, per la Sereni la scrittura è soprattutto un modo per ribadire le proprie diversità tanto che i suoi lettori possono coglierne la ricchezza. 329 Elen Loewenthal, La tentazione di esistere, in AA.VV., Appartenenza e differenza, cit., pag. 158. Raniero Speelman, Dall’Argon al Carbonio: la letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in AA.VV., Gli spazi della diversità, cit., pag. 98 331 Clara Sereni, Il gioco dei regni, cit., pag. 420. 330 77 Entrambi questi romanzi sono, a nostro giudizio, assai rappresentativi di alcuni aspetti salienti della cultura ebraica moderna. Infine, sarebbe tuttavia interessante uno studio sulle opere di altri scrittori italiani con eredità ebraica come, per esempio, Elena Loewenthal, Miro Silvera, Giorgio Pressburger o Lia Levi, i quali rappresentano una cultura degna di essere conosciuta. 78 VII. Riferimenti bibliografici 1. Fonti primarie Giorgio Bassani, Il romanzo di Ferrara, Milano, Mondadori, 1973. Iaia Caputo, Clara Sereni: scrivere per non mangiarsi il cuore, in, AA.VV., 12 interviste con 12 scrittrici contemporanee, a cura di Iaia Caputo et al, Milano, La Tartaruga, 1995, pag. 159 – 173. Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, con una prefazione di Natalia Ginzburg, Torino, Einuadi, 2001. 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