La dimensione etica nella pratica clinica

LA DIMENSIONE ETICA NELLA PRATICA CLINICA
Relatori
Barbisan Camillo: Presidente del Comitato di Bioetica dell’ASL 9 Treviso
Borsellino Patrizia: Cattedra di Filosofia del Diritto e dell’insegnamento di Bioetica presso
la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi dell’Insubria (Como-Varese)
Fucci Sergio: Magistrato di Cassazione presso la Corte di Appello di Milano
Orsi Luciano: Responsabile U.O. di Cure Palliative dell’A.O. di Crema
Spaliviero Stefano: Componente Comitato per la Bioetica (CB) dell’Ulss 8 Asolo, AFD
Servizio Ass. Domiciliare Distretto 1
Viafora Corrado: Professore Straordinario di Filosofia Morale, titolare del Corso di Etica
Generale-Bioetica, Direttore del Corso di Perfezionamento in Bioetica, presso l’Università
degli Studi di Padova
Moderatori
Cavalli Nadia: Coordinatore CB, Infermiere Castelfranco Veneto
Coppola Marina: Responsabile Scientifico CB, Farmacista Castelfranco Veneto
Dell’Antonia Fabio: Componente CB, Pediatra di Libera Scelta Montebelluna
Discussant
Agostini Moreno: Componente CB, Anestesista Montebelluna
Canavacci Laura: Docente a contratto per l’insegnamento di Bioetica delle biotecnologie
presso l’Università degli Studi di Siena
Gallucci Michele: Responsabile dell’Unità di Terapia del Dolore e Cure Palliative P.O.
Desio
Paiusco Paola: Componente CB, Geriatra Servizio Ass. Domiciliare Montebelluna
Pavanello Luigi: Componente CB, Direttore Dipartimento Area Pediatrica Ulss 8 Asolo
Rampazzo Marta: Componente CB, Neuropsichiatra Montebelluna
Rossi don Dionisio: Componente CB, Parroco di Cusignana di Giavera del Montello
Intervistatore, Animatori, Narratori
Casotto Sergio: Componente CB, Magistrato Treviso
Comacchio Anna: Componente CB, Comitato per i Diritti del Malato Castelfranco Veneto
Favaro Lionella: Vice-coordinatore CB, AFD Medicina Generale Castelfranco Veneto
Manente Paolo: Componente CB, Direttore Dipartimento Area Medica Castelfranco
Veneto
Piva Lucia: Componente CB, AFD Anestesia/Rianimazione Montebelluna
Tagliapietra Mauro: Componente CB, Geriatra Servizio Ass. Domiciliare Castelfranco
Veneto
Visentin Angelo: Componente CB, Medico di Medicina Generale Montebelluna
LA MEDICINA CONTEMPORANEA TRA ETICA, DEONTOLOGIA E
DIRITTO.
Abstract Camillo Barbisan
La cifra della contemporaneità attribuita al complesso di fatti e significati identificati
complessivamente con il termine medicina è tutt’altro che formale o scontata. In effetti i
protagonisti e gli assetti di questa vicenda, nel breve volgere di pochi anni, hanno subito
profonde e radicali trasformazioni tali da rendere necessaria una doppia operazione
capace di produrre nello stesso tempo elementi di interpretazione e suggestioni
orientative.
Si rende perciò preliminarmente necessario un ripensamento della relazione tra la
medicina – nel senso dell’assetto complessivo – con:
• il proprio statuto epistemologico;
• l’apparato tecnologico e le possibilità offerte;
• i suoi protagonisti (le soggettività e le professionalità coinvolte);
• i destinatari nella loro identità ridefinita;
• lo scenario della società e della cultura entro le quali tutto si svolge.
Tutto ciò costringe a rilevare quanto la tradizione ha elaborato, perpetuato e consegnato al
fine di percepire la fruibilità dell’etica, della deontologia, della trama normativa che la
esprimono per la vicenda contemporanea.
Si ipotizza l’inderogabile necessità di produrre un ripensamento degli elementi di
interpretazione, regolamentazione, orientamento offerti dalla tradizione senza tuttavia
trascurare un’altra forte esigenza che recepisca l’istanza di una nuova e più radicale
sintesi che nella sia pur giovane vicenda della bioetica già trova la sua adeguata e
responsabile espressione.
“E SE LA PENSIAMO DIVERSAMENTE?”
IL PROBLEMA DEL PLURALISMO MORALE ALL’INIZIO E ALLA FINE
DELLA VITA
Abstract Patrizia Borsellino
Basta fare un rapido giro d’orizzonte nel variegato panorama delle reazioni suscitate
nell’opinione pubblica da alcuni recenti casi bioeticamente rilevanti, saliti agli onori della
cronaca grazie all’attenzione ricevuta dai mass media, per trovare conferma, se ancora ve
ne fosse bisogno, della connotazione “pluralistica” conferita all’etica di senso comune,
propria della società in cui viviamo, dall’adesione degli individui e dei gruppi che ne fanno
parte a diversi insiemi di intuizioni, convinzioni e valori morali. La “diversità morale”
costituisce, dunque, un incontestabile dato di fatto con cui si deve confrontare l’etica, di cui
la bioetica realizza l’applicazione all’ambito degli interventi biomedici sull’uomo anche, e
soprattutto, in quegli “spazi pubblici” per il confronto tra le diverse posizioni che sono i
Comitati etici. Ma in che modo può essere affrontata e trattata la diversità morale nel
contesto dell’etica intesa come riflessione critica che, prendendo l’avvio proprio dal
manifestarsi di situazioni di conflitto e di problemi a cui l’etica di senso comune non
sembra poter fornire adeguate soluzioni, mira ad individuare e a proporre le linee d’azione
individuali e sociali da considerarsi eticamente approvabili, in forza degli argomenti
adducibili a loro sostegno? E ancora, se è vero che la riflessione realizzata nel contesto
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dell’etica critica è destinata ad operare trasformazioni nell’etica di senso comune diffusa, si
dovrà ritenere che la trasformazione a cui tendere sia sempre e comunque quella che
porta al superamento della diversità morale grazie all’affermazione di soluzioni unitarie e
condivise?
Le risposte che è possibile fornire a tali domande variano significativamente in relazione
alla concezione dell’etica e dei connessi percorsi argomentativi a cui si dà la propria
adesione.
Tra le strade argomentative percorribili in bioetica per mostrare la preferibilità di scelte e
linee d’azione vi sono quelle alle quali è sottesa una concezione dell’etica come ambito
(per il raggiungimento) delle «Verità» intorno a ciò che costituisce il bene ultimo dell’uomo,
sul presupposto dell’esistenza di assunti, principi, valori morali da considerarsi
assolutamente validi in virtù della fonte, esterna all’uomo (Dio, la Natura, la Società), da
cui promanano, oppure in virtù della loro inerenza costitutiva all’ontologia dell’uomo. Le
strade argomentative in questione sono, ad esempio, quelle dell’appello ad autorità
ritenute depositarie della verità etica, dell’appello alla Natura intesa come intrinsecamente
normativa in forza del “Gran Disegno” in essa inscritto, dell’«ermeneutica» dell’esperienza
morale, intesa come ricerca capace di determinare ciò che dà senso e valore alle azioni,
e, in generale, al vivere dell’uomo, grazie ad un lavoro, complesso e non predefinibile nei
suoi metodi e criteri, di lettura e di interpretazione delle esigenze intravedibili dietro i punti
di vista, per lo più immediati e preriflessi, e dietro gli stessi pregiudizi, che agli individui
vengono dalle proprie tradizioni. Da tali strade argomentative, accomunate, al di là delle
diversità che le caratterizzano, dal ricorso ad assunti per la cui condivisione non si può
contare su evidenze di tipo empirico e razionale, si differenziano nettamente quelle
inerenti all’etica concepita come autonomo contesto giustificativo, nel quale non v’è
bisogno di far ricorso alla metafisica o a qualche pretesa forma di conoscenza alternativa
e superiore a quella che trova espressione nelle scienze per trovare il criterio (oggettivo)
dell’eticità delle scelte, delle decisioni e delle azioni. Si tratta della prospettiva etica, di
impronta laica, nella quale, rigettata l’idea di una fonte di valori esterna all’uomo e rifiutato
l’appello ad autorità, rivelazioni o intuizioni morali privilegiate come decisivo per il
riconoscimento di principi e criteri d’azione dal valore assoluto, si ritiene che a decidere
dello scontro tra posizioni etiche confliggenti, così come a mostrare la preferibilità di
scelte, decisioni e linee d’azione, siano solo argomenti la cui fondatezza può essere
accertata operando opportuni controlli di tipo intersoggettivo. Di tale natura, a differenza
degli argomenti teologici, ontologico-metafisici ed ermeneutici, sono gli argomenti di fatto,
con i quali si mostra che determinate soluzioni comportano prevedibili conseguenze la cui
eventuale inaccettabilità non può non ripercuotersi sull’accettabilità delle soluzioni stesse,
e gli argomenti di principio, con cui si mettono in evidenza i principi etici di portata
generale ai quali determinate soluzioni possono essere ricondotte come conclusioni a
premesse. Limitare a tali argomenti, suscettibili i primi di controlli empirici, i secondi di
controlli logici, le ragioni giustificanti da considerarsi valide è, secondo tale prospettiva,
condizione necessaria per poter configurare l’etica come contesto di argomentazione
razionale, nel quale ogni individuo che lo desidera può trovare gli strumenti critici utili per
valutare la solidità dei punti di vista e delle posizioni etiche di cui si fa sostenitore.
Nella prima delle due prospettive, improntata a presupposti oggettivistici ed assolutistici,
per la diversità morale, considerata il prodotto di un transitorio disorientamento, se non
addirittura, di un vero e proprio errore etico, non sembra prospettarsi trattamento diverso
dal suo superamento (o annullamento) in una solida uniformità etica conseguita a tutti i
costi (anche con gli strumenti coercitivi del diritto, quando non bastano quelli della
persuasione e della propaganda), facendo prevalere, ed imponendo anche a chi non lo
condivide, uno specifico punto di vista morale, una posizione etica particolare elevata al
rango di unica posizione morale legittimamente sostenibile, se pur costruita su assunti
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filosofici non generalmente condivisi. Se, in tale prospettiva, la ricerca dell’uniformità etica,
da realizzarsi anche al prezzo della delegittimazione di posizioni etiche pur
significativamente rappresentate nella società e dell’aumento della conflittualità, non
sembra potersi facilmente conciliare con il ricorso ad argomenti di cui non si può né
presumere, né pretendere la condivisione e la condivisibilità da parte di tutti gli
appartenenti alla società, nella diversa prospettiva dell’etica come autonomo contesto
giustificativo l’adozione, nella valutazione etica, di argomenti di cui tutti possono accertare
la validità, perché affidati a discorsi suscettibili di controlli intersoggettivi, e quindi di
argomenti riguardo ai quali appare ragionevole l’aspettativa della condivisione, non si
accompagna, per contro, alla convinzione che il superamento della diversità morale,
grazie all’approdo ad un punto di vista eticamente condiviso, sia sempre e comunque
l’obiettivo a cui tendere. L’etica che non sottoscrive la considerazione del pluralismo etico
come prodotto di un transitorio e superabile disorientamento, né si propone compiti
«educativi» difficili da realizzare senza cadere nella tentazione dell’indottrinamento, non si
sottrae, comunque, all’onere di indicare i criteri dell’azione da considerarsi eticamente
approvabile, quando si è in presenza di divergenti valutazioni e punti di vista morali dei
soggetti che ne sono, a vario titolo, interessati. I criteri in questione si risolvono
essenzialmente nella regola procedurale, funzionale alla coesistenza di individui e di
gruppi che non condividono gli stessi impegni e valori morali, in base alla quale, quando
sono in gioco decisioni che riguardano la vita di una persona, sono le valutazioni da essa
stessa espresse al riguardo a segnare il confine tra l’eticità e la non eticità. In altre parole,
sul presupposto che nessun individuo capace e responsabile possa essere privato del
diritto di dar forma alla propria esistenza, e quindi del diritto di scegliere, ove non ne
derivino danni ad altri, ciò che ritiene essere bene per sé, si tratta di rimettere, ove
possibile, alla volontà dei soggetti direttamente interessati le decisioni circa il modo in cui
vivere e morire, assumendo il principio di autonomia come criterio di valutazione etica
operante ad un livello ulteriore rispetto al livello al quale operano gli altri principi morali
fondamentali della condotta umana, i principi di beneficità e di giustizia, e destinato ad
entrare in azione proprio quando, in presenza di divergenti valutazioni intorno a ciò che in
una determinata circostanza costituisca il bene, il ricorso ai principi di giustizia e di
beneficità diviene problematico. Certo, la riflessione etica applicata alla pratica medica si
trova a dover affrontare anche questioni rispetto alle quali il principio di autonomia non
sembra poter funzionare da criterio per l’individuazione della linea d’azione eticamente
approvabile, senza sacrificio della diversità morale. Si tratta delle questioni che riguardano
soggetti che non sono ancora o non sono più in grado di operare scelte secondo i valori in
cui credono, oppure delle questioni, in materia, ad esempio, di destinazione delle risorse o
di definizione delle politiche sanitarie, che investono non solo il chi deve scegliere, ma
anche il come scegliere per soddisfare al meglio esigenze di equità e di appropriatezza
sociale. In questi casi a fornire appropriati criteri di prevalenza, e ad orientare le scelte nel
caso di valutazioni confliggenti, sarà un’etica della responsabilità che, tenendo conto degli
interessi di coloro che sono coinvolti, individui la soluzione idonea a massimizzare la
soddisfazione delle diverse esigenze, e a minimizzare le sofferenze inutili.
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ASPETTI GIURIDICI: NON INIZIARE UN TRATTAMENTO È LO STESSO CHE
SOSPENDERLO?
Abstract Sergio Fucci
1: I principi fondamentali che dovrebbero ispirare la condotta di chi oggi pratica la
medicina sono il rispetto dell’autonomia del paziente, il rispetto delle regole dell’arte e il
rispetto delle regole per una equa distribuzione delle limitate risorse a disposizione del
sistema.
Nel mio intervento mi soffermerò essenzialmente sui primi due di questi “fondamentali”
principi bioetici, con riferimento al paziente maggiorenne e capace.
Il rispetto dell’autonomia del paziente, senza il quale anche la dignità della persona malata
verrebbe lesa, comporta che rientra nei diritti del soggetto interessato accettare o rifiutare
ogni trattamento, anche quello, in ipotesi, salva vita.
A questo principio bioetico, corrisponde sul piano giuridico la regola generale, sancita
anche dalla ns. Carta Costituzionale negli artt. 13 e 32, della volontarietà dei trattamenti
sanitari, ad eccezione di quelli che, per legge, sono “obbligatori“ (T.S.O.).
Ogni individuo capace e maggiorenne può, quindi, decidere se curarsi o meno e, quindi,
se rifiutare o accettare le cure proposte dal medico o l’assistenza proposta dall’infermiere,
secondo le regole dell’arte.
A loro volta gli operatori sanitari, secondo le loro specifiche competenze, devono
consigliare i pazienti in modo appropriato, ispirando la loro condotta alle leggi scientifiche
elaborate secondo le regole dell’EBM.
Le regole scientifiche, com’è noto non sono rigide, tant’è che vi possono essere più
indicazioni di trattamento, anche se in via gradata tra di loro, rispetto ad un stesso
problema sanitario.
Per consentire al paziente di scegliere tra queste “indicazioni” occorre un adeguata
informazione sulla natura della malattia e sulle varie opzioni curative, sulle possibilità di
successo e sui rischi connessi ad ogni tipo di trattamento indicato, sulle conseguenze del
mancato inizio o della sospensione del trattamento.
Il paziente, all’interno delle opzioni offerte dallo stato dell’arte, può, quindi,
consapevolmente indicare quale trattamento accetta ovvero può anche rifiutare il singolo
trattamento reputato necessario dal terapeuta, per motivi religiosi (Testimoni di Geova ed
emostrasfusioni, ad esempio), perché non confacente alla qualità di vita attesa ovvero per
le ragioni più varie ed insindacabili.
Si può, quindi, affermare che per iniziare un trattamento è necessaria una corretta
indicazione medica ed il consenso informato del paziente.
Si può, altresì, affermare che la decisione di non iniziare un trattamento, già oggetto di
indicazione medica, rientra nella libera e consapevole determinazione del paziente, salvo
che il trattamento rifiutato rientri tra quelli obbligatori per legge, da realizzare anche in
modo coercitivo.
Si può, infine, affermare che la decisione di sospendere un trattamento già iniziato rientra
nella libera e consapevole determinazione del paziente.
È noto, peraltro, che vi sono situazioni nelle quali il paziente non è in grado da solo di
sospendere, senza grosse sofferenze, il trattamento, ma che necessita di una
cooperazione da parte degli operatori che l’assistono.
La sospensione della ventilazione artificiale, costituisce un esempio al riguardo.
In queste situazioni come si deve comportare il medico o, in genere, l’operatore
sanitario???
Deve, innazitutto, verificare la capacità decisionale del paziente e la consapevolezza dei
gravi rischi cui va incontro nell’ipotesi della sospensione del trattamento.
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Deve, poi, verificare la persistenza della volontà del paziente di sospendere il trattamento,
con conseguente rischio per la propria vita.
Se non vi sono dubbi sulla capacità e consapevolezza del paziente e sulla sua volontà di
sospendere il trattamento, si “dovrebbe” dar corso alla sospensione in quanto la posizione
di garanzia dell’operatore sanitario non si può legittimamente spingere sino al punto di
continuare un trattamento che il paziente rifiuta.
Ho scritto si “dovrebbe” perché sono note le resistenze degli operatori a sospendere i
trattamenti, ad esempio la ventilazione meccanica, che tengono in vita il paziente.
In questi situazioni, come insegna il famoso caso di Miss. B deciso in Inghilterra dall’Alta
Corte, potrebbe essere il paziente a decidere di convenire in giudizio l’Ospedale ed i
medici per ottenere la sospensione del trattamento.
Altrimenti occorrerebbe attivare la procedura per la nomina del legale rappresentante del
paziente, ritenuto incapace di provvedere ai suoi interessi; questa incapacità deve,
peraltro, essere oggetto di un accertamento in sede giudiziale.
È evidente, peraltro, che non può essere ritenuto incapace il paziente per il solo fatto di
non condividere le scelte terapeutiche offertegli dall’operatore sanitario.
2. Ho, finora, delineato, in linea di massima, lo scenario che riguarda le decisioni di inizio,
ovvero di non inizio o, ancora, di sospensione di un trattamento proposto ad un paziente
maggiorenne e capace.
Sono più complessi i problemi da affrontare quando ci si trovi di fronte a pazienti incapaci
per la loro età, ad esempio un bambino, ovvero maggiorenni divenuti incapaci, senza
peraltro lasciare direttive anticipate o dichiarazioni anticipate di trattamento.
In queste situazioni sia i rappresentanti legali di queste persone incapaci, sia gli operatori
coinvolti nelle cure dovrebbero ispirare le loro decisioni al principio del perseguimento del
“miglior interesse” del paziente.
Talvolta possono nascere, al riguardo, dei conflitti tra i legali rappresentanti ed i medici che
finiscono poi con l’essere risolti dall’A.G.
Nella casistica giudiziaria italiana, ad esempio, ci sono state decisioni con le quali l’A.G. ha
autorizzato l’esecuzione di trattamenti salvavita in favore di minorenni, sospendendo la
potestà dei genitori che si opponevano all’esecuzione delle cure e nominando un soggetto
che, in loro vece, si facesse carico di provvedere a tutelare il “miglior interesse” del piccolo
paziente
L’individuazione di quello che, nel caso specifico, è il “miglior interesse” del paziente non
è, peraltro, sempre agevole.
Possono nascere, al riguardo, conflitti all’interno dell’équipe che che ha in cura il paziente,
possono, altresì, nascere conflitti anche tra i genitori di un piccolo paziente circa le cure da
iniziare ovvero da sospendere ovvero, infine, tra i genitori e, in genere, i legali
rappresentanti del soggetto incapace, da un lato, e i medici, dall’altro.
In queste situazioni la sede naturale per la risoluzione del conflitto, qualora divenuto
insuperabile, è quella giudiziaria.
Questi conflitti possono anche riguardare il rifiuto da parte degli operatori di eseguire
interventi in favore di soggetti vulnerabili, ad esempio, bambini, richiesti dai genitori, ma
ritenuti dall’équipe “intollerabili” per il paziente perché causa di inutili sofferenze, senza
reali benefici.
In Italia non vi sono precedenti del genere, forse perché si cerca di risolvere il “problema”
in modo meno calmoroso.
All’estero, invece, vi sono casi del genere, come quello che, recentemente, ha visto
contrapposti in Inghliterra i genitori della piccola Charlotte e i medici di un Ospedale circa
l’opportunità, negata da questi ultimi, di procedere ad un’ulteriore ventilazione artificiale
della bambina, nel caso in cui se ne fosse presentata la necessità.
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L’Ospedale, per risolvere il conflitto, si è rivolto all’Alta Corte di Londra che, con
provvedimento del 7/10/94, ha deciso che questo trattamento invasivo non corrispondeva
al “best interest” della piccola paziente ed ha, quindi, autorizzato i medici ad astenersi
dalla ventilazione artificiale, anche se l’esecuzione di questo trattamento avrebbe potuto
prolungare la vita di Charlotte.
Non sempre, quindi, preservare il supremo bene della vita corrisponde all’interesse del
paziente, secondo quanto deciso in questo caso dal giudice inglese.
In quest’ultimo caso, nel perseguire il “miglior interesse” della piccola paziente, i medici
inglesi hanno anche, indirettamente, risparmiato risorse che potranno, quindi essere
meglio allocate secondo un principio di giustizia ed equità in favore di un altro paziente
che dovesse averne bisogno.
ASPETTI DEONTOLOGICI: CONTRADDIZIONI ALL’INTERNO DEI CODICI
DEONTOLOGICI MEDICO E INFERMIERISTICO
Abstract Luciano Orsi e Stefano Spaliviero
Entrambi i codici deontologici, quello medico (CDM) e quello infermieristico (CDI), sono
ispirati al rispetto dei quattro principi fondamentali della bioetica: l’autonomia del malato, la
beneficialità, la non maleficialità, la giustizia (nel senso di equo accesso alle cure e di equa
allocazione delle risorse). Pertanto tra il CDM e CDI si registrano molte convergenze ma,
ad una lettura critica sono rilevabili anche alcune importanti contraddizioni che si auspica
siano risolte nelle future stesure da parte dei rispettivi organi (ordini e collegi) competenti.
Tali contraddizioni sono sia interne allo stesso codice che presenti fra i due codici.
Una delle contraddizioni più significative è presente in entrambi i codici riguarda gli
obiettivi della medicina (globalmente intesa come cura ed assistenza) nei confronti della
salute e della vita se questi vengono messi a confronto con il principio etico-deontologico
dell’autodeterminazione del malato, soprattutto al termine delle vita. Infatti, l’Art. 3 del
CDM sancisce che il “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica
dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della
persona umana, senza discriminazioni….La salute è intesa nell’accezione più ampia del
termine come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona”; anche l’Art.
2.1 CDI afferma che “La responsabilità dell’infermiere consiste nel curare e prendersi cura
della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e delle dignità dell’individuo”.
Al termine della vita questi termini entrano in conflitto poiché una rigida interpretazione
della tutela della vita o della salute spesso comporta una violazione della libertà e della
dignità della persona malata nelle cruciali situazioni in cui si deve decidere se iniziare o
proseguire i trattamenti. Inoltre va chiarito in modo esplicito chi decide in che cosa
consiste la dignità nelle fasi avanzate e terminali delle patologie cronico-degenerative. Se
non viene chiaramente esplicitato che è il malato a poter-voler scegliere quale sua
concezione di salute e di vita vuole perseguire e non gli si lascia la più ampia autonomia (e
la correlata responsabilità delle scelte autonome compiute) prevarrano le interpretazioni
restrittive della sua autonomia decisionale in nome della tutele della vita (biologica) e della
salute (più fisica che psichica o globale). Se questo si salda con una non rara pratica di
medicina “difensiva”, questo comporta una sicura sottovalutazione dell’autonomia del
malato. Sullo stesso crinale si pongono le contraddizioni fra il principio di autonomia e
quello di beneficialità contenuto negli Art. Art. 32, 34, 35 del CDM, anche il riferimento
all’Art. 9 della Convenzione di Oviedo sulla Biomedicina (CO). Infatti, nel settore delle
decisioni di fine vita, nel quadro della limitazione dei trattamenti e delle cure palliative il
dovere etico di rispettare l’autonomia del malato e di limitare e i trattamenti favorendo un
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approccio palliativo si possono scontrare con una malintesa tutela del principio etico di
beneficialità e di non maleficialità e con un atteggiamento culturale “vitalistico” ormai
superato nei presupposti teorici ma ancora radicato nel senso comune dei sanitari e di
buona parte della popolazione (malati e famiglie). Analoghe considerazioni sono
formulabili per l’Art. 2.6 del CDI (“….l’IP si impegna a non nuocere, orienta la sua azione
all’autonomia e al bene dell’assistito di cui attiva le risorse …”). Sarebbe bene che anche
il CDI chiaramente esplicitasse che l’autonomia ha la priorità sulla beneficialità e sulla non
maleficialità, poiché non si da un bene o un male che non sia definito tale se non dal
malato stesso….altrimenti saranno altri (sanitari o familiari che stabiliranno se un
trattamento o un non trattamento sono un bene o un male!) Un’altra possibile
contraddizione è ravvisabile nei due concetti di salute esplicitati nei due codici. L’Art. 3 del
CDM afferma che “la salute è intesa nell’accezione più ampia del termine come condizione
cioè di benessere fisico e psichico della persona” mentre l’Art. 2.1 CDI si riferisce alla “la
salute come bene fondamentale dell’individuo e interesse della collettività”. La possibile
contraddizione riguarda una interpretazione estensiva dell’interesse della collettività, che
può ridurre gli spazi di autonomia decisionale dell’individuo in nome di una relazionalità
che lo obbligherebbe a non compiere scelte che vadano contro supposti interesse
“relazionali” della società ampiamente intesa. Per ciò che concerne l’informazione, i due
codici sono apparentemente sintoni, ma una loro lettura rivela possibili difformità o
contraddizioni, Infatti, l’Art. 4.5 recita: “L’IP garantisce le info relative al piano
dell’assistenza…..Si adopera affinché la persona disponga di informazioni globali e non
solo cliniche…”. Questo Art. può essere considerato più determinato dell’Art. 30 CDM “Il
medico deve fornire la più idonea info sulla diagnosi, sulla prognosi sulle prospettive e le
eventuali alternative diagn.-terap. e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il
medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di
promuovere la massima adesione alle proposte diagn.-terap.” sia per il termine garantisce
– se inteso nel senso di farsi garante rispetto al semplice deve dell’art. 34. Inoltre il
termine informazioni globali rappresenta un’espressione più completa potendo riguardare,
ad es. la pianificazione anticipata delle cure, la limitazione dei trattamenti, le cure
palliative, il luogo ove morire, ecc. Inoltre la frase “al fine di promuovere la massima
adesione alle proposte diagn.-terap.” ispira una informazione tesa alla promozione di una
adesione terapeutica, mentre un rispetto dell’autonomia presuppone l’offerta al paz. di
un’informazione più neutra che lasci libero il paz. di aderire o meno al piano di cura
proposto permettendo una scelta condivisa di tale piano”. Un altro elemento di possibile
conflitto fra i 2 Art. è il 3° capoverso dell’Art. 30 del CDM “Le informazioni riguardanti
prognosi gravi o infauste o tali da procurare preoccupazione e sofferenza alla persona,
devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza
escludere elementi di speranza” rispetto al “L’IP garantisce le informazioni relative al piano
dell’assistenza…..Si adopera affinché la persona disponga di informazioni globali e non
solo cliniche” perché la formulazione dell’Art. 30 CDM (chiaramente frutto di laboriosi e
sofferti compromessi interni agli orientamenti etico-culturali della professione medica)
adombra la possibilità di attenuare o limitare l’informazione sotto l’ombrello della prudenza,
delle terminologie non traumatizzanti, della speranza, mentre l’informazione del CDI si
pone su una più forte posizione di garanzia riguarda il fatto che il paz. venga informato.
Ciò crea frequenti conflitti all’interno delle èquipe curanti sui rispettivi ruoli nei confronti
dell’informazione del malato e sul contenuto veritiero e completo dell’informazione fornita.
Se le formulazioni dei due articoli fossero più esplicite e nette si ridurrebbero tali conflitti
interprofessionali facilitando una adeguato processo info del paz. lungo il decorso della
malattia. Il lavoro di èquipe e la gestione programmata e condivisa del processo
informativo possono essere sufficienti ad attenuare tali conflitti.
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E SE LA PENSIAMO DIVERSAMENTE?
IL PROBLEMA DEL PLURALISMO MORALE ALL’INIZIO E ALLA FINE
DELLA VITA
Abstract Corrado Viafora
La riflessione proposta prende spunto dal riconoscimento dello stretto legame che c’è tra
pluralismo morale e istituzione dei Comitati etici, sia per quanto riguarda comitati etici a
livello nazionale che a livello locale. Autorevoli testi istitutivi ne danno conto: valga per tutti
il documento con cui l’Accademia di Pediatria americana invitava a istituire nel 1984 gli
Infants Bioetics Committees e l’Allocuzione con cui Mitterand nello stesso anno si
rivolgeva ai membri del primo comitato stabilmente costituito su base nazionale, quello
francese.
Se di fatto questo legame è innegabile, quali sono le ragioni che ne dicono di diritto la
pertinenza? “I comitati etici – dice J. Welie, in qualità di segretario del Comitato di Bioetica
dell’ospedale universitario di Nimega – sono stati fondati in risposta al pluralismo morale
che caratterizza la società moderna compreso il mondo della sanità; ma come è possibile
raggiungere il consenso in un comitato multidisciplinare se non lo si riesce a raggiungere
fuori dal comitato?”. La domanda solleva la questione relativa a quale modello di etica può
stare alla base del Comitato. L’istituzione di un Comitato etico è impossibile qualora si
assuma una concezione di etica totalmente “soggettiva”, che affida le decisioni a scelte
private sostanzialmente insindacabili. L’istituzione di un comitato etico è, d’altra parte,
inutile qualora si assuma una concezione di etica totalmente “oggettiva”, che pretende di
fondare il giudizio etico su un’univoca deduzione da principi assoluti. Un’adeguata
giustificazione di un Comitato etico può essere fornita dalla concezione dell’etica come
pratica deliberativa.
Sulla base del modello etico-deliberativo sviluppato in ambito etico-politico da A. Gutman e
in ambito etico-clinico da D. Gracia, la riflessione proposta intende individuare, da una
parte, le funzioni sociali della pratica deliberativa con particolare riferimento al ruolo che in
questo possono svolgere i Comitati etici; e dall’altro, proporre l’idea di dignità umana come
sistema di riferimento della deliberazione; evidenziando, attraverso alcune applicazioni al
contesto clinico rispettivamente dell’inizio e della fine della vita, le risorse etico-normative
di quest’idea; e rispondendo insieme alle più frequenti obiezioni che, in lettaratura
vengono mosse alla possibilità di fare dell’idea di dignità umana il criterio orientativo di una
bioetica pubblica.
Riferimenti bibliografici
D. Gracia, La deliberation moral: el metodo de la etica clinica, in “Med. Clin.”, 117 (2001)
pp. 18-23.
A. Gutman – A. Thompson, Deliberating about Bioethics, in “Hastings Center Report”,
1997 May – June, pp. 38-41.
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