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Le stelle di miss Leavitt
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Prologo
Un villaggio nel canyon
Il villaggio era nascosto in fondo a una profonda gola, con pareti talmente ripide e lisce che nessuno le aveva mai scalate. Da laggiù si
riusciva a vedere soltanto una piccola fetta di cielo1.
Abbassando lo sguardo, giù nel canyon, si poteva scorgere, lontana,
una collina. Nessuno avrebbe saputo dire a che distanza si trovasse,
giacché era separata dal villaggio da una distesa impercorribile di calanchi. Oltre quella collina, ancor più inaccessibile, c’era una remota
montagna, che segnava il confine del mondo conosciuto.
Gli abitanti del posto si erano accorti che attraversando il loro
canyon nella sua larghezza, da una parete all’altra, la cima della collina,
che si stagliava sul fondale della montagna, pareva spostarsi leggermente a sinistra o a destra rispetto a essa.Tutti sapevano bene che la
collina non poteva realmente muoversi,ma l’illusione ottica era comunque gradevole.
Un giorno uno di loro, un tipo piuttosto acuto, si accorse di un dettaglio interessante. Quando se ne andava a spasso risalendo il canyon, e
poi lo attraversava da un lato all’altro, la cima della collina sembrava
ancora muoversi rispetto alla montagna, ma molto più lentamente.
Se poi si allontanava ulteriormente, e ripeteva l’esperimento, il movimento si riduceva proporzionalmente. Finì per scoprire che se si fosse
avventurato quanto bastava, non avrebbe più potuto percepire alcuno
spostamento.
E così segnò sul suo taccuino: «l’ampiezza dello spostamento della
collina dipende dalla sua distanza dall’osservatore.» Aveva scoperto
un fenomeno chiamato “parallasse”.
1
Come il lettore potrà ben vedere nel Capitolo 6, questa mia storia del villaggio nel canyon
prende spunto da un commento di Harlow Shapley, pronunciato durante il “grande dibattito” del 1920.
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Tornando al villaggio (da dove, essendosi avvicinato alla collina, l’effetto
tornava a essere più pronunciato) misurò la separazione tra le pareti del
canyon, e cominciò a tracciare uno schizzo: la larghezza del canyon e la
visuale da ognuna delle due pareti fino al centro della collina definivano
un triangolo immaginario. Utilizzando uno strumento di rilevamento,
poté misurare i due angoli alla base del triangolo. Poi, servendosi di
quanto aveva appreso a scuola sulle regole della trigonometria, calcolò
l’altezza del triangolo, ovvero la distanza dal centro della base all’apice,
e quindi dal villaggio attraverso l’impraticabile distesa di calanchi fino
alla cima della collina. Sulla base di quella sua misurazione, venne fuori
che la collina era lontana dieci volte la larghezza del canyon.Arrivarci a
piedi restava impossibile, ma sapere quanto distava era già qualcosa. A
quel punto il mondo sembrava un po’ meno selvaggio.
Col passar degli anni, gli abitanti del villaggio presero a costruire
torri di guardia in pietra, e poterono così elevarsi quanto bastava per
rendersi conto che oltre la prima collina ce n’era un’altra. Grazie alla
stessa tecnica di misurazione,stimarono che la seconda collina si trovasse
a quindici volte la larghezza del canyon. Là dietro ce n’era poi una terza,
la cui distanza fu valutata in venticinque volte la larghezza del canyon.
Se ne scoprirono infine delle altre, ma a quel punto il metodo di misurazione si rivelò inefficace: quelle colline erano talmente lontane che
non si riusciva ad apprezzare nessuno spostamento. Il canyon in cui si
trovava il loro villaggio non era abbastanza largo, e i triangoli erano di
conseguenza troppo piccoli.
Montagna
remota
Collina
Parete
del canyon
Parete
del canyon
Triangolare una montagna.
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L’oggetto più allettante restava tuttavia quell’immobile, oscura montagna che si stagliava all’orizzonte. Pareva infinitamente lontana, posta a una distanza talmente grande da non poter essere misurata.
Qualcuno aveva proposto di organizzare una spedizione, che avrebbe attraversato i pericolosi calanchi che separavano il villaggio dalla
prima collina, per poi avventurarsi oltre, marciando senza tregua fino
ad arrivare laggiù. Ma non c’era nessuno che fosse abbastanza coraggioso, o forse sufficientemente pazzo. Tra i più fantasiosi, c’era chi
immaginava che, una volta usciti dal canyon, si sarebbe potuto spaziare a destra e a manca, fino a percepire il movimento della montagna sullo sfondo di qualche altro massiccio, ancor più lontano e immenso. A quel punto i ricercatori avrebbero potuto determinare la
durata del loro viaggio. Ma quelle non erano che fantasticherie!
In teoria, ci sarebbe stato un altro metodo per valutare indirettamente la distanza della montagna: via via che ci si allontanava da un
oggetto, questo sembrava più piccolo. Qualsiasi cosa posta al doppio
della distanza avrebbe mostrato un’altezza dimezzata. Se quella regola era applicabile negli immediati dintorni del villaggio (e perché
mai non avrebbe dovuto esserlo?) c’era dunque un modo per stimare le misure della montagna.
Durante una giornata estremamente limpida, una vedetta piazzatasi sulla torre più alta decise di cimentarsi con quella tecnica.Aveva
già notato come sulla collina più vicina ci fosse della vegetazione,
che a quella distanza sembrava una miniatura della tipica flora locale,
verdi arbusti spinosi che tappezzavano il fondo della gola. Quel giorno si rese però conto che strabuzzando gli occhi, riusciva a percepire, benché a malapena, una minuscola frangia di verde lungo le cime
della montagna, prova evidente che quei territori remoti non erano
di natura diversa.
Le ci vollero solo pochi secondi per rendersi conto delle più vaste implicazioni. Lavorando con cura, misurò l’altezza apparente dei
piccoli arbusti sulla cima della collina. La minuscola vegetazione sulla cima della montagna risultava essere circa dieci volte più piccola
di quella della collina, il che equivaleva grossomodo a una distanza
pari ad almeno cento volte la larghezza del canyon.
Era una distanza notevole, ma non era l’infinito. Per raggiungere
la montagna ci sarebbero volute una o due settimane di cammino,
sempre che qualcuno fosse riuscito a superare quei tormentati calan-
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chi. Incoraggiata dalla scoperta, una squadra di volontari decise di
mettersi in viaggio. Dalle torri più elevate del villaggio le vedette osservarono gli esploratori mentre riuscivano finalmente a trovare un
passaggio tra i calanchi, e a raggiungere la prima collina, poi la seconda e infine la terza. Ma nel giro di qualche giorno furono fuori
dalla visuale.
Passò una settimana, e gli abitanti del villaggio si misero in osservazione sulle torri, per vedere se la spedizione fosse di ritorno. Dopo
altre due settimane ripresero a scrutare l’orizzonte. Niente. I mesi
volarono via; alla fine, passato un anno, nessuno sperava più di vederli ricomparire.
Infine, un bel giorno, un membro della spedizione fece ritorno a
casa, stremato. Raccontò che la vegetazione sulla cima della montagna era del tutto diversa da quella a cui erano avvezzi nel canyon.
C’erano roseti arborei che si innalzavano fino al cielo, dieci volte più
alti di qualsiasi arbusto fosse mai cresciuto intorno a casa. S’era persino arrampicato in cima a uno di quei colossi, e da lì aveva creduto di
intuire il flebile baluginare delle luci del villaggio. A quel punto si
era reso conto che, sebbene la logica di quel sistema di misurazione
fosse valida, i suoi compaesani si erano lasciati ingannare dai limiti
della loro immaginazione. Dal momento che quei bizzarri alberi
erano dieci volte più alti dei comuni arbusti, la montagna era dieci
volte più lontana di quanto si era immaginato, vale a dire almeno
mille volte la larghezza del canyon.
Nel racconto di Robert Heinlein intitolato Time for the Stars, un’organizzazione filantropica chiamata Long Range Foundation recluta
coppie di gemelli identici per una missione di colonizzazione dello
spazio. La Terra, da tempo sottoposta a una pressione demografica insostenibile, ha già conquistato gli altri pianeti del sistema solare. Ora
bisogna guardare oltre, ai pianeti che orbitano intorno a stelle talmente lontane che i dati relativi alla loro scoperta, viaggiando alla velocità
della luce, impiegherebbero anni per raggiungere il destinatario.
Ed è qui che entrano in gioco i gemelli. Gli scienziati, ci racconta Heinlein, hanno scoperto che molti gemelli hanno capacità telepatiche, e che i segnali che si scambiano mentalmente non sono appesantiti dalle restrizioni a cui devono invece sottostare le onde elettromagnetiche. La comunicazione è istantanea, più veloce della luce,
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indipendente dalla distanza che li separa. Con uno dei gemelli sull’astronave e un altro sulla Terra, la conversazione può aver luogo
istantaneamente attraverso spazi infiniti.
Avevo letto questo racconto, ormai fuori catalogo, quando ero
alle medie, e me n’ero dimenticato, eccezion fatta per l’essenza della
trama, che si sviluppa attorno agli effetti relativistici dei viaggi a velocità prossime a quelle della luce. Per via del rallentamento del tempo, Tom, il gemello sull’astronave, invecchia molto meno rapidamente di Pat, la sua controparte rimasta a Terra. Di conseguenza,
quando Tom fa ritorno a casa, Pat è già un vecchio, e Tom ne sposa
la nipote, con la quale ha continuato a flirtare telepaticamente.
In tutti questi anni, ciò che più mi è rimasto impresso non è tanto l’ovvia elaborazione delle teorie einsteiniane, ma piuttosto una
splendida scena verso la fine del racconto:Tom sta osservando il cielo da un pianeta ospitale che orbita attorno a Tau Ceti, un sistema
stellare a undici anni luce dalla Terra2. Le costellazioni che osserva,
sebbene un po’ distorte rispetto alla configurazione abituale, sono
ancora riconoscibili. Riesce a identificare l’Orsa Maggiore, che appare «leggermente schiacciata rispetto alla visuale terrestre», e scova
anche Orione, il grande cacciatore, nonostante il suo cane, Sirio, sia
finito fuori posto. La scena raggiunge finalmente il culmine quando
Tom scopre che nella costellazione del Boote c’è una stella in più,
un astro di color giallo-biancastro, più o meno di seconda magnitudine. Gli ci vuole solo qualche istante prima di rendersi conto che
sta osservando il nostro Sole.
Non saprei dire perché quella scena abbia così catturato la mia attenzione. Forse anche un ragazzino di quell’età avrebbe dovuto rendersi conto dell’arbitrarietà delle costellazioni, non solo per ciò che
concerne i nomi presi a prestito dalla mitologia greca (c’è davvero
qualcuno che pensa che l’Orsa Maggiore assomigli a un gigantesco
orso?), ma per le forme in sé e per sé. I punti di vista possibili sono
infiniti, ed è del tutto accidentale che certe stelle appaiano nel nostro cielo una di fianco all’altra. Sebbene il cane di Orione sembri
seguire fedelmente il padrone, restando alle sue calcagna, la stella
2 La descrizione del cielo così come osservabile da Tau Ceti si trova in Heinlein, R., Time for
the Stars, Charles Scriber’s Son, New York 1956, pp. 170-171 [trad. it. Astronave alla Conquista,
La Sorgente, 1958].
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principale della costellazione, Sirio, si trova a 8,6 anni luce dalla Terra, nient’affatto vicina alla cintura del cacciatore, le cui stelle sono a
circa 1500 anni luce di distanza.
Analogamente, la cintura di Orione non è per nulla vicina alle
sue spalle, e le sue spalle sono parimenti lontanissime dalle sue ginocchia. Persino la stessa cintura è un artificio dovuto alla prospettiva. Se osservate da altri punti dello spazio, quelle tre stelle formerebbero un triangolo, e si troverebbero in ordine inverso. Se poi ci si
trovasse nella giusta angolazione, tutte e tre le stelle si fonderebbero
in un’unica luce, una stella tripla del tutto illusoria. Portandosi invece al centro della galassia le tre stelle si allontanerebbero definitivamente, portandosi ai più remoti angoli del cielo.
Per chiunque si sia nutrito di fantascienza, o sia cresciuto all’ombra
delle entusiastiche promesse dell’era Kennedy, il programma spaziale
si è rivelato essere un bidone. Chi avrebbe mai immaginato che nel
giro di poche decadi, dopo aver compiuto solo qualche viaggio sulla luna (circa 350 000 chilometri, ovvero una cinquantina di percorsi andata e ritorno tra Los Angeles e New York), la nostra specie
avrebbe completamente abbandonato l’esplorazione umana dello
spazio, e che i nostri leader si sarebbero accontentati delle ridicole
passeggiate dello Space Shuttle, che si alza da terra non più della distanza che separa Baltimora da New York? Le deboli trasmissioni
delle sonde spaziali robotizzate, delle quali la più vecchia ha da poco
varcato i confini del sistema solare, eccitano la fantasia. Ma nella
maggior parte dei casi ci si accontenta di starsene comodamente seduti a casa propria, e di aspettare che le novità cosmiche arrivino
dalle altre stelle, sotto forma di luce.
Siamo dei pantofolai del firmamento. Ma a ciò che ci manca in
spirito d’esplorazione sopperiamo in altro modo. Non viaggiamo
con il corpo.Viaggiamo con la nostra mente.
Pur non avendo mai lasciato la loro dimora, gli astronomi sono in
grado di dirci, con un certo grado di precisione, che la nostra galassia
(la Via Lattea) ha un diametro superiore ai 100 000 anni luce, e che
Andromeda, la galassia della porta accanto, si trova a 2 milioni di anni
luce dalla nostra.Andromeda e diverse altre galassie formano il cosiddetto “Gruppo Locale”. Il nostro vicinato, per l’appunto. Subito fuori
città, a quasi 10 milioni di anni luce, troviamo altre conglomerati di
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galassie, come il gruppo dello Scultore e il gruppo Maffei. Un po’ più
in là, ecco gli ammassi di galassie della Vergine e della Fornace, situati a
circa 50 milioni di anni luce dalla Via Lattea. Se fossero chilometri, si
tratterebbe già di cifre impressionanti. Bisogna considerare che un
solo anno luce equivale a quasi 9500 miliardi di chilometri.
E nonostante ciò, non avremmo ancora lasciato il nostro “super
ammasso” cittadino: una galassia di galassie che si estende per 200 milioni di anni luce. Poi ci sono altri super ammassi, ovunque, fino ai confini dello spazio visibile, ovvero a circa 10 miliardi di anni luce da casa.
Di fronte a una visione talmente grandiosa, è abbastanza sorprendente apprendere che fino a pochi decenni fa, per l’esattezza fino
agli anni Venti, molti astronomi ritenevano che la Via Lattea e l’universo fossero la stessa cosa. Il fatto che oltre alla Via Lattea potesse esserci qualcos’altro era unicamente l’oggetto di dibattiti accademici.
Quelle che oggi sappiamo essere enormi galassie, simili alla nostra,
erano state liquidate come semplici nebulose gassose, piccole e insignificanti chiazze luminose, poste a breve distanza da noi.
Ebbene sì, come per gli abitanti di quel villaggio, c’è stato bisogno di un po’ di tempo, prima che scoprissimo un nuovo metodo di
misurazione.