Immagini dell'altro: dal riconoscimento alla reciprocità Oltre mezzo secolo di filosofia contemporanea, dalla fenomenologia all'esistenzialismo, fino a Lévinas e a Jabès, ci ha insegnato a concettualizzare l'altro come specchio di noi stessi, a identificarci col destino dell'altro, a intuire lo sguardo dell'altro come elemento costituente della nostra stessa identità. E tutta l'antropologia moderna, a differenza di una parte dell'etnologia "missionaria" ma anche di gran parte della sociologia, sempre troppo tentata dalla "modellistica" sociale e dai massimi sistemi, uniformizzanti quando non francamente autoritari, si fonda proprio sul riconoscimento dell'altro come tale, sull'accettazione della sua identità come altra, appunto, diversa e legittima proprio in quanto diversa dalla nostra. Una visione che, se non considera l'identità altra come inassimilabile, ha imparato che l'assimilazione non è di per se stessa un valore, e che al contrario può essere un disvalore, una perdita anziché un arricchimento complessivo. Senza questo riconoscimento non ci sarebbe, e non sarebbe possibile, nessuna antropologia. Per stare a riferimenti "altri", non è illegittimo fare "attraversare", e in questo attraversamento riattualizzare e rileggere, anche il concetto cristiano dell'altro come prossimo, e del prossimo come fratello con cui solidarizzare e non come nemico da respingere, fino al limite di considerare il nemico stesso, e non solo il lontano, come fratello - ma non come uguale, un concetto che nella Bibbia non è di casa (1). Gli uomini, in quanto figli di Dio, ritrovano una fratellanza che come uomini e basta, diversi e divisi tra loro, non riescono a vivere e a sperimentare. L'altro, lo straniero, l'immigrato: Edmond Jabès In tempi più recenti, già applicando la tematica dell'altro allo straniero, un passo ulteriore non da tutti compiuto, Edmond Jabès ha toccato e approfondito questo tema, già presente altrove nella sua opera, nell'ultimo, bellissimo libro pubblicato poco prima della sua morte (2). Un libro che si apre con una affermazione secca, inequivocabile, che è già una dichiarazione d'intenti prima ancora di essere un concetto da approfondire e, più ancora, un modo di essere: "Lo straniero ti permette di essere te stesso facendo, di te, uno straniero". Insegnandoci così ad entrare in una circolarità, né virtuosa né viziosa ma, in potenza, entrambe le cose, che è l'unica dimensione possibile del rapporto, che indica già una prospettiva etica: "Tu sei lo straniero. E io? Io sono, per te, lo straniero. E tu? La stella, sempre, sarà separata dalla stella; ciò che le ravvicina non essendo che la loro volontà di brillare insieme". O ancora: "L'albero è straniero all'albero ma, con questo, partecipa all'estensione della foresta". Jabès ci ricorda che lo straniero, proprio in quanto incompreso e rifiutato, proprio per il prezzo che paga alla sua e alla nostra estraneità, diventa "portavoce qualificato della solidarietà umana". L'invito, molto concreto, è quindi a un'etica della responsabilità e dell'impegno: "Colui a cui tu tardi a tendere la mano paga, solo, il prezzo di questo ritardo. Colui a cui non tendi la mano paga, solo, il prezzo di questo gesto. E questo prezzo, il più delle volte, è esorbitante" Il rapporto, il confronto, non deve però e del resto non può prescindere dall'estraneità dell'altro; e il suo scopo non dev'essere cancellarla. Perchè "la somiglianza è, in sé, tradimento; perchè essa incoraggia gli altri a non cercare mai di conoscerci". Jabès va oltre. Immigrato lui stesso in Francia dall'Egitto, fa un passo ulteriore: quello dallo straniero all'immigrato. Un passo che i suoi interpreti, i suoi esegeti, preferiscono lasciare in ombra, limitandosi a vaghe identificazioni dell'altro, dello straniero, con se stessi, con l'uomo, con il filosofo, il poeta, quando non con Dio stesso. E' più facile, evidentemente, e più comodo lasciare questi concetti, altrimenti impegnativi, nel cielo della metafisica. Fa parte del resto dell'incapacità e della reticenza del mondo accademico al pensare (e all'agire) interdisciplinare - più banalmente, al guardarsi intorno (3). Una capacità che Jabès, al contrario, già nel suo stile di scrittura, coltivava. Il problema dell'identità, della necessità della salvaguardia della propria identità, si riferisce innanzitutto a lui, all'immigrato: "L'immigrato ansioso di non essere più considerato come uno straniero sa che, il suo desiderio esaudito, cessa, nello stesso tempo, di essere se stesso, non essendo, ormai, che la brutta copia di un modello sospetto? Lo straniero è, forse, colui che acconsente a pagare, modesto o esorbitante, il prezzo della sua estraneità. Il prezzo pagato, dunque, per restarlo; cioè, per ciascuno di noi, di essere se stesso". E' qui che Jabès introduce una storia che è la sua propria storia, quella di un egiziano che amava perdutamente la cultura e la poesia francese ma, una volta esiliato in Francia, non sa ritrovare questo amore se non rivolgendosi al deserto delle sue origini, ritrovando nel suo silenzio la risonanza per le parole che ha appreso: "Ti ricordi della storia, nello stesso tempo comica e drammatica, di quell'Africano, entusiasta, sentimentale, il cui amore per la Francia era così espansivo che dormiva, la notte, nella nostra bandiera, fino al giorno in cui fu, da dei vicini che vedevano, nel suo gesto, un oltraggio alla loro patria, bassamente denunciato alle autorità di polizia?". Troviamo qui tutto il dramma dell'incontro, del confronto e dello scontro tra culture, che l'immigrato incarna ma che noi viviamo con lui, per la nostra parte e per la nostra capacità di comprensione, per la nostra responsabilità. Perchè anche noi siamo stranieri a nostra volta. Una constatazione che fa dire a Jabès, in un gioco di parole intraducibile nella sua pienezza: "L'étranger? L'étrange-je?". C'è chi traduce "estran-io". Potremmo dire, letteralmente, alter ego. Una politica per l'altro Se scendiamo (o saliamo, secondo i punti di vista) dalla filosofia alla politica, il passaggio da una concezione alta dell'altro a una considerazione altrettanto alta dello straniero, è meno scontato. Tutta la politologia, da Tucidide a Carl Schmitt che l'ha compiutamente teorizzata (4), passando per Machiavelli e Hobbes, si regge sulla contrapposizione amico-nemico. Il politico si è abituato a sfruttare questa contrapposizione quasi "naturale" per i suoi fini interni di governo della polis. Ma, ancora di più, ha imparato a costruirla e ad alimentarla artificialmente quando naturalmente non c'è. Molto dell'astuzia politica è in questo. E le condanne e le diffidenze del pensiero religioso nei suoi confronti si spiegano forse anche così. Quando poi l'altro, il nemico di ieri, si sposta nel nostro territorio e si mescola a noi, le cose si complicano ulteriormente. Il fenomeno rende più difficili, e nello stesso tempo più urgenti e necessarie, le distinzioni. L'identità sociale (e non solo) a questo punto è in crisi. Non capisce più, non distingue più. E nello stesso tempo sente il bisogno di reagire. E' quanto stiamo vivendo noi, in Europa, oggi. E' il terreno di confronto e l'orizzonte di domani. Immagini dell'altro: lo specchio infedele Già è difficile capire l'altro. Figuriamoci accettarlo. Del resto già l'immagine che ci facciamo dell'altro è sovente distorta: perchè tendiamo a interpretarlo secondo categorie familiari - familiari a noi- ma non necessariamente esplicative della sua condizione. Ce ne accorgiamo, ed è questa la funzione più bella dell'altro, quella che più ci aiuta a comprendere noi stessi, quando è l'altro a tentare di interpretare e giudicare noi. Soprattutto quando il confronto è con culture radicalmente diverse; totalmente altre, per dirla in linguaggio filosofico. Quando prima dell'interpretazione e del giudizio si manifesta, più forte di ogni altra cosa, la curiosità, la sorpresa, la scoperta e la descrizione tra l'attonito e il meravigliato. Per gli indigeni d'America, al tempo della Conquista, gli invasori bianchi furono addirittura scambiati per quanto di più altro ci si possa immaginare: per dei morti, o degli inviati del regno dei morti - e proprio a causa del loro pallore, essendo il bianco il colore dei morti e quindi dei "revenants". Caddero in questo equivoco, almeno in un primo momento, anche a causa dei loro miti ancestrali, gli stessi leggendari capi delle popolazioni che tra le prime incontrarono gli spagnoli: come l'imperatore azteco Montecuhzoma, stando alla versione data da Cortés del suo incontro con lui, e come il capo inca Atahualpa (5). E reazioni analoghe sono attestate anche in Nuova Zelanda, in Melanesia e in generale in tutta l'Oceania (6). L'incontro, e il tentativo di comprensione secondo le proprie categorie, può produrre osservazioni comiche ma non per questo meno puntuali, e tanto più ciò accade quanto più la distanza relativa tra le culture che si incontrano si amplia, come accade quando è un selvaggio, un "primitivo" ad accostarsi o a essere portato nel cuore della civiltà occidentale (7). In un caso in particolare, noto all'antropologia, quello di Ishi, l'ultimo indiano Yahi sopravvissuto all'estinzione della sua comunità e "assorbito" dalla civiltà americana (8),esempio estremo di un incontro tra culture radicalmente diverse, di un uomo passato direttamente "dall'età della pietra al ventesimo secolo", il meccanismo è ancora più evidente e più ricco di insegnamenti. Tuttavia questo procedimento del pensiero è sempre, più o meno inconsciamente, in attività. E sarebbe per noi un esercizio istruttivo se imparassimo qualche volta a cercare di fare tabula rasa in noi stessi, delle nostre conoscenze, per cercare di vederci come potrebbe vederci un immigrato africano appena uscito, con poche e malcerte cognizioni apprese per lo più attraverso immagini veicolate dai mass media, dalla stazione ferroviaria di una qualsiasi delle nostre città. Capiremmo qualcosa di noi, in particolare dei nostri lati peggiori. E ci stupiremmo meno degli equivoci culturali che il nostro comportamento esteriore (siamo nella civiltà dell'immagine, dopotutto- e l'abbiamo voluta noi) induce sui nostri interlocutori. La costruzione di una società plurale Se non siamo capaci di identificarci con l'altro (l'esercizio è del resto difficile, e soggetto comunque a non pochi limiti), può essere utile imparare almeno a lasciarci interrogare dallo sguardo dell'altro, ad ascoltarlo, a leggerlo (9). E a nostra volta a interrogarlo. Senza sentimenti di superiorità ma anche senza sensi di colpa che si tramutano in inferiorità de facto, in accettazione acritica di ciò che talvolta è inaccettabile, e ugualmente senza fingere ugualitarismi che non ci sono. Partendo, questo sì, dal riconoscimento della reciproca diversità. Ma non necessariamente dandole uguale valore: questo è relativismo culturale - un atteggiamento diffuso, ma non necessariamente il migliore e, al di là dei giudizi morali, il più adatto per capirsi. Il dialogo è sovente più efficace e più costruttivo se si svolge tra identità forti - tanto forti da avere avuto il coraggio e il desiderio di intavolare un dialogo. Accade lo stesso in amore, del resto. E il dialogo vero non può esserne del tutto privo. La sim-patia, nel suo profondo significato etimologico che richiama la capacità e la sensibilità di soffire con l'altro, di vibrare al ritmo delle sue sensazioni, anche e soprattutto di quelle dolorose, nel caso del rapporto tra culture è una categoria scientifica, un elemento indispensabile del "metodo". Quel che è certo è che il confronto tra culture non può nascere come competizione. Perchè nel caso dell'immigrazione sarebbe una competizione squilibrata, truccata. Delle due culture che si confrontano e che competono una è infatti dominante e gioca sul suo terreno; l'altra, dominata, non foss'altro che per schiaccianti questioni di numero, gioca invece sul terreno altrui: è, per così dire, in trasferta - il contesto le è nemico. Non è difficile immaginare quale possa essere il vincente, se è la forza ad essere il metro. Anche se, in prospettiva, ogni risultato del genere sarebbe una sconfitta per tutti. Il confronto può avere molti esiti: dall'assimilazione acritica allo scontro aperto (che significa poi xenofobia e razzismo), dal dialogo interculturale in un contesto "plurale", di mutuo riconoscimento, all'appiattimento sottoculturale (10). Quale gioco giocare, per quale scopo, dipenderà, per molta parte, dalla volontà degli attori. Di tutti, quindi: delle culture immigrate e della società che le accoglie. Con responsabilità equamente distribuite. Le condizioni per una società plurale non sono però un dato, tanto meno qualcosa di definito e di definitivamente acquisito. Essa presuppone riconoscimento e reciprocità, dell'altro e tra gli altri, i tanti altri che, individualmente e collettivamente, costituiscono i soggetti, gli attori sociali di questo processo. Una considerazione che ha una valenza tutta particolare, per esempio, nei rapporti interreligiosi, e più specificamente nel più critico tra di essi, il rapporto tra cristianesimo e Islam. Ma che va inevitabilmente applicata a tutto il contesto sociale, nella sua complessa globalità. Forse dovremmo "tornare all'antico", ricordando con Seneca (11), e con una saggezza che viene da ancora più lontano, che "siamo nati per vivere in società". E che "la nostra società è molto simile a una volta di pietre; essa cadrebbe se le pietre non si sostenessero a vicenda, sostenendo così tutta la volta". Lette in un contesto di pluralità culturale, queste parole assumono una coloritura inusuale: si ammodernano e ci spiazzano, ma non perdono in verità. Magari meglio ancora se affiancate dalla cautela anti-autoritaria di un Berdiaev, per il quale "è l'uomo che è un organismo, di cui la società è un organo, e non viceversa". E così per i soggetti collettivi intermedi: per le comunità etniche, per esempio. La prospettiva storica può aiutarci a superare timori legittimi e non infondati, interrogativi che sono di tutti. Secondo Braudel (12), persino quando l'altro è il barbaro invasore, armato e nemico - non dunque un relativamente innocuo immigrato - e quando apparentemente è uscito vincitore, più che dal confronto, dallo scontro, "il barbaro trionfa soltanto nel corto termine. Ben presto è assorbito dalla civiltà soggiogata". Per dirla con un'altra sua efficace espressione, "la porta di casa si richiude alle spalle del barbaro". Noi, anche se qualcuno li chiama i nuovi barbari, non abbiamo a che fare che con degli immigrati, disarmati e in numero modesto, con nessuna ambizione e in ogni caso con nessuna possibilità di presa del potere e, in fin dei conti, non più barbari di noi, o forse solo in maniera diversa. Timori di crollo della civiltà, di fine impero, sono dunque eccessivi e fuorvianti, buoni solo per la demagogia volgare delle vigilie elettorali. Se la civiltà occidentale, o l'Europa, dovesse mai crollare, sarà per ben altri motivi che per la presenza di un gruppo anche consistente di immigrati di varia provenienza; sarà per logiche e contraddizioni tutte interne, semmai. E anzi, se l'Europa ha davvero paura che qualche milione di immigrati possa snaturarne la cultura, è proprio questa paura, allora, il sintomo di una debolezza, in primo luogo culturale, preoccupante - ed è di questa paura che bisogna semmai avere paura, è essa che va curata. Sapendo che la soluzione non potrebbe essere semplicemente la cacciata degli immigrati: non sarebbe risolutivo. Essi sono solo il sintomo che rende visibile l'indebolimento dell'organismo, non la malattia. Si pongono, è inevitabile, nuovi problemi. Forse più grandi di quelli presenti nelle società monoculturali; anche se in fondo, al di là di una certa soglia dimensionale, nessuna società lo è mai stata veramente - nemmeno l'occidente medievale cristiano, che qualche volta si cita ad esempio. Ma che si pongano nuovi problemi non è una novità nella storia dell'uomo. Come non lo è la responsabilità di cercare nuove soluzioni. E' il suo mestiere. Il suo impegno. Il suo destino. Stefano Allievi (1) E nemmeno nell'antropologia del resto: "la semplice proclamazione dell'uguaglianza naturale fra tutti gli uomini e della fratellanza che deve unirli senza distinzione di razza o di cultura, ha qualcosa di deludente perchè trascura una diversità di fatto, che si impone all'osservazione, e di cui non basta dire che non concerne il problema di fondo perchè si sia teoricamente e praticamente autorizzati a fare come se non esistesse" (C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, 1967) (2) E. Jabès, Un étranger avec, sous le bras, un livre de petit format, Gallimard, 1989 (trad. it., Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE, 1990). La traduzione, in questa sede, è responsabilità mia (3) Si veda il fascicolo, per altri versi stimolante, di Aut Aut, n. 241, 1991, dedicato interamente a Jabès (4) C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, 1972 (5) M. Leon-Portilla, El reverso della Conquista, cit. in G. Mazzoleni, Il diverso e l'uguale, Bulzoni, 1975 (6) G. Mazzoleni, cit. (7) Un esempio tra i meno noti, rispetto ai selvaggi portati in tournée nel periodo coloniale, da cui tanti illuministi presero spunto, si trova nei resoconti del viaggio in Europa di un capo delle Samoa agli inizi del secolo (Il papalaghi - Discorsi del Capo Tuiavii di Tiavea delle isole Samoa, Longanesi, 1981). Si tratta, se non proprio di un amabile falso letterario, di materiale abbondantemente rielaborato, che ci aiuta comunque a vederci "con gli occhi dell'altro" (8) Il fatto a cui ci riferiamo è raccontato nel libro, commovente e bellissimo, di T. Kroeber, Ishi un uomo tra due mondi - La storia dell'ultimo indiano Yahi, Jaca Book, 1985, che merita una lettura non superficiale (9) Segnaliamo per esempio, i soli apparsi per ora in italiano, mentre altrove questo genere di testimonianza è già un genere letterario, i libri di P. Khouma, Io, venditore di elefanti, Garzanti, 1990, e quello di S. Methnani, Immigrato, Theoria, 1990 (10) Per le condizioni e un tentativo di definizione della "società plurale" rimando al mio La sfida dell'immigrazione, EMI, 1991 (11) L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, Rizzoli, 1983 (12) F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. I, Le strutture del quotidiano, Einaudi, 1982 Presentazione