RISPOSTA DEMOCRATICA E LAICA Roma, 25 Giugno 2008 Giovanni Incorvati Nell’accettare l’invito di questa introduzione ho pensato di darle un carattere di riflessione culturale. Sarà poi compito di altri passare a contenuti più strettamente giuridici ed anche legislativi, eventualmente. Per oggi avremo a che fare con la Costituzione italiana, in particolare con l’articolo 3 (che riguarda il principio di eguaglianza), in riferimento alle problematiche delle coppie gay e lesbiche. Per fare questo utilizzerò una prospettiva storica e pluridisciplinare, incentrata sul confronto tra norme giuridiche e contenuti etici. Un buon punto di partenza è la recente sentenza della Corte Suprema della California, a proposito dei matrimoni di gay o di lesbiche. Negli Usa , non solo le decisioni della corte suprema, ma anche le leggi che hanno stabilito l’inversione dell’onere della prova, spesso hanno coinciso con veri e propri cambiamenti di paradigma. Per esempio, il KefauverHarris Amendment del 1962 costituisce una pietra miliare della sperimentazione biomedica, determinante per la nascita della bioetica. Fino a quel momento le case farmaceutiche avevano avuto mano libera in questo campo. Ma in quell’anno era scoppiato a livello internazionale lo scandalo Talidomide – non so se ricordate gli effetti terribili di questo farmaco somministrato a migliaia di donne incinte – e la riflessione che ne fu sollevata investì in prima persona l’Associazione medica mondiale. Questa aveva in cantiere da tempo la famosa dichiarazione che poi si sarebbe chiamata, nel 1964, di Helsinki. C’erano state tergiversazioni sui contenuti di questa dichiarazione e qui si capì che occorreva un taglio netto. La svolta fu data negli Usa appunto da questa legge, voluta da J. Kennedy, che invertì l’onere della prova nella sperimentazione su esseri umani. Nel senso che fino a quel momento erano stati i malati che si ritenevano lesi a dover dimostrare la maleficità del farmaco immesso sul mercato. Da quel momento in poi furono le case farmaceutiche a dover dimostrare, in via preventiva rispetto alla commercializzazione, che quel farmaco non faceva male. Un altro esempio importante di inversione dell’onere della prova riguarda la costruzione delle centrali nucleari. Nel 1979 ci fu il disastroso incidente di Three Mile Island che provocò, soprattutto negli Stati Uniti, un grande fermento e portò i Verdi, che fino ad allora erano rimasti alquanto elitari, a dventare un movimento di massa. In occasione della successiva valutazione di impatto ambientale per la costruzione di una nuova centrale, la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò che finché la sorte delle scorie non fosse stata chiarita fin dall’inizio, non si potevano impiantare nuove centrali nucleari negli Stati Uniti. E da allora, infatti, non se ne sono più costruite. Nel primo caso si è raggiunto, dicevo, un punto fermo della bioetica e nell’altro si è affermato un principio base dei movimenti ecologici e ambientalisti. E ora, nel maggio 2008, la Corte Suprema della California cosa fa? Propone anch’essa un’inversione dell’onere della prova. Non ricade più sui fautori del riconoscimento del matrimonio omosessuale il compito di dimostrare che si tratta di un diritto ormai maturo, ma sono i suoi oppositori a dover provare che il suo riconoscimento come diritto porterebbe a una limitazione dei diritti di altri o comunque entrerebbe in conflitto con essi. Altrettanto interessante è il fatto che anche in Italia si prospetta un’inversione dell’onere della prova nell’applicazione della Costituzione. Secondo la tesi in discussione non si tratta di dare la dimostrazione che il matrimonio omosessuale rientra nello schema dell’articolo 29, ma occorre invece provare la ragionevolezza dei divieti che questo articolo conterrebbe nei confronti di tale tipo di matrimonio. L’articolo 29, 1° comma, della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come “società naturale”. Il quesito è: il matrimonio omosessuale può rientrare in questa definizione? Finora la dimostrazione spettava a chi voleva allargarne l’ambito di applicazione. Adesso al contrario viene posta la questione se l’onere della prova non ricada su chi si oppone a questo allargamento. E tuttavia ancora siamo lontani dalla temperie politico- culturale che permetterebbe un rovesciamento di paradigma. Ancora dobbiamo fornire argomentazioni convincenti. Ed è proprio quello che vi propongo in questa conversazione. La linea interpretativa che intendo seguire da una parte è volta a ridiscutere l’espressione “società naturale” che l’art. 29 riferisce alla famiglia. Dall’altra parte essa evidenzia il rapporto essenziale che lo stesso art. 29 ha con l’art. 3, concernente l’eguaglianza come non discriminazione e come azioni positive che incombono allo Stato. Ma non solo. Sottolinea anche il legame con l’art. 32, che riguarda il diritto alla salute. Tutto questo sulla base dei cambiamenti di paradigma avvenuti negli ultimi anni tra le comunità scientifiche in merito all’omosessualità. Ritengo inoltre che per far risaltare la portata dei nuovi diritti presenti in questi articoli sia essenziale una prospettiva che ne metta in luce le radici nel pensiero illuministico ed in particolare in quello di Jean-Jacques Rousseau. L’ispirazione russoiana appare a più riprese nella Costituzione italiana, a cominciare dalla libertà e dall’eguaglianza poste come principi fondamentali dell’ordinamento. Appare in particolare in tre punti rilevanti della mia dimostrazione. Il primo punto riguarda la definizione della famiglia come società naturale, che è tratta dal capitolo secondo del primo libro del Contratto sociale. Rousseau la chiama “società naturale” (“la più antica società e la sola naturale”). Da più parti, e fin dall’epoca della Costituente, ci si chiede: se la famiglia è -come dice l’art. 29, 1° co. -fondata sul matrimonio, cioè su un atto volontario (e su questo non ci sono dubbi), perché allora viene definita “società naturale”? Sul punto si discusse alla Costituente, ma senza farvi chiarezza, e si continua a discutere ancora oggi. La risposta cattolica è nota: la Chiesa utilizza la citazione di Rousseau in termini ancora più precisi dei costituenti. Considera cioè la famiglia come la “prima” società naturale Rousseau diceva “la più antica”. Ma qui, secondo la Chiesa, l’aggettivo “naturale” serve a delimitare i poteri della volontà, che deve mantenersi nell’alveo di ciò che è naturale al matrimonio, ossia del suo fondamento antropologico, dato dal rapporto tra due persone di sesso diverso, che rappresenta il bene in sé. L’interpretazione che la Costituzione stessa offre dell’aggettivo “naturale” va invece in un’altra direzione. L’attributo ricorre soltanto un’altra volta nel corso di questa Carta. E precisamente poco prima, all’art. 25: “Nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale, precostituito per legge”. Qui l’interrogativo che sorge spontaneo è analogo a quello suscitato dall’art. 29, 1° co. Se il giudice è predeterminato dalla legge, in che senso può essere definito naturale? La risposta è che la Repubblica si limita a dettare in astratto le regole della competenza territoriale come garanzia di imparzialità, ma non può assegnare a qualcuno sottoposto a giudizio questo o quel giudice in carne ed ossa. Analogamente, secondo l’art. 29, 1° co., lo Stato, nel richiedere in astratto un fondamento matrimoniale come condizione per poter riconoscere i diritti della famiglia, non può imporre a nessuno dei suoi cittadini questo o quel tipo di coniuge, in corrispondenza di tale o tal altro modello di famiglia. Questa interpretazione fu discussa e accettata dai costituenti. Contro ogni ingerenza esterna, veniva riaffermato il diritto delle persone di far valere le proprie disposizioni naturali, lungo la via maestra tracciata da Rousseau. Questi infatti riferisce l’elemento naturale non ad una limitazione della libertà di scelta ma alla sua massima estensione. È infatti dalla “natura dell’uomo” che discende quella “libertà comune” dei coniugi su cui si fonda la famiglia umana e che la caratterizza rispetto a quella degli altri animali. Siamo sempre nel capitolo secondo, libro primo, del Contratto sociale. Aveva spiegato Rousseau nel Discorso sull’origine della disuguaglianza che “il fisico [l’aspetto fisico] è questo desiderio generale [cioè di tutti gli animali] che porta un sesso a unirsi all’altro; il morale [l’aspetto morale, che caratterizza invece gli umani] è ciò che determina [determina!] questo desiderio e lo fissa esclusivamente su un solo oggetto, o che, almeno per questo oggetto preferito, dà al desiderio un grado di energia più grande.” Ecco, Rousseau sottolinea in modo assolutamente originale che quando ci uniamo in matrimonio con una persona, non lo facciamo prioritariamente per il fatto che è un Tizio o un Caio qualsiasi dell’altro sesso, no... ci uniamo a lei per le sue caratteristiche singolari, indipendentemente da ciò che ha in comune con altri. Questo aspetto divenne importantissimo al momento di elaborare il Codice Civile francese, nel 1801, quando, nel corso di una dura battaglia contro i sostenitori della famiglia tradizionale aristocratica, fu Napoleone stesso che, da antico discepolo di Rousseau, si batté in prima linea per fissare il punto in discussione. La portata giuridica del cambiamento di prospettiva diventava evidente in caso di contestazione di un errore sulla persona con cui ci si è uniti in matrimonio. L’errore sul nome, sui beni, sull’eredità di quella persona, sulla qualità della sua famiglia, sul suo status secondo il diritto canonico, diventavano ininfluenti per il matrimonio. La Chiesa, la nobiltà, perfino il Terzo Stato, erano messi totalmente fuori gioco e non avevano più alcuna possibilità di far valere i propri interessi. Da quel momento, solo se c’è uno scambio di persona rispetto a quella persona determinata con cui voglio unirmi -per esempio se all’atto del matrimonio un travestimento nasconde un secondo individuo, totalmente distinto da quello voluto -allora sì, in quel caso il matrimonio non è valido. Una simile prospettiva ancora oggi viene bollata dalla Chiesa, in quanto fa precedere la ricerca soggettiva del “bene per sé” -per l’individualità propria e di coloro con cui si vuole vivere -rispetto a quella oggettiva, antropologica e di specie, del “bene in sé”. Per giunta Rousseau esalta, come nessun altro aveva fatto prima, il valore politico di questo passaggio, dal fisico al morale, in quanto “produce nell’uomo un cambiamento assai notevole, che nella sua condotta sostituisce la giustizia all’istinto”. È il passaggio fondamentale e caratteristico dell’umano, che lo contrappone radicalmente a ciò che è proprio degli altri animali. Questi non possono fare scelte, seguono l’istinto. Nell’essere umano, invece, al desiderio intersessuale (che Rousseau chiama anche “libertà naturale”), succede la “libertà morale” (Contratto sociale, I, VIII). In ragione di ciò, la famiglia umana “si mantiene solo per convenzione”, dice sempre Rousseau; ed ancora in ragione di questo fatto, aggiunge, la famiglia “è il primo modello delle società politiche” (Contratto sociale, I, II). Così come c’è la scelta del partner, così anche c’è la scelta della società in cui si vuol vivere. Ma il primo cardine su cui poggia la società del Contratto sociale, la libertà, non può sussistere senza l’altro, l’uguaglianza. C’è una dipendenza della libertà dall’uguaglianza. Ecco perché oltre al modello della libertà morale, la famiglia fornisce alle società politiche anche il modello dell’uguaglianza morale. Libertà morale, uguaglianza morale: “invece di distruggere l’uguaglianza naturale [per cui tutti abbiamo degli impulsi fisici], il patto fondamentale sostituisce, al contrario, un’uguaglianza morale e legittima a quanto di disuguaglianza fisica la natura aveva potuto mettere tra gli uomini. E pur diseguali nella forza, nelle disposizioni e negli orientamenti [en force ou en génie], diventano tutti uguali per convenzione e di diritto”. Con queste parole termina il primo libro del Contratto sociale, che si era aperto, come abbiamo visto, con la definizione di società naturale fondata sulla libertà e ora si chiude sull’altro fondamento, quello dell’uguaglianza. L’art. 29, 2° co. della Costituzione, con un preciso riferimento a questo passaggio, contiene così una seconda citazione dal Contratto sociale: “Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Uguaglianza morale e legittima per Rousseau, uguaglianza morale e giuridica per la Costituzione. Ma l’”uguaglianza morale e legittima” di Rousseau può essere riferita tanto ai rapporti interni alla coppia quanto ai rapporti esterni tra coppie di diverso orientamento. E’ ad entrambi questi tipi di rapporti che si applica l’art. 3, 1° co.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinini politiche, di condizioni personali e sociali”. D’altronde Rousseau e la sua compagna, Thérèse, ebbero a sperimentare sulla propria pelle l’intolleranza della chiesa cattolica ai matrimoni misti – ossia quelli tra cattolici (lei) e protestanti (lui) -attraverso il braccio secolare della monarchia assoluta, che ne faceva un reato e che, fino alla legislazione rivoluzionare sul matrimonio civile (1792), condannava loro stessi come concubini ed i loro figli come bastardi. Scomparse le monarchie di diritto divino e con un’unità europea in via di consolidamento, oggi questa intolleranza si rivolge verso i matrimoni disparati, cioè tra persone di religione cristiana e di altre confessioni. In particolare verso quelli tra cattolici e musulmani. Ma, stando al dettato dell’art. 3 co. 1 della Costituzione, le coppie non posono essere discriminate sulla base di criteri religionsi, così come non possono esserlo sulla base di criteri razziali, o linguistici, o di orientamento politico o sessuale. La Rivoluzione francese, tra le tante cose, ha eliminato per prima dai codici penali il reato di sodomia. Gli altri paesi occidentali, uno dopo l’altro, si sono allineati: ultimo il Regno Unito, poco tempo fa. Ma, come tutti sanno, alla colpevolizzazione penale si affiancava la stigmatizzazione sociale, che poi l’ha soppiantata. Da ultimo si è aggiunta, con ulteriori effetti sinergici, la patologizzazione psichiatrica. Ed è qui che cade a proposito la terza citazione sulla quale mi vorrei soffermare. Questa riguarda l’idea, propria di Rousseau e che ha avuto un’influenza sulla dinamica giuridica a partire dalla rivoluzione francese, secondo la quale nelle nostre società le disuguaglianze e le discriminazioni non sono mai statiche, né conoscono fine, ma come l’idra dalle sette teste, nascono e si riproducono le une dalle altre. “E’ perché la forza delle cose tende incessantemente a distruggere l’uguaglianza -dice Rousseau nel Contratto sociale (libro II, capitolo XI) che la forza della legislazione deve tendere di continuo a mantenerla”. L’art. 3, 2° co. della Costituzione, cosciente della dinamica storico-giuridica in cui viene ad inserirsi, ricalca tale formulazione quando stabilisce che è compito della legislazione “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Questo “pieno sviluppo” è un aspetto che in Rousseau certamente mancava, o almeno non era esplicitato. Si potrebbe aggiungere che storicamente è diventato esplicito grazie alla ridefinizione del concetto di salute, così come è stata proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale. Negli ultimi decenni l’American Psychiatric Association (APA), ha condotto un’azione pionieristica in direzione di un cambiamento nei confronti della tendenza alla patologizzazione psichiatrica, con effetti di traino nei confronti di altre società scientifiche come l’American Academy of Pediatrics, l’American Medical Association, l’American Psychological Association, l’American Counseling Association e la National Association of Social Workers. Ma, come si vede, si tratta di società scientifiche esclusivamente americane. Per quanto potenti esse possano essere, incontrano qualche difficoltà a portare tale evoluzione a livello mondiale. Fin dal 1973 l’APA ha eliminato l’omosessualità dal Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali (DSM). Nel 1998 ha poi denunciato come eticamente inaccettabili i tentativi di ripatologizzare l’omosessualità col farla passare per una malattia curabile: tentativi -recita la dichiarazione della sua assemblea -spesso guidati “da forze religiose e politiche che si oppongono al riconoscimento dei diritti civili per i gay e le lesbiche” Finalmente il Position Statement di sostegno al riconoscimento legale del matrimonio civile delle coppie omosessuali, approvato dall’assemblea dell’APA nel maggio 2005, ha rovesciato il paradigma precedente con l’affermazione che i diversi tipi di discriminazione perpetrati dallo Stato nei confronti delle coppie omosessuali “possono influenzare negativamente la stabilità delle loro relazioni e la loro salute mentale”. Soprattutto è stato deliberato che “nell’interesse di mantenere e promuovere la salute mentale, l’American Psychiatric Association sostiene il riconoscimento legale del matrimonio civile omosessuale, con tutti i benefici, diritti e responsabilità conferiti dal matrimonio civile. E si oppone ad ogni forma di restrizione di tali diritti, benefici e responsabilità”. La salute ha non solo un contenuto negativo, secondo questa dichiarazione, ma anche un contenuto positivo. Non è una semplice assenza di patologie, ma qualcosa che deve ancora venire e che richiede di essere massimizzato. All’interno di tale prospettiva i diritti e le responsabilità conferiti dalla legge, in particolare dal matrimonio civile omosessuale, costituiscono un beneficio essenziale per la salute. Termino con un piccolo commento. La fine delle discriminazioni fondate su false patologizzazioni o sul rifiuto del matrimonio omosessuale è fattore essenziale di promozione della salute. Essa rimanda a una nuova immagine della salute risalente al 1946, quando all’atto costitutivo dell’OMS fu premessa la seguente ridefinizione: “la salute non consiste semplicemente nell’assenza di malattie ma in uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Su questo si aprì subito, e continua a restare aperta, la polemica di quanti gridano allo scandalo di fronte a una definizione così utopica, irrealistica e irrealizzabile. Nel corso delle polemiche però non vengono mai ricordate le parole con cui continuava il testo originario: un testo sviluppato e articolato poi dall’OMS nella dichiarazione di Alma Ata del 1978, di cui oggi si festeggia il 30° anniversario. L’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 22 luglio 1946 in effetti così proseguiva: “Il possesso del miglior stato di salute che è capace di raggiungere, costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, quale che sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale”. Ciò che è al centro non è una nozione astratta di uomo o di donna, ma la diversità presente in ogni concreto essere umano. Questa nuova immagine della salute, con i significati più ampi che vi sono implicati, fu recepita in Italia nei lavori della Costituente. Immediatamente dopo la pausa estiva, l’11 settembre 1946, un elenco di discriminazioni molto simile a quello presente nell’atto costitutivo dell’OMS venne inserito nella Costituzione italiana, in quello che diverrà l’art. 3, 1° co.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione […] di razza, [...] di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La “pari dignità sociale” della Costituzione rimanda non solo ai “diritti fondamentali di ogni essere umano” proclamati dall’OMS, ma anche al “miglior stato di salute che è capace di raggiungere”. Diventa chiaro il motivo per cui in tale contesto fu proposto per la prima volta anche l’articolo 32 della Costituzione sul diritto alla salute come “fondamentale diritto dell’individuo”. E appare altrettanto chiaro che questo diritto implica da parte della legislazione non solo, in negativo, dei doveri di rispetto (“la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, dice l’art. 32, 2° co.), ma anche, in positivo, l’obiettivo del “pieno sviluppo della persona umana”, contro i limiti che lo ostacolano “di fatto” (art. 3, 2° co.) E così il cerchio, che secondo me impone un’interpretazione larga dell’articolo 29 sul matrimonio, si chiude........................ C’è un punto che forse non è emerso con chiarezza e che si dovrebbe sviluppare meglio. Certo, ho cominciato con l’inversione dell’onere della prova che propone la Corte Suprema della California. Ma ho finito con l’American Psychiatric Association, che a sua volta di inversione ne propone un’altra. Alla nostra Corte costituzionale sono da girare entrambe, in sinergia. L’APA mette in rilievo il fatto che le discriminazioni attuate dallo Stato nei confronti delle coppie omosessuali influenzano negativamente la stabilità delle relazioni di coppia e la salute mentale dei loro componenti. Non è l’omosessualità che è patologica, ma sono le leggi dello Stato che talvolta inducono delle patologie nelle coppie omosessuali. Perciò non sta a queste dimostrare che la loro non è una relazione patologica; al contrario, sono le istituzioni pubbliche che devono fornire la prova che il modo in cui trattano le persone non ne mette in pericolo la salute. Ma ancora più importante mi pare il fatto che nel 2005 l’APA ha sottolineato in maniera nettissima il nesso esistente tra la parte negativa (la critica della violenza, anche di quella perpetrata attraverso le discriminazioni) e la parte positiva, quella riguardante lo sviluppo e lo stato di benessere sempre maggiore della persona umana. Ritengo che questa sia una grande novità allo stesso tempo scientifica, etica e giuridica. Infatti è il medesimo nesso che .lega l’art. 32 della Costituzione, riguardante il diritto alla salute, e l’art. 3, sul principio d’uguaglianza. Il riconoscimento del matrimonio civile omosessuale, con tutti i benefici, diritti e responsabilità che comporta, contribuisce a mantenere e promuovere la salute non solo della coppia interessata, ma di tutta la società. Perciò a essere interessata a questo fatto è tutta la società. E’ un’affermazione teoricamente molto impegnativa. I diritti di ognuno, i diritti fondamentali, sono indivisibili da un benessere generale, anzi, lo producono essi stessi. A questo proposito l'APA fa due esempi particolari su cui invita a riflettere. Il primo, che meriterebbe una trattazione autonoma in una seduta specifica, è quello della filiazione nella coppia omosessuale. L’American Psychiatric Association non si limita a rilevare che i figli di queste coppie vengono discriminati a livello giuridico. Aggiunge anche che nei confronti della loro salute mentale si esercita una violenza. Ad essi si impedisce di avere quello sviluppo che è necessario per tutti i bambini e che è la premessa senza la quale il pieno sviluppo di tutte le persone umane, di cui parla l’art. 3, 2° co. della Costituzione, non potrebbe nemmeno essere pensato. Su questo tema della filiazione anche un'altra autorevole società scientifica, l’American Pediatric Association, ha dato un contributo parallelo a quello dell’APA. Il secondo esempio è quello della coppia anziana omosessuale. L'APA ricorda che con la tendenza all’avanzamento dell’età nelle nostre società le discriminazioni nei confronti degli omosessuali tendono a crescere. In questa fase della vita, intesa nel suo sviluppo, il fatto di essere riconosciuti come coppia legata da un vincolo matrimoniale costiuisce un importante sostegno psicologico e mentale. Perché non solo all’inizio della vita c’è bisogno, come è ovvio, dello sviluppo della personalità umana di cui parla l’articolo 3, ma anche - e sempre di più, vorrei dire - col progredire dell’età. Tutte le persone mature sanno che diventare anziani è, o meglio dovrebbe essere, un arricchimento individuale e sociale. Questo è un fatto naturale. Le nostre società invece tendono a imporre un generale impoverimento, di cui le coppie omosessuali sono le prime a portare il peso. Questi due esempi mostrano che occorre considerare non solo l’individuo e la coppia omosessuale, ma anche gli altri membri e l’inseme della famiglia, il suo sviluppo nelle diverse fasi della vita. E i due momenti, quello negativo del rifiuto delle imposizioni, delle violenze, e quello positivo dell’apertura al futuro, dello sviluppo, dovrebbero essere visti nella loro continuità, attraverso gli stretti legami che nella Costituzione uniscono l’art. 3 all’art. 29, ed entrambi all’art. 32. Una radice unitaria che è chiara già in Rousseau, quando sottolinea che in una coppia la scelta è diretta non verso un generico essere umano, come potrebbe fare qualsiasi altra specie animale, ma verso quella persona particolarissima. Non è una prospettiva individuale, ma solidaristica. Sulla libertà di scelta non ci possono essere discriminazioni, e quelle che di fatto vengono a crearsi devono essere rimosse dalla legislazione. Quando Rousseau dice che la legge “non è che l’espressione della volontà generale” stabilisce delle connessioni forti tra la salute, il benessere dell’individuo, e il benessere di tutta la società, nella misura in cui questi due tipi di benessere sono frutto di decisioni consapevoli, realmente libere da condizionamenti, e non schiave dell’istinto. È in tal senso che l’elemento solidaristico delle scelte collettive è connaturato all’elemento individuale, delle scelte personali. Ecco, credo che di questo dobbiamo discutere. Non solo nella violenza come patologizzazione, ma anche nell’idea che si ha della malattia mentale e della salute mentale, vedrei una connessione importante su cui riflettere. seguiranno interventi corretti