RISPOSTA DEMOCRATICA E LAICA
Roma, 25 Giugno 2008
Giovanni Incorvati
Nell’accettare l’invito di questa introduzione ho pensato di darle un carattere di riflessione
culturale. Sarà poi compito di altri passare a contenuti più strettamente giuridici ed anche
legislativi, eventualmente. Per oggi avremo a che fare con la Costituzione italiana, in
particolare con l’articolo 3 (che riguarda il principio di eguaglianza), in riferimento alle
problematiche delle coppie gay e lesbiche. Per fare questo utilizzerò una prospettiva
storica e pluridisciplinare, incentrata sul confronto tra norme giuridiche e contenuti etici.
Un buon punto di partenza è la recente sentenza della Corte Suprema della California, a
proposito dei matrimoni di gay o di lesbiche. Negli Usa , non solo le decisioni della corte
suprema, ma anche le leggi che hanno stabilito l’inversione dell’onere della prova, spesso
hanno coinciso con veri e propri cambiamenti di paradigma. Per esempio, il KefauverHarris Amendment del 1962 costituisce una pietra miliare della sperimentazione
biomedica, determinante per la nascita della bioetica.
Fino a quel momento le case farmaceutiche avevano avuto mano libera in questo campo.
Ma in quell’anno era scoppiato a livello internazionale lo scandalo Talidomide – non so se
ricordate gli effetti terribili di questo farmaco somministrato a migliaia di donne incinte – e
la riflessione che ne fu sollevata investì in prima persona l’Associazione medica mondiale.
Questa aveva in cantiere da tempo la famosa dichiarazione che poi si sarebbe chiamata,
nel 1964, di Helsinki. C’erano state tergiversazioni sui contenuti di questa dichiarazione e
qui si capì che occorreva un taglio netto. La svolta fu data negli Usa appunto da questa
legge, voluta da J. Kennedy, che invertì l’onere della prova nella sperimentazione su
esseri umani.
Nel senso che fino a quel momento erano stati i malati che si ritenevano lesi a dover
dimostrare la maleficità del farmaco immesso sul mercato. Da quel momento in poi furono
le case farmaceutiche a dover dimostrare, in via preventiva rispetto alla
commercializzazione, che quel farmaco non faceva male. Un altro esempio importante di
inversione dell’onere della prova riguarda la costruzione delle centrali nucleari. Nel 1979 ci
fu il disastroso incidente di Three Mile Island che provocò, soprattutto negli Stati Uniti, un
grande fermento e portò i Verdi, che fino ad allora erano rimasti alquanto elitari, a dventare
un movimento di massa. In occasione della successiva valutazione di impatto ambientale
per la costruzione di una nuova centrale, la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò che
finché la sorte delle scorie non fosse stata chiarita fin dall’inizio, non si potevano
impiantare nuove centrali nucleari negli Stati Uniti. E da allora, infatti, non se ne sono più
costruite.
Nel primo caso si è raggiunto, dicevo, un punto fermo della bioetica e nell’altro si è
affermato un principio base dei movimenti ecologici e ambientalisti. E ora, nel maggio
2008, la Corte Suprema della California cosa fa? Propone anch’essa un’inversione
dell’onere della prova. Non ricade più sui fautori del riconoscimento del matrimonio
omosessuale il compito di dimostrare che si tratta di un diritto ormai maturo, ma sono i
suoi oppositori a dover provare che il suo riconoscimento come diritto porterebbe a una
limitazione dei diritti di altri o comunque entrerebbe in conflitto con essi. Altrettanto
interessante è il fatto che anche in Italia si prospetta un’inversione dell’onere della prova
nell’applicazione della Costituzione. Secondo la tesi in discussione non si tratta di dare la
dimostrazione che il matrimonio omosessuale rientra nello schema dell’articolo 29, ma
occorre invece provare la ragionevolezza dei divieti che questo articolo conterrebbe nei
confronti di tale tipo di matrimonio.
L’articolo 29, 1° comma, della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce i diritti
della famiglia come “società naturale”. Il quesito è: il matrimonio omosessuale può
rientrare in questa definizione? Finora la dimostrazione spettava a chi voleva allargarne
l’ambito di applicazione. Adesso al contrario viene posta la questione se l’onere della
prova non ricada su chi si oppone a questo allargamento. E tuttavia ancora siamo lontani
dalla temperie politico- culturale che permetterebbe un rovesciamento di paradigma.
Ancora dobbiamo fornire argomentazioni convincenti. Ed è proprio quello che vi propongo
in questa conversazione.
La linea interpretativa che intendo seguire da una parte è volta a ridiscutere l’espressione
“società naturale” che l’art. 29 riferisce alla famiglia. Dall’altra parte essa evidenzia il
rapporto essenziale che lo stesso art. 29 ha con l’art. 3, concernente l’eguaglianza come
non discriminazione e come azioni positive che incombono allo Stato. Ma non solo.
Sottolinea anche il legame con l’art. 32, che riguarda il diritto alla salute. Tutto questo sulla
base dei cambiamenti di paradigma avvenuti negli ultimi anni tra le comunità scientifiche in
merito all’omosessualità. Ritengo inoltre che per far risaltare la portata dei nuovi diritti
presenti in questi articoli sia essenziale una prospettiva che ne metta in luce le radici nel
pensiero illuministico ed in particolare in quello di Jean-Jacques Rousseau.
L’ispirazione russoiana appare a più riprese nella Costituzione italiana, a cominciare dalla
libertà e dall’eguaglianza poste come principi fondamentali dell’ordinamento. Appare in
particolare in tre punti rilevanti della mia dimostrazione. Il primo punto riguarda la
definizione della famiglia come società naturale, che è tratta dal capitolo secondo del
primo libro del Contratto sociale. Rousseau la chiama “società naturale” (“la più antica
società e la sola naturale”). Da più parti, e fin dall’epoca della Costituente, ci si chiede: se
la famiglia è -come dice l’art. 29, 1° co. -fondata sul matrimonio, cioè su un atto volontario
(e su questo non ci sono dubbi), perché allora viene definita “società naturale”? Sul punto
si discusse alla Costituente, ma senza farvi chiarezza, e si continua a discutere ancora
oggi.
La risposta cattolica è nota: la Chiesa utilizza la citazione di Rousseau in termini ancora
più precisi dei costituenti. Considera cioè la famiglia come la “prima” società naturale Rousseau diceva “la più antica”. Ma qui, secondo la Chiesa, l’aggettivo “naturale” serve a
delimitare i poteri della volontà, che deve mantenersi nell’alveo di ciò che è naturale al
matrimonio, ossia del suo fondamento antropologico, dato dal rapporto tra due persone di
sesso diverso, che rappresenta il bene in sé. L’interpretazione che la Costituzione stessa
offre dell’aggettivo “naturale” va invece in un’altra direzione. L’attributo ricorre soltanto
un’altra volta nel corso di questa Carta. E precisamente poco prima, all’art. 25: “Nessuno
può essere distolto dal suo giudice naturale, precostituito per legge”.
Qui l’interrogativo che sorge spontaneo è analogo a quello suscitato dall’art. 29, 1° co. Se
il giudice è predeterminato dalla legge, in che senso può essere definito naturale? La
risposta è che la Repubblica si limita a dettare in astratto le regole della competenza
territoriale come garanzia di imparzialità, ma non può assegnare a qualcuno sottoposto a
giudizio questo o quel giudice in carne ed ossa. Analogamente, secondo l’art. 29, 1° co., lo
Stato, nel richiedere in astratto un fondamento matrimoniale come condizione per poter
riconoscere i diritti della famiglia, non può imporre a nessuno dei suoi cittadini questo o
quel tipo di coniuge, in corrispondenza di tale o tal altro modello di famiglia. Questa
interpretazione fu discussa e accettata dai costituenti. Contro ogni ingerenza esterna,
veniva riaffermato il diritto delle persone di far valere le proprie disposizioni naturali, lungo
la via maestra tracciata da Rousseau.
Questi infatti riferisce l’elemento naturale non ad una limitazione della libertà di scelta ma
alla sua massima estensione. È infatti dalla “natura dell’uomo” che discende quella “libertà
comune” dei coniugi su cui si fonda la famiglia umana e che la caratterizza rispetto a
quella degli altri animali. Siamo sempre nel capitolo secondo, libro primo, del Contratto
sociale.
Aveva spiegato Rousseau nel Discorso sull’origine della disuguaglianza che “il fisico
[l’aspetto fisico] è questo desiderio generale [cioè di tutti gli animali] che porta un sesso a
unirsi all’altro; il morale [l’aspetto morale, che caratterizza invece gli umani] è ciò che
determina [determina!] questo desiderio e lo fissa esclusivamente su un solo oggetto, o
che, almeno per questo oggetto preferito, dà al desiderio un grado di energia più grande.”
Ecco, Rousseau sottolinea in modo assolutamente originale che quando ci uniamo in
matrimonio con una persona, non lo facciamo prioritariamente per il fatto che è un Tizio o
un Caio qualsiasi dell’altro sesso, no... ci uniamo a lei per le sue caratteristiche singolari,
indipendentemente da ciò che ha in comune con altri.
Questo aspetto divenne importantissimo al momento di elaborare il Codice Civile francese,
nel 1801, quando, nel corso di una dura battaglia contro i sostenitori della famiglia
tradizionale aristocratica, fu Napoleone stesso che, da antico discepolo di Rousseau, si
batté in prima linea per fissare il punto in discussione. La portata giuridica del
cambiamento di prospettiva diventava evidente in caso di contestazione di un errore sulla
persona con cui ci si è uniti in matrimonio.
L’errore sul nome, sui beni, sull’eredità di quella persona, sulla qualità della sua famiglia,
sul suo status secondo il diritto canonico, diventavano ininfluenti per il matrimonio. La
Chiesa, la nobiltà, perfino il Terzo Stato, erano messi totalmente fuori gioco e non avevano
più alcuna possibilità di far valere i propri interessi. Da quel momento, solo se c’è uno
scambio di persona rispetto a quella persona determinata con cui voglio unirmi -per
esempio se all’atto del matrimonio un travestimento nasconde un secondo individuo,
totalmente distinto da quello voluto -allora sì, in quel caso il matrimonio non è valido.
Una simile prospettiva ancora oggi viene bollata dalla Chiesa, in quanto fa precedere la
ricerca soggettiva del “bene per sé” -per l’individualità propria e di coloro con cui si vuole
vivere -rispetto a quella oggettiva, antropologica e di specie, del “bene in sé”. Per giunta
Rousseau esalta, come nessun altro aveva fatto prima, il valore politico di questo
passaggio, dal fisico al morale, in quanto “produce nell’uomo un cambiamento assai
notevole, che nella sua condotta sostituisce la giustizia all’istinto”. È il passaggio
fondamentale e caratteristico dell’umano, che lo contrappone radicalmente a ciò che è
proprio degli altri animali.
Questi non possono fare scelte, seguono l’istinto. Nell’essere umano, invece, al desiderio
intersessuale (che Rousseau chiama anche “libertà naturale”), succede la “libertà morale”
(Contratto sociale, I, VIII). In ragione di ciò, la famiglia umana “si mantiene solo per
convenzione”, dice sempre Rousseau; ed ancora in ragione di questo fatto, aggiunge, la
famiglia “è il primo modello delle società politiche” (Contratto sociale, I, II). Così come c’è
la scelta del partner, così anche c’è la scelta della società in cui si vuol vivere. Ma il primo
cardine su cui poggia la società del Contratto sociale, la libertà, non può sussistere senza
l’altro, l’uguaglianza. C’è una dipendenza della libertà dall’uguaglianza. Ecco perché oltre
al modello della libertà morale, la famiglia fornisce alle società politiche anche il modello
dell’uguaglianza morale.
Libertà morale, uguaglianza morale: “invece di distruggere l’uguaglianza naturale [per cui
tutti abbiamo degli impulsi fisici], il patto fondamentale sostituisce, al contrario,
un’uguaglianza morale e legittima a quanto di disuguaglianza fisica la natura aveva potuto
mettere tra gli uomini. E pur diseguali nella forza, nelle disposizioni e negli orientamenti
[en force ou en génie], diventano tutti uguali per convenzione e di diritto”. Con queste
parole termina il primo libro del Contratto sociale, che si era aperto, come abbiamo visto,
con la definizione di società naturale fondata sulla libertà e ora si chiude sull’altro
fondamento, quello dell’uguaglianza.
L’art. 29, 2° co. della Costituzione, con un preciso riferimento a questo passaggio,
contiene così una seconda citazione dal Contratto sociale: “Il matrimonio è ordinato sulla
eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Uguaglianza morale e legittima per Rousseau,
uguaglianza morale e giuridica per la Costituzione. Ma l’”uguaglianza morale e legittima” di
Rousseau può essere riferita tanto ai rapporti interni alla coppia quanto ai rapporti esterni
tra coppie di diverso orientamento. E’ ad entrambi questi tipi di rapporti che si applica l’art.
3, 1° co.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinini politiche, di condizioni
personali e sociali”.
D’altronde Rousseau e la sua compagna, Thérèse, ebbero a sperimentare sulla propria
pelle l’intolleranza della chiesa cattolica ai matrimoni misti – ossia quelli tra cattolici (lei) e
protestanti (lui) -attraverso il braccio secolare della monarchia assoluta, che ne faceva un
reato e che, fino alla legislazione rivoluzionare sul matrimonio civile (1792), condannava
loro stessi come concubini ed i loro figli come bastardi.
Scomparse le monarchie di diritto divino e con un’unità europea in via di consolidamento,
oggi questa intolleranza si rivolge verso i matrimoni disparati, cioè tra persone di religione
cristiana e di altre confessioni. In particolare verso quelli tra cattolici e musulmani. Ma,
stando al dettato dell’art. 3 co. 1 della Costituzione, le coppie non posono essere
discriminate sulla base di criteri religionsi, così come non possono esserlo sulla base di
criteri razziali, o linguistici, o di orientamento politico o sessuale.
La Rivoluzione francese, tra le tante cose, ha eliminato per prima dai codici penali il reato
di sodomia. Gli altri paesi occidentali, uno dopo l’altro, si sono allineati: ultimo il Regno
Unito, poco tempo fa. Ma, come tutti sanno, alla colpevolizzazione penale si affiancava la
stigmatizzazione sociale, che poi l’ha soppiantata.
Da ultimo si è aggiunta, con ulteriori effetti sinergici, la patologizzazione psichiatrica. Ed è
qui che cade a proposito la terza citazione sulla quale mi vorrei soffermare. Questa
riguarda l’idea, propria di Rousseau e che ha avuto un’influenza sulla dinamica giuridica a
partire dalla rivoluzione francese, secondo la quale nelle nostre società le disuguaglianze
e le discriminazioni non sono mai statiche, né conoscono fine, ma come l’idra dalle sette
teste, nascono e si riproducono le une dalle altre. “E’ perché la forza delle cose tende
incessantemente a distruggere l’uguaglianza -dice Rousseau nel Contratto sociale (libro II,
capitolo XI) che la forza della legislazione deve tendere di continuo a mantenerla”.
L’art. 3, 2° co. della Costituzione, cosciente della dinamica storico-giuridica in cui viene ad
inserirsi, ricalca tale formulazione quando stabilisce che è compito della legislazione
“rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Questo
“pieno sviluppo” è un aspetto che in Rousseau certamente mancava, o almeno non era
esplicitato. Si potrebbe aggiungere che storicamente è diventato esplicito grazie alla
ridefinizione del concetto di salute, così come è stata proposta dall’Organizzazione
Mondiale
della
Sanità
(OMS)
all’indomani
dell’ultimo
conflitto
mondiale.
Negli ultimi decenni l’American Psychiatric Association (APA), ha condotto un’azione
pionieristica in direzione di un cambiamento nei confronti della tendenza alla
patologizzazione psichiatrica, con effetti di traino nei confronti di altre società scientifiche
come l’American Academy of Pediatrics, l’American Medical Association, l’American
Psychological Association, l’American Counseling Association e la National Association of
Social Workers. Ma, come si vede, si tratta di società scientifiche esclusivamente
americane. Per quanto potenti esse possano essere, incontrano qualche difficoltà a
portare tale evoluzione a livello mondiale. Fin dal 1973 l’APA ha eliminato l’omosessualità
dal Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali (DSM).
Nel 1998 ha poi denunciato come eticamente inaccettabili i tentativi di ripatologizzare
l’omosessualità col farla passare per una malattia curabile: tentativi -recita la dichiarazione
della sua assemblea -spesso guidati “da forze religiose e politiche che si oppongono al
riconoscimento dei diritti civili per i gay e le lesbiche” Finalmente il Position Statement di
sostegno al riconoscimento legale del matrimonio civile delle coppie omosessuali,
approvato dall’assemblea dell’APA nel maggio 2005, ha rovesciato il paradigma
precedente con l’affermazione che i diversi tipi di discriminazione perpetrati dallo Stato nei
confronti delle coppie omosessuali “possono influenzare negativamente la stabilità delle
loro relazioni e la loro salute mentale”.
Soprattutto è stato deliberato che “nell’interesse di mantenere e promuovere la salute
mentale, l’American Psychiatric Association sostiene il riconoscimento legale del
matrimonio civile omosessuale, con tutti i benefici, diritti e responsabilità conferiti dal
matrimonio civile. E si oppone ad ogni forma di restrizione di tali diritti, benefici e
responsabilità”. La salute ha non solo un contenuto negativo, secondo questa
dichiarazione, ma anche un contenuto positivo. Non è una semplice assenza di patologie,
ma qualcosa che deve ancora venire e che richiede di essere massimizzato. All’interno di
tale prospettiva i diritti e le responsabilità conferiti dalla legge, in particolare dal matrimonio
civile omosessuale, costituiscono un beneficio essenziale per la salute.
Termino con un piccolo commento. La fine delle discriminazioni fondate su false
patologizzazioni o sul rifiuto del matrimonio omosessuale è fattore essenziale di
promozione della salute. Essa rimanda a una nuova immagine della salute risalente al
1946, quando all’atto costitutivo dell’OMS fu premessa la seguente ridefinizione: “la salute
non consiste semplicemente nell’assenza di malattie ma in uno stato di completo
benessere fisico, mentale e sociale”.
Su questo si aprì subito, e continua a restare aperta, la polemica di quanti gridano allo
scandalo di fronte a una definizione così utopica, irrealistica e irrealizzabile. Nel corso
delle polemiche però non vengono mai ricordate le parole con cui continuava il testo
originario: un testo sviluppato e articolato poi dall’OMS nella dichiarazione di Alma Ata del
1978, di cui oggi si festeggia il 30° anniversario.
L’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 22 luglio 1946 in effetti così
proseguiva: “Il possesso del miglior stato di salute che è capace di raggiungere,
costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, quale che sia la sua razza, la
sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale”. Ciò che è
al centro non è una nozione astratta di uomo o di donna, ma la diversità presente in ogni
concreto essere umano. Questa nuova immagine della salute, con i significati più ampi
che vi sono implicati, fu recepita in Italia nei lavori della Costituente.
Immediatamente dopo la pausa estiva, l’11 settembre 1946, un elenco di discriminazioni
molto simile a quello presente nell’atto costitutivo dell’OMS venne inserito nella
Costituzione italiana, in quello che diverrà l’art. 3, 1° co.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione […] di razza, [...] di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La “pari dignità sociale” della
Costituzione rimanda non solo ai “diritti fondamentali di ogni essere umano” proclamati
dall’OMS, ma anche al “miglior stato di salute che è capace di raggiungere”.
Diventa chiaro il motivo per cui in tale contesto fu proposto per la prima volta anche
l’articolo 32 della Costituzione sul diritto alla salute come “fondamentale diritto
dell’individuo”. E appare altrettanto chiaro che questo diritto implica da parte della
legislazione non solo, in negativo, dei doveri di rispetto (“la legge non può in nessun caso
violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, dice l’art. 32, 2° co.), ma anche, in
positivo, l’obiettivo del “pieno sviluppo della persona umana”, contro i limiti che lo
ostacolano “di fatto” (art. 3, 2° co.) E così il cerchio, che secondo me impone
un’interpretazione larga dell’articolo 29 sul matrimonio, si chiude........................ C’è un
punto che forse non è emerso con chiarezza e che si dovrebbe sviluppare meglio. Certo,
ho cominciato con l’inversione dell’onere della prova che propone la Corte Suprema della
California. Ma ho finito con l’American Psychiatric Association, che a sua volta di
inversione ne propone un’altra. Alla nostra Corte costituzionale sono da girare entrambe,
in sinergia. L’APA mette in rilievo il fatto che le discriminazioni attuate dallo Stato nei
confronti delle coppie omosessuali influenzano negativamente la stabilità delle relazioni di
coppia e la salute mentale dei loro componenti. Non è l’omosessualità che è patologica,
ma sono le leggi dello Stato che talvolta inducono delle patologie nelle coppie
omosessuali. Perciò non sta a queste dimostrare che la loro non è una relazione
patologica; al contrario, sono le istituzioni pubbliche che devono fornire la prova che il
modo in cui trattano le persone non ne mette in pericolo la salute. Ma ancora più
importante mi pare il fatto che nel 2005 l’APA ha sottolineato in maniera nettissima il
nesso esistente tra la parte negativa (la critica della violenza, anche di quella perpetrata
attraverso le discriminazioni) e la parte positiva, quella riguardante lo sviluppo e lo stato di
benessere sempre maggiore della persona umana. Ritengo che questa sia una grande
novità allo stesso tempo scientifica, etica e giuridica. Infatti è il medesimo nesso che .lega
l’art. 32 della Costituzione, riguardante il diritto alla salute, e l’art. 3, sul principio
d’uguaglianza. Il riconoscimento del matrimonio civile omosessuale, con tutti i benefici,
diritti e responsabilità che comporta, contribuisce a mantenere e promuovere la salute non
solo della coppia interessata, ma di tutta la società. Perciò a essere interessata a questo
fatto è tutta la società. E’ un’affermazione teoricamente molto impegnativa. I diritti di
ognuno, i diritti fondamentali, sono indivisibili da un benessere generale, anzi, lo
producono essi stessi. A questo proposito l'APA fa due esempi particolari su cui invita a
riflettere. Il primo, che meriterebbe una trattazione autonoma in una seduta specifica, è
quello della filiazione nella coppia omosessuale. L’American Psychiatric Association non si
limita a rilevare che i figli di queste coppie vengono discriminati a livello giuridico.
Aggiunge anche che nei confronti della loro salute mentale si esercita una violenza. Ad
essi si impedisce di avere quello sviluppo che è necessario per tutti i bambini e che è la
premessa senza la quale il pieno sviluppo di tutte le persone umane, di cui parla l’art. 3, 2°
co. della Costituzione, non potrebbe nemmeno essere pensato. Su questo tema della
filiazione anche un'altra autorevole società scientifica, l’American Pediatric Association, ha
dato un contributo parallelo a quello dell’APA. Il secondo esempio è quello della coppia
anziana omosessuale. L'APA ricorda che con la tendenza all’avanzamento dell’età nelle
nostre società le discriminazioni nei confronti degli omosessuali tendono a crescere. In
questa fase della vita, intesa nel suo sviluppo, il fatto di essere riconosciuti come coppia
legata da un vincolo matrimoniale costiuisce un importante sostegno psicologico e
mentale. Perché non solo all’inizio della vita c’è bisogno, come è ovvio, dello sviluppo della
personalità umana di cui parla l’articolo 3, ma anche - e sempre di più, vorrei dire - col
progredire dell’età. Tutte le persone mature sanno che diventare anziani è, o meglio
dovrebbe essere, un arricchimento individuale e sociale. Questo è un fatto naturale. Le
nostre società invece tendono a imporre un generale impoverimento, di cui le coppie
omosessuali sono le prime a portare il peso. Questi due esempi mostrano che occorre
considerare non solo l’individuo e la coppia omosessuale, ma anche gli altri membri e
l’inseme della famiglia, il suo sviluppo nelle diverse fasi della vita. E i due momenti, quello
negativo del rifiuto delle imposizioni, delle violenze, e quello positivo dell’apertura al futuro,
dello sviluppo, dovrebbero essere visti nella loro continuità, attraverso gli stretti legami che
nella Costituzione uniscono l’art. 3 all’art. 29, ed entrambi all’art. 32. Una radice unitaria
che è chiara già in Rousseau, quando sottolinea che in una coppia la scelta è diretta non
verso un generico essere umano, come potrebbe fare qualsiasi altra specie animale, ma
verso quella persona particolarissima. Non è una prospettiva individuale, ma solidaristica.
Sulla libertà di scelta non ci possono essere discriminazioni, e quelle che di fatto vengono
a crearsi devono essere rimosse dalla legislazione. Quando Rousseau dice che la legge
“non è che l’espressione della volontà generale” stabilisce delle connessioni forti tra la
salute, il benessere dell’individuo, e il benessere di tutta la società, nella misura in cui
questi due tipi di benessere sono frutto di decisioni consapevoli, realmente libere da
condizionamenti, e non schiave dell’istinto. È in tal senso che l’elemento solidaristico delle
scelte collettive è connaturato all’elemento individuale, delle scelte personali. Ecco, credo
che di questo dobbiamo discutere. Non solo nella violenza come patologizzazione, ma
anche nell’idea che si ha della malattia mentale e della salute mentale, vedrei una
connessione importante su cui riflettere.
seguiranno interventi corretti