Firenze 3 – martedì 17 maggio 2016 – Aula Capitolare del Convento di Santo Spirito La duplice nozione di Dio: nomen aeternitatis e nomen misericordiae a) nomen aeternitatis Agostino ricorda nelle Confessiones che prima della lettura dei libri platonici aveva fatto propria la concezione materialistica dei Manichei e poi anche quella degli Stoici (conf. III, 7, 12; V, 10, 19); aveva anche creduto che un Dio anche buono non può aver chiamato all'essere nessun essere cattivo; tuttavia pensava che il bene e il male facessero capo a due principi opposti e che questi principi fossero “due masse opposte tra loro, entrambe infinite, anche se in misura più limitata la cattiva, più ampia la buona” (conf. V, 10, 20). Abbandonata dopo qualche tempo la nozione manichea e quella delle due sostanze contrapposte egli continuò a mantenere la visione materialistica “costruendosi un Dio esteso in ogni direzione negli spazi infiniti” (conf. VII, 14 , 20) (Cfr. N. Cipriani, Dio nel pensiero di S. Agostino, in Dio nei padri della Chiesa, 14, Roma 1996, pp. 258-259); pur essendo pervenuto all'idea di un Dio incorruttibile, inviolabile e immutabile restava nella convinzione “di pensare Dio come qualcosa di corporeo, esteso nello spazio, incluso nel mondo o anche diffuso per gli spazi infiniti oltre il mondo, simile all'etere degli Stoici (conf. VII, 1-2). Nel libro settimo delle confessiones Agostino segnala la lettura dei libri platonici e le scoperte che ne seguirono: i libri platonicorum gli permisero di scoprire Dio come essere supremo, principio di tutti gli esseri e l'esistenza della Verità, come sostanza spirituale, inestesa, esistente in modo immutabile ed eterno (conf. VII, 10, 16) e provvidente (G. Madec, Thématique augustinienne de la Providence, “Revue des études Augustiniennes” IXL, 1995, pp. 291-308). Scrive: “Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso entrai nell'intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché tu o Dio divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l'occhio della mia anima, sopra la mia intelligenza, la luce immutabile della Verità” (conf. VII, 10, 16); così presto si rese conto che la metafisica platonica pur assai ricca di intuizioni portava con sé dei limiti che occorreva rimuovere. Con l'aiuto delle Lettere di san Paolo (conf. VII, 20, 26- VII, 21, 27) Agostino impara a riconoscere la differenza che c'è tra presunzione (praesuntio) e riconoscimento (confessio), tra coloro che vedono dove bisogna andare ma non vedono la via (intervidentes quo eundem sit nec videntes qua) e coloro che vedono la via che conduce a quella patria che rende felici, patria non solo da vedere ma in cui anche abitare (et viam ducetem ad beatificam patriam non tantum cernentam sed et ad habitandam). Scrive: “E cominciai (a leggere) e compresi che tutto quello che lì (nei libri platonici) avevo letto di vero qui (nelle Lettere di Paolo) è detto con la garanzia della tua grazia”. L'incontro con Lettere San Paolo permise ad Agostino di andare al di là del platonismo e di operare da subito l'identificazione dell'Uno, del Sommo bene, realtà impersonale con il Dio personale creatore e provvidente della fede cristiana. In quegli stessi giorni un prete milanese di nome Simpliciano attira l'attenzione di Agostino sul Prologo di San Giovanni. Sappiamo da un passo del De civitate Dei (X, 29, 2) che Simpliciano ed Agostino discussero sui contenuti del testo di Giovanni. Agostino lesse il Prologo fino in fondo e poté così identificare nella persona di Cristo la sapienza dell'Orthensius, l'intelletto dei libri 1 platonici e il Verbo del Prologo di San Giovanni. Da allora egli fu in possesso del principio ordinatore della sua dottrina, che non è altro che Cristo: Verbo Dio che illumina e Verbo incarnato che salva. (G. Madec, La patria e la via. Cristo nella vita e nel pensiero di Sant'Agostino, Roma 1993, p.42). Dobbiamo precisare che non vi fu in Agostino prima una conversione dal manicheismo al neoplatonismo e poi, solo dopo alcuni anni, un'altra conversione dal neoplatonismo al cristianesimo come ha scritto P. Alfaric (P. Alfaric, L'évolution intellectuelle de Saint Augustin. 1: Du manichéisme au Néoplatonisme, Paris 1918 (volume unico), p.379), né ci fu una conversione al Cristianesimo solo a metà come ha scritto O. Du Roy (O. Du Roy, L'intelligence de la foi en la Trinité selon s. Augustin. Genése de sa théologie trinitaire jusq'en, 391, Paris 1966, p. 148) perché avrebbe confuso la Trinità cristiana con la triade plotiniana e in particolare lo Spirito santo con la Ragione-emanazione dell'anima universale (N. Cipriani, Dio nel pensiero cit., p. 259). Nei Dialoghi, scritti prima di ricevere il Battesimo da Sant'Ambrogio (nella Veglia Pasquale del 387), è evidente lo sforzo speculativo di vedere sotto una nuova luce la natura di Dio e i rapporti tra Dio e l'uomo, tra Dio e il mondo. Già nella riflessione filosofica maturata nel ritiro di Cassiciacum Agostino introduce nell'indagine speculativa un primo mutamento di prospettiva rispetto alla filosofia classica. Se per i grandi filosofi antichi il focus della filosofia è costituito dal problema cosmologico se si eccettua Socrate e per certi versi la sofistica; come vedremo invece per Agostino il focus è costituito dal problema antropologico e quindi teologico. Ciò che la filosofia greca cercava era un principio che rendesse comprensibile il mondo. Da Talete a Plotino il pensiero greco aveva messo a fuoco il problema del rapporto tra l'Uno e il molteplice. Da qui spuntarono due altre questioni che non mutarono il senso e l'impostazione del problema di fondo ma lo determinarono nel rapporto con due termini che da principio erano solo sottintesi: uno con la scuola socratica era il problema dell'uomo; l'altro con la scuola neoplatonica il problema di Dio. Il mondo infatti non si spiega senza Dio. Ma l'uomo e Dio nel pensiero greco intervengono soltanto per spiegare il mondo, per renderlo comprensibile all'uomo che lo contempla, perché possa trovare la ragione anche della propria esistenza. Per Agostino invece il punto di partenza della filosofia è di ordine teologico e antropologico. Dio è innanzitutto sorgente e principio dell'esistenza dell'uomo e quindi ragione dell'esistenza del mondo (cfr. A. Carlini, Perché credo, Brescia 1952, pp. 133-134). Un esempio dello sforzo speculativo di Agostino per vedere sotto una luce nuova la natura di Dio e il rapporto tra Dio e l'uomo, si trova all'inizio del De ordine in cui l'Autore tenta di configurare una visione teologica conforme alla visione cristiana, mettendo innanzitutto a fuoco con realismo e in polemica con Plotino due questioni: a) Dio esiste ed è buono e si interessa degli uomini, cioè è provvidente; b) Gli uomini il più delle volte sono malvagi. Nelle prime righe del De ordine, Agostino rivela la coscienza chiara che ha della realtà di un Dio personale e provvidente e della presenza del male dentro la storia umana (vita humana), sottolineando che Dio è un essere personale che possiede un arbitrio segretissimo (secretissimum arbitrium) e che a lui occorre attribuire la potenza e il governo di tutto ciò che di razionale vi è nei movimenti dei corpi e che va al di là del disegno della volontà umana. All'arbitrio libero dell'uomo occorre invece attribuire l'origine della perversitas in rebus humanis che caratterizza la storia umana. Nell'approfondire questi punti Agostino con grande abilità utilizza e poi attacca il filosofo neoplatonico Plotino. Contro questa verità prima riguardante la natura di Dio e la sua opera dentro la storia, che l'uomo che non è cieco di mente (caecus est mente) sa riconoscere, sono state avanzate tre ipotesi in cui si possono individuare tre correnti filosofiche: l'epicureismo, lo stoicismo e il neoplatonismo. 2 Così viene espressa da Agostino la prima ipotesi: “... a meno che le membra degli animali anche piccolissimi, calcolate con una misura tanto esatta e precisa, non siano frutto del caso...”. Qui Agostino enuncia l'ipotesi epicurea secondo la quale il cosmo non è la realizzazione di un disegno da parte di Dio; la cosmologia epicurea coincide con la negazione di ogni razionalità e finalità. Così viene formulata la seconda ipotesi: “... oppure colui che nega che questo sia fatto per caso possa dichiarare che ciò sia fatto attraverso la ragione...”. Qui è configurato un chiaro riferimento allo stoicismo, secondo il quale il mondo non è un prodotto del caso, ma un cosmo ordinato, un organismo, un continuum compenetrato e razionalmente informato dall'unica ratio immanente; la cosmologia stoica, infatti, coincide con l'affermazione di un finalismo universale e immanente. Formulata la seconda ipotesi, così come avanzata da Plotino nelle Enneadi, Sant'Agostino attacca la soluzione suggerita dal filosofo neoplatonico. Ci troviamo di fronte a uno dei passi più importanti e difficili del De Ordine e dell'intera produzione filosofica agostiniana. Riportiamo il passo in lingua latina: “... Aut vero per universam naturam, quod in singulis quibusque rebus nihil arte humana satagente ordinatum miramur, alienare a secretissimo Maiestatis arbitrio, ullis nugis vanae opinionis audebimus”. A noi sembra che il testo agostiniano vada tradotto come segue: “... Oppure in verità, in nome di una natura universale (per universam naturam) oseremo, a causa di alcune frivolezze di una vana opinione (ullis nugis vanae opinionis), sottrarre all'arbitrio segretissimo della (divina) Maestà, (secretissimum maiestatis arbitrium) ciò che ammiriamo ordinato in tutte le singole cose, senza l'intervento di alcuna arte umana”. La diversità di traduzione rispetto a quelle proposte in precedenza da alcuni autori non è senza conseguenze di ordine speculativo. Il “per” davanti a “universam naturam” non ha un valore spaziale, bensì causale. Esso va tradotto “in nome di” oppure “con il pretesto di”. Occorre osservare che lo studioso francese A. Solignac, traducendo l'intero passo, ha omesso la traduzione dell'espressione controversa “per universam naturam”. L'espressione latina “universa natura” coincide con ciò che Plotino, ispirandosi agli stoici, chiama “anima mundi”. Possiamo chiederci la ragione per la quale Agostino indagando sul governo del mondo da parte di Dio, usi l'espressione “secretissimum majestatis arbitrium”. Come giustamente ha fatto notare A. Solignac, Agostino si pronuncia contro la concezione di provvidenza divina su cui Plotino indaga nel secondo trattato della terza Enneadi. L'intuizione dello studioso agostiniano francese va approfondita; ci sembra infatti che egli non abbia tratto le conseguenze implicite della sua scoperta; conseguenze che emergeranno in primo piano dal confronto testuale tra un testo di Plotino della terza Enneadi e quello di Agostino. Scrive infatti il filosofo di Licopoli: “Tralasciamo pure quella provvidenza particolare che è il ragionamento prima dell'azione con il quale ci chiediamo se occorra compiere o no quell'atto non necessario, e che cosa ne 3 derivi o non derivi a noi; consideriamo soltanto la provvidenza universale e, supponendone l'esistenza, deduciamone le conseguenze. Se affermiamo che il mondo non è sempre esistito ma esiste solo da un certo tempo, porremo una provvidenza simile a quella che abbiamo ora nominata riguardo alle cose particolari: cioè una previsione e un calcolo di Dio sul come creare il mondo e renderlo il migliore possibile. Ma poiché noi affermiamo che il mondo esiste sempre e non v'è momento nel quale esso non esista, dobbiamo giustamente concludere che c'è una provvidenza universale e che essa è la conformità dell'universo all'intelligenza; che l'intelligenza gli è anteriore, non cronologicamente, ma in quanto esso deriva dall'intelligenza, la quale gli è anteriore per natura, ne è la causa, l'archetipo e il modello di cui il mondo è immagine, esistente e sussistente per opera dell'intelligenza, in questo modo” (Plot. Enn. III, 2, 1). Dal passo di Plotino si ricavano due concezioni della provvidenza: una provvidenza particolare (prónoia ef 'ecásto) e una provvidenza universale (tou pantòs prónoia). La prima è la provvidenza dell'uomo che ragiona prima dell'azione; questa consiste nel chiedere se occorre compiere un'azione o non occorre compierla e che cosa ne deriva per noi se la compiamo e che cosa ne deriva se non la compiamo. In poche parole la provvidenza particolare è la provvidenza dell'uomo saggio nella sfera dell'umano. La seconda è la provvidenza universale. Questa può essere concepita tanto in analogia a quella umana, quanto in maniera diversa. Plotino tralascia la provvidenza particolare, quella umana, e respinge la provvidenza universale concepita in analogia alla provvidenza umana sulla base del dogma della filosofia greca secondo il quale il mondo è eterno. E' chiaro che Plotino qui polemizza contro la concezione biblica della creazione (V. Pacioni O.S.A., L'unità teoretica del De ordine di S. Agostino, Roma 1996, pp. 81-94). All'indomani della conversione, Agostino ha compreso chiaramente che la nozione di Dio personale e creatore che emerge dal primo capitolo della Genesi contraddice per molti aspetti la teologia platonica e neoplatonica. Approfondisce, inoltre, la nozione metafisica di Dio nei molti dialoghi scritti prima del presbiterato, utilizzando anche alcune intuizioni di filosofi pagani. Il convertito chiama Dio “Misura senza misura” per escludere l'idea di misura o limite (beata v. 4, 34); la Misura suprema è chiamata anche “sommo Bene” eterno e immutabile (sol. 1, 1,6); Uno, “Unità suprema senza estensione” (vera rel. XLIII, 81); arriva persino a integrare la nozione di Dio come “Uno” di origine platonica con quella di puro “Essere” di origine aristotelica (mor. II, 1, 1); si chiede inoltre se è possibile elaborare con l'aiuto della ragione una prova dell'esistenza di Dio. Nel secondo libro del De libero arbitrio, l'interlocutore di Agostino, Evodio, chiede di avere una certezza razionale dell'esistenza di Dio; il maestro dimostra che è possibile elaborare una dimostrazione razionale a partire da fatti evidentissimi. Questi “fatti molto evidenti”, osserva Agostino, non sono le cose del mondo esterno ma alcune certezze che ciascuno può intuire riflettendo sulla propria struttura antropologica. L'uomo infatti, consapevole della propria facoltà razionale, se interpellato, non può negare di esistere, di vivere e di pensare. È cosa molto evidente che possediamo queste certezze mediante l'aiuto dei sensi del corpo, del senso interiore e della ragione. E' cosa manifesta che i sensi sono superiori ai corpi percepiti (questi esistono, quelli -i sensi- esistono e percepiscono); inoltre il senso interiore è superiore ai sensi corporei (questi sono giudicati da quello) e infine la ragione è superiore ai sensi e anche al senso interno dal momento che il senso interno è giudicato dalla ragione (lib. arb. 2, 4, 10). Fin qui l'argomentazione elaborata si basa sul principio che chi giudica è superiore a chi è giudicato e possiede un livello di vita più alto. A partire dallo stesso principio si perviene all'esistenza di Dio. 4 Infatti se si riesce a dimostrare che la ragione umana, che di per sé è mutevole, senza l'aiuto dello strumento corporale e senza la mediazione dei sensi inferiori “... ma per se stessa intuisce qualcosa di eterno e di immutabile e nello stesso tempo intuisce di essergli inferiore, dovrà confessare che questo è il suo Dio” (lib. arb. 2, 6, 14). Si potrà allora dimostrare che l'intelletto dell'uomo, quando dà giudizi nell'ambito della matematica, dell'estetica e della sapienza, intuisce regole eterne e immutabili le quali non sono altro che la Verità. E dal momento che la Verità, immutabile ed eterna, si rivela superiore all'intelletto umano, per natura mutevole, si può allora concludere che la Verità è Dio e procede da Dio (lib. Arb. 2, 15, 40) (Cfr. N. Cipriani, Dio nel pensiero cit., p. 262). Così l'esistenza di Dio -dice Agostino- “non la riteniamo indubitabile solamente per fede, ma l'abbiamo raggiunta con una forma di conoscenza certa, sebbene assai tenue” (lib. arb. 2, 15, 39). Oltre questa prova di ordine antropologico nelle opere agostiniane troviamo anche una prova di ordine cosmologico cioè a partire dall'osservazione della perfezione delle realtà creaturali (vera rel. XXIX e segg.). Le creature infatti, parlano a tutti con la loro bellezza, ma solo coloro che sanno giudicarla ascoltano la loro voce; per chi non sa giudicare esse, restano mute (conf. 10, 6, 10). Nell'ottavo libro nel De citate Dei, Agostino inizia un lungo dialogo critico con la tradizione platonica, in particolare con il pensiero filosofico-teologico di Platone e di alcuni neoplatonici con l'intento di approfondire la nozione di Dio. Platone-osserva Agostino-ha il merito di aver collocato Dio nella sede ontologicamente più adeguata: supra omnem animae naturam confitentur. Il filosofo greco ha riconosciuto Dio come causa che ha realizzato l'universo, luce che fa conoscere la verità, sorgente di felicità, essere immutabile (G. Fidelibus, Ragione, religione, città. Una rilettura filosofica del libro VIII del De civitate Dei di S. Agostino, Teramo (Italy) 2002, p.76). Senza disconoscere la novità dell'acquisizione della conoscenza di Dio in senso metafisicamente trascendente e monoteistico, è cosa probabile, scrive Agostino (civ. Dei VIII, 11), che Platone non fosse all'oscuro dei libri della S. Scrittura e in particolare del libro dell'Esodo. È sorprendente infatti la vicinanza della dottrina teologica di Platone e il passo di Esodo 3, 14, dove è detto che per mezzo di un angelo Mosè ricevette un messaggio di Dio e, chiedendo questi il nome di chi gli ordinava di dirigersi verso il popolo ebreo per liberarlo dall'Egitto, gli fu risposto: “Io sono colui che sono”. Dopo questo riconoscimento, Agostino si sofferma ad applicare alla saggezza filosofica dei platonici il giudizio di S. Paolo secondo il quale “In loro è manifesto ciò che di Dio si può conoscere perché Dio lo ha loro manifestato. Infatti fin dall'origine del mondo i suoi invisibili si scorgono con il pensiero attraverso il creato” (cfr. Rom 1, 19, 20); e poi concentra la sua attenzione sulla nota paolina appena successiva e più volte richiamata: “Se bene conoscessero Dio non gli hanno dato lode e rendimento di grazia come a Dio conviene ma si smarrirono nei propri pensieri” (cfr. Rom, 1, 21 ss). Conclude: “ Ma tutti costoro (cioè tutta la tradizione Accademica da Platone fino a Porfirio e Apuleio) e gli altri di questa scuola ritennero che si dovessero tributare riti sacri a più dei” (civ. Dei VIII, 12; cfr. G. Fidelibus, Ragione cit., p. 286). Lo studioso agostiniano G. Fidelibus ha parafrasato con una domanda il testo agostiniano: come può accadere che da una concezione formalmente veritiera e teologicamente corretta di Dio (uno, trascendente il mondo e l'anima di cui è artefice e causa immutabile ed eterno) quale quella platonica, derivino contemporaneamente il ritenere insufficiente per l'uomo il culto di un tale Dio per il conseguimento della felicità e la necessità di rivolgerlo ad una molteplicità di esseri (G. Fidelibus, Ragione, cit., p. 78). La ragione di questo cedimento di pensiero, di questa degenerazione platonica nel politeismo sta, secondo Agostino (civ. Dei VIII, 18), in un principio che Platone enuncia in Simposio 203a e che il discepolo platonico Apuleio pone a fondamento della sua demonologia e demonolatria come pratica religiosa: nullus deus miscetur homini. (civ. Dei VIII, 18; 5 cfr. G. Fidelibus, Ragione cit., p. 354). b) nomen misericordiae Ordinato prete e chiamato a predicare alla comunità cristiana, Agostino decide di fare una lettura sistematica della S. Scrittura; approfondisce la nozione di Dio. Nel discorso sesto (serm. 6, 4-5) e settimo (serm. 7,7) studiando il terzo capitolo dell'Esodo riflette sulle due definizioni che Dio, parlando con Mosè, attribuisce a sé (Es. 3,13-15). La riflessione sarà ripresa nel commento al salmo 104 (Enarr. in Ps. 104, 4) e al salmo 134 (Enarr. in Ps. 134, 6). Prima di studiare i commenti che Agostino suggerisce, è opportuno riportare il testo biblico nella lingua latina: 13. Ait Moyses ad Deum: Ecce ego vadam ad filios Israel, et dicam eis: Deus patrum vestrorum misit me ad vos. Si dixerint mihi: Quod est nomem ejus? Quid dicam eis? 14. Dixit Deus ad Moysem: Ego sum qui sum. Ait: Sic dices filiis Israel: Qui est, misit me ad vos. 15. Dixitque iterum Deus ad Moysem: Haec dices filiis Isael: Dominus Deus patrum vestrorum, Deus Abraham, Deus Isaac et Deus Jacob misit me ad vos: hoc nomen mihi est in aeternum, et hoc memoriale meum in generationen et generationen. In questo tratto della S. Scrittura, commenta Agostino nel sermone sesto, Dio si attribuisce due nomi differenti. In un primo momento dialogando con Mosè, Dio dà questa definizione di sé: “Ego sum qui sum. Ait: Sic dices filiis Israel: Qui est misit me ad vos”. A sua volta rivolgendosi amichevolmente a Dio Agostino domanda: “Cosa significa questo? O Dio, o Signore nostro, come Ti chiami!”- “Io mi chiamo Est”, risponde. “Ma che cosa significa questa espressione: “Io mi chiamo Est”- “Questa espressione significa che Io rimango in eterno, dal momento che non sono soggetto a mutamento”. Agostino commenta: le cose che mutano non sono, perché non rimangono: mentre ciò che è rimane. Ciò che muta fu qualcosa e sarà qualcosa, ma non è, dal momento che è mutevole. Perciò l'immutabilità di Dio si è adeguata a chiamarsi con questo nome: “Ego sum qui sum” (serm. 6,4,5). Già in mor. II, 1,1 Agostino aveva intuita nozione di Dio: “Di Lui appunto si deve dire che è al massimo grado, dal momento che rimane sempre nel medesimo stato, è in ogni aspetto simile a se stesso, in nessuna parte può corrompersi e mutare, non soggiace al tempo e non può essere ora diverso da come era in precedenza. È infatti ciò che si dice essere nell'accezione più vera. Poiché a questa parola è connesso il significato di una natura che sussiste in sé e che rimane nel suo stato immutabilmente. Di questa natura non possiamo dire altro se non che è Dio, al quale è impossibile trovare alcunché di contrario, se lo si cerca nel modo retto. L'essere infatti non ha un contrario all'infuori nel non essere.” La riflessione che troviamo nel De moribus è probabilmente ispirata a Porfirio. L'idea porfiriana di Dio come Uno, vero Essere, che pensa se stesso, costituisce un modello metafisico che Agostino fin dall'inizio ha creduto opportuno utilizzare (Cfr. V. Pacioni, Agostino d'Ippona. Prospettiva storica e attualità di una filosofia, Milano 2004, p. 133). 6 Fin qui non ci sarebbero difficoltà particolari, se la Scrittura – o, di nuovo, Dio nella Scrittura – non rivendicasse subito un altro nome (Cfr. E. Gilson, Filosofia e incarnazione in Sant'Agostino, Roma 1999, p. 27). “Perché allora più tardi”, fa notare Agostino, “Dio si attribuisce un altro nome, e differente, affermando: Ego sum Deus Abraham, et Deus Isaac et Deus Jacob: Hoc mihi nomen est in sempiternum”. Viene avanzata questa risposta da parte di Dio: “Sopra Io mi chiamo così perché “Io sono”, e ora do di me un altro nome: Ego sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Jacob”. Agostino suggerisce questo commento: ”Dal momento che Dio è immutabile, e ha fatto ogni cosa mediante la sua misericordia il Figlio di Dio stesso si è adeguato, assumendo un corpo mutevole e rimanendo ciò che è, vale a dire il Verbo di Dio, di venire nel mondo e di soccorrere l'uomo. Così, Colui che è si rivesti di una carne mortale perché potesse essere chiamato (ut dici posset) Ego sum Deus Abraham, et Deus Isaac et Deus Jacob. Nel Sermo settimo Agostino approfondisce la sua interpretazione di Esodo 3, 13-15. Riportiamo innanzitutto alcuni tratti di serm. 7, 7: “ A Mosè, che gli chiedeva il proprio nome, il Signore rispondeva: Ego sum qui sum. Ait: Sic dices filiis Israel: Qui est misit me ad vos (…) Cosa significa Ego sum qui sum, se non: Sono eterno: (…) Avendo già un nome che esprime eternità (nomen aeternitatis), in più si è degnato di avere un nome che esprimesse misericordia (nomen misericordiae): Ego sum Deus Abraham, et Deus Isaac et Deus Jacob. Il primo per se (in se), il secondo per noi (ad nos). Se volesse essere soltanto ciò che è per se, che cosa saremmo noi? Se Mosè capì bene, anzi proprio perché capì bene, quando gli fu detto: Ego sum qui sum. Ait: Sic dices filiis Israel: Qui est misit me ad vos, credette che questo era troppo elevato per gli uomini (dai quali andava), vide che questo era molto al di sopra della capacità comprensiva degli uomini. (…) Mosè si vedeva molto diverso e non adatto a comprendere non quello che vedeva ma quello che gli si diceva; acceso dal desiderio di vedere l'Essere, chiedeva a Dio con il quale parlava: mostrami te stesso (Es. 33, 18). Quasi disperando Mosè per la grande distanza da quella preminenza dell'Essere, Dio lo risollevo mentre stava per disperare, perché lo vide timoroso, come dicendoli: poiché ho detto: Ego sum qui sum, e: Qui est misit me ad vos, ha intuito che cosa sia l'Essere e hai disperato di capire. Risolleva la speranza: Ego sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Jacob. Sono ciò che sono, sono l'Essere, ma non voglio sottrarmi agli uomini. Se pertanto in qualche modo possiamo cercare Dio e trovare colui che è, e per giunta posto non lontano da ciascuno di noi: in Lui infatti viviamo ci muoviamo e siamo (At. 17, 27-28) lodiamo la sua ineffabile essenza e amiamo la Sua misericordia.” Il primo nome nomen aeternitatis, che Dio si è attribuito, riguarda la Sua essenza; il secondo nomen misericordiae riguarda la rivelazione che Dio manifesta attraverso le Sue opere, la Sua presenza dentro la vicenda umana. Il primo nome è di difficile comprensione, il secondo invece ha un significato accessibile a tutti. In fatti meditare su Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe è un modo agevole è facile per avvicinarsi a Colui che è (Cfr. E. Gilson, Filosofia e incarnazione in Sant'Agostino, Roma 1999, p. 31). Nel commento al salmo 104 (Enarr. in Ps. 104, 104) Agostino fa un osservazione che vale per tutti i credenti: “Se per voi è troppo difficile cercare chi Egli è, ricordate le meraviglie da Lui create”. Facendo memoria degli avvenimenti di grazia che Dio ha operato a nostro favore, noi 7 possiamo riconoscere il vero volto di Dio. Meditando la S. Scrittura Agostino scopre che Dio non è solo il Principio degli esseri, il Sommo Bene, che l'uomo può intuire con l'intelletto osservando gli esseri creati, ma è anche l'Essere personale, che attraverso il suo potere creatore, ha chiamato all'esistenza tutte le realtà mutevoli; mosso da un amore incondizionato e gratuito, dalla sua misericordia infinita ha voluto intervenire dentro la storia personale e sociale degli esseri umani per offrire a tutti la possibilità della salvezza. Riconoscendo gli interventi operati da Dio nella storia umana, l'uomo può unirsi a Lui senza ricorrere ai procedimenti dialettici della filosofia e pervenire ad una conoscenza di Dio e di sé più profonda. Nel commento al salmo 134 (Enarr. in Ps. 134, 6), nel quale è detto che è giusto e utile a noi lodare il nome del Signore, Agostino chiedendosi come è possibile a tutti, “ai forti e ai deboli” dare lode a Dio conclude così la sua riflessione sul salmo con una osservazione di natura esistenziale che può essere di grande conforto a ogni cadente: “Ringraziamo comunque il Signore perché nel presente salmo ha attenuato le esigenze della sua lode rendendola possibile ai forti e ai deboli. Capitò una cosa simile quando si trattò di inviare (agli israeliti) il suo servo Mosè. Dio gli disse: Io sono Colui che sono; e: Così dirai ai figli di Israele: Colui che mi ha mandato a voi; ma siccome alla mente umana era difficile capire nella realtà (cosa fosse) lo stesso essere e d'altra parte Mosè era un uomo mandato ad altri uomini, sia pure da chi non era uomo, Dio diluì la lode che gli sarebbe spettata. Disse di sé quel che agevolmente e con gusto poteva essere compreso, né pretese che la sua lode restasse a quel livello che quanti l'avrebbero pronunciata mai sarebbero stati capaci di raggiungere. Disse pertanto: và e dì ai figli di Israele: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi: questo è il mio nome per sempre. Ma, Signore, tu certamente hai quell'altro nome e fosti tu stesso a dire: Io sono, e: Colui che mi ha mandato a voi. Come mai ora cambi nomi e dici: (Io sono) il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe? Non ti sembra che la sua condiscendenza venga a risponderti dicendo: Quanto avevo prima affermato, e cioè Io sono Colui che sono, è vero ma tu non lo comprendi, mentre invece l'altra frase: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe è insieme vera e adeguata alla tua comprensione? È alla mia portata (ad me pertinet) definirmi: Io sono Colui che sono, mentre è alla tua portata (ad te pertinet) la definizione: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio Giacobbe. Se manchi di forze per capire ciò che io sono per me stesso, comprendi almeno ciò che io sono per te (et si deficis in eo quod mihi sum, cape quod tibi sum). Studiando il capitolo terzo dell'Esodo, Agostino è pervenuto ad una forma di conoscenza nuova di Dio e a una forma di conoscenza nuova di sé. Dio è riconosciuto non solo come principio della propria esistenza, ma anche come sorgente di una conoscenza nuova di sé, come una Presenza, con la quale è possibile comunicare con un rapporto di amicizia. La nuova forma di conoscenza scoperta a partire dal libro dell'Esodo fa capire perché Agostino all'inizio delle Confessiones cambia la domanda rivolta a Dio che troviamo nei Soliloquia: “Che io conosca me e che io conosca te”. Nelle Confessiones infatti viene ripresa la prospettiva nata dal commento a Esodo 3, 13-15 e la richiesta dei Soliloquia viene mutata in una domanda decisamente nuova. Scrive: “Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. 8 Cosa sei per me (o Dio) (quid mihi es)? Abbi misericordia affinché io parli. E che cosa sono io stesso per te (quid tibi sum ipse), sì che tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non obbidisco, gravi sventure, quasi fossi una sventura lieve l'assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi per la tua misericordia, Signore mio Dio, cosa sei per me (quid sis mihi). Dì all'anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l'oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e dì all'anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto” (Conf. I, 5, 5). Il testo di Conf. I, 5, 5 contiene l'idea unificante delle Confessiones (Cfr. N. Cipriani …), costituisce il fondamento delle Confessiones (R. Guardini, L'inizio. Un commento ai primi cinque capitoli delle Confessioni di Agostino, Milano 1973, p. 71; Ibid. La conversione di Sant'Agostino, Brescia 1957). Agostino riprende l'indagine su Dio e su di sé nata dopo l'incontro con il cattolicesimo, non più soffermandosi a studiare la natura dell'anima e di Dio come aveva fatto nei Dialoghi prima del presbiterato; ora il suo intento non è teoretico ma esistenziale. Egli ora desidera conoscere chi è Dio per lui, per la sua vita e chi è lui per Dio, nella convinzione che l'uomo, nella parte più profonda e viva del suo essere, cioè nel suo cuore, dove nascono i pensieri e i desideri, è orientato a Dio (Cfr. N. Cipriani, La vocazione religiosa dell'uomo. La riscoperta di H. Delubac dell'antropologia di S. Agostino,“Sapienza”, LIX, 206, p. 15). L'ultima parte del primo capitolo riprende la domanda e il tono con i quali iniziano le Confessiones: “ … ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te”, così all'inizio; ora riprende: “Chi mi concede di ritrovare riposo in Te?”. Il riposo è una vita pura e perfetta attività, una forma d'azione la cui immagine non è il correre o il lavorare, ma l'essere sorpresi e lieti. Agostino domanda che gli possa venire concesso il riposo. Prega il Signore perché venga nel suo cuore e lo renda ebbro, perché egli dimentichi i suoi mali e possa abbracciare l'unico e vero Bene. Ed ora la domanda che, come scrive R. Guardini (R. Guardini, L'inizio cit. pp. 70-72), sta all'origine delle Confessiones: “Che cosa sei Tu per me?”. La domanda si fa pressante: “Abbi pietà perché io possa parlare!”. È un richiesta con la quale Agostino vuole comprendere il significato dell'incontro di Dio con il suo essere e del rapporto della sua persona con Dio. Dopo un breve istante, la richiesta trova la sua eco nella controdomanda: “Che cosa sono io per Te?”. Dio che si rivela manifesta la sua intenzione di prendere seriamente l'uomo, di attirarlo a sé perché lo ama, non nella forma di una benevolenza impersonale, bensì nella partecipazione di un amore reale, che va così lontano da divenire il suo destino. Quest'amore esige che l'uomo lo ricambi. Agostino “(…) guarda in se stesso alla luce di Dio e scopre se stesso” (eoque sibi lucente attendit in se invenitque se) (Trin. IV, 1), arrivando a una prospettiva epistemologicamente nuova e molto diversa da quella, ad esempio prefigurata da Porfirio nel suo “Sul conosci te stesso”, che Agostino probabilmente conosceva (Cfr. A. Sodano, Introduzione a Porfirio. Vangelo di un pagano, Milano 1993, pp. 181-185). Così Agostino ripercorre nelle Confessiones la sua vita passata, nella certezza che dalla misericordia di Dio provengono a lui tutti i beni e dall'abbandono di Dio tutti i mali; facendosi testimone della misericordia di Dio affinché il cristiano e il pagano possano imparare ad avere fiducia “nella grazia e nella misericordia” dell'unico e vero Dio. Non sorprende pertanto se il tema della misericordia di Dio ha un ruolo così importante nelle Confessiones e in tutta la predicazione agostiniana. 9 Trascrivo la preghiera con la quale Agostino chiude le Confessiones. “T'invoco, Dio mio, misericordia mia, che mi hai creato e non hai dimenticato chi ti ha dimenticato. Ti invoco nella mia anima, che prepari a riceverti con il desiderio che le ispiri. Non trascurare ora la mia invocazione. Tu mi hai prevenuto (Sal 58, 11) prima che ti invocassi, insistendo con appelli crescenti e multiformi affinché ti ascoltassi da lontano e mi volgessi indietro chiamando te che mi richiamavi. Tu, Signore, cancellasti tutte le mie azioni cattive e colpevoli per non dover punire le mie mani (Sal 17,21), con cuoi ti ho fuggito; prevenisti invece tutte le mie azioni buone e meritevoli, per poter premiare le tue mani, con chi mi hai foggiato (Sal 118, 73). Tu esistevi prima che io esistessi mentre io non esistevo così che potessi offrirmi il dono dell'esistenza. Eccomi invece esistere grazie alla tua bontà, che prevenne tutto ciò che mi hai dato di essere e da cui hai tratto il mio essere. Tu non avevi bisogno di me, né io sono un bene che ti possa giovare, Signore mio e Dio mio (Gv 20, 28). il mio servizio non ti risparmia fatiche nell'azione, la privazione del mio ossequio non menoma la tua potenza, il mio culto per te non equivale alla coltura per la terra, così che saresti incolto senza il mio culto. Io ti devo servizio e culto per avere da te la felicità, poiché da te dipende la mia felicità” (Cfr. 13, 1, 1). Virgilio Pacioni Istituto Patristico Augustinianum 10